STUCCO

Enciclopedia dell' Arte Antica (1997)

Vedi STUCCO dell'anno: 1966 - 1997

STUCCO (v. vol. VII, p. 524)

R. J. Ling
C. Lo Muzio
M. Spagnoli

Grecia e Roma. - Il termine s. è impiegato nella sua accezione più corretta quando viene riferito a un intonaco di calce (idrossido di calce), piuttosto che a un impasto con prevalenza di gesso calcinato (solfato di calcio emiidrato). Lo s. di calce era impiegato in Grecia e in Italia per i rivestimenti parietali, per la realizzazione di dettagli architettonici e per la creazione di caratteristiche forme decorative per pareti e soffitti. Anche il gesso era occasionalmente utilizzato per simili scopi, sia da solo sia misto a calce (Vitr., VIII, 3, 3; Plin., Nat. hist., XXXVI, 183), ma era assai meno idoneo a causa della rapidità con cui tende ad asciugarsi (da cui la difficoltà di eventuali lavorazioni a rilievo o colorazioni ad affresco) e per la sua scarsa resistenza all'umidità. La lenta presa dello s. favoriva l'esecuzione di rilievi, che almeno nell'Italia romana erano solitamente realizzati a mano; inoltre esso costituiva il fondo ideale per la pittura ad affresco.

Grecia. - In Grecia l'impiego dello s. nella realizzazione di motivi figurati o a rilievo, più che come semplice rivestimento di superfici architettoniche, sembra affermarsi in epoca classica. L'uso di sovrapporre acconciature in s. a teste scolpite nel marmo è attestato almeno già nel V sec. a.C. e una rosetta in s. è stata rinvenuta in una tomba del IV sec. a.C. nella necropoli del Ceramico ad Atene. La conquista macedone dell'Egitto, dove il gesso era già da lungo tempo utilizzato in realizzazioni eseguite a mano e a stampo, diede impulso a tale processo; è al- l'incirca in quest'epoca che si ha per la prima volta notizia dell'impiego dello s. per la realizzazione di matrici in officine di scultori greci; i primi rilievi figurati in s. su una superficie architettonica compaiono nel fregio della Grande Tomba di Leukadià in Macedonia (c.a 300 a.C.). In epoca ellenistica, lo s. entrò in uso nel c.d. stile architettonico che caratterizza le decorazioni parietali da interno, riproducendo l'effetto di una muratura in opera isodoma in rilievo policromo. A volte tali decorazioni comprendevano figure o oggetti ispirati a motivi ad altorilievo dell'architettura monumentale, quali p.es. le teste di toro o bucrani su metope e triglifi a Delo e un piccolo fregio ionico con amorini dal palazzo reale di Pergamo.

Roma. - Grazie a studi specifici (Ling, Mielsch) si ha ora un quadro molto più chiaro delle origini, dello sviluppo e della cronologia della decorazione in s. romana. Essa ha le sue origini nello stile architettonico, e in particolare nella sua forma italica, cioè il I stile pompeiano, ma raggiunse una sua identità artistica solo nel I sec. a.C. Quando le decorazioni parietali abbandonarono il rilievo per dar spazio alla pittura illusionistica (II stile pompeiano), lo s. divenne principalmente un tipo di decorazione per i soffitti. Basata inizialmente sullo schema dei soffitti a cassettoni o a pannelli di pietra o legno dell'architettura greca, la decorazione in s. si dissolve gradualmente in varî schemi che includono losanghe, medaglioni, riquadri dai lati concavi, reti di esagoni, ecc., divenendo al contempo più bassa e sempre più arricchita da rilievi ornamentali e figurati.

Il processo di dissoluzione fu probabilmente incoraggiato dal passaggio dallo schema a cassettoni, tipico dei soffitti piani, alle superfici curve delle volte, illustrato da una serie di esempî a Roma e in Campania, a cominciare dalla Casa dei Grifi sul Palatino, per continuare con le volte di una villa a Frascati e con la Casa del Criptoportico a Pompei.

Lo s. era inoltre usato per riprodurre scene figurate all'interno di lunette (Casa dei Grifi, Casa del Criptoportico). E caratteristico dei rilievi l'impiego del bianco naturale della calce, e soltanto lo sfondo era a volte dipinto, come nella lunetta dei grifoni affrontati nella Casa dei Grifi, il cui fondo era colorato di rosso: tale effetto tradisce l'influenza dei cammei in sardonica.

Nella fase finale del II stile (c.a 30-20 a.C.) la decorazione in s. dei soffitti si orienta verso uno stile più libero e più delicato, caratterizzato da pannelli piuttosto ampi, solitamente rettangolari, che a volte includono medaglioni o campi dai lati concavi, eseguiti a bassorilievo e contenenti una vasta gamma di scene figurate e motivi ornamentali. Gli schemi decorativi diventano più complessi; alcuni soffitti (Villa della Farnesina a Roma) mostrano campi a forma di L e lunghi fregi, sebbene conservino una trama di quadrati come schema di base. In alcuni casi (p.es. nel cubicolo del piano superiore della Casa di Augusto al Palatino) la decorazione in s. bianco si combina a ornamenti pittorici. La gamma dei soggetti rappresentati diviene notevolmente variata, includendo arabeschi, busti, scene di soggetto dionisiaco e addirittura paesaggi sacro-idilliaci, tratti dalla pittura coeva.

