Strutturalismo

Enciclopedia del Novecento (1984)

Strutturalismo

GGiulio C. Lepschy

di Giulio C. Lepschy

Strutturalismo

SOMMARIO:

1. Introduzione. 2. Saussure: a) sincronia e diacronia; b) lingua e parole; c) sintagmatica e paradigmatica; d) significante e significato. 3. Il Circolo di Praga e la sua influenza. 4. Roman Jakobson; linguisti europei. 5. La glossematica di Hjelmslev. 6. La linguistica americana. 7. La linguistica generativa. 8. Lo strutturalismo non linguistico. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Lo strutturalismo è uno dei movimenti che appaiono centrali nella cultura del Novecento, ma che sfuggono a una definizione precisa. Il termine ‛strutturalismo' è stato usato, spesso in maniera polemica, come una bandiera sotto la quale certi autori si schierano, e che offre la giustificazione di certe idee e impostazioni, oppure come un termine che già da solo basta a condannare le posizioni che caratterizza. Non sempre è chiaro, però, a quali autori e posizioni esso si possa appropriatamente riferire.

La confusione è accresciuta da altre circostanze: da un lato, la disciplina nella quale lo strutturalismo ha raggiunto maggiori e più duraturi risultati è la linguistica, dove peraltro si presenta in maniera relativamente tecnica e poco divulgabile; dall'altro, il suo maggiore successo di pubblico, la sua maggiore notorietà (con discussioni che hanno coinvolto aspetti filosofici e ideologici di portata più generale) li ha conseguiti attraverso altre discipline (dall'antropologia alla critica letteraria), che generalmente si sono richiamate alla linguistica strutturale, ma nelle quali quest'ultima non sempre ha riconosciuto una valida applicazione ed estensione dei propri metodi. In questo articolo cercheremo di esporre le principali caratteristiche dello strutturalismo concentrandoci sulla linguistica, cioè sul campo nel quale, a nostro avviso, esso ha dato risultati più durevoli e interessanti, e limitandoci a semplici cenni ad altre discipline, nelle quali l'uso di metodi strutturalistici è meno preciso e caratterizzante, e comunque più generalmente noto e accessibile in esposizioni non tecniche.

Non solo la caratterizzazione di certe opere e tendenze come ‛strutturalistiche' è controversa, ma anche i rapporti, di affiliazione e di opposizione, dello strutturalismo rispetto ad altre impostazioni è oggetto di discussione; ciò è particolarmente vero per quanto riguarda le origini della tendenza strutturalistica e la collocazione di correnti più recenti, che ad essa si contrappongono ma che di fatto possono essere riportate alla stessa matrice. L'esposizione che segue si fonda, ovviamente, sulla nostra interpretazione delle teorie in questione, ma riferisce anche, dove sia necessano, interpretazioni diverse.

In generale, potremmo caratterizzare lo strutturalismo come un atteggiamento che presta attenzione alla ‛struttura' di un determinato fenomeno. Questo sembra implicare: a) l'identificazione di elementi ‛portanti', o sottostanti, sostanziali e permanenti, in contrapposizione ad altri ‛decorativi', esterni, accidentali e variabili; cosi come si parla - nel corpo - di una struttura ossea rispetto al suo rivestimento di carne; o di edifici la cui struttura può essere la stessa nonostante la diversità dell'aspetto esteriore; b) il collegamento delle varie parti, il loro essere ‛interdipendenti', e il loro funzionare l'una in rapporto all'altra; e, secondo certe impostazioni, l'idea che il tutto è qualcosa di più che semplicemente la somma delle sue parti, ed ha proprietà non ricavabili a partire solo e soltanto dalle proprietà dei singoli elementi; c) la ‛modellizzazione', terzo elemento importante collegato ai due precedenti, il fatto cioè che in un fenomeno, o insieme di fenomeni, sia possibile isolare caratteristiche strutturali, riproducibili in un modello, e questo non tanto nel senso di un ‛modellino' su scala diversa dell'oggetto in questione, quanto come rappresentazione ‛astratta', che coglie gli aspetti ‛pertinenti' del fenomeno e li presenta attraverso un simbolismo di tipo matematico. Da questo punto di vista, si può dire che lo strutturalismo si inserisce nell'ambito delle scienze moderne ‛galileiane', mirando a identificare costanti astratte dietro la variabilità del concreto; e la sua originalità consiste proprio nell'aver esteso l'indagine astratta e generalizzante alle scienze umane, applicandola al linguaggio, tradizionalmente studiato in precedenza nella concretezza delle sue singole manifestazioni, in maniera individualizzante e storicizzante. Queste caratteristiche dello strutturalismo sono ancora riconoscibili attraverso le forzature e le deformazioni che, nelle sue estensioni fuori della linguistica, ne hanno fatto un metodo opposto, in particolare, a quelli di ispirazione storicistica e umanistica.

Lo strutturalismo ha trovato spunti ispiratori e un terreno di sviluppo particolarmente adatto in molti aspetti della cultura del Novecento, che sottolinea la necessità di una considerazione sistematica, globalizzante, che spieghi i singoli fenomeni in base all'insieme che essi costituiscono basti pensare, anche senza ricorrere alle scienze fisiche e matematiche, a discipline come l'economia, la sociologia, la psicologia della forma, ecc. Si noti però che ci limiteremo a discutere tendenze che in qualche modo si riconoscano collegabili a un movimento esplicitamente strutturalistico; non esamineremo cioè l'uso della nozione di struttura in altri periodi e ambiti cui non si adatterebbe la qualifica di strutturalistici. Per l'uso della nozione di struttura nella linguistica prestrutturalistica, e in altre discipline, in particolare nell'Ottocento, v. Lepschy, 1962 (a proposito di Bastide, 1962); e sullo strutturalismo in varie discipline v. Ducrot e altri, 1968; v. Piaget, 1968; e per l'Italia v. Avalle, 1970; v. Segre, 1971.

2. Saussure

Quando si parla di linguistica strutturale ci si riferisce principalmente in Europa alla tradizione che possiamo chiamare saussuriana (e in particolare, oltre alle posizioni di Saussure, a quelle del Circolo linguistico di Praga e della glossematica di Hjelmslev), e in America alle elaborazioni bloomfieldiane. Cerchiamo di delineare l'una e l'altra tradizione nei loro aspetti più rilevanti per la caratterizzazione dello strutturalismo.

Ferdinand de Saussure, il grande linguista ginevrino, occupa una posizione chiave nella formazione della linguistica contemporanea. Giovanissimo, pubblicò a ventun anni, nel 1878, un saggio sul sistema primitivo delle vocali nelle lingue indoeuropee (v. Saussure, 1878), che rinnovò l'immagine della fonologia indoeuropea con una serie di ipotesi, che si sarebbero poi rivelate straordinariamente feconde ancora nel nostro secolo, e attraverso un trattamento - che oggi non può non apparirci precocemente strutturalistico - di elementi identificati non tanto nella loro supposta realtà fonetica quanto in base alla loro funzione entro il sistema fonologico (si tratta in particolare di quei coefficienti sonantici che saranno genialmente ripresi, mezzo secolo dopo, nella teoria della radice di Benveniste, v., 1935). L'elaborazione esplicita delle riflessioni destinate a gettare le fondamenta della linguistica strutturale ebbe una storia difficile e travagliata e sfociò nelle tormentate formulazioni orali dei corsi di linguistica generale, che, non pubblicati da Saussure, furono alla base, attraverso appunti degli uditori, e in parte del maestro, di quello straordinario testo postumo che è il Cours de linguistique générale (1916), la cui formazione possiamo oggi seguire attraverso il commento analitico di Tullio De Mauro (1967) e l'edizione sinottica del materiale manoscritto preparata da R. Engler (1967), che presuppongono entrambi le approfondite indagini di R. Godel (v., 1957). Ma l'efficacia delle idee saussuriane per il costituirsi della linguistica strutturale si è manifestata non tanto attraverso la ricostruzione storico-filologica dello sviluppo dell'autentico pensiero di Saussure, quanto attraverso il potente fascino esercitato da un gruppo di dicotomie, di coppie di nozioni antitetiche - in cui sembra manifestarsi immediatamente il procedere dialettico della riflessione saussuriana -, che offrono chiavi importanti, il cui uso dischiude aspetti centrali del funzionamento del linguaggio.

