Storici e politici fiorentini del Cinquecento

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1994)

Storici e politici fiorentini del Cinquecento

Angelo Baiocchi Testi
Simone Albonico

Premessa

Questo volume si presenta con il duplice intento di costituire uno strumento di lavoro per studiosi e di proporre alcune riflessioni problematiche e alcune interpretazioni, che scaturiscono certo dall'esame dell'oggetto in studio ma anche, come è inevitabile, dal tentativo di dare delle risposte a delle domande soggettive.

Quanto al primo intento non credo ci sia molto da dire: il risultato del nostro lavoro è un'antologia di testi illustrati da note, introduzioni, bibliografie e riferimenti ad autori fiorentini e toscani anche non compresi tra quelli che qui si pubblicano. Spero che chi si accosterà al Cinquecento fiorentino possa trarre giovamento dalla sua consultazione.

Quanto al secondo, mi rendo conto che sottolineare l'ampia soggettività della ricerca storica può sembrare lo sfondamento di porte aperte o il ribadimento dell'ovvio. Ma devo dire che, frequentando le pagine degli storici (e, cosa ancor più difficile da capire, quelle degli storici della cultura) mi accorgo che non è così: esse sono stracolme di invettive contro la non 'scientificità' di certe ricerche, di certe interpretazioni, di certe metodologie, cui contrappongono, ovviamente, la scientificità dei lavori degli autori delle invettive.

Per quanto mi concerne, in tanti anni di ricerca storica non sono ancora riuscito a capire cosa sia una metodologia scientifica e in base a quali criteri gnoseologici si possa affermare che un'opinione, ad esempio su Machiavelli, non sia 'vera'.

L'approccio a quanto è accaduto nel passato è passibile di così diverse angolazioni, scelte, selezioni (meditate o irriflesse), che il nostro modo di interrogare i documenti finisce per essere decisivo nel determinare le risposte e mi è sempre sembrato che le ricerche storiche serie (la serietà è un concetto assolutamente non scientifico) e basate su criteri conoscitivi logici (anch'essi altra cosa rispetto ai criteri scientifici) possano in realtà essere complementari le une alle altre, anche qualora giungano a valutazioni diverse e financo opposte. Costituiscono, infatti, alcuni dei possibili modi di conoscenza di fenomeni (storici) che non possono essere verificati attraverso la ripetizione dell'evento e che sono appresi da noi solo attraverso un numero di elementi in realtà limitatissimo rispetto a quelli che hanno in effetti costituito i fenomeni che stiamo studiando.

Accostandomi ai testi degli autori politici e degli storiografi fiorentini del Cinquecento e risalendo alla loro cultura e alle loro fonti, si è venuta articolando in me una 'tesi', che poi non è altro che una serie di opinioni che chi vorrà andare avanti troverà nelle pagine seguenti. Esse sono discutibilissime, ad esse si possono muovere infinite obbiezioni: l'unica che credo onestamente non si possa muovere loro è di non essere scientifiche, per il semplice motivo che non possono esserlo. Possono essere giudicate parziali, superficiali, si potrà essere totalmente in disaccordo ma non si potrà dimostrare che sono 'false'.

Quello che chiedo ai lettori è di valutare la congruità della mia interpretazione ponendo attenzione all'esame dettagliato dei testi, quindi sì alle introduzioni ma anche alle note; infatti, trattandosi di una pubblicazione di testi con commento e non di un trattato, ho avuto la fortuna di poter articolare il mio discorso in numerosi riferimenti concreti alle fonti. Vorrei che alla fine ne fosse risultato un volume unitario in cui il discorso si articola attraverso l'Introduzione generale (che non è un saggio conchiuso di storia della cultura storico-politica fiorentina, bensì una segnalazione di possibili elementi significativi), le Note introduttive ai singoli autori (che si vorrebbero lette di séguito, come capitoli di un unico studio), le note storiche e di commento.

Qualche parola sui criteri seguiti. Chi scrive queste parole di premessa ha scelto gli autori e i brani da pubblicare; ha scritto l'Introduzione generale e le Note introduttive ai singoli autori con le relative bibliografie; ha redatto le note a piè di pagina. A Simone Al- bonico si devono l'edizione critica dei testi, la Nota ai testi, nonché un preziosissimo lavoro di revisione del tutto, e qualcosa di più, come il rifacimento di numerose note.

Il numero degli autori antologizzati era, nelle mie iniziali intenzioni, inferiore, in modo da pubblicare brani più consistenti e ottenere un volume meno frammentato. Ma a un certo momento mi è sembrato di aver fatto tacere troppe voci indispensabili a formare il quadro delle varie culture repubblicane e post-repubblicane che coesistono nel Cinquecento fiorentino, indispensabili a dare un'idea del passaggio da una cultura a un'altra, da un sistema di valori, di categorie, di oggetti di studio, di strumenti di analisi, di modi di scrittura a un altro.

Le note di commento: forse qualcuna è pleonastica (a fronte di qualche incapacità a sciogliere i nodi presentati dai testi), ma ho tenuto presente il carattere di strumento che un libro come questo deve avere. Le note a molti nomi in chiaro hanno lo scopo di creare un reticolo di rimandi che permetta di delineare la funzione di vari personaggi negli eventi narrati, tenendo presente soprattutto, ma non solo, i patrizi fiorentini: si sa che la storia delle repubbliche è popolata di tanti nomi (e di tante omonimie) che appaiono, scompaiono e ricompaiono senza che il lettore riesca a individuare nomi e carriere che si allungano nel tempo. Lo stesso vale, ad esempio, per i membri delle grandi famiglie (Orsini, Colonna, Baglioni e così via); in questo caso ho per lo più inserito anche un rimando a repertòri alle volte datati e non sempre attendibili, ma utili a individuare immediatamente in un albero genealogico coloro di cui si parla. Ho rinunciato però, per non appesantire eccessivamente l'apparato di commento, a fare nota nel caso di elenchi di nomi (quelli in chiaro): ad esempio una Signoria eletta o un gruppo di arrestati. Così come ho rinunciato in qualche occasione a fare nota su nomi in chiaro di personaggi ininfluenti, per i quali era inutile cercare di delineare una vicenda o un ruolo.