Nel corso del III stile (c.a 15 a.C.-50 d.C.) le decorazioni in s. seguono gli stessi sviluppi della pittura; quelle delle volte denotano una caratteristica spaziosità e staticità, presentando spesso rilievi miniaturistici e motivi ornamentali (Stanze di Venere a Baia, Villa a Capo di Sorrento, tomba sulla Via Laurentina a Ostia, basilica sotterranea di Porta Maggiore). Allo stesso tempo si fa più frequente l'associazione degli sfondi colorati e di ornamentazioni dipinte ai rilievi in s. (anticamera della basilica sotterranea di Porta Maggiore, colombario di L. Arruntius a Roma, tepidarium nella Casa del Labirinto a Pompei); in alcuni casi lo s. arricchisce o soppianta la pittura sulle pareti (basilica sotterranea di Porta Maggiore).

In epoca neroniana e flavia, con l'inizio del IV stile, composizioni perfettamente integrate, costituite da rilievi in s. e pitture, decorano volte (il grande oecus della c.d. Villa Imperiale a Pompei, la Volta Dorata e le volte degli ambienti 80 e 85 della Domus Aurea di Nerone a Roma) e pareti (varî ambienti della Domus Aurea, la palaestra delle Terme Stabiane a Pompei). Non mancano decorazioni in s. bianco, spesso riservate ad ambienti poco illuminati o a camere da bagno. In questo periodo gli s. parietali sono di frequente ispirati a schemi tipici della pittura: vi ritroviamo sia leggere strutture architettoniche, ornate da ghirlande e comprendenti motivi decorativi e figurati (calidarium delle Terme Suburbane a Ercolano), sia larghi campi in cui erano rappresentate figure isolate simili a statuette (ambiente E delle Terme Suburbane a Ercolano) o pannelli di soggetto mitologico (villa rustica a Petraro, vicino Stabia). Le volte sono ornate con un'ampia varietà di schemi, inclusi moduli curvilinei (apodyterium nelle Terme Stabiane a Pompei) o più semplici schemi a pannelli, evocanti quelli della tarda repubblica, ma ora in una cornice più ricca (criptoportico neroniano sul Palatino, arco tetrapilo a Ercolano, casa sotto la Basilica di San Clemente a Roma). Soffitti più barocchi, come quello del tepidarium delle Terme del Foro a Pompei, abbinano larghi pannelli con singole figure a rilievo a file di piccoli riquadri contenenti motivi ornamentali su fondi azzurro pallido, rosso e violetto.

Nel II sec. d.C. le decorazioni in s. sono documentate soltanto sulle volte. Erano diffusi schemi ritmici e ripetitivi, di frequente basati su medaglioni uniti da fasce di s. bianco (Tomba detta dei Valerli sulla Via Latina alla periferia di Roma, corridoio delle Terme della Sosandra a Baia) e schemi centralizzati, alcuni dei quali, in conseguenza del crescente impiego nell'architettura contemporanea delle volte a crociera con costoloni, ponevano particolare enfasi decorativa sulle diagonali (tombe della necropoli sotto S. Pietro in Vaticano, frammenti di una volta da Ciciliano al Museo Nazionale Romano). Da un punto di vista stilistico, l'epoca adrianea favoriva delicati rilievi con motivi e inquadramenti fini e lineari (volta sotto il Casino Fede nella Villa Adriana a Tivoli, resti di una volta nelle Terme di Mercurio a Baia), mentre l'età antonina prediligeva effetti più audaci, a volte con decorazioni policrome che combinavano cornici in s. bianco con tenui rilievi su fondi gialli, rossi e marrone (tombe F e I del Vaticano).

Dopo l'inizio del III sec. d.C., le decorazioni in s. passarono rapidamente di moda; lo s. veniva ancora impiegato in scultura, come sempre, quale economico sostituto della pietra (teste e tauroctonia ad altorilievo nel mitreo sotto S. Prisca a Roma, figura dipinta di Serapide nella insula di Serapide a Ostia), ma vi sono assai pochi esempî di decorazioni in s. di pareti o soffitti di tipo tradizionale. Costituiscono delle eccezioni i rilievi di una nicchia ad arco a Tor de' Schiavi sulla Via Prenestina, alla periferia di Roma, relativi a una villa del III sec., e le decorazioni della c.d. Platonia sotto S. Sebastiano (sepoltura di un martire del IV sec.).

La scomparsa della decorazione in s. fu determinata da fattori di ordine sociale ed economico. Sebbene relativamente diffusi al culmine dell'epoca imperiale - in particolare nel I e nel II sec. d.C. - gli s. erano un tipo di decorazione di lunga e costosa lavorazione e, comunque, considerata di lusso. A Pompei, a eccezione degli edifici pubblici, essa era riservata principalmente all'ambiente più importante della casa (il grande oecus della Villa Imperiale, il triclinium nella Casa dell'Efebo). Nelle necropoli lo s. era utilizzato solo in alcune tombe, spesso in quelle particolarmente elaborate. La generale inquietudine e le difficoltà economiche del III sec. scoraggiavano i proprietari dall'investire grandi somme di danaro in dimore lussuose; la richiesta calò e quest'arte si estinse.

Fattori simili sono alla base degli stili semplificati e di aspetto economico tipici della pittura coeva. Tuttavia, mentre la pittura e il mosaico conobbero una nuova fioritura con la ripresa economica all'epoca dei Tetrarchi e di Costantino, scarse sono le testimonianze di decorazioni in s. in ambito provinciale. Tra queste una volta stuccata nel praetorium di Aquincum (Ungheria), numerosi esemplari di cornici con moduli ripetitivi realizzati a stampo o a matrice dalla Gallia e da altre regioni (raccolti da M. Frizot) e uno o due frammenti di figure ad altorilievo dalla Britannia (Villa di Gorhambury). Ulteriori rilievi furono rinvenuti nelle terme del periodo antonino di Cartagine e in altri siti dell'Africa settentrionale (Ǧemila, Sousse, Sabratha, ecc.).