Le principali di queste dicotomie, che vengono variamente riprese e sviluppate nel pensiero strutturalistico, sono le seguenti.

a) Sincronia e diacronia

Un fenomeno può essere considerato quale si presenta in un singolo momento (non necessariamente nel presente), oppure in quanto si sviluppa nel tempo. Si tratta di una distinzione di punti di vista, di modi di guardare un oggetto, più che di una distinzione inerente all'oggetto stesso, anche se certi fenomeni si prestano meglio a essere studiati secondo l'una o l'altra di queste due dimensioni. La distinzione è riportabile a quella, tradizionale negli studi classici, fra storici e antiquari (v. Momigliano, 1950; v. Timpanaro, 1963, pp. 4-5), ed era frequentemente usata nelle discussioni sul metodo delle scienze umane nella seconda metà dell'Ottocento. Ma la separazione radicale delle due dimensioni, con una implicita subordinazione di quella diacronica a quella sincronica, ebbe per la linguistica un effetto particolarmente traumatico, dato che, nel corso dell'Ottocento, attraverso l'elaborazione della grammatica comparata indoeuropea, si era venuta creando un'identificazione fra linguistica scientifica e linguistica storica lo studio scientifico delle lingue, la comprensione e spiegazione dei fatti linguistici, non erano concepiti che ‛storicamente', mentre alla descrizione sincronica di una lingua veniva attribuito un valore puramente pratico o didattico, quello cioè di una grammatica di riferimento o di studio per l'apprendimento. Naturalmente, le nozioni di storico e diacronico vanno tenute distinte, anche se nell'uso comune esse vengono a volte scambiate. Da un lato, è possibile uno studio diacronico che non è giudicato storico dagli storicisti una grammatica storica che indichi i mutamenti fonetici dall'indoeuropeo al latino, o dal latino all'italiano, non è di solito considerata (e di fatto generalmente non è) una ‛storia', e non offre una comprensione ‛storica' dell'evolversi di quella complessa istituzione, intimamente legata a tanti altri aspetti della compagine sociale, che è una lingua; dall'altro, la storia stessa non si occupa necessariamente del divenire dei suoi oggetti nel tempo, ma può offrire un'analisi (che può essere preziosa per la spiegazione o comprensione ‛storica' del fenomeno in questione) di certi fatti entro un dato periodo, considerato sincronicamente: per esempio, la vita in un villaggio occitanico fra il 1294 e il 1324; e del resto, fra le opere storiche più interessanti che si presentano al ricordo, molte hanno appunto questo carattere ‛sincronico', anche se, 0vviamente, i fatti considerati si svolgono all'interno di un periodo di tempo che ha una sua propria durata, così come un testo, anche lungo, o perfino una frase, hanno una loro durata, il che non impedisce che essi possano anzi, normalmente, debbano essere considerati sincronicamente.

Saussure, che fu uno dei massimi rappresentanti della linguistica storica, non solo separò nettamente sincronia e diacronia, ma invertì il loro rapporto tradizionale attribuì alla considerazione sincronica un carattere prioritario e preliminare; la lingua è comprensibile e analizzabile in quanto essa costituisce un sistema, e il sistema funziona, in quanto tale, solo se lo si considera da un punto di vista sincronico. Allo stesso modo, per capire come funziona un motore, bisogna esaminarlo in base al rapporto fra le vane parti che lo compongono, indipendentemente dal modo in cui queste sono state fatte e messe insieme, e, per capire come funziona il corpo umano, conviene studiare il rapporto fra cervello, cuore, polmoni, fegato, sistema circolatorio, sistema nervoso, ecc.: l'organismo è strutturato in un certo modo, che consente il suo funzionamento, e il modo in cui l'organismo funziona può essere studiato separatamente dal modo in cui l'organismo si è formato (ontogeneticamente, attraverso lo sviluppo dell'individuo, o filogeneticamente, attraverso l'evoluzione della specie). O anche, con un paragone che sarà ripreso da Saussure anche da altri punti di vista (e che pone peraltro problemi ulteriori), l'esame di una data posizione durante una partita a scacchi, per decidere quali mosse siano possibili o opportune, si può compiere ignorando completamente la storia della partita, il modo in cui si è arrivati a quella particolare posizione; anzi, non si tratta semplicemente della ‛possibilità' di ignorare la storia precedente della partita: il fatto è che, per quanto lo studio di tale storia possa essere stimolante o interessante per altri rispetti, esso è non pertinente (a parte singoli particolari tecnici, per cui può essere necessario sapere se e quando certe mosse siano state fatte, per regolarsi per esempio circa l'arrocco, la presa di un pedone al passaggio, ecc.). Analogamente, le considerazioni diacroniche, la storia della lingua, sono irrilevanti se vogliamo capire il modo in cui la lingua funziona. Al contrario, se vogliamo studiare, diacronicamente, i cambiamenti cui la lingua o singoli elementi linguistici sono soggetti nel tempo, dobbiamo partire dal sistema che rende la lingua e i suoi elementi identificabili e analizzabili, o meglio, dai sistemi, in momenti diversi, il cui confronto ci consente di render conto di singoli cambiamenti.

A questa pregiudiziale a favore della sincronia si collegano certi aspetti dello strutturalismo (anche non linguistico), che sono stati criticati come antistoricistici o astorici. Interessante, da questo punto di vista, è il tentativo, portato avanti da Piaget (si vedano indicazioni generali in Piaget, 1968), di elaborare uno strutturalismo genetico o evolutivo che superi la contrapposizione di sincronia e diacronia, e si ponga come alternativa all'innatismo chomskiano (si veda la discussione in Piattelli-Palmarini, 1979).

Un problema distinto è quello dello strutturalismo diacronico. Mentre, in base al Corso di Saussure, pare che il passaggio da un sistema a un altro avvenga attraverso mutamenti singoli, di singoli elementi, di carattere non sistematico, che fanno pensare alle mutazioni genetiche, varie tendenze successive in particolare nel Circolo di Praga, con Jakobson, e nella corrente funzionalista che si richiama a Martinet hanno cercato di identificare i caratteri sistematici dei mutamenti linguistici, e quindi, in un certo senso, un'origine dei fenomeni diacronici in certi squilibri e dissimmetrie riscontrabili nei rapporti sincronici. Del resto, se Martinet mantiene la distinzione saussuriana fra sincronia e diacronia, gli studiosi del Circolo di Praga ne hanno indicato l'insostenibilità: i due poli della dicotomia sono traducibili l'uno nell'altro, come quando la graduale scomparsa o comparsa (diacronica) di certe forme si presenta, nella sincronia, come compresenza di forme, rispettivamente, arcaiche o moderne.

Abbiamo accennato sopra anche al fatto che certi fenomeni si prestano più o meno di altri a essere spiegati in chiave sincronica o diacronica; per esempio, le analisi sincroniche di strutture morfologiche come quelle di faccio - feci - fatto, scrivo - scrissi - scritto, metto - misi - messo, eccetera, finiscono per apparire sempre innaturalmente arzigogolate in confronto alla derivazione diacronica, che sembra offrire una spiegazione, da un punto di vista intuitivo, molto più soddisfacente della struttura di queste forme.

b) Lingua e parole

La dicotomia lingua-parole (langue-parole) è una delle più complesse (e forse confuse) nell'ambito della tradizione saussuriana. Essa sembra riferirsi a vari aspetti: la lingua è sociale, la parole individuale, ma, in maniera che è stata definita paradossale (v. Labov, 1972, p. 186), ciò che riguarda la lingua sembra ricavabile attraverso l'introspezione individuale, mentre per descrivere la parole occorre fare un'indagine di carattere intersoggettivo, e in definitiva più sociale. La lingua è piuttosto un sistema, un inventario; la parole, riferendosi al discorrere, sembra comprendere nel suo ambito la sintassi. Quest'ultimo punto è stato però vigorosamente respinto nelle impostazioni successive: la sintassi occupa oggi un posto centrale nella ‛lingua' in senso saussuriano, in particolare secondo un'altra interpretazione della dicotomia, secondo la quale la lingua è l'elemento astratto e la parole l'elemento concreto. Riprendendo il paragone con gli scacchi, possiamo osservare che ciò che definisce ogni singolo pezzo non è il suo aspetto esteriore, ma il fatto che esso ‛sia' quel dato pezzo, cioè la sua diversità funzionale rispetto agli altri: il gioco resta lo stesso se i pezzi sono fatti di avorio elaboratamente scolpito, o se sono pezzetti di carta con sopra scritto ‛alfiere', ‛cavallo', ecc. Il treno Venezia-Milano delle 7.24 è carattenzzato dall'orario, dal percorso, dalla categoria (rapido), non dall'identità materiale dei suoi vagoni, i quali possono cambiare da un giorno all'altro senza che i viaggiatori nemmeno se ne accorgano. Così si può dire che una data unità linguistica, per esempio il lessema cane, resta la stessa quando è pronunciata, in momenti e maniere diversi, da persone diverse, quando è scritta in maniere diverse (cane, cane, cane), o compare in trascrizione fonetica ([′kane]); ciò che la identifica non è il modo in cui si manifesta materialmente, ma il modo in cui viene usata: il fatto di essere un sostantivo maschile singolare, che entra in una determinata rete di rapporti con le altre unità della lingua. In questo senso, la lingua è un sistema di regole, la parole è la messa in atto di tale sistema di regole per dire certe cose; da questo punto di vista, c'è un'analogia fra la dicotomia lingua-parole e quella proposta dalla grammatica generativa fra competenza ed esecuzione. La lingua rappresenta allora, rispetto alla parole, un livello di idealizzazione superiore, e si riferisce a un modello astratto presente dietro la varietà dei singoli fenomeni particolari - che il linguista deve identificare e mettere in luce. Ci si ricollega qui a concezioni diverse, di tipo nominalistico o sostanzialistico: secondo le prime, la struttura viene imposta ai fenomeni dal ricercatore, nel suo tentativo di mettere ordine fra dati di fatto che si presentano in maniera inevitabilmente caotica e non sistematica; per le seconde, la struttura appartiene all'oggetto stesso della descrizione, e il ricercatore deve cercare di scoprirla: non si tratta allora di fare ipotesi più vantaggiose per i nostri scopi, per il controllo della realtà nei singoli aspetti che via via ci interessano, ma di arrivare alla spiegazione vera. Ma questo ci porta a problemi di gnoseologia e di metodologia della scienza che trascendono, ovviamente, le questioni specifiche dello strutturalismo.