Proprio per delineare delle formazioni culturali ho cercato di dedicare una certa attenzione alle fonti, ai rimandi, ai riferimenti ad altri autori, specie per quanto riguarda i quattro scrittori politici compresi in questo volume. Di norma ho fatto nota solo alla prima citazione di un nome, a meno che non ci si trovi di fronte a una successiva diversa presentazione del personaggio. I titoli di bibliografia sono stati invece ripetuti per esteso a ogni prima citazione in ogni singola sezione dedicata a un autore, in modo da far risparmiare tempo a chi è interessato solo a determinati autori.

Devo ringraziare, in modo sincero e non formale, alcuni maestri e amici che mi hanno spinto, aiutato, consigliato.

Prima di ogni altro Gaetano Cozzi, il quale, al momento del varo - molti anni fa - del progetto ricciardiano relativo ai politici e storici del Cinque e Seicento, decise di affidare a me, allora molto giovane, il volume dedicato a Firenze. A lui devo non solo questo: gli devo, sin dagli inizi, la possibilità stessa di essermi potuto dedicare alla ricerca storica. Vorrei inoltre ringraziare Marino Berengo e Innocenzo Cervelli per la pazienza con cui hanno discusso con me sezioni del libro; Gino Benzoni, curatore, con Tiziano Zanato, del volume 'gemello' dedicato ai Veneziani, per l'amicizia e il sostegno con cui ha seguito il mio lavoro. In ambito fiorentino sono molto grato a Guido Pampaloni, che discusse liberalmente con me vari problemi di lettura del manoscritto del Parenti, da lui già collazionato e trascritto per intero; a Salvo Mastellone, per i fruttuosi colloqui avuti con lui; ad Alphonse Dupront, il cui magistero fu per me di grande stimolo durante gli anni trascorsi all'Istituto Universitario Europeo di Firenze.

E infine Gigliola e Francesco Margiotta Broglio: le parole sono certamente poca cosa rispetto alla loro amicizia e alla loro ospitalità, senza le quali questo libro non avrebbe potuto materialmente essere scritto. Dedicarlo a loro, e insieme a loro a Cecilia e ai miei genitori, è il minimo che io possa fare per ringraziarli.

Angelo Baiocchi

Roma, 21 novembre 1993

Introduzione

I. Una cultura politica comune

La capitolazione della repubblica fiorentina nel 1530 riveste un significato che va al di là dell'evento politico e militare: rappresenta un punto di non ritorno nella storia della cultura politica.

Gli ultimi repubblicani fiorentini che muoiono vecchi e soli in varie città italiane costituiscono forse l'ultimo anello coerente di una secolare tradizione mediterranea di pensiero politico, quella cittadino-repubblicano-aristotelica. Si tratta di una tradizione che ha affrontato i problemi della convivenza umana in strutture socio-istituzionali di limitate dimensioni, le città-stato, nelle quali il potere risiedeva 'naturalmente', senza gli interrogativi sulla sua derivazione e sulla sua legittimità, nei cittadini. Il presupposto delle analisi di tale tradizione era che nelle città-stato i depositari della decisione politica si conoscevano personalmente o che, per lo meno, si incontravano per decidere o per eleggere i decisori di secondo e terzo grado. La sua base ideologica era che svolgere attività politica nella città costituiva un valore etico che realizzava al massimo livello (forse non da un punto di vista rigorosamente filosofico ma certo, per moltissimi, da un punto di vista morale, pratico, emozionale) le virtualità della natura umana.

È stato notato, anche se in termini parzialmente diversi da quelli qui proposti, che questa tradizione continua fino ad arrivare, attraverso Venezia, alla cultura politica atlantico-liberale. Se questo è vero per quanto riguarda i valori e per l'utilizzo di alcune definizioni politologiche sempre più distanti dalla realtà indagata, è opportuno tuttavia notare che le meccaniche dei conflitti sociali e istituzionali che sono all'origine del pensiero repubblicano-cittadino-aristotelico si esauriscono con l'esperienza dell»ultima' repubblica fiorentina, per lo meno al livello della convinzione da parte degli scrittori politici di star affrontando un certo tipo di situazione.

I problemi della conflittualità sociale e politica tra i gruppi che costituivano o che intendevano costituire il corpus degli aventi diritto a partecipare al processo di decisione politica vengono affrontati dai Fiorentini sulla base di alcune convinzioni comuni, che vanno a costituire la struttura portante unitaria del loro pensiero negli anni che precedono e in quelli che immediatamente seguono la crisi finale della repubblica. Questa struttura portante unitaria si coniuga poi, differenziandosi, nel sistema di pensiero repubblicano popolare, nelle sue due varianti moderata e radicale, e in quello repubblicano aristocratico.

In primo luogo si tratta dell'idea della perfetta validità e fungibilità dell'esempio storico classico o contemporaneo, quasi mai medievale con l'eccezione della storia cittadina di Firenze.

In secondo luogo della persuasione che il conflitto sociale nelle antiche città-stato si sia articolato in termini pressoché simili a quelli delle città contemporanee. Da questa persuasione, lo vedremo, non consegue necessariamente una teoria dell'imitazione.

In terzo luogo della pacifica convinzione che le categorie e gli strumenti per poter analizzare, classificare, progettare gli organismi politici siano pressoché solo quelli consegnati al secolo XVI dal pensiero classico.

In quarto luogo dalle loro pagine si può desumere, anche se i Fiorentini non lo affermano mai, che l'unica struttura politica dove è possibile instaurare una repubblica, con tutte le conseguenze in termini di valori che ne derivano, sia la città e non anche lo stato territoriale. Nelle città poi solo una parte degli abitanti, che in genere è la risultante della cristallizzazione giuridica dell'esito di precedenti conflitti (ma a queste restrizioni dei diritti politici si danno sempre motivazioni etico-ideologiche), ha il diritto di entrare a far parte dell'assemblea sovrana.

1.1. L'esempio storico.

L'idea della perenne validità dell'esempio storico si fonda da un lato sulla considerazione che la natura umana rimanga immutata nel tempo; dall'altro sull'accettazione acritica della fonte narrativa da cui si trae l'esempio.