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India, Gandhāra, Asia centrale . - È indispensabile premettere che in gran parte del territorio in esame (soprattutto nell'area compresa tra il Nord-Ovest indiano e le frontiere della Cina), la produzione in s. è strettamente imparentata con quella in argilla cruda, della quale, condividendone sostanzialmente i procedimenti tecnici, può considerarsi una variante. La stragrande maggioranza delle immagini che definiamo «stucchi» sono in effetti sculture in argilla rivestite da uno strato di s. o gesso, di spessore variabile, nel quale sono modellate le forme definitive e che funge da supporto al colore. Se si tiene conto del fatto che anche le immagini in argilla sono quasi sempre ricoperte da un sottile strato liquido di s. o gesso, su cui sono applicati i pigmenti, è evidente che il tentativo di demarcare nettamente le due produzioni può essere a volte fonte di imbarazzo, tanto più che di frequente sculture in s. e in argilla si trovano associate in uno stesso sito, essendo il fattore discriminante per la scelta dell'uno o dell'altro materiale rispettivamente l'esposizione delle immagini all'esterno o in ambienti riparati.

Va inoltre sottolineato che sotto la comune denominazione «stucchi» saranno qui incluse sia le sculture in s. propriamente detto (miscela di acqua, calce e sabbia) sia quelle in gesso. A un'analisi empirica, quest'ultimo è distinguibile dallo s. di calce per la sua caratteristica porosità che, rendendolo meno resistente agli agenti atmosferici, ha fatto sì che anch'esso, come l'argilla, fosse prevalentemente impiegato negli interni. Tuttavia l'assenza di dati precisi sulla composizione di gran parte dei materiali noti (solo un'esigua campionatura è stata oggetto di analisi chimiche) non consente di trattare separatamente le due produzioni che, del resto, sono accomunate sia da tecnica di lavorazione che da finalità estetiche. Se l'India gangetica e meridionale utilizzò probabilmente solo lo s. di calce, l'Asia centrale fece invece ampio uso del gesso (ganč). Il gesso ha svolto un ruolo ben più importante di quanto solitamente non si creda anche nell'ambito della produzione gandharica e afghana.

India. - Le prime testimonianze indiane dello s. datano a epoca protostorica. Un composto a base di calce e sabbia è attestato a Kalibangan, Mohenjo-daro e Harap-pā, dunque a partire dal 2500 a.C. circa. Tuttavia nella civiltà dell'Indo, questo materiale, che possiamo già definire s. di calce, era impiegato esclusivamente per i rivestimenti di pozzi, cisterne e canali di drenaggio, o comunque in edifici particolarmente esposti all'umidità. Col tempo l'uso dello s. dovette conoscere una più ampia diffusione nell'edilizia privata, pubblica e religiosa, ma la documentazione in nostro possesso è molto esigua. In epoca maurya a Besnagar (Vidiśā) è attestato l'utilizzo dello s. come legante, mentre nel Vinayapiṭaka (c.a II sec. a.C.) si fa menzione di case dal tetto rivestito di s. (sanscrito saudha, da sudhā, «stucco»), dato che probabilmente si riferisce a una tradizione più antica della redazione del testo in questione.

A partire dal II-I sec. a.C., troviamo lo s. impiegato in monumenti buddhisti, ma ancora con semplice funzione di rivestimento o di legante nelle strutture murarie in mattoni. A Bhārhut, Sāñcī e Pauni lo s. riveste gli stūpa e la pavimentazione del pradakṣiṇāpatha. È verosimile che già in quest'epoca lo s. cominciasse a essere adoperato anche per le decorazioni a rilievo di stūpa (p.es. ghirlande) e altri edifici, ma le prime testimonianze figurate si datano ai primi secoli dell'era cristiana. Nonostante sia stata ampiamente trattata da K. M. Varma, la questione delle origini della scultura indiana in s. - e dei suoi rapporti con la produzione dell'area gandharico-battriana e con l'arte greco-romana - non sembra si possa considerare risolta.

La prima attestazione della plastica in s. nel subcontinente è costituita da alcuni frammenti rinvenuti ad Amāravatī (Andhra Pradesh) agli inizi di questo secolo: quattro teste di figure umane e una testa leonina. A eccezione di quest'ultima, i pezzi sono oggi dispersi; per di più solo due delle teste sono note grazie a illustrazioni dell'epoca del loro rinvenimento. Le testimonianze di Amāravatī sono dunque insufficienti a suffragare le conclusioni del Varma (la plastica in s. sarebbe nata ad Amāravatī intorno al I sec. d.C., indipendentemente da apporti tecnici e iconografici stranieri), soprattutto alla luce dei reperti di epoca greco-battriana da Ai Khānum e di epoca kuṣāṇa da altri siti battriani (v. infra).

Nel II-III sec. d.C. lo s. è diffusamente attestato a Nāgārjunakoṇḍa, sia negli impieghi già documentati precedentemente nell'area settentrionale sia nella decorazione degli stūpa (bande o ghirlande) e degli edifici monastici (tra i reperti, frammenti di figure umane). Nel sito sono state inoltre rinvenute due fosse dalle pareti rivestite in s., la cui probabile connessione con riti sacrificali vedici induce il Varma a riconoscervi una testimonianza dell'uso del materiale in epoca vedica. Nell'Andhra Pradesh altri sporadici esempî di plastica in s. si segnalano ad Alluni (frammento di testa, III-IV sec.), a Sālihuṇḍam (Buddha seduto, V-VI sec.?) e Gollattaguḍi (immagini da complesso jaina, V-VI sec.). Nel Tamil Nadu, oltre a resti di rivestimento in s. ad Arikamedu (I sec. d.C.), sono state rinvenute alcune figure pertinenti alla decorazione di un monastero buddhista di Kaveripattinam (IV-V sec.).