c) Sintagmatica e paradigmatica

La dicotomia sintagmatica-paradigmatica si collega alla distinzione, corrente nella psicologia associazionistica dell'Ottocento (e risalente agli empiristi inglesi, e prima ancora ad Aristotele) fra associazioni per contiguità e associazioni per somiglianza. Ma, come accade spesso nel pensiero saussuriano, una distinzione tradizionale viene presentata in maniera nuova e singolarmente efficace per l'analisi linguistica. Un elemento linguistico è legato da rapporti sintagmatici, in praesentia, con altri elementi, precedenti o seguenti o anche simultanei, se si rinuncia al discusso postulato saussuriano della linearità del significante ma comunque compresenti nel messaggio; e da rapporti associativi, in absentia (generalmente oggi chiamati paradigmatici, seguendo una proposta terminologica di Hjelmslev), con altri elementi che non figurano nel messaggio, ma sono in qualche modo collegabili, per la forma o per il senso, all'elemento in questione. In particolare nella glossematica, e nelle tendenze distribuzionalistiche dello strutturalismo americano, questa dicotomia viene irrigidita in una teoria del testo come costituito da una serie di ‛sedi' definite dalla loro posizione reciproca, che possono essere occupate da elementi caratterizzabili appunto in base alla loro possibilità di presentarsi nella stessa sede (di inserirsi in una medesima fessura, o slot), producendo beninteso, attraverso la loro commutazione, testi diversi. Ecco quindi che in una frase come il cane salta abbiamo, al livello lessicale, tre sedi, di cui la prima (quella di il) può essere occupata da un, questo, quel, ecc., cioè dai determinativi; la seconda (quella di cane) può essere occupata da gatto, topo, ragazzo, ecc., cioè dai nomi; e la terza (quella di salta) può essere occupata da corre, mangia, dorme, ecc cioè dai verbi. Analogamente, al livello fonologico, se consideriamo la parola salta, troviamo cinque sedi, di cui la prima potrebbe essere occupata da m (malta), da c (calta, una pianta), o da qualsiasi altra consonante, ottenendo magari parole di forma possibile anche se di fatto non attestate (come dalta, nalta, ecc.), ma non da vocali; così la quinta sede potrebbe essere occupata da altre vocali (salti, salto), ma non da consonanti; la terza sede potrebbe essere occupata da certe consonanti (n: santa; r: sarta; e, producendo parole fonologicamente possibili anche se non attestate, s: sasta), ma non da altre (sabta, samta, ecc., non sarebbero possibili in italiano se non come esotismi). In questo modo è possibile definire qualunque unità fonologica o classe grammaticale in base alla sua combinabilità con le altre, ottenendo una descrizione che si fonda sulla dicotomia sintagmatica-paradigmatica, o, con una distinzione terminologica che è stata proposta in questo ambito, struttura-sistema. Ciò che ci troviamo davanti nel comportamento linguistico i dati da cui partire sono strutture, cioè catene sintagmatiche, messaggi, analizzabili in certi elementi; e la nostra descrizione porta a costruire sistemi, paradigmi, codici entro i quali le singole unità trovano il loro posto in base appunto alle loro caratteristiche distribuzionali. Collegabile a questa impostazione è la tendenza in base alla quale anche la semantica e la lessicologia vanno interpretate secondo questa dicotomia.

Come categorie grammaticali (o, da un altro punto di vista, classi di parole) quali nome, verbo, ecc., sono definibili in base ai loro rapporti reciproci nella frase, così lo sono anche le singole parole il significato di una parola dipende dal suo uso (o addirittura è il suo uso). Il significato di una certa unità linguistica è conoscibile, descrivibile, in base all'insieme dei contesti (linguistici e non linguistici) in cui tale unità si può presentare tale insieme può essere introdotto estensivamente, denotativamente, come una lista, o intensivamente, connotativamente, come una formula riassuntiva. Così, per esempio, potremo avere liste di gruppi consonantici iniziali di parola in italiano, come spr-, str-, sbr-, ecc., o formule che ci indichino che in un gruppo triconsonantico iniziale la prima sede è tipicamente occupata da una sibilante, la seconda da una occlusiva, la terza da una liquida. Per una parola come abbaiare potremo avere liste di contesti come il mastino abbaiava, il bracchetto si mise ad abbaiare, ecc., oppure una definizione di vocabolario, come gridare, del cane"; ma dovremo anche tener conto del fatto che è possibile trovare contesti come il gatto che abbaia (nel titolo del romanzo di G. Jarlot), i quali non implicano che abbaiare possa significare anche miagolare.

d) Significante e significato

Abbiamo citato esempi che riguardano la fonologia, e altri che riguardano la semantica. Questo ci porta a un'altra dicotomia centrale per il pensiero saussuriano e per le teorie strutturalistiche, quella fra significante e significato. Le tre dicotomie precedenti hanno un'applicazione che va al di là della linguistica la prima (sincronia-diacronia) riguarda qualsiasi studio suscettibile di avere una dimensione storica (e dovrebbe perciò essere pertinente, secondo certe tendenze storicistiche, per tutte le discipline senza eccezione, dato che qualsiasi studio, anzi qualsiasi riflessione, è opera dell'uomo, che alla storia non può sottrarsi), e le altre due (lingua-parole e sintagmatica-paradigmatica) sembrano avere un interesse metodologico generale, poiché la prima riguarda il processo di astrazione e la seconda la natura della descrizione e spiegazione scientifica. La dicotomia di significante e significato è invece caratteristica specificamente della lingua, o forse dei sistemi semiotici in generale; ma, con la moderna estensione della semiotica a teoria universale, secondo la quale ogni aspetto della realtà può essere interpretato da un punto di vista segnico, e il mondo stesso può essere interpretato come un linguaggio, anche questa dicotomia acquista una generalità paragonabile a quella delle precedenti.

Ovviamente, la distinzione si richiama a quella tradizionale fra forma e contenuto. Si noti però che nella tradizione strutturalistica, particolarmente per influenza delle teorie di Hjelmslev, viene preferita una suddivisione concettuale e terminologica diversa abbiamo una divisione del segno in espressione e contenuto (che corrispondono a significante e significato), e, nell'ambito sia dell'espressione sia del contenuto, abbiamo una distinzione fra forma e sostanza (che corrisponde a quella fra lingua e parole). Dalle lezioni di Saussure emerge, faticosamente e non sempre coerentemente, una distinzione fra segno e significante. Parallelamente alla distinzione classica di signum, signans e signatum, Saussure propone di chiamare ‟segno" un'entità linguistica bifronte, con due piani, o due facce: quella dell'espressione (significante) e quella del contenuto (significato). Diverso dal rapporto fra significante e significato è il rapporto fra segno (come somma, o come rapporto del significante e del significato) e cosa designata. La presenza, o l'assenza, della cosa designata nell'ambito delle teorie saussuriane, e più generalmente da un punto di vista strutturalistico, è stata oggetto di innumerevoli discussioni. Si tratta di vedere se l'arbitrarietà di cui parla Saussure investa il rapporto fra segno e cosa designata, o quello fra significante e significato, o entrambi. Da un lato, abbiamo il fatto che il segno bue designa l'animale bue per una convenzione arbitraria (o, il che finisce per essere lo stesso, necessaria, nell'italiano, per motivi di casualità storica il bue si chiama bue non perché il nome sia per necessità naturale dipendente dalle caratteristiche dell'animale, ma perché, in italiano, la parola per designarlo è, appunto, bue); e in altre lingue viene indicato da altre parole, come ox, o byk, o niú. Dall'altro lato, abbiamo il fatto che sembra essere arbitrario anche il rapporto fra la serie di fonemi b+u+e, che costituisce il significante della parola bue, e il significato di tale parola, cioè una data entità linguistica, caratterizzata, nel sistema grammaticale italiano, da certi tratti come ‛maschile' e ‛singolare', e semanticamente, dai suoi rapporti con altre entità di contenuto, come i significati delle parole toro, vitello, vacca, ecc.; attraverso questi rapporti, e quelli analoghi che valgono per altri gruppi di parole come castrone, montone, agnello, pecora, ecc., è possibile isolare una serie di tratti semantici più elementari di cui è composto il significato di bue, e che a loro volta possono entrare come componenti nel significato di altre parole. Per bue questi tratti possono essere designati da parole come bovino, maschio, adulto, castrato, ecc. Da ciò emerge un ulteriore livello di arbitrarietà nella costituzione del significato stesso. Esaminando le parole citate sopra, che in lingue diverse sono normalmente usate per designare il bue, troviamo che i loro significati differiscono l'uno dall'altro a differenza dell'italiano bue, l'inglese ox non può indicare la carne macellata e destinata a essere mangiata, per la quale c'è la parola beef; il russo byk può designare anche il toro; e il cinese niú, oltre al bue e al toro, può designare anche la vacca.

In molte correnti della linguistica è stato elaborato il tentativo di applicare un'analisi strutturale al significante e al significato separatamente, ricorrendo eventualmente a prove come la commutazione per vedere se, sostituendo sul piano dell'espressione un elemento fonologico a un altro, si ottiene una parola diversa sul piano del contenuto (come, sostituendo d a b, si passa da bue a due); e se, sostituendo sul piano del contenuto un elemento semantico a un altro, si ottiene una parola diversa sul piano dell'espressione (come, sostituendo ‛non castrato' a ‛castrato', si passa da bue a toro).