Il primo concetto non è di per sé molto significativo: può essere sottoscritto anche da noi, ma oggi la sua utilità analitica è scarsa e può ispirare tutt'al più riflessioni di tipo etico o sociologico sul comportamento umano. Ciò che però caratterizza il pensiero politico fiorentino della crisi della repubblica, questo pensiero tardo umanistico, è la convinzione che l'immutabile natura umana si trovi ad agire in situazioni complesse (politiche) anch'esse simili e in buona misura ripetitive, proprio in quanto dalla natura umana determinate. L'esempio, il modello, il riferimento, non si muovono quindi solo su piani etici tradizionalmente eterni (il bene, il male, la giustizia, etc.) ma sono invece utilizzabili sul piano tecnicamente politico. Perciò l'esempio antico assume una straordinaria importanza come strumento per capire quello che succede nel mondo.

Nell'ambito di questa cultura comune, intrisa anche di naturalismo, si articolano le differenze, che si modellano, oltre che sulla sensibilità e il livello mentale dei singoli autori, anche sulla loro collocazione sociale e la loro scelta politica. Francesco Guicciardini ad esempio utilizza anch'egli nella maniera canonica sopra delineata riferimenti a Roma, Atene, Licurgo, etc., ma negli anni Venti diventa sempre più dubbioso circa la possibilità, oltre che l'opportunità, di una teoria dell'imitazione, non tanto, forse, perché stesse elaborando un passaggio dalla politica alla storia, quanto piuttosto perché si rendeva conto che poteva essere utile alle argomentazioni dei popolari.

Inoltre le certezze umanistiche del secolo XV, come la possibilità da parte dell'uomo di signoreggiare la realtà o la conciliazione tra cultura classica e cristianesimo, stavano vivendo a Firenze una crisi drammatica e irreversibile: alla rottura di ogni possibilità di conciliazione tra valori contrapposti si accompagnava la sensazione che le vicende italiane ed europee stessero travolgendo ogni schema collaudato di ragionamento e di azione. È quindi lo sgomento il dato esistenziale che si insinua nelle analisi dei repubblicani fiorentini, pur tenacemente fondate sulla conoscibilità e sulla ripetitività del reale. E nei sostenitori della linea aristocratico-stretta dapprima e principesca poi, allo scetticismo gnoseologico si affianca in maniera sempre più accentuata lo scetticismo etico e ideale, che serve anche a giustificare ideologicamente la rinuncia ai valori civili del repubblicanesimo cittadino in cambio del mantenimento del potere al proprio ceto. Si pensi, oltre che a Francesco Guicciardini già nel Discorso di Logrogno, a Luigi Guicciardini e a Francesco Vettori. Per contro i repubblicano-popolari restano legati molto più a lungo alla coppia conoscibilità della storia (intesa come qualcosa di cui è possibile rintracciare regole) - eticità della vita politica: su di essa fondano gran parte delle argomentazioni a sostegno delle loro proposte istituzionali e i loro pareri sul cosa fare in politica estera. Gli esempi storici non contemporanei che vengono utilizzati sono quelli tratti dalla storiografia classica e la realtà del passato viene senz'altro identificata con quanto raccontato nelle antiche storie.

L'esempio, per significare qualcosa, deve essere veritiero e reale: un dubbio sulla corrispondenza di quanto narrato con quanto accaduto gli toglierebbe infatti ogni efficacia. Quello che Livio, Plutarco, Polibio, ma anche la Bibbia, dicono di Roma antica, di Numa Pompilio, di Licurgo, delle costituzioni delle città, di come Mosè gestì l'esodo ebraico, delle azioni dei consoli e dei tribuni, dei misfatti dei tiranni greci, non può, salvo qualche rarissima eccezione, essere sottoposto a critica, non può essere letto con l'atteggiamento di chi tiene conto della lontananza dei tempi, della mitologia, delle intenzioni e degli scopi degli autori. Questo tardo umanesimo politico si fonda sull'acritica accettazione della fonte narrativa antica; più vigile quando si tratti di esaminare il passato di organismi contemporanei (si pensi a Donato Giannotti su Venezia), esso può procedere con la sua metodologia di analisi proprio prescindendo da qualsiasi principio di critica storica nei confronti dell'antichità.

L'altra fonte di conoscenza della realtà politica è l'esperienza delle vicende contemporanee o acquisita personalmente o appresa per informazione oppure appena memorizzata storicamente se si risale a eventi quattrocenteschi. Tra quanto narrato dagli storici antichi e quanto saputo per esperienza c'è piena corrispondenza, l'un insieme di dati conferma l'altro e il loro impiego nel voler chiarire un certo concetto o rafforzare una tesi è intercambiabile.

Siamo dunque all'esperienza delle cose moderne e alla lezione delle antiche, binomio che è alla base del modo di procedere di questo segmento del pensiero politico occidentale. Esso va riferito ai connotati sociali e culturali degli scrittori in questione: questi sono dei cittadini (intendo qui il termine in senso formale aristotelico); sono laici, non sono cortigiani, sono attivi nei Consigli i quali, come è noto, si mantennero anche sotto il regime mediceo quattrocentesco; ricoprono cariche politiche, amministrative o burocratiche connesse comunque al processo di decisione pubblica della città; inoltre hanno una formazione storico-politica di tipo umanistico, incentrata sui classici; alcuni di loro sono anche filologi, studiosi e traduttori di autori latini e greci; alcuni sono letterati. Alla radice del binomio metodologico ci sono dunque la quotidianità della vita pubblica e le letture.

Più che per ogni altro queste considerazioni sono valide per Niccolò Machiavelli, l'icastico formulatore del binomio, e per Donato Giannotti, nei quali passione politica e studio dei testi classici si alimentano reciprocamente: essi rappresentano in maniera esemplare, anche al di là delle vistose differenze di pensiero, la struttura mentale del «mediocre», il cittadino aristotelico per eccellenza che vive la vita della propria città armato di valori civili e repubblicani.