Nella valle del Gange, tra le prime testimonianze della plastica in s. sono da annoverare le decorazioni, sia architettoniche sia figurate, del Maṇiyār Math (v. rajagṛha), datate tra il 350 e il 500 d.C.; tra le sculture, alloggiate in nicchie separate da pilastri, troviamo figure ed emblemi di ambito scivaita e Viṣṇuita intercalati da nāga e nāginī. Alcune teste in s. di epoca tardo-gupta sono venute alla luce a Sārnāth (VI sec.?). A Nālandā la lavorazione dello s. a fini decorativi prende avvio in epoca gupta; tuttavia la sua più cospicua documentazione è fornita dal-

la quinta fase decorativa del Grande Stūpa (fine VI - inizi VII sec.). In uno schema analogo a quello di Maṇiyār Math, troviamo immagini di Buddha e Bodhisattva stanti o seduti entro nicchie e la rappresentazione di due episodî della vita dell'Illuminato. Da menzionare, inoltre, due immagini colossali del Buddha, collocate in santuari isolatî.

Rispetto alle testimonianze di Sārnāth, lo stile di Nālandā esprime maggiore eleganza e grazia, la figura umana è caratterizzata da forme snelle e allungate. Di notevole interesse iconografico sono gli otto pannelli in s. con un sequenza di episodi tratti dal Rāmāyaṇa, rinvenuti fortuitamente, negli anni '60, ad Aphsaḍh (Bihar) su uno dei lati di un monticolo che custodisce i resti di un probabile tempio di Viṣṇu (VII sec.). Stilisticamente analoghi agli s. del santuario principale di Nālandā, anche i pannelli di Aphsadh sono da assegnare alla corrente artistica tardo e post-gupta. Al VI-VII sec. risalgono le prime attestazioni della scultura in s. nel Bengala: da Pāhārpur provengono alcune teste di particolare qualità artistica, mentre tra i numerosi reperti di Rāngāmatī si segnalano una corona di Avalokiteśvara e un certo numero di teste (in alcuni casi del Buddha) caratterizzate da ima varietà espressiva assente negli esemplari di Pāhārpur.

Gandhāra. - Per lungo tempo è prevalsa la convinzione che lo sviluppo della produzione scultorea del Nord- Ovest dell'India si fosse articolato in due fasi nettamente separate e caratterizzate dall'impiego esclusivo rispettivamente della pietra (in massima parte schisto, in misura minore pietra calcarea) e dello s. o dell'argilla. È innegabile che la vera fioritura della plastica in s., cui si accompagna il graduale estinguersi della produzione in pietra, si pone intorno al III sec. d.C., tuttavia negli ultimi anni la suddetta rigida schematizzazione cronologica è stata oggetto di ripensamento. In particolare, si tende ad ammettere che, nei primi secoli dell'era cristiana, la produzione in schisto, che ha reso celebre l'arte gandharica, si sia accompagnata in molte località a una produzione in s. quantitativamente non meno cospicua della prima, cui tuttavia non era stata prestata pari attenzione sia negli scavi scientifici sia in quelli clandestini, poiché lo stato di conservazione dei reperti, generalmente molto frammentario, li rendeva di scarsa leggibilità e difficilmente commerciabili. Inoltre, proprio per la loro fragilità, le sculture in s. erano spesso oggetto di restauri o rifacimenti e, almeno per una parte della produzione nota, questa pratica potrebbe essere all'origine dell'impronta stilistica tarda che noi vi riconosciamo.

Se la plastica in argilla cruda risale probabilmente ad antichissime tradizioni e testimonia un importante legame tra il Nord-Ovest del subcontinente e l'Asia centrale, la questione delle origini della scultura in s. va riconsiderata alla luce delle scoperte effettuate a partire dagli anni '60 in Battriana, che testimoniano l'esistenza di una produzione in s. tra il II sec. a.C. e i primi secoli dell'epoca kuṣāṇa (Ai Khānum, Takht-e Sangin, Dalverzin Tepe; v. infra). Particolarmente significativo è il rinvenimento di sculture in gesso ad Ai Khānum, che sembrerebbe fornire supporto all'ipotesi di una sua introduzione dal mondo ellenistico (con Alessandria quale più probabile centro d'irradiazione); tuttavia, malgrado l'ispirazione stilistica greca che vi è stata notata, la tecnica mista in cui le immagini sono realizzate (nucleo di argilla con armatura lignea, con o senza strato/i di finitura in s.) non trova riscontro in ambito occidentale e, secondo P. Bernard, fu messa a punto da artisti della Battriana greca. Z. Tarzi non esclude l'ipotesi che la tecnica dello s., ibrida e incoerente poiché combina due materiali scarsamente coesivi (s. o gesso e argilla), possa essere risultata dal progressivo ispessimento del sottile strato di s. che normalmente riveste le sculture in argilla cruda (attestate anche ad Ai Khänum e in altri siti kuṣāṇa della Battriana) per fare da supporto ai pigmenti. Non va infine trascurata l'eventualità di un apporto, seppure secondario, dell'Iran sia achemenide sia sasanide, dove lo s. era impiegato rispettivamente come rivestimento architettonico e per la fabbricazione di pannelli decorativi e piccole immagini.

Quanto ai progressi compiuti dall'archeologia negli ultimi decenni nell'Afghanistan orientale e nel Nord-Ovest del subcontinente indiano, un posto di rilievo spetta agli scavi condotti dagli archeologi afghani nel monastero buddhista di Tepe Šotor (v. haḍḍa), sotto la guida di Sh. Mustamandi (1966-1973) e di Z. Tarzi (1974-1979). Oltre a una ricca produzione in argilla cruda, concentrata in collocazioni protette e che conta esempî di notevole interesse iconografico, tra cui una nicchia con scena di ambientazione acquatica, tra il III e il IV sec. d.C. il sito testimonia l'impiego dello s. a base di calce per il rivestimento e la decorazione figurata degli stūpa. Come di consueto predominano immagini di Buddha e Bodhisattva isolati, ma non mancano alcune figure di laici e due scene della vita del Buddha.