Va aggiunto che, se i tentativi di elaborare una semantica strutturale sono stati compiuti principalmente all'intemo delle teorie che accettano o sviluppano la distinzione di significante (piano dell'espressione) e significato (piano del contenuto), troviamo anche, nella linguistica strutturale di ispirazione bloomfieldiana, una semantica che preferisce considerare il segno come un'entità che ha un solo piano. Anziché distinguere significante e significato, si preferisce fondere la nozione di significante con quella di segno, e la nozione di significato con quella di designato, definendo il segno come una cosa che sta per un'altra cosa, o, se si preferisce, definendo, come abbiamo visto sopra, il significato come il modo in cui il segno viene usato, o il rapporto che si viene a istituire fra una parola e le cose che essa denota. Va peraltro aggiunto che questo punto di vista non produce di solito l'elaborazione di una semantica strutturale, ma piuttosto la restrizione o l'esclusione, in quanto scarsamente trattabile, della semantica dal dominio della linguistica strutturale.

3. Il Circolo di Praga e la sua influenza

Una delle correnti che più fecondamente hanno contribuito all'elaborazione e alla diffusione della linguistica strutturale è quella rappresentata dal Circolo di Praga, che pubblicò fra il 1929 e il 1939 una serie di otto volumi di Travaux du Cercle Linguistique de Prague, con lavori di grande originalità, che esercitarono una straordinaria funzione rinnovatrice nella linguistica teorica internazionale. Formatosi su iniziativa di V. Mathesius, e con la partecipazione di letterati come Mukařovský, le cui teorie critiche dovevano poi ottenere notevole risonanza internazionale (si veda anche la traduzione di sue opere in italiano), il Circolo di Praga si giovò in particolare dell'opera mirabilmente creativa di due esuli russi, Nikolaj Trubeckoj e Roman Jakobson. Se non mancarono gli sviluppi di grande interesse anche sul piano delle ricerche grammaticali, della filosofia del linguaggio, e della metodologia critica, il campo nel quale il Circolo di Praga lasciò la sua impronta più notevole è quello della fonologia. Vengono ripresi tentativi precedenti, in cui si era chiarita la distinzione fra due tipi diversi di differenze foniche: da un lato, quelle che sono in grado di differenziare due segmenti dell'espressione in modo che a essi corrispondano elementi del contenuto diversi quelle cioè che provocano un cambiamento di significato, come nel caso di canta e tanta; e, dall'altro, quelle che non provocano mutamenti di significato, come la differenza fra una n dentale, nella pronuncia toscana di canta, e una n velare (come quella che si trova in anca), che si può sentire in pronunce settentrionali di canta. Queste proposte vengono radicalizzate riportandole alla distinzione saussuriana di lingua e parole: mentre la fonetica si occupa dei suoni, al livello della parole, cioè della manifestazione fonica concreta, la fonologia si occupa dei fonemi, al livello della lingua, si occupa cioè di quelle unità che presentano differenze ‛distintive', sufficienti a distinguere due significanti.

La differenza fra n velare e n dentale è paragonabile a quella fra una occlusiva velare (come l'iniziale di canta) e una occlusiva dentale (come l'iniziale di tanta); ma, mentre l'opposizione fra c e t è fonologica, quella fra nasale velare e dentale (in italiano) non lo è. In altre lingue può invece esserlo: in inglese, per esempio, come si ha un'opposizione fra can ‛barattolo' e tan ‛abbronzatura', così si ha un'opposizione fra tan, con -n finale, e tang ‛sapore' con una nasale velare finale (a cui corrispondono, nella scrittura tradizionale, le due lettere -ng). Trascrivendo, secondo una convenzione ormai invalsa, i suoni fra parentesi quadre, e i fonemi fra sbarrette oblique, potremo dire che sia in italiano sia in inglese abbiamo un'opposizione fonetica fra la nasale dentale o alveolare [n] e la nasale velare [Å]. In inglese tale opposizione è fonematica: i due suoni appartengono cioè a due fonemi diversi, /n/ e /Å/, come è illustrato da una quantità di coppie minime, cioè coppie di parole diverse i cui significanti si distinguono solo per questa opposizione fonematica, come tan-tang, sin ‛peccare' - sing ‛cantare', o anche, opponendo i due fonemi in posizione interna, sinner [sinÄ] ‛peccatore' - singer [siÅÄ] ‛cantante', ecc. In italiano invece i due suoni [n] e [Å] appartengono a uno stesso fonema /n/: si tratta di due varianti, combinatorie in toscano, la cui scelta dipende dalla consonante seguente (canta con [n] dentale davanti alla dentale [t], e banca con [Å] velare davanti alla velare [k]); la scelta è più libera nelle parlate settentrionali, in cui canta può avere una pronuncia più nazionale, con [n], o una più dialettale, con [Å] (ma in posizione finale di parola e di frase - per esempio in ecco il diapason, o formano un vero clan - la pronuncia abituale settentrionale è con [Å] velare, e solo occasionalmente con [n] dentale). In altri termini, in italiano non solo non si hanno, ma non si possono avere, per la nasale dentale e velare, coppie minime come quelle inglesi.

Un'altra caratteristica dei fonemi rispetto ai suoni è che le differenze che intercorrono fra i primi sono di carattere discreto, quelle che intercorrono fra i secondi sono di carattere continuo o graduale. Nulla impedisce che la parola pastone sia pronunciata con una parziale sonorizzazione della consonante iniziale, in modo che il suono sia a metà strada fra quello di pastone e quello di bastone; ciononostante, tale suono verrà invariabilmente assegnato da chi sa l'italiano o a p o a b, e non a un inesistente fonema intermedio. In particolare, una pronuncia di questa parola con una p iniziale parzialmente sonorizzata non indicherà un pastone arrotolato e indurito in modo che diventi una specie di bastone, oppure un bastone sottoposto a un processo di macerazione che lo riduca a un pastone di cellulosa. La differenza fra un fonema e un altro è dunque (a differenza di quella fra un suono e l'altro) di carattere discreto, ed è collegata a un cambiamento di significante, e perciò anche - normalmente - di significato, sebbene non a specifici cambiamenti di significato che dipendano dalla natura dei fonemi in questione. Anche la differenza fra un'unità di significato e un'altra è di carattere discreto, appunto in quanto sono associate a unità significanti che sono di carattere fonematico e perciò differiscono fra loro in maniera discreta; il che non vuol dire, naturalmente, che non sia possibile parlare di aspetti che, nel mondo, sfumano gradualmente gli uni negli altri.

Oltre al fondamentale concetto di fonema, troviamo anche, nei lavori di Trubeckoj e di Jakobson, tutta una complessa classificazione delle opposizioni fonologiche, dalla quale emergono varie nozioni che si riveleranno importanti nel corso delle elaborazioni teoriche successive. Una è la nozione di neutralizzazione: in certi contesti, opposizioni fonologiche cessano di essere distintive, e compare allora, invece di uno dei fonemi distinti, un arcifonema, caratterizzabile in base a ciò che i fonemi hanno in comune. Per esempio, in italiano, abbiamo un'opposizione fonologica fra la nasale bilabiale di lama e quella dentale di lana: si tratta dei due fonemi /m/ e /n/; ma, di fronte a consonante, tale opposizione viene neutralizzata, e troviamo una nasale che ha lo stesso luogo di articolazione della consonante seguente (a parte la presenza di nasali velari anche di fronte a consonanti non velari nelle pronunce settentrionali a cui abbiamo accennato sopra). Davanti a una bilabiale come la [p] di campo avremo quindi una nasale bilabiale [m), e davanti a una dentale come la [t] di canto avremo una nasale dentale [n]. Ora, mentre nella linguistica strutturale americana non si esita ad attribuire il suono [m] di campo al fonema /m/, e il suono [n] di canto al fonema /n/, nella concezione del Circolo di Praga i fonemi sono definiti in base alla loro possibilità di opporsi l'uno all'altro; così /m/ e /n/ sono fonemi diversi in quanto si oppongono in parole come lama e lana, ma davanti a consonante non possono opporsi: non ci sono possibilità, in italiano, di avere parole come canpo o camto. Trascrivere fonologicamente /kampo/ e /kanto/ non è soddisfacente, poiché si forniscono per la nasale delle informazioni non pertinenti, che sono ricavabili dal contesto (cioè dalla consonante seguente), mentre la rappresentazione fonologica mira a fornire solo quei dati che sono oggetto di una scelta significativa, tralasciando ogni dato non pertinente; si trascriverà allora /kaNpo/ e /kaNto/, con un arcifonema /N/, definito solo come nasale, cioè in base a quel che i due fonemi /m/ e /n/ hanno in comune, e tralasciando i tratti che distinguono /m/ da /n/, cioè la bilabialità del primo e la dentalità del secondo.

Un'altra nozione elaborata nell'ambito del Circolo di Praga, e che è venuta emergendo da quanto abbiamo detto sopra, è quella di tratto o coefficiente distintivo. Il fonema viene definito come un insieme di tratti distintivi, il che consente di stabilire una rete sistematica di rapporti fra i vari fonemi: /p/ si oppone a /b/ allo stesso modo in cui /t/ si oppone a /d/, /k/ a /g/, /f/ a /v/, ecc.; si ha così un tratto di sordità (in /p/, /t/, /k/, /f/, ecc.) o di sonorità (in /b/, /d/, /g/, /v/, ecc.). Analogamente, /p/, /t/ e /č/ (come in parla, tarla, ciarla) si oppongono fra loro allo stesso modo in cui si oppongono /b/, /d/ e /ǧ/ (come in bare, dare, giare), e /m/, /n/ e /ň/ (come in sommo, sonno, sogno): si isolano così tratti di bilabialità (in /p/, /b/, /m/), dentalità (in /t/, /d/, /n/), palatalità (in /č/, /ǧ/, /ň/), e così via.