In effetti il binomio cultura (classica) - esperienza (politica), pur costituendo un denominatore comune per gli storici e politici fiorentini della prima metà del secolo, è utilizzato coerentemente e conseguentemente dagli autori di tendenza popolare e dunque «mediocre» (assemblea larga, fiducia nel giudizio dei più, milizie proprie, etc.). I repubblicano-aristocratici (assemblea stretta, prestezza e segretezza nel decidere, sfiducia nel popolo, considerazione dell'agire politico in chiave tecnica - su questi temi tornerò più avanti) si sbilanciano molto di più a favore dell'esperienza delle cose moderne e tendono a diffidare dell'uso militante della cultura umanistica. Nei popolari si saldano dunque insieme valori civili, fiducia nella ripetitività conoscibile della storia e importanza, anche pratica, operativa, della cultura classica; negli aristocratici scetticismo etico e ideale, scetticismo gnoseologico sulla storia, minore incidenza della cultura classica. Del resto la linea di pensiero politico cittadino orientata in senso aristocratico aveva una tradizione culturale meno prestigiosa di quella popolare e un sistema di valori meno vibrante; e ancor meno li aveva un atteggiamento aristocratico che andasse a sfociare nell'accettazione della «tirannide»: per gli antipopolari, pertanto, era più praticabile e funzionale la strada del disincanto e della frammentazione.

Di Machiavelli e di Giannotti si è già detto; si pensi inoltre a Bartolomeo Cavalcanti, a Iacopo Nardi, a Luca Della Robbia e Pietro Paolo Boscoli, a Niccolò Guicciardini giovane, a Piero Vettori giovane: la loro cultura classica si coniuga inestricabilmente con l'ideologia cittadino-repubblicana. E si considerino, per contro, lo scarso fervore umanistico di Francesco Guicciardini, del fratello Luigi (pur con certi suoi rimpianti per la mancata milizia cittadina), di Francesco Vettori, di Filippo de' Nerli «uomo non letterato ».

Si è già segnalato come, salvo sporadiche eccezioni, nell'esemplificazione storica dei repubblicani fiorentini dei primi decenni del XVI secolo manchi la storia medievale. Tutto ciò che è accaduto dalla caduta dell'Impero romano al Quattrocento non sembra essere utile per l'analisi dei problemi politici contemporanei, con l'esclusione, ben inteso, della storia fiorentina a partire dal Duecento, che può anzi fornire spiegazioni di lungo periodo per la situazione della città. Ciò è dovuto in gran parte alla forma mentis umanistica, frutto di un'educazione che ha probabilmente condotto gli scrittori di cui trattiamo all'ignoranza delle stesse fonti storiche medievali. Il problema dei secoli postclassici è come rimosso, non viene nemmeno posto polemicamente, ad esempio per affermare che quei secoli non videro azioni grandi o virtù civili e così via. Anzi, qualche raro accenno a personaggi medievali compare in tono del tutto pacato e analitico: si pensi a Federico Barbarossa, «principe molto eccellente» nelle Considerazioni guicciardiniane; ai riferimenti machiavelliani alla Chiesa medievale, ad esempio nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio I 12; o all'ultimo capitolo della Republica fiorentina di Giannotti. Ma al di là di pochi casi, quasi dieci secoli di storia vengono ignorati, compresa la conflittualità intestina nei Comuni italiani (qualche eccezione per Venezia), penalizzata anche dal fatto di essere tramandata da fonti di tipo locale e prive di una sistematizzazione formale di prestigio.

1.2. Firenze e le antiche repubbliche.

Il collegamento tra l'epoca contemporanea e quella greco-latina si traduce poi in una più specifica convinzione: i problemi di assetto istituzionale di una città-stato come Firenze hanno la stessa natura di quelli delle città-stato classiche, essendo simili l'articolarsi dei ceti e la lotta di questi intorno agli organi costituzionali. Questa convinzione può prescindere dalla possibilità di potersi ispirare alle azioni degli antichi come modelli per affrontare le difficoltà del presente e può anche essere considerata autonomamente rispetto alle idee più generali sull'immutabilità della natura umana o sul ripetersi della storia. Si tratta di un accostamento tra precise formazioni politiche, che pur dovendo costituire il risultato di un'analisi, sembra piuttosto essere il presupposto stesso non esplicitamente enunciato del ragionare su Firenze basato sul binomio lezione-esperienza. Per meglio chiarire quanto detto, credo sia utile considerare come l'insistenza sull'imitazione delle azioni degli antichi in termini così radicali sia in realtà tipica di Machiavelli e che in essa abbia un peso fortissimo l'intenzione machiavelliana di incitare a tenere gli stessi comportamenti degli antichi, a ricorrere agli stessi rimedi nel momento in cui il politico o il comandante militare si trovino ad affrontare situazioni simili a quelle del passato. Un atteggiamento dunque dove teoria e volontarismo si saldano e si condizionano reciprocamente.

Negli altri scrittori repubblicani troviamo, più che una teoria o una deontologia dell'imitazione, la pacifica convinzione che Firenze e le repubbliche classiche facciano parte di una stessa famiglia di formazioni politiche; per cui anche se non si può sempre indicare una prassi che ricalchi l'antica, è possibile confrontare le due realtà, la contemporanea e la classica, e rifarsi a quanto accaduto nelle città-stato del passato per capire il presente; così come è legittimo utilizzare le analisi che di queste sono state elaborate dagli antichi.

Agli scrittori repubblicani fiorentini le antiche città-repubbliche apparivano come entità dove:

la classe politica era costituita da un numero limitato di individui, i cittadini, distinti dagli altri ceti e divisi al loro interno tra popolari e aristocratici;

gli altri ceti costituivano la plebe, in senso fiorentino, non romano, composta dagli «artefici» e dai gruppi più poveri, dagli stranieri, dagli schiavi (anche se su questi ultimi, essendo il fenomeno presente solo in scarsissima misura nelle città italiane, i Fiorentini non si soffermano pressoché mai quando parlano della struttura sociale delle città classiche);

le vicende interne ruotavano intorno al contrasto tra i due gruppi di cittadini e intorno ai conflitti istituzionali tra gli organi che di essi erano espressione: l'assemblea larga da un lato (ed è stato brillantemente notato che, da questo punto di vista, il tribunato della plebe era un'istituzione «larga») e l'assemblea stretta e gli ancora più ristretti Consigli esecutivi dall'altro;

la lotta tra popolari e oligarchici veniva poi scandita, per la mancata armonizzazione dei contrasti sociali che rendeva impossibile il dispiegarsi della vita civile regolata dalle leggi, da più o meno durature apparizioni sulla scena della tirannide, ovverosia della variante negativa del governo di uno.