Gli scavi compiuti da Tarzi nella non lontana Tapa-e Top-e Kalān (1977-79) hanno gettato luce sull'ultima fase della produzione artistica di Haḍḍa. Sono degne di menzione alcune teste con corone decorate da crescenti lunari di tipo eftalita. Frammenti di s. (sia di calce sia di gesso) sono stati riportati alla luce dagli scavi dell'Università di Kyoto, sotto la guida di S. Mizuno, nel sito buddhistico di Lalma (Haḍḍa). Oltre a immagini del Buddha, differenziate solo dal trattamento della capigliatura (a onde o a puntini), di Bodhisattva, monaci e adoranti, sono numerosi i resti di decorazioni architettoniche (archi, mensole e pilastri); la datazione è compresa tra il IV e la prima metà del V sec. d.C. Alla stessa epoca risalgono gli s. rinvenuti dalla missione giapponese nei due complessi monastici di Durman Tepe (bacino del Qunduz) e Basawal (50 km a SE di Jalalabad). I frammenti scultorei provenienti dagli scavi del monastero di Goldara (V-VI sec. d.C.), scavato dalla Missione Archeologica Francese in Afghanistan e pubblicato da G. Fussman, devono il loro interesse soprattutto al fatto che alcuni campioni sono stati oggetto di analisi chimiche: gli strati di rivestimento delle sculture risultano costituiti da un impasto di gesso con una minima aggiunta di sabbia. Da citare, ancora, una limitata quantità di figure in s. da Tapa Sardār (Ghazni), pertinenti alla decorazione di fase gandharica del Grande stūpa.

Per il Pakistan settentrionale si segnalano soprattutto i rinvenimenti effettuati nei due saṅghārāma buddhisti di Haǰī Šāh Morr e Gaṛh Mauriyan. Secondo la pratica usuale, lo s. (di calce) vi è adoperato come rivestimento pavimentale e parietale nelle strutture esterne e per le decorazioni architettoniche e figurate, datate dagli archeologi al IV-V sec. d.C. e riproponenti il repertorio iconografico abituale. In entrambi i siti è stata riscontrata una netta prevalenza degli s. sui rilievi in pietra, che trova forse spiegazione anche nelle attività degli scavatori clandestini. Scultura e decorazione architettonica in s. sono attestate anche nel monastero di Mekhasaṇḍa, presso Šāhbāzgaṛhī.

Asia centrale. - Una rassegna della produzione in s. e in gesso (gane) in Asia centrale prende avvio da Ai Khānum (Afghanistan nord-orientale), dove frammenti di decorazioni parietali ad altorilievo in gesso sono stati rinvenuti in due ambienti - il 6 e il 9 - del quartiere amministrativo. Dal primo provengono i resti di un imponente gruppo scultoreo, comprendente un cavallo e uno o più personaggi; dal secondo, frammenti di figure maschili (c.a 15), rappresentati in scale molto diverse e occupanti probabilmente le nicchie o la parte superiore delle pareti. I reperti sono datati intorno al 150 a.C.

Direttamente riconducibili alla tradizione ellenistica sono inoltre due manufatti rinvenuti nel santuario del tempio «a nicchie scalari», un medaglione con gorgòneion e il busto di una statuetta femminile. A epoca post-kuṣāṇa (I sec. a.C.) si datano i materiali scultorei portati alla luce a Takht-e Sangin (Taǰikistan meridionale), comprendenti immagini in argilla rivestita di gesso alabastrino dalla vivace colorazione, tra le quali spicca quella che è stata definita la figura di un satrapo. Alla tradizione probabilmente inaugurata ad Ai Khānum possono essere ascritti i frammenti di statue e altorilievi in gesso rinvenuti a centinaia nel santuario buddhista extra muros di Dalverzin Tepe (Uzbekistan meridionale), datato alla seconda metà del I sec. d.C.; essi facevano parte di due scene entrambe incentrate sulla figura del Buddha, attorniato in un caso da deva, nell'altro da personaggi laici alcuni dei quali identificati da G. A. Pugačenkova come esponenti della cerchia dinastica kuṣāṇa (da cui il nome di «Sala dei Re» attribuito all'ambiente).

Dal tempio buddhista (DT 25) scavato al centro dalla città provengono s. di datazione più recente (III-V sec. d.C.) e improntati a un maggiore decorativismo. Di ambito buddhista sono anche le decorazioni in gesso riportate alla luce nei due complessi monastici di Fayaz Tepe e Kara Tepe (oasi di Termez, Uzbekistan meridionale; I-II sec. d.C.). Dai frammenti di Fayaz Tepe, che conservano in gran parte lo strato cromatico, è stato possibile ricostruire parti di sculture di notevole qualità artistica; dal secondo sito si segnalano soprattutto tre statue frammentarie del Buddha seduto. Resti di immagini in gesso di epoca kuṣāṇa sono stati rinvenuti anche a Dilberjin (oasi di Balkh, Afghanistan), all'interno sia del c.d. Tempio dei Dioscuri, sia del santuario buddhista fuori le mura. Nel Palazzo di Toprak Kala (Chorasmia, III-IV sec. d.C.) venne ampiamente utilizzato il gesso alabastrino sia nelle decorazioni ad altorilievo sia negli strati di finitura dei rivestimenti parietali.