4. Roman Jakobson; linguisti europei

Roman Jakobson ha elaborato con geniale vigore l'ipotesi che si possa costituire un inventano universale di una dozzina di tratti fonologici binari (come sordo-sonoro, nasale-orale, occlusivo-continuo, ecc.), a partire dai quali sono costruiti variamente i sistemi fonologici delle varie lingue del mondo. Questa ipotesi si è rivelata particolarmente feconda e ha costituito la base di molti sviluppi successivi, in rapporto con la fisica, attraverso la descrizione dei tratti in termini acustici (compatto-diffuso, grave-acuto, ecc.), che consentono una classificazione unitaria di vocali e consonanti, e, in rapporto con la teoria dell'informazione, attraverso la binarietà dei tratti, cioè il loro constare di qualità fonologiche di cui si può specificare la presenza (con un ‛+'), l'assenza (con un ‛−'), o la non pertinenza (con uno ‛0'). È interessante che l'impostazione binaristica di Jakobson sia stata adottata nella concezione fonologica della grammatica generativa. Del resto, l'analisi fonologica, su cui ci siamo soffermati, costituisce forse l'aspetto della linguistica in cui le tendenze strutturalistiche hanno avuto maggior successo, e quello che ha esercitato maggiore influenza su altre discipline; in particolare, la fonologia jakobsoniana ha costituito un suggestivo modello metodologico per Lévi-Strauss e per molti strutturalisti non linguisti.

L'influenza di Jakobson è stata determinante anche in altri campi: per la semiotica, in cui egli ha ripreso e rivitalizzato molte idee di Peirce, e per la filosofia del linguaggio, la poetica, la critica letteraria, che hanno fatto largo uso del suo modello della comunicazione linguistica, modello che distingue sei punti di vista, cui corrispondono sei funzioni linguistiche diverse (le prime tre corrispondono al modello proposto da K. Bühler, di cui aveva già tenuto conto la fonologia trubeckojana): 1) il punto di vista del parlante: funzione emotiva o espressiva, rappresentata tipicamente dalle interiezioni, o dalla prima persona singolare; 2) dell'ascoltatore: funzione conativa, o d'appello, rappresentata tipicamente nell'imperativo e nel vocativo; 3) del contesto a cui ci si riferisce: funzione denotativa, referenziale, o di rappresentazione, che emerge tipicamente nelle dichiarazioni fattuali (in terza persona, nel modo indicativo); 4) del messaggio: illustra la funzione poetica studiata dai formalisti russi, per cui il messaggio richiama l'attenzione sul modo stesso in cui è strutturato; 5) del contatto, cioè del canale fisico e della connessione psicologica grazie ai quali i due interlocutori comunicano: vi corrisponde la funzione fatica di cui aveva parlato Malinowski, rappresentata per esempio dai pronto..., ..., ehm..., ecc. detti al telefono per fare capire che si è in linea, che si sta ascoltando; 6) del codice: vi corrisponde la funzione metalinguistica studiata dai logici, che emerge quando si usa una lingua per parlare della lingua stessa.

Secondo Jakobson, tutti i processi simbolici sono caratterizzati dal fatto di organizzarsi secondo i due assi della combinazione e della selezione (che corrispondono alla dicotomia saussuriana di sintagmatica e paradigmatica): questo principio rivela la sua fecondità nell'applicazione allo studio delle afasie, che sembrano suddividersi in due grandi gruppi, a seconda che i disturbi tocchino lo strutturarsi della frase (combinazione), o la scelta delle parole (selezione); nello studio della retorica e della poetica, in cui i processi sono riferibili a due categorie generali, quella della metafora, fondata sui rapporti per somiglianza (selezione), e quella della metonimia, fondata sui rapporti per contiguità (combinazione); e addirittura nella suddivisione di generi, stili e mezzi espressivi: si potrà infatti contrapporre il polo metonimico della prosa a quello metaforico della poesia, o, entro la poesia, il polo metonimico dell'epica a quello metaforico della lirica; o, infine, il polo metonimico delle opere di tipo realistico a quello metaforico delle opere di tipo romantico. Classificazioni generalissime, certo, ma che proprio per questo hanno colpito l'immaginazione di molti lettori, apparendo come tipicamente strutturalistiche nel loro offrire punti di riferimento semplici e astratti che consentono di classificare e illustrare fenomeni anche estremamente complicati ed eterogenei. Inoltre, hanno colpito per la loro cogente forza di persuasione le analisi, straordinariamente precise e rivelatrici, che Jakobson ha offerto di varie composizioni letterarie, servendosi dei più raffinati strumenti della fonologia, e più generalmente della teoria grammaticale e retorica, e illuminando, dietro la superficie variegata di una poesia, tutto un complesso sistema di corrispondenze e di simmetrie, con risultati che hanno fatto di questi suoi saggi interpretativi dei veri modelli di analisi strutturale.

Un'altra nozione suggestiva, che si è prestata a utilizzazioni in campi diversi, è quella di ‛marcatezza' i due termini di una opposizione non sono paritari, per così dire in equilibrio l'uno rispetto all'altro, ma uno si presenta come la scelta non marcata, cioè naturale, ovvia, scontata in circostanze normali, l'altro come la scelta marcata, deliberata, meno prevedibile, legata a circostanze meno comuni, a una maggiore carica informativa. Questa nozione è importante nella fonologia (ed è stata ampiamente utilizzata dai generativisti), come anche nella teoria grammaticale, nella semantica, nella stilistica. Il termine non marcato si presta a un uso inclusivo, che comprende anche l'area del termine marcato; ecco che in fonologia l'arcifonema, che compare in posizione di neutralizzazione, tenderà a manifestarsi come il termine non marcato (si pensi alla consonante sorda che compare in posizione finale di parola in tedesco o in russo, e che può essere considerata non marcata rispetto alla sonora); in una opposizione come uomo-donna il primo termine è quello non marcato e può essere usato in maniera da comprendere il secondo gli uomini può voler dire ‛gli esseri umani, di ambo i sessi'; partendo da un'opposizione come grande piccolo si potrà chiedere quanto è grande? anche riferendosi a una cosa piccola, e comunque in circostanze normali, mentre quanto è piccolo? si riferisce a situazioni particolari in cui si tratta non delle dimensioni, ma della piccolezza di una cosa (il primo termine è quello non marcato); lo stesso vale per l'opposizione fra la vita e la morte: in espressioni come si tratta della vita, oppure il mistero della vita, o simili, ci si riferisce in realtà alla presenza della morte che interrompe la vita; ma, osserva Jakobson, il rapporto può essere capovolto: in Majakovskij, per esempio, troviamo che la morte è il termine non marcato, ed è la vita che ha bisogno di essere giustificata, di essere voluta, scelta, giorno per giorno, per delle ragioni particolari se queste ragioni mancano, subentra la morte, con il suicidio (v. Jakobson, 1975, p. 163).

Possiamo ricordare altre figure importanti nello strutturalismo linguistico europeo, come A. Martinet, che ha sviluppato a partire dalle posizioni del Circolo di Praga, ma abbandonandone, in nome di un più empirico realismo, le concezioni teleologiche e psicologistiche e a volte anche in polemica con le tendenze distribuzionalistiche dello strutturalismo americano una sua scuola di linguistica funzionale, dapprima soprattutto in campo fonologico, e poi anche in campo sintattico. Particolarmente influente si è rivelata una sua sintetica introduzione alla linguistica generale, dalla quale emerge l'equilibrata esigenza di conciliare l'elaborazione teorica astratta con l'analisi concreta dei dati linguistici nella loro varietà e a volte irriducibile irregolarità. Straordinariamente geniale fu l'opera di E. Benveniste, uno dei maggiori indoeuropeisti del nostro secolo, che rinnovò in maniera originale la riflessione saussuriana ed esercitò notevole influenza sugli strutturalisti anche al di là della linguistica; e ci limiteremo a nominare soltanto altri studiosi, dal francese G. Guillaume, al polacco J. Kuryłowicz, al tedesco H. Weinrich, agli inglesi J. R. Firth e M. Halliday, che hanno elaborato posizioni originali che rientrano nell'ambito della linguistica strutturale.