I repubblicani fiorentini sono persuasi che tutti questi elementi, al di là della specificità di ogni città-stato, si ritrovino nelle repubbliche contemporanee, e cioè in sostanza a Firenze, a Venezia e a Siena, stante il fatto che essi, con la parziale eccezione delle esperienze tedesche di Machiavelli, di Francesco Vettori e di Antonio Brucioli, non avevano conoscenza diretta di altri ordinamenti cittadini al di fuori dell'Italia.

L'antistoricismo umanistico, l'identificazione della realtà del mondo antico con quanto tramandato dalle fonti narrative, la formazione culturale e la convinzione in senso lato che la natura umana sia immutabile si coniugano così con la concreta considerazione della somiglianza sociale e istituzionale tra formazioni politiche distanti tra loro molti secoli: i Classical Republicans, per riprendere il titolo di un libro di Zera S. Fink, erano tali non solo per una infatuazione culturale, ma anche per una certezza che derivava loro dalle riflessioni socio-istituzionali.

1.3. Gli strumenti dell'analisi.

Ne consegue che la strumentazione analitica poteva essere mutuata quasi di peso dal pensiero politico classico. Basti pensare alla concezione del cittadino inteso come soggetto politico attivo; alle classificazioni politologiche delle forme di governo; a quelle delle divisioni interne al corpo degli abitanti della città; alle tematiche del fondatore e del legislatore; alla concezione delle leggi; alle considerazioni, si potrebbe dire, di geografia storica o di psicologia dei popoli sul «sito» della città, sui costumi, sulle attitudini belliche e politiche delle diverse nazioni. E l'elenco potrebbe continuare.

Su questa griglia classica di terreni di indagine e di strumenti di analisi si innestavano gli elementi specifici della situazione fiorentina. Ad esempio la suddivisione degli abitanti in arrabbiati, palleschi, piagnoni, beneficiati, non beneficiati che integravano le canoniche classificazioni del tipo 'molti-pochi', oppure 'aristocratici-popolo-plebei'. Quest'ultima, per continuare con la nostra esemplificazione, conosceva la sua principale variante nell'introduzione dei «mediocri », che talvolta trasformavano la tripartizione in quadripartizione, talvolta si inserivano come secondo termine al posto del popolo, inteso in questo caso non come «volgo» o come «universale», bensì come ceto medio storicamente definito e delimitato.

Tali elementi specifici si insinuavano, comunque, in un sistema di categorie, concetti e strumenti completamente accettato e ritenuto sufficiente. Questo vale anche per i pensatori più grandi e originali, quelli che ritenevano, e a ragione, di entrare in una via «non [...] ancora da alcuno trita», oppure affermavano che «el modo vero dello imparare» fosse quello basato non «su' libri de' filosofi» bensì sulla «esperienza e [...] le azioni ».

Resta da verificare l'adeguatezza o meno della griglia analitica classica nei confronti della realtà che i repubblicani fiorentini si trovavano ad affrontare; tale griglia, come apparirà anche dal prosieguo di queste pagine, mostrava dei limiti seri.

Pensiamo innanzi tutto alla questione del dominio fiorentino e dei suoi ceti cittadini e contadini, oppure al rapporto città-campagna (e a questo proposito Carlo Cipolla ci ricorda come la città antica fosse la risultante di un organismo che comprendeva i cittadini di dentro e di fuori le mura e come l'ideologia cittadina greca comprendesse anche gli abitanti della campagna; a differenza della città italiana medievale e rinascimentale, che aveva con la campagna un rapporto di separatezza e di sfruttamento).

Si potrebbe pensare anche, lo si è già accennato, alla diversa organizzazione della produzione dovuta all'assenza nelle città italiane di una massiccia mano d'opera in schiavitù. Questo fatto comportava alcune importanti conseguenze: modificava il significato della parola «plebe» che, senza gli schiavi, passava a indicare l'ultimo gradino della scala sociale, più in basso, e quindi escludibile dalla vita politica repubblicana, della plebe romana. Inoltre travolgeva la concezione aristotelica del cittadino come colui che può materialmente dedicare il suo tempo alla civile conversazione e alla vita politica.

Queste sono comunque considerazioni dello storico odierno che valuta le profonde differenze tra formazioni socio-politiche di epoche diverse. I repubblicani fiorentini ritenevano che la loro situazione fosse ampiamente rapportabile a quella delle città greche e di Roma, e che pertanto bisognasse usare la strumentazione analitica consegnata loro dalla tradizione greco-latina e da quella repubblicano-aristotelica in particolare.

1.4. Solo la città può essere repubblica.

L'ultimo aspetto del pensiero repubblicano fiorentino che vorrei preliminarmente sottolineare, e che lo accomuna del resto a tutta la tradizione di cui costituisce l'ultimo anello, è la sua natura esclusivamente cittadina, nel senso che la repubblica, la politìa o come la si voglia chiamare (vale a dire quel modo di organizzare la vita politica che realizza tutta una serie di valori antropologici), è possibile solo nella città, trattandosi di una concezione basata sulla partecipazione diretta al processo decisionale.

Esaminando le esemplificazioni di cui la letteratura politica fiorentina fa uso per convalidare le proprie affermazioni, si troveranno città che possono essere governate da uno o da più, quindi possono essere monarchie (in questo caso in senso strettamente numerico, prescindendo dalle differenziazioni qualitative che permettono di distinguere le varie specie di regno e le tirannidi) o repubbliche; ma non si troveranno mai, salvo errore, stati territoriali che siano repubbliche.

Con il termine 'stato territoriale' qui non si intende la formazione statale costituita dalla città più il suo dominio; si intendono invece stati nei quali essere cittadino della capitale non sia indispensabile requisito per ricoprire cariche politiche e per far parte degli organi centrali. Alla prima fattispecie appartenevano appunto la repubblica fiorentina con il suo dominio, così come la repubblica di Venezia: in questi casi si parlava di repubblica riferendosi solo alla città dominante. Alla seconda fattispecie appartenevano tutti gli stati monarchici, dalla Francia al Regno di Napoli, ivi compresi quelli principeschi regionali all'origine dei quali c'era stata l'appropriazione da parte di un Comune del territorio circostante.