Nell'Asia centrale post- kuṣāṇa la decorazione a rilievo in gesso lascia una delle sue più singolari manifestazioni nel Palazzo di Varakhša (Sogdiana, VII-VIII sec. d.C.). La parte superiore delle pareti di alcuni ambienti era decorata con pannelli in gesso; in nessun caso i frammenti superstiti consentono di ricostruire una composizione, ma restano numerosi esempì di motivi ornamentali e figure in un'originale fusione di realismo e fantasia, ispirata a tradizioni a noi non note. Va osservato, infine, che i pannelli non sono modellati a mano o a stampo, ma lavorati a incisione, in uno stile marcatamente lineare; questa tecnica evidenzia un probabile legame con l'incisione del legno (scultura e decorazione architettonica) diffusamente praticata nella Sogdiana dell'epoca. Pannelli decorativi in ganč si segnalano anche a Tešik Kala (Chorasmia, c.a VIII sec.); i motivi ornamentali, di gamma più limitata rispetto a Varakhša, sono ottenuti a stampo.

Nell'ambito della copiosa produzione scultorea in crudo riesumata nei siti del Xinjiang vi è una netta prevalenza di immagini interamente lavorate in argilla e dipinte a colori vivaci. Un discreto numero di sculture dalle forme modellate in uno strato di s. di spessore più consistente dell'usuale supporto per i pigmenti si registra tra il V e l'VIII sec. d.C. soprattutto nei siti di Ming-oi (Karašahr), Khādalik e nell'oasi di Khotan (Karasai, Piyalma, Akterek); i soggetti sono riconducibili al repertorio buddhista (Buddha, Bodhisattva, devatā, gandharva) e da un punto di vista iconografico e stilistico le immagini non si discostano dalla coeva scultura in argilla cruda. La plastica in s. ha lasciato testimonianze sporadiche anche in altre oasi - Khotan (Daṇḍan Oiliq), Domoko (Farhad-beg-yailaki e Darabzan-dong), Kašgar (Mori-tim). Tuttavia in tutti i siti indicati, nonché a Duldur Aqur e a Tumšuq, sono uniformemente attestati manufatti di piccole dimensioni interamente in gesso o s. (p.es. piccole figure del Buddha e altri ornamenti applicati all'alone di statue di grandi dimensioni), nonché stampi in s. ampiamente utilizzati sia nella statuaria sia nella decorazione architettonica. Da menzionare, infine, l'impiego del gesso come rivestimento di pavimenti destinati a essere dipinti all'interno di santuari (p.es. Qïzïl).

Tecnica. - Non si dispone di una soddisfacente quantità di dati sulla tecnica delle sculture in s. indiane, soprattutto per la fase più antica. Caratteristica dell'India meridionale era la preparazione di un nucleo in mattoni cotti legati con s. o argilla, sul quale erano applicati gli strati di s. (prime attestazioni a Sâlihundam e a Gol- lattagudi, in Andhra Pradesh). Nel Nord del paese, dove fu più sensibile l'influsso gandharico, sono attestati nuclei di sola argilla o di argilla mista a mattoni frammentati (Sārnāth) o a pietrisco (Nālandā).

Più ampie sono le nostre conoscenze sulla tecnica delle immagini in s. gandhariche e afghane. A essa è dedicato un recente, dettagliato studio di K. M. Varma, la cui validità è tuttavia messa in discussione da una documentazione incompleta (assenti riferimenti alla plastica in argilla e s. dell'Asia centrale ex-sovietica e alle scoperte effettuate in Afghanistan negli anni '60 e '70, fatta eccezione per Ai Khānum) e da ipotesi indimostrabili o addirittura inaccettabili (p.es., datazione degli s. di Ai Khanum al VII-VIII sec. d.C.).

Integrando l'opera del Varma con i risultati delle analisi compiute di recente dal Tarzi su alcuni campioni dall'area di Haḍḍa, le fasi della lavorazione delle immagini in s. o gesso possono essere riassunte nel modo seguente. Una massa di argilla, di frequente mista a paglia triturata, veniva compattata in strati di impasto via via più fine e depurato intorno a un bastone di legno, cui potevano essere precedentemente ravvolte delle corde (l'impiego dell'armatura lignea è documentato ad Ai Khanum, Dalverzin Tepe, Kara Tepe, Haḍḍa, ecc.; non vi è dunque bisogno di ipotizzare, con il Varma, che esso sia stato introdotto nel VÌI sec. c.a da artisti kuceani migrati nel Gandhāra). Formato così un abbozzo della figura, questo era ricoperto da un tessuto a trama larga (in alcuni casi tale pratica non è attestata); seguiva l'applicazione dello s. in uno o più strati di spessore variabile, nel quale veniva gradualmente modellata la forma definitiva della figura. La presenza del tessuto serviva sia a favorire la difficile coesione tra i due materiali, sia a evitare che l'argilla già secca assorbisse troppo rapidamente l'umidità dello s., causando lesioni in quest'ultimo. Mani e piedi erano talvolta interamente in s. e le dita erano fissate al palmo mediante bastoncini di legno o fili metallici. L'uso degli stampi sembra fosse limitato alla capigliatura (riccioli), a dettagli dell'acconciatura e a gioielli. In massima parte destinate a decorazioni murali, le sculture erano solitamente fissate nella propria collocazione mediante perni di legno infissi nella parete.

Come sottolinea il Tarzi, la resistenza e la durevolezza di queste sculture, caratterizzate da un nucleo molto deperibile, erano costantemente minacciate dall'eventualità di infiltrazioni di acqua; ciò nonostante esse vennero ampiamente usate per decorazioni di esterni. Teste, mani, piedi e ornamenti, in cui lo strato di s. era solitamente di maggiore consistenza, si sono conservati in più alta percentuale rispetto ad altre parti delle figure. In tutta l'area in esame sono attestate anche immagini, per lo più di ridotte dimensioni, interamente lavorate in s., con o senza aggiunta di pietrisco. La maggior parte delle immagini era completata da una coloratura parziale e di gamma abbastanza limitata (nero, rosso, blu; più rari il giallo e il verde).