5. La glossematica di Hjelmslev

Importante, nell'ambito della linguistica strutturale, ma anche per le sue elaborazioni di tipo semiotico e critico, è la teoria di Louis Hjelmslev, chiamata ‛glossematica', che ha esteso la sua influenza molto al di là del Circolo di Copenaghen. Rifacendosi anche alla tradizione danese di grammatica generale e alla riflessione astratta e strutturalistica di V. Brøndal, Hjelmslev cercò di sviluppare in maniera coerente e sistematica una notazione logica, di tipo matematizzante, che consentisse alla linguistica di costituirsi come scienza esatta, rispettando le esigenze di una metodologia della scienza di tipo neopositivistico. Hjelmslev parte dall'ipotesi generale che a ogni ‛processo' deve corrispondere un ‛sistema' in base al quale il processo è analizzabile, cioè a un ‛testo' deve corrispondere una ‛lingua' rispetto alla quale il testo è interpretabile. Si tratta sempre della distinzione saussuriana fra sintagmatica (processo) e paradigmatica (sistema), fondata sulla differenza fra due tipi fondamentali di rapporti o funzioni la funzione et e la funzione aut. I rapporti, tanto quelli paradigmatici quanto quelli sintagmatici, possono essere di interdipendenza, se i due termini si presuppongono reciprocamente; di determinazione, se un termine presuppone l'altro, ma non viceversa; di costellazione, se un termine non presuppone l'altro e viceversa. Attraverso questa rete di rapporti è possibile costruire una descrizione strutturale della lingua. Hjelmslev riprende e sviluppa con particolare vigore molte nozioni saussuriane. In particolare, congiungendo l'opposizione di significante e significato e l'affermazione che la lingua è una forma e non una sostanza, Hjelmslev elabora la distinzione di forma dell'espressione e forma del contenuto, che nel loro rapporto costituiscono il segno linguistico, ma che, ciascuna separatamente, entrano in rapporto con la materia, formandola in sostanza dell'espressione e del contenuto rispettivamente. Particolarmente interessante è il tentativo hjelmsleviano di sviluppare una semantica strutturale, analizzando il piano del contenuto; per esempio, la stessa area di esperienza (materia del contenuto), quella della pelosità, è suddivisa in un numero diverso di zone in italiano (i capelli; i peli; il pelo (collettivo); la pelliccia) e in inglese (hair; fur); non solo, ma la linea di confine fra hair e fur non coincide con nessuna delle linee di confine tra i termini italiani il pelo (collettivo) può corrispondere a hair o a fur; e inoltre non esiste una corrispondenza semplice tra hair e capelli o peli, ma si notano ulteriori differenze nella forma del contenuto, osservando l'uso del singolare e del plurale: un capello: one hair; due capelli: two hairs; i capelli: hair.

Anche fuori della linguistica, nell'estetica e nella critica (v. Della Volpe, 19663; v. Di Girolamo, 1978; v. Johansen, 1949; v. Stender-Petersen, 1949), si è rivelata suggestiva la distinzione fra una semiotica denotativa, come la lingua, nel suo uso normale; la metasemiotica, in cui il piano del contenuto è una semiotica, come quando si usa una lingua per parlare della lingua; e la semiotica connotativa, in cui il piano dell'espressione è una semiotica: la lingua stessa che si usa è espressione di un ulteriore contenuto. Per esempio, osservando la parola destriero, vediamo un segno in cui il rapporto interno fra espressione e contenuto (semiotica denotativa) ci dice che la parola indica un cavallo; ma il segno nel suo complesso è espressione di un altro contenuto, è un ‛connotatore', che ha come suo significato il valore arcaizzante, nobilitante, poetico, ecc. che la parola destriero ha rispetto, per esempio, a cavallo.

6. La linguistica americana

La denominazione ‛linguistica strutturale' si riferisce anche (e secondo certi autori prevalentemente) alle tendenze che prevalsero nella linguistica statunitense soprattutto negli anni quaranta e cinquanta. I due capiscuola della linguistica americana sono E. Sapir e L. Bloomfield. Il primo è generalmente considerato meno legato allo sviluppo della linguistica strutturale, perché sottolineò e approfondì i legami fra linguistica, antropologia, psicologia, letteratura, contro il riduttivismo e l'angustia d'interessi che caratterizzarono gran parte della linguistica strutturale bloomfieldiana. Ma Sapir fu anche uno dei più geniali elaboratori del principio fonologico, che ha un'importanza capitale per lo strutturalismo; ed è interessante che alle sue teorie si richiamino spesso i generativisti, nella loro polemica contro gli strutturalisti. Bloomfield adottò invece un punto di vista comportamentista (richiamandosi a Watson e a Weiss), secondo cui in nome di un malinteso riduttivismo neopositivista, il discorso scientifico dovrebbe limitarsi a ciò che è osservabile perciò non si deve parlare di idee, che sono per definizione inosservabili, ma di movimenti sublaringali, che dovrebbero essere, almeno in linea di principio, osservabili (e postulando, in maniera che non appare a dire il vero troppo convincente, che il pensiero sia caratterizzabile come una specie di parlare sottovoce, una specie di discorso sublaringale). L'attività linguistica va descritta in termini di ‛stimoli' e ‛reazioni' linguistici, il cui significato va interpretato in base a stimoli e reazioni pratici, eventi esterni che appartengono al mondo extralinguistico. Ne consegue che la semantica, e in gran parte la sintassi, restarono non coltivate, e non coltivabili, negli studi strutturalistici. Vennero invece elaborati metodi complicati, precisi e formali, per descrivere in maniera esauriente e compatta i sistemi fonologico e morfologico delle lingue, partendo dall'analisi di frasi effettivamente usate. Si tratta di segmentare le frasi in ‛costituenti immediati', cioè negli elementi massimi da cui sono composte, e poi di analizzare in maniera analoga questi elementi, e così via, fino a raggiungere entità minime non segmentabili, cioè i ‛morfemi', o meglio gli ‛allomorfi'; questi poi, con un ulteriore processo di analisi, vanno analizzati in ‛fonemi', o meglio ‛allofoni'; i vari segmenti così ottenuti vanno poi associati fra loro, come manifestazioni o rappresentanti di una stessa unità ‛emica', cioè funzionale, pertinente (usando il suffisso ‛emico' del termine ‛fonemico', e contrapponendolo a ‛etico' ricavato da ‛fonetico'). Mentre l'analisi fonemica offriva un'illustrazione del sistema fonologico di una lingua non ricavabile dalle descrizioni tradizionali, di tipo fonetico o diacronico, va ricordato che l'analisi morfemica spesso si limitava a fornire, in forma compatta ma faticosamente interpretabile, gli stessi dati che erano ricavabili da una descrizione grammaticale tradizionale, senza approfondirne la comprensione.

Fra i nomi dei linguisti i cui lavori sono caratteristici della linguistica strutturale americana ricorderemo (v. la raccolta antologica di Joos, 19582): B. Bloch, G. L. Trager, A. Hill, R. Hall, autore fra l'altro di una grammatica strutturale dell'italiano, Ch. Hockett, linguista eclettico, autore di stimolanti volumi di sintesi oltre che di contributi originali, che ha adottato in diversi periodi posizioni teoriche anche molto diverse; K. L. Pike, allievo di Sapir, che ha sempre insistito, contro il rigorismo metodologico di certi strutturalisti, sulla necessità di ricorrere, nel descrivere la lingua, alla semantica, anzi alla cultura dei parlanti, e sulla necessaria interpenetrazione dei livelli fonologico, morfologico e sintattico, che gli strutturalisti volevano tenere rigidamente distinti egli ha elaborato un complesso metodo di descrizione grammaticale, ricorrendo alla teoria delle matrici, che ha chiamato ‛tagmemica'. Una delle personalità più interessanti nella linguistica strutturale è Z. S. Harris, che ha formulato nel modo più completo e rigoroso, in un volume originariamente chiamato Methods in structural linguistics (1951), e ristampato col titolo emblematico Structural linguistics (1960), i metodi di descrizione della linguistica strutturale, fondati esclusivamente sulle differenze formali e distribuzionali degli elementi linguistici, e sui procedimenti di segmentazione della catena parlata e di classificazione delle entità risultanti dalla segmentazione. La sintesi di Harris è interessante anche perché egli introdusse, nello sforzo di rendere più rigorosa ed efficace la descrizione strutturale, quelle tecniche di trasformazione che, rinnovate originalmente dal suo allievo Noam Chomsky, hanno cambiato la faccia della linguistica moderna.

7. La linguistica generativa

La linguistica generativa elaborata da Noam Chomsky pone dei problemi centrali dal punto di vista della definizione e della valutazione dello strutturalismo. La questione di fondo riguarda i rapporti fra i due movimenti, quello strutturalista e quello generativista. C'è un punto di vista, che è quello esplicitamente sostenuto dai generativisti, secondo cui la linguistica trasformazionale nasce in contrapposizione allo strutturalismo; la linguistica strutturale viene associata alla grammatica comparata ottocentesca, cui si contrapponeva, e viene rifiutata in blocco nei suoi metodi e nella sua impostazione teorica. La linguistica generativa si richiama invece ai principi razionalistici cartesiani dei portorealisti, e poi alle posizioni idealistiche di Humboldt. La linguistica strutturale, particolarmente nella sua forma bloomfieldiana, viene accusata di limitarsi all'esame dei dati superficiali (invece di interessarsi ai loro più profondi rapporti sottostanti, che, sebbene non siano visibili nella frase, possono essere determinanti per stabilirne la struttura), e di restringere l'analisi a un corpus di frasi effettivamente pronunciate, che sottopone a procedimenti di segmentazione e classificazione; viene cioè accusata di usare un metodo tassonomico inevitabilmente atomistico, anziché cercare di cogliere generalizzazioni sistematiche, sotto forma di regole che offrano un modello della competenza del parlante e abbiano potere esplicativo.