Questi non possono essere repubbliche, perché per discutere, votare, eleggere, per essere l'uomo animale politico che è libero, soggetto solo alle leggi e non alla volontà discrezionale di un monarca, bisogna partecipare di persona e né il concetto di rappresentanza, né la possibilità di manifestare la volontà a distanza fanno parte della tradizione cittadino-repubblicana.

1.5. La tradizione classica: Aristotele e Platone, la Grecia e Roma.

La cultura politica e la strumentazione analitica che ho fin qui delineato erano pressoché comuni a tutti i cittadini fiorentini colti dei primi decenni del secolo XVI; costituivano, per così dire, una base comunicativa comune. Ma si è anche visto che questa era tendenzialmente funzionale allo schieramento repubblicano-popolare; con questo termine mi riferisco a quello classicheggiante- moderato, perché è quello che ci ha lasciato la quasi totalità delle testimonianze dirette scritte. La cultura più coerentemente repubblicano-aristotelica, così ricca di valori e di prestigio, era strumento privilegiato dei fautori di una soluzione larga al problema dell'assetto istituzionale di Firenze (con tutti i riflessi che una certa scelta istituzionale aveva sulla politica fiscale, su quella estera, sull'esito delle elezioni alle varie magistrature). E interessante considerare che anche Savonarola, fautore del Consiglio Grande, si serviva nel suo trattato politico del linguaggio aristotelico sulla scia tomistica.

Le fonti che esercitano la maggiore influenza sul pensiero politico fiorentino degli anni di cui ci stiamo occupando sono Platone, Aristotele, Polibio, Cicerone, Livio. È ovvio che gli autori letti da cui trarre esempi, massime e concetti sono molto più numerosi: basti citare Plutarco, Sallustio, Tacito, Dione Cassio, Cesare, Dionigi di Alicarnasso, Svetonio, Vegezio, Tucidide; ma indubbiamente i cinque sopra menzionati sono quelli che più plasmano la forma mentis dei Fiorentini, e tra essi primeggia Aristotele.

Il filosofo greco influenza in modo decisivo Machiavelli (forse più di quanto questi fosse disposto ad ammettere), Giannotti (il più vicino allo spirito aristotelico allorquando delinea il suo progetto costituzionale per Firenze), Brucioli (anche se si muove in un clima più 'alla filosofica', con una spiccata tendenza verso l'utopia platonico-ciceroniana), Niccolò Guicciardini, il tardo Bartolomeo Cavalcanti (il quale forza in senso aristotelico i passi platonici in modo da far emergere una concordanza tra i due filosofi). La diffusione della Politica era enorme, soprattutto nella versione latina di Leonardo Bruni, che aveva soppiantato quella medievale di Guglielmo di Moerbecke: in A Bibliography of Aristotle Edition 1501-1600, with an Introduction and Indexes by F. E. Cranz, Baden Baden, Valentin Koerner, 1971, l'edizione della traduzione bruniana figura quarantadue volte. Negli anni Quaranta, in una fase quindi già tarda e perdente del repubblicanesimo fiorentino, appaiono due traduzioni italiane: quelle di Antonio Brucioli e di Bernardo Segni; successivi sono i commenti alla Politica, e si tratta di operazioni ormai prive di pregnanza e di militante allusività politica. Nel complesso Aristotele è presente nella letteratura politica fiorentina a tendenza «larga» in maniera talmente ampia con classificazioni, spunti, opinioni, valori, che non ci resta che rimandare al commento ai testi nelle pagine che seguono, dal quale emerge la genesi aristotelica di un grandissimo numero di affermazioni degli autori antologizzati.

C'è da chiedersi che uso si faccia di Aristotele, il quale offre analisi e definizioni ma anche giudizi autorevolissimi che vanno adattati alle esigenze e agli scopi di chi scrive.

L'Aristotele 'politologo' viene utilizzato in modo piuttosto schematico e semplificato; si ignorano, perché non utili al dibattito su Firenze, le sue sottodistinzioni e la sua casistica relative ai tipi di costituzione e al rapporto tra articolazione sociale e assetto istituzionale. L'Aristotele valutativo (quello del governo delle leggi, della saggezza collettiva dei «molti », della diffidenza verso i cittadini troppo eminenti, dell'apprezzamento delle virtù e dei costumi dei «mediocri», etc.) viene invece travasato di peso negli scritti dei repubblicani popolari. Tale aristotelismo costituisce infatti l'arma ideologica più rilevante della parte popolare, intendendo la parola 'popolo', è inutile ricordarlo, in senso fiorentino medievale e rinascimentale.

Avendo inoltre il carattere di intervento militante, gli scritti politici fiorentini dei primi quattro decenni del secolo tralasciano gli aspetti più rigorosamente filosofici di Aristotele. Tra essi il concetto, di origine platonica, di «verità» di un determinato tipo di organizzazione politica, che deve avere quelle caratteristiche che la facciano corrispondere al nome che ne esprime la «forma»; oppure la rilevanza etico-filosofica del concetto di virtù; così come non è significativo per i Fiorentini il tentativo aristotelico di motivare su un piano filosofico una rigorosa ideologia cittadina dell'attività non manuale.

È difficile dire quanto certi problemi non interessino o quanto vengano date per scontate le opinioni aristoteliche. Ad esempio i Fiorentini non si soffermano sui diversi criteri utilizzati da Aristotele nella Politica per classificare la bipartizione fondamentale della società (criterio numerico: piùmeno o molti-pochi; criterio etico: gli inferiori e i superiori per virtù; criterio economico: i ricchi-i poveri); così come tralasciano il problematico coniugarsi di tali criteri con l'osservazione della realtà effettiva (i ricchi sono di fatto i pochi, come pochi sono i virtuosi, ma i ricchi non sono necessariamente virtuosi, e via dicendo). Infatti gli scrittori fiorentini si trovano a intervenire in una situazione data: in essa individuano un'aristocrazia e un popolo contrapposti orizzontalmente, le cui caratteristiche numeriche, comportamentali e sociali sono per loro evidenti; questa contrapposizione è sentita come centrale, in alcuni casi come l'unica significativa, nella conflittualità cittadina. In essi non si ritrova l'attenzione degli storici odierni alle spaccature verticali della società fiorentina.