Il colore, circoscritto a certe parti della figura, era perlopiù applicato in linee (panneggio, palpebre, contorni delle orecchie, pieghe del collo, ecc.) e campito solo su superfici ridotte (capigliatura, labbra). Molto diffusa la doratura, ottenuta mediante l'applicazione di foglie d'oro; attestato per la prima volta ad Ai Khānum, questo tipo di finitura divenne prerogativa delle immagini di culto buddhiste dal Gandhāra al Xinjiang.

Fatta eccezione per i pannelli incisi di Varakhša (v. supra), i procedimenti tecnici indicati per l'area gandharica e battriana, da cui essi verosimilmente si diffusero al seguito della religione buddhista, si ritrovano con poche varianti nella produzione scultorea centroasiatica.

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(C. Lo Muzio)

Asia sud-orientale. - Sebbene l'uso dello s. sia molto diffuso nell'Asia sud-orientale, mancano studi d'insieme o settoriali dedicati alle produzioni artistiche realizzate attraverso tale mezzo. Lo s. è quasi universalmente adoperato in quest'area sia come elemento complementare nell'esecuzione di opere architettoniche sia come materia della plastica. Entrambi i modi di utilizzazione sovente coesistono nei monumenti che hanno conservato tale tipo di finitura e di decorazione. La forte deteriorabilità dello s. ha causato tuttavia la perdita o la cattiva conservazione di gran parte delle produzioni in questo materiale, destinato in genere a decorare gli esterni degli edifici, e quindi soggetto al danno degli agenti atmosferici.

L'uso dello s. nonché gli stili decorativi relativi derivano dall'India e si rivelano in particolare connessi con l'architettura pāla (India nord-orientale, c.a VIII-XII sec.), con quella dell'India meridionale e dello Śrī Laṅka, che esercitarono una vastissima influenza sui paesi dell'Asia sud-orientale.

Lo s. è usato soprattutto per rivestire e decorare gli edifici in muratura di mattoni o laterite. Si rendeva infatti necessario livellare le asperità delle superfici, fornendo anche protezione alla muratura che talvolta, come all'epoca di Dvāravatī (VII-XI sec.) in Thailandia, era cementata solo con argilla. Tra i migliori esempî di architettura in mattoni e s. si pongono i monumenti cham di Μĩ-so'n dello stile detto di Μĩ-so'n A I, risalenti al X secolo. Ancora oggi il candore abbagliante degli stūpa birmani e thailandesi, come anche dei monumenti dello Śrī Laṅka, deriva dal restauro continuo del rivestimento che protegge le strutture.

Lo s. usato nell'architettura dell'Asia sud-orientale era in genere costituito da carbonato di calcio e silicati, dunque essenzialmente da un impasto di calce e sabbia. La sua composizione è analoga a quella dello s. indiano. A esso si aggiungeva talvolta del paddy («riso greggio») e, con ogni probabilità, anche qualche legante di origine vegetale o animale, per renderne più solida la consistenza. Lo spessore dello s. nei rivestimenti murarî è assai vario e spesso difficilmente valutabile a causa dell'erosione che ha subito. Certamente più ridotto là dove serviva da mero rivestimento, esso si accresceva allorché era prevista una decorazione delle pareti.

I motivi e le figure, da realizzarsi in rilievo basso, venivano eseguiti direttamente sulla superficie stuccata. Quando si trattava di fregi risultanti dalla ripetizione di motivi ornamentali, in particolare di elementi vegetali, la lavorazione veniva effettuata a stampo.

Se il rilievo doveva essere particolarmente alto, le figure venivano sbozzate in mattoni o in laterite e quindi rivestite di s.; su tale rivestimento venivano poi eseguiti i particolari delle immagini. Questa tecnica decorativa, che veniva applicata solo quando la costruzione del monumento era terminata, secondo J. Dumarçay indurrebbe a collegare l'origine dell'architettura dell'India - e quindi anche quella degli stati indianizzati dell'Asia sud- orientale - ai monumenti rupestri.

Talvolta, quando il rilievo era alto e le immagini troppo aggettanti, queste venivano rinforzate con un'armatura di fili di stagno, come testimoniano alcuni rilievi thailandesi di Û-th'òng, risalenti all'VIII secolo. La scuola di Sukhotai (XIII-XV sec.) mostra una tecnica originale nella lavorazione dello s., applicata particolarmente alle grandi immagini del Buddha: la figura è formata mediante l'aggiunta di varî strati successivi dello spessore di 1/2 cm, su ciascuno dei quali si effettua una lavorazione parziale finché non si giunge alla forma completa. J. Boisselier ritiene che un simile accrescimento graduale dell'opera avesse motivazioni di carattere religioso piuttosto che tecnico. Qualora tale ipotesi si dimostrasse fondata, bisognerebbe pensare a un'esperienza meditativa, realizzata per tappe successive dall'esecutore dell'immagine sacra, culminante nella rivoluzione completa della forma ricercata. Si tratta tuttavia di un procedimento tecnico già attestato nel Gandhāra.