Indubbiamente, la grammatica generativa ha costituito per molti, particolarmente in America, una rottura rispetto al paradigma prima dominante della linguistica strutturale. Ma è anche vero che la corrente bloomfieldiana non esaurisce la linguistica strutturale, e che lo strutturalismo europeo, particolarmente di ispirazione saussuriana e praghese, è molto meno impervio alle posizioni dei generativisti, e meno colpito dalle loro critiche. La dicotomia chomskiana di ‛competenza' ed ‛esecuzione' ha analogie notevoli con quella saussuriana di ‛lingua' e parole; la distanza fra strutture profonde, portatrici di significato, e strutture superficiali, che hanno una realizzazione fonologica, offre un'interessante illustrazione della nozione saussuriana di arbitrarietà del segno; e il dinamismo che il Circolo di Praga introduce nella sua visione della sincronia, come anche il sistema dei rapporti associativi che costituiscono la paradigmatica saussuriana, non sono incompatibili con le trasformazioni dei generativisti. Si sottolineano queste affinità non per sminuire l'originalità e la novità della linguistica generativa, ma per sottolineare che è perfettamente accettabile (a nostro parere, anzi, preferibile) una concezione dello strutturalismo che comprende dentro di sé, e non già esclude, anche quella grammatica trasformazionale che i suoi rappresentanti vogliono contrapporgli. Una conferma indiretta si può trovare nel fatto che le correnti dello strutturalismo non linguistico non hanno avuto nessuna difficoltà ad appropriarsi intuizioni e metodi del generativismo.

8. Lo strutturalismo non linguistico

Al contrario, si può notare che lo strutturalismo non linguistico presenta tratti che la linguistica generativa rivendica alla propria impostazione e la cui assenza rimprovera allo strutturalismo linguistico: sono quei tratti, caratteristici dello strutturalismo in senso lato, che rimandano, al di sotto della varietà e sconnessione dei dati superficiali, a regolarità astratte più profonde, in base alle quali si possa render conto dei dati. È anzi interessante che alcuni strutturalisti (non linguisti) facciano ai generativisti le stesse critiche che questi fanno ai bloomfieldiani, di avere cioè una concezione troppo estrinseca, empiristica e superficiale dei fenomeni linguistici, e di non coglierne gli aspetti più profondamente psicologici e filosofici, che mettono in questione il procedere stesso della linguistica dei linguisti, la quale si limita inevitabilmente ad analizzare la lingua piuttosto che i rapporti (che ad alcuni di questi autori appaiono misteriosi, se non addirittura mistici) fra il linguaggio e la mente, e in ultima analisi lascia fuori la funzione centrale e determinante del linguaggio nel costituirsi stesso della personalità umana e nel suo situarsi nel mondo.

Fuori della linguistica, lo strutturalismo è un movimento culturale di origine in gran parte francese, che si è venuto affermando principalmente in polemica con altre impostazioni dominanti nella cultura francese moderna, come l'esistenzialismo e il marxismo. In genere corrisponde a un atteggiamento di tipo scientistico, che mira a introdurre nelle discipline umane, di solito individualizzanti e storicizzanti, metodi e criteri di tipo generalizzante, sincronico, e a volte un formalismo matematizzante che consenta di identificare, dietro la variegata e mutevole apparenza dei fenomeni, configurazioni astratte costanti, regole di formazione e di trasformazione di pochi elementi semplici di base. Spesso la linguistica strutturale è stata considerata come una disciplina guida, come un modello cui ispirarsi; e gli autori che hanno esercitato maggiore influenza sono Saussure e Jakobson. Bisogna aggiungere che non sempre la loro utilizzazione è stata felice, e che termini e concetti della linguistica strutturale ritornano a volte, nello strutturalismo non linguistico, piuttosto stravolti che adattati. Un'altra caratteristica che colpisce chi consideri lo strutturalismo dal punto di vista della linguistica, è che, mentre generalmente in ambito linguistico gli strutturalisti miravano a usare termini e nozioni in maniera il più possibile precisa ed esplicitamente definita, gli strutturalisti non linguisti finiscono spesso col fare discorsi fumosi e mistificanti, tanto più difficili da discutere seriamente quanto meno si riesce a stabilirne esattamente il significato (v. le critiche, anche di natura ideologica, di Timpanaro, 1970).

Il pensatore che forse più di ogni altro ha contribuito al successo dello strutturalismo in campo non linguistico è Cl. Lévi-Strauss. Particolarmente indicativa, già nel titolo, la sua raccolta di saggi Anthropologie structurale; e, se le opere che gli hanno procurato maggiore fama presso un largo pubblico sono le esposizioni più discorsive di Tristes tropiques e di La pensée sauvage, e poi, sulla scia del loro successo, le ‛sinfonie' delle Mythologiques, il suo lavoro più seriamente strutturalista è probabilmente Les structures élémentaires de la parenté, che ricerca le configurazioni e simmetrie astratte di una grammatica della parentela e le strutture inconsce che stanno dietro la complicazione e varietà dei diversi legami che di fatto associano le persone fra loro. È interessante, per la questione, cui accennavamo sopra, delle radici dello strutturalismo, che Lévi-Strauss si richiami a Marx e a L. H. Morgan, e si rifaccia, oltre che ad A. Raddiffe Brown, a M. Mauss.

In campo storico, possiamo ricordare come F. Braudel abbia elaborato, nella tradizione delle ‟Annales", una nozione di ‛lunga durata' che consente di indagare strutture di tipo fondamentalmente sincronico (è del resto esplicito il ricorso a nozioni linguistiche). Foucault ha popolarizzato una storia di tipo diverso, che egli chiama archeologia del sapere, in cui introduce una consapevolezza di carattere linguistico nell'indagare i sistemi culturali in cui la società si organizza e controlla la riflessione e il comportamento dei suoi membri.

A L. Althusser viene spesso attribuita una fusione di strutturalismo e marxismo, tale da rendere quest'ultimo meno umanistico e più coerente con l'impostazione astratta della metodologia scientifica moderna. Per quanto riguarda il rapporto fra strutturalismo e marxismo, è stato osservato come non sia un caso che nel canone del materialismo storico si parli di ‛struttura economica', e che il metodo del Capitale non è storicistico, ma strutturalistico, in quanto mira a costruire un modello teorico di natura formale-sistematica, secondo il metodo dell'astrazione scientifica (v. Luporini, 1974, pp. 362-372). Uno dei più interessanti linguisti russi moderni ha notato come l'uso di modelli astratti in linguistica sia pienamente compatibile con la posizione materialistica di Lenin, quando sosteneva che la matematizzazione della fisica moderna serve a rispecchiare le proprietà obiettive della materia (Šaumjan). Un discorso a parte meriterebbe la penetrazione, tutt'altro che pacifica e lineare, di concezioni strutturalistiche nella linguistica sovietica (v. Lepschy, 1967).

J. Lacan ha compiuto una rilettura di Freud alla luce di Saussure, scoprendo, o meglio, a suo dire, sottolineando, che per Freud l'inconscio è strutturato come un linguaggio, e insistendo sul carattere fondamentalmente linguistico della psicanalisi. Il fatto che Lacan si serva di Saussure distorcendolo violentemente non diminuisce l'originalità e l'interesse delle sue teorie, che sono stimolanti anche per molti linguisti.

R. Barthes ha anch'egli ‛scoperto' Saussure quando era ormai uno studioso affermato, e questa scoperta lo ha indotto a passare dal sociologismo della sua prima fase a una ricerca che fa della semiologia una parte della linguistica (capovolgendo la concezione saussuriana), e reinterpreta il mondo come linguaggio. Diverse dalle analisi semiologiche che si ispirano a Barthes sono quelle ricerche che mirano a identificare nelle opere letterarie una struttura complessa e articolata, per esempio una contrapposizione fra elementi che siano 1) iniziali e finali, in modo da produrre una struttura bipartita; o 2) esterni, cioè all'inizio e alla fine, e interni, cioè al centro del componimento, in modo da produrre una struttura a cornice intorno a un nucleo centrale; o 3) pari e dispari, in modo che emerga una struttura di incastro a pettine. Questo tipo di analisi può essere applicato alle configurazioni dell'espressione e del contenuto, investendo la struttura fonologica, grammaticale, semantica, metrica, di un componimento, e può essere spinta fino all'esame dell'organizzazione di particolari estremamente minuti. Gli esempi più illustri sono quelli offerti da Jakobson, ma le radici di questo tipo di esame sono nella tradizione retorica. Influenti sono state anche le teorie dei formalisti russi (v. Striedter e Stempel, 1969-1972), recentemente divulgate attraverso una fortunata antologia di Todorov, e poi in molte traduzioni moderne, anche in italiano. Riprendendo le feconde proposte di Propp, e nelaborando le teorie dei formalisti russi, si è sviluppata una critica di tipo semiologico, concentrata sulle strutture narrative (v. Bremond, 1973), che ha avuto in Italia un notevole sviluppo originale (cfr. le opere di Corti, Segre, Avalle), in cui si è tenuto conto, con maggior senso filologico, degli aspetti linguistici, e, con maggior senso storico, della codificazione letteraria, dei generi e delle tradizioni stilistiche nella loro caratterizzazione socioculturale. Particolarmente importanti e influenti sono, da questo punto di vista, i lavori di una nuova scuola semiotica sovietica, rappresentata in particolare da B. Uspenskij e J. Lotman.