Sono poi le esigenze legate allo scontro politico che in qualche caso consigliano di accantonare le complesse analisi aristoteliche. Prendiamo, ad esempio, il rapporto pochi-virtù, che a Firenze si tradurrebbe nel rapporto ottimati-virtù e che può essere letto in due modi, nel senso che i virtuosi sono pochi oppure che i pochi (l'aristocrazia) sono virtuosi. Si tratta dunque di un tema ambiguo, da un lato sgradito, per evidenti motivi, ai popolari; dall'altro non particolarmente sentito dai «grandi », i quali preferiscono insistere sulla superiorità ottimatizia circoscritta alla pura tecnica di governo, come fanno il Guicciardini e il Nerli, ritenendo pericoloso contendere con gli avversari sul piano dei valori etici e civili.

Via via che ci si allontana dalla letteratura politica militante (Antonio Brucioli, il Bartolomeo Cavalcanti dei Trattati), cresce la presenza dell'altro filone della tradizione repubblicana, quello platonico-ciceroniano, anche se nella trattatistica permane il tópos della polemica contro le costruzioni utopiche, tra i cui bersagli, oltre a Platone, troviamo anche il contemporaneo Tommaso Moro, in nome dell'osservazione delle repubbliche come sono e non invece come dovrebbero essere.

Nel complesso possiamo dire che nella trattatistica l'influsso del pensiero greco è chiaramente quanto ovviamente prevalente su quello del pensiero latino (importantissima è anche la presenza di Polibio con la sua vulgata della classificazione delle forme di governo, completata dalle teorie della loro successione e dello stato misto); mentre Roma costituisce il punto di riferimento più importante come fonte di esempi storici e come oggetto di giudizi politici.

La tradizione classica repubblicano-cittadino-aristotelica consegna dunque agli autori di trattati, dialoghi e pareri dei primi quattro decenni del Cinquecento fiorentino una ricca serie di analisi e di opinioni: si tratta di classificazioni politologiche, di una terminologia, di una retorica, di concetti, esemplificazioni storiche, giudizi di valore. Rispetto a questa eredità culturale è necessario esaminare, lo si è già accennato, il diverso atteggiarsi delle componenti della società fiorentina, soffermandosi in particolare sulla spaccatura tra quelle che chiamo le fenomenologie mentali popolare e aristocratica, cioè quei sottoinsiemi sufficientemente organici di opinioni sull'uomo, di giudizi, di sensibilità, di linguaggio, direi anche di riti espressivi che, derivando dalla comune cultura classico-repubblicana, servono ad argomentare, giustificare, motivare ideologicamente le scelte di campo e, di conseguenza, quelle sulle istituzioni della città.

La fenomenologia mentale aristocratica, condizionata dagli eventi, si va poi via via trasformando in atteggiamento disposto ad accettare i tópoi dell'ideologia monarchica. Quest'ultima impiega del tempo ad affermarsi in maniera aperta e legittimata dalla sua tradizione, dovrà aspettare il progressivo consolidarsi del potere di Cosimo: infatti negli anni Trenta i filomedicei provenienti dalle file del repubblicanesimo aristocratico si limitano a elaborare una serie di giustificazioni ideologicamente difensive per la loro accettazione della «tirannide», la quale in tutta la tradizione occidentale, da Platone a san Tommaso fino al Cinquecento, è ben altra cosa rispetto al regno, al governo retto di uno.

2. Repubblicanesimo popolare e repubblicanesimo aristocratico

Credo di poter affermare che una visione politica (vale a dire, in questo caso, il sistema dei giudizi sui criteri e sui modi della distribuzione del potere in una società) che mira a includere un ampio numero di persone nel meccanismo decisionale pubblico ha a sua disposizione un apparato ideologico più ricco, tendenzialmente più razionalistico, generalmente più prestigioso.

Il contrario accade nel caso di una visione che vuole escludere, sia in un contesto di conservazione sia in uno di restaurazione. Gli esponenti di un tale modo di pensare e di agire tendono a non scendere sul terreno della giustificazione etico-politica di quanto propugnano e si rifugiano in considerazioni tecnico-pragmatiche oppure in motivazioni di tipo irrazionalistico (tradizione, stirpe, etnia, orgoglio di casta e via dicendo).

La soluzione di tipo monarchico non tirannico al problema decisionale può a sua volta avvalersi di un ricco apparato ideologico (anch'esso però irrazionalistico: diritto divino, teoria discendente del potere, legittimità, fedeltà, etc.) proprio perché si fonda su un meccanismo e spesso su un populismo livellatori del corpo sociale di fronte all'imparziale giustizia del principe. Supera quindi la difficoltà morale dell'esclusione e del privilegio di ceto.

È chiaro che anche l'apparato ideologico di coloro che affermano di voler estendere il potere (un apparato che nel tempo mantiene caratteri comuni sia che persegua estensioni parziali e per ciò stesso discriminanti, sia estensioni totali comprendenti in linea di principio l'intera comunità) fa appello anch'esso a princìpi non dimostrabili; ma è certo che nel corso della storia occidentale ha goduto il più delle volte di una notevole supremazia etica e che i cardini della sua antropologia (minore pessimismo antropologico, fiducia nelle possibilità di giudizio delle masse, rispetto per la dignità del cittadino) sono stati circondati quasi sempre da maggior prestigio culturale.

Il caso degli ultimi decenni della repubblica fiorentina non contraddice questo generalissimo schema.

I filopopolari e i filoaristocratici si muovono, nell'esporre le loro soluzioni istituzionali, nell'ambito di sistemi ideologici contrapposti fondati su due diverse antropologie ereditate entrambe dalla comune tradizione di pensiero cittadino-repubblicana e funzionali agli interessi in campo.