In genere le decorazioni in s. erano dipinte, ma, sia che venissero lasciate bianche, sia che fossero policrome, esse dovevano conferire agli edifici un aspetto notevolmente diverso da quello che oggi essi presentano. Si consideri che anche nello stūpa di Borobudur, a Giava, lo s. doveva avere una parte ben più importante di quel che consentono di vedere le scarse tracce sopravvissute. In altri santuari giavanesi quali, p.es. il caṇḍi Sari, il Sevu e il Kalasan, appare maggiormente evidente che i particolari più raffinati della decorazione venivano riservati al rivestimento in stucco. D'altronde anche in alcuni monumenti khmer la funzione ornamentale dello s. era notevole, come dimostra principalmente il Preaḥ Kô, eretto dal re Indravarman nell'879 a Roluos, in onore degli antenati. Ancora più evidente appare l'importanza di tale decorazione nell'architettura birmana e in particolare in alcuni templi quali quello in Mangalacetiya e lo Htilominle, eretti nel XIII sec., o come il Vat Kukut, costruito dall'ultimo sovrano del regno mon di Haripuñǰaya (Lamphun), Ādityarāja, nel XII secolo. Parimenti esemplari a tal proposito sono, in Thailandia, il Vat Mahathat, il grande tempio di Sukhothai, risalente al XIII e XIV sec., e il Vat Chet Yot, o «Monastero delle Sette Campane», situato all'esterno della città di Chiangmai, fatto costruire verso il 1455 dal re Tiloka per celebrare i duemila anni di vita del buddhismo.

La plastica in s. dell'Asia sud-orientale riflette gli stili proprî delle diverse scuole artistiche e, tuttavia, conserva, rispetto alle formule predominanti, una certa dose di libertà espressiva, che rende gli scarsi resti degni di interesse. Il modesto costo e la duttilità del materiale, con ogni probabilità, facevano dello s. il mezzo di espressione favorito di un'arte popolare scomparsa, della quale, però, talvolta traspaiono i tratti anche in opere di maggiore solennità e di notevole pregio estetico.

Le aree che presentano una documentazione particolarmente abbondante o rimarchevole sono quella cambogiana, quella birmana e, soprattutto, quella thailandese. Fra i più antichi esemplari pervenutici della plastica in s. si annoverano alcune teste rinvenute ad Angkor Borei, nel meridione della penisola indocinese, ove già aveva dominato il potente regno del Funan che in quel centro aveva probabilmente avuto la sua capitale. Tali opere, che risalgono alla fase pre-angkoriana dell'arte khmer (VII- IX sec.), mostrano già un alto grado di perfezione artistica, attraverso la quale si esprime un ideale di serena spiritualità.

A esse corrispondono, nell'area thailandese, le terrecotte e gli s. della scuola di Dvāravatī, trovati a Ku Bua (provincia di Ratchabury), risalenti all'VIII-IX sec., in gran parte resti della decorazione di stūpa buddhisti. Le teste realizzate in s., anche se non raggiungono il livello estetico delle bellissime terrecotte, rivelano una notevole capacità di esprimere l'interiorità dei personaggi rappresentati.

Varî siti môn hanno restituito plastica in s., in particolare Kok Mai Don, nella Thailandia centrale, e Phra Pathom, nella provincia di Nakhon Pathom, ove si rivelano tratti di originalità rispetto alla produzione coeva, forse riconducibili a tradizione artistiche locali.

Lo stūpa di Vat Chula Patón (VIII-IX sec.), a Nakhon Pathom, ci ha conservato una decorazione costituita da pannelli di s. con scene di jātaka di notevole vivacità e naturalezza.

A epoca più tarda appartengono i pochi s. rimastici della scuola di Lopburî, in particolare del periodo che corrisponde all'occupazione khmer (XI-XII sec.). Nonostante il preponderante influsso dell'arte cambogiana sulla produzione dell'epoca, la decorazione in s. rimane pregevole e ha tratti particolarmente vigorosi.

Dalla straordinaria spiritualità che ispira le immagini del Buddha della scuola di Sukhothai sono animate anche le opere in s. coeve. Esempio significativo di questo stile è costituito da un rilievo del Vat Trapang Thong Lang di Sukhothai, raffigurante la Discesa dal Cielo dei Trentatré Dei, in cui il Buddha gradiente mostra l'originalissima cifra stilistica della scuola. Non meno degni di interesse sono altri due rilievi del medesimo monumento, che rappresentano il Soggiogamento dell'elefante Nalagiri e il Miracolo di Śrāvastī.

All'arte môn di Haripuñǰaya (Lamphun) appartiene il celebre Vat Kukut, stūpa piramidale a cinque piani, risalente al XII sec., ciascun livello del quale è decorato da nicchie ospitanti immagini del Buddha stante, di proporzioni decrescenti via via che si procede verso l'alto. In esse la tradizione di Dvāravatī si associa a reminiscenze dello stile pāla.

Il Vat Chet Yot, o «Monastero delle Sette Campane», di Chiangmai è ornato da immagini di divinità assise, realizzate in s. sopra un'armatura di mattoni. Tali figure, avvolte in preziose vesti i cui lembi fluttuanti contrastano la staticità della posa, attestano il livello raggiunto nella plastica dalla scuola del Lan Na (a partire dal XIII sec.) e sono considerate tra i capolavori dell'arte thailandese.

La produzione birmana, meno nota di quella thailandese, può essere esemplificata dai quattro giganteschi Buddha corrispondenti ai punti cardinali, ospitati entro nicchie poste sui lati del massiccio centrale, all'interno del tempio di Ānaṇḍa (1291), a Pagan. Le immagini del Nord e del Sud sono realizzate in legno di saṇḍalo ricoperto di s. dorato; le altre due sarebbero state rifatte nel XVII sec. utilizzando legno di tek.

Accanto alla produzione buddhista va ricordata la decorazione del tempio di Nat-hlaung-kyaung, a Pagan, risalente all'XI sec., dedicato a Viṣṇu, che presenta statue di divinità stanti, scolpite in mattoni e ricoperte di stucco.

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(M. Spagnoli)