All'interno dell'atteggiamento strutturalistico si sono formate le basi per una critica radicale dello strutturalismo, in parte intorno alla rivista ‟Tel Quel", in parte attraverso le meditazioni, penetranti e rapsodiche, di J. Derrida, che con il suo ‛decostruttivismo' sottolinea gli elementi contraddittori, paradossali, destabilizzanti, inerenti al linguaggio, a qualsiasi configurazione e struttura, anche le più sistematiche, alle opere più coerentemente costruite, e alla critica stessa che le decostruisce.

Raggiunta la sua massima voga negli anni sessanta, lo strutturalismo non è più, oggi, al centro della scena culturale, non tanto perché sia stato criticato e refutato, quanto perché è diventato cosi pervasivo che la sua presenza non colpisce più e la sua impostazione è ormai data come scontata. È interessante che sia invalso l'uso di accomunare i critici più acuti dello strutturalismo allo strutturalismo stesso, anziché contrapporli a esso come antistrutturalisti: per indicare gli autori a cui abbiamo accennato in quest'ultimo capitolo si parla infatti di ‛strutturalisti e poststrutturalisti'.

(V. anche lingua, linguistica, semantica, semiologia).

Bibliografia

Althusser, L., Pour Marx, Paris 1965 (tr. it.: Per Marx, Roma 1967).

Althusser, L., Balibar, E., Lire le Capital, Paris 1965 (tr. it.: Leggere il Capitale, Milano 1968).

Avalle, d'A. S., L'analisi letteraria in Italia. Formalismo. Strutturalismo. Semiologia. Con una appendice di documenti, Milano 1970.

Barthes, R., Éléments de sémiologie, Paris 1964 (tr. it.: Elementi di semiologia, Torino 1966).

Bastide, R. (a cura di), Sens et usage du terme structure dans les sciences humaines et sociales, 's-Gravenhage 1962 (tr. it.: Usi e significati del termine struttura, Milano 1965).

Benveniste, É., Origines de la formation des noms en indo-européen, Paris 1935.

Benveniste, É., Problèmes de linguistique générale, Paris 1966 (tr. it.: Problemi di linguistica generale, Milano 1971).

Benveniste, É., Problèmes de linguistique générale II, Paris 1974.

Bloomfield, L., Language, New York 1933 (tr. it.: Il linguaggio, Milano 1974).

Braudel, F., La longue durée, in "Annales", 1958, XIII, pp. 725-753 (tr. it.: Storia e scienze sociali. La ‛lunga durata', in Scritti sulla storia, Milano 1973, pp. 57-92).

Bremond, Cl., Logique du récit, Paris 1973 (tr. it.: Logica del racconto Milano 1977).

Chomsky, N., Saggi linguistici, 3 voll., Torino 1969-1970.

Corti, M., Principi della comunicazione letteraria, Milano 1976.

Della Volpe, G., Critica del gusto, Milano 19663.

Derrida, J., De la grammatologie, Paris 1967 (tr. it.: Della grammatologia, Milano 1969).

Derrida, J., L'écriture et la différence, Paris 1967 (tr. it.: La scrittura e la differenza, Torino 1971).

Di Girolamo, C., Critica della letterarietà, Milano 1978.

Ducrot, O. e altri, Qu'est-ce que le structuralisme?, Paris 1968 (tr. it.: Che cos'è lo strutturalismo?, Milano 1971).

Eco, U., Trattato di semiotica generale, Milano 1975.

Foucault, M., Les mots et les choses, Paris 1966 (tr. it.: Le parole e le cose, Milano 1967).

Godel, R., Les sources manuscrites du Cours de linguistique générale de F. de Saussure, Genève-Paris 1957.

Harris, Z. S., Methods in structural linguistics, Chicago 1951; rist. Structural linguistics, Chicago 1960.

Hjemslev, L., Omkring sprogteoriens grundloeggelse, København 1943 (tr. ingl. riveduta dall'autore: Prolegomena to a theory of language, Madison, Wisconsin, 1961; tr. it.: Fondamenti della teoria del linguaggio, Torino 1968).

Hockett, Ch. F. (a cura di), A Leonard Bloomfield anthology, Bloomington-London 1970.

Jakobson, R., Selected writings, den Haag 1962 ss.

Jakobson, R., Essais de linguistique générale, Paris 1963 (tr. it.: Saggi di linguistica generale, Milano 1966).

Jakobson, R., Essais de linguistique générale II, Paris 1973.

Jakobson, R., Questions de poétique, Paris 1973.

Jakobson, R. (a cura di), N. S. Trubetzkoy's letters and notes, Paris 1975.

Johansen, S., La notion de signe dans la glossématique et dans l'esthétique, in "Travaux du Cercle Linguistique de Copenhague", 1949, V, pp. 288-303.

Joos, M. (a cura di), Readings in linguistics. The development of descriptive linguistics in America since 1925, New York 19582.

Labov, W., Sociolinguistic patterns, Philadelphia 1972.

Lacan, J., Écrits, Paris 1966 (tr. it.: Scritti, Torino 1974).

Lepschy, G. C., Osservazioni sul termine struttura, in ‟Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa", 1962, XXXI, pp. 173-197.

Lepschy, G. C., La linguistica strutturale, Torino 1966, 19792.

Lepschy, G. C., Nota sullo strutturalismo e sulla linguistica sovietica recente, in ‟Studi e saggi linguistici", 1967, VII, pp. 1-22.

Lévi-Strauss, Cl., Les structures élémentaires de la parenté, Paris 1947, 19672 (tr. it.: Le strutture elementari della parentela, Milano 1969).

Lévi-Strauss, Cl., Tristes tropiques, Paris 1955 (tr. it.: Tristi tropici, Milano 1978).

Lévi-Strauss, Cl., Anthropologie structurale, Paris 1958 (tr. it.: Antropologia strutturale, Milano 1978).

Lévi-Strauss, Cl., La pensée sauvage, Paris 1962 (tr. it.: Il pensiero selvaggio, Milano 1964).

Lévi-Strauss, Cl., Mythologiques, 4 voll., Paris 1964-1971 (tr. it.: Mitologica, Milano 1966-1974).

Lévi-Strauss, Cl., Anthropologie structurale deux, Paris 1973 (tr. it.: Antropologia strutturale due, Milano 1978).

Lotman, J. M., Struktura chudožestvennogo teksta, Moskva 1970 (tr. it.: La struttura del testo poetico, Milano 1972).

Lotman, J. M., Uspenskij, B. A. (a cura di), Ricerche semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane nell'URSS, Torino 1973.

Luporini, C., Dialettica e materialismo, Roma 1974.

Martinet, A., Éléments de linguistique générale, Paris 1960 (tr. it.: Elementi di linguistica generale, Bari 1966).

Momigliano, A., Ancient history and the antiquarian, in ‟Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", 1950, XIII, pp. 285-315.

Mukařovský, J., Studie z estetiky, Praha 1966 (tr. it.: Il significato dell'estetica, Torino 1973).

Piaget, J., Le structuralisme, Paris 1968 (tr. it.: Lo strutturalismo, Milano 1968).

Piattelli-Palmarini, M. (a cura di), Théories du langage. Théories de l'apprentissage. Le débat entre Jean Piaget et Noam Chomsky, Paris 1979.

Pike, K. L., Language in relation to a unified theory of the structure of human behavior, den Haag 19672.

Propp, V. J., Morfologija skazki, Leningrad 1928 (tr. it.: Morfologia della fiaba, Torino 1966).

Sapir, E., Language. An introduction to the study of speech, New York 1921 (tr. it.: Il linguaggio. Introduzione alla linguistica, Torino 1969).

Sapir, E., Selected writings in language, culture and personality, Berkeley 1949 (tr. it. dell'ed. ridotta del 1957: Cultura, linguaggio e personalità, Torino 1972).

Šaumjan, S. K., Filosofskie voprosy teoretičeskoj lingvistiki, Moskva 1971.

Saussure, F. de, Mémoire sur le système primitif des voyelles dans les langues indo-européennes, Leipzig 1878 (tr. it.: Saggio sul vocalismo indoeuropeo, Bologna 1978).

Saussure, F. de, Cours de linguistique générale, Lausanne-Paris 1916; ed. critica a cura di R. Engler, Wiesbaden 1967 ss.; ed. it.: Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, Bari 1967.

Segre, C., I segni e la critica, Torino 1969.

Segre, C., Structuralism in Italy, in "Semiotica", 1971, IV, pp. 215-239.

Segre, C., Le strutture e il tempo, Torino 1974.

Segre, C., Semiotica filologica, Torino 1979.

Stender-Petersen, A., Esquisse d'une théorie structurale de la littérature, in "Travaux du Cercle Linguistique de Copenhague", 1949, V, pp. 277-287.

Striedter, J., Stempel, W.-D. (a cura di), Texte der russischen Formalisten, 2 voll., München 1969-1972.

Sturrock, J. (a cura di), Structuralism and since. From Lévi-Strauss to Derrida, Oxford 1979.

Timpanaro, S., A proposito del parallelismo tra lingua e diritto, in "Belfagor", 1963, XVIII, pp. 1-14.

Timpanaro, S., Sul materialismo, Pisa 1970, 19752.

Todorov, T. (a cura di), Théorie de la littérature, Paris 1965 (tr. it.: I formalisti russi, Torino 1968).

Trubeckoj, N. S., Grundzüge der Phonologie, Praha 1939, Göttingen 19582 (tr. it.: Fondamenti di fonologia, Torino 1971).

TAG

Scuola normale superiore di pisa

Filosofia del linguaggio

Linguistica generativa

Ferdinand de saussure

Materialismo storico