La visione politica aristocratica è, e vuole essere, meno colta, meno umanistica; ostenta sfiducia nella conoscibilità del reale attraverso la storia; svaluta i modelli di efficienza additati dall'ideologia popolare; diffida degli entusiasmi, delle fedi, delle capacità dei molti; non crede nelle regole e nelle teorie; sembra considerare la prassi politica come una serie di decisioni individuali non sempre riconducibili a remoti precedenti. La visione popolare si nutre di cultura umanistica; crede nell'analisi razionale, rischiando anche di piegare la realtà ai suoi astratti presupposti; è sospettosa dei grandi, fino ad arrivare alla sospettosità preventiva di tipo 'rivoluzionario' dei radicali dell'ultima repubblica; ha fiducia nel popolo, la cui entità aumenta o diminuisce in relazione al maggiore o minore radicalismo; elabora teorie, quasi tutte di ascendenza classica; crede nell'esempio storico. Vediamo come queste due fenomenologie mentali si articolano nello scontro politico fiorentino.

2.1. Repubblicani popolari e repubblicani aristocratici: la costituzione, le leggi, la tirannide.

Il problema centrale attorno a cui ruota tutta la letteratura politica fiorentina dei primi decenni del XVI secolo è quello di predisporre un ordinamento costituzionale che garantisca la stabilità del governo e quindi la «durata» della città con il suo dominio. Si tratta perciò di stabilire delle regole di attribuzione del potere nel cui ambito i ceti cittadini aventi diritti politici, concordi nel rispettarle, possano far sentire la loro voce. L'operazione è dunque nelle intenzioni di tutti, all'incirca fino al gonfalonierato di Francesco Carducci, un'operazione di compromesso. Un'analisi attenta rivela però che la soluzione di compromesso condivisa da tutti, lo stato misto (e si tratta, come prevedibile, di una formula mutuata di peso dalla letteratura classica), esprima intenzioni molto diverse a seconda che venga indicata dai popolari o dagli ottimati, condizionata com'è dagli interessi materiali in gioco.

In realtà la conciliazione istituzionale tra popolo e grandi è perseguita dallo schieramento repubblicano moderato, che comprende esponenti di tutti e due i gruppi. I suoi maggiori sostenitori sono comunque i moderati popolari, che cercano di eludere, attraverso la teoria dello stato misto, la fatale caratteristica della doppia tripartizione polibiana delle forme di governo: quella di essere un elenco di governi di parte (con l'eccezione, in linea teorica, del governo retto di uno, il che diventerà poi arma ideologica degli intellettuali medicei), caratteristica che i Fiorentini avevano sempre dovuto amaramente sperimentare nella loro storia. Anche la democrazia appariva infatti, sia sul piano concettuale che su quello dell'esperienza fiorentina, come un regime di popolo che tendeva a escludere gli ottimati e non già come un regime comprensivo delle varie componenti della città, nel quale queste vivessero seguendo le regole tipiche di un ordinamento democratico.

La questione era dunque per i popolari moderati quella di escogitare un assetto istituzionale che fosse accettabile per tutti, che superasse cioè la democrazia. Parimenti gli aristocratici, finché rimasero in un'ottica repubblicana, cercavano di elaborare un ordinamento che salvaguardasse la loro preminenza senza escludere il popolo dei beneficiati: e questo sia per una realistica considerazione della situazione che per intima convinzione.

Lo stato misto è dunque il tentativo di instaurare un regime che non comporti l'esclusione di una parte dal potere; d'altro canto si prestava ad essere piegato a diversi scopi. Rispecchiava infatti una concezione che prevedeva che le due componenti contrapposte della società (grandi e popolo) andassero naturalmente a occupare i due organi a loro rispettivamente destinati perché potessero esprimere le loro esigenze: l'assemblea stretta, in genere chiamata Senato, e l'assemblea larga, il Consiglio Grande al quale, si badi bene, non si veniva eletti, bensì si apparteneva di diritto: era il popolo, nei limiti quantitativi fissati dalla costituzione, riunito per deliberare. Si riteneva che nel Senato, anche se eletto dal Consiglio Grande, sarebbero entrati in modo quasi automatico i «migliori» e «più reputati» cittadini, vale a dire gli esponenti degli ottimati. Configurando perciò il Senato in un modo piuttosto che in un altro (annuale o a vita, con maggiori o minori poteri in materia finanziaria o in politica estera o nelle elezioni delle altre magistrature strette) si poteva non poco influire sul tasso di democraticità o di aristocraticità di un governo; era possibile quindi caricare lo stesso tipo di soluzione istituzionale di intenzioni opposte. E per decenni, popolari e ottimati scrissero di stato misto con l'intenzione, si potrebbe dire, di tenere buona la parte avversa assicurando il potere reale alla propria (il più emblematico è il caso Guicciardini-Giannotti, per il quale rimando alla Nota introduttiva a quest'ultimo).

Minore rilievo dal punto di vista dell'ideologia di parte sembra avere la componente monarchica dello stato misto, nella quale potevano convergere aspettative opposte (e questo anche nella realtà dello scontro in atto, come nel caso della riforma del gonfalonierato del 1502, che fu il frutto di un consenso assai diversamente motivato).

Si è delineato così il nucleo essenziale del dibattito fiorentino fino al governo di Alessandro de' Medici quale ci è stato tramandato da trattati o pareri. Era un dibattito certo frazionato in numerosi temi e varianti, espressioni a loro volta di una articolazione della società fiorentina molto più complessa e molto meno nitidamente spaccata in senso orizzontale di quanto possa apparire dalla letteratura politica. Ma qui ci stiamo occupando di cultura politica e dei suoi modi di esprimersi, la quale sembra tendere a una semplificazione analitica della realtà, forse proprio anche per lo sforzo di inserirsi nei moduli espressivi di una tradizione in quel momento egemone. Infatti quanto detto vale soprattutto per la trattatistica e un po' meno per i pareri, i quali sono maggiormente connessi alle suddivisioni della società fiorentina, alla mobilità di schieramento dei vari sottogruppi, alle amicizie, e via dicendo.

Parlando di scritti politici mi riferisco soprattutto a Machiavelli (considerato in questo contesto, così come Francesco Guicciardini, più per ciò che aveva in comune con la cultura politica del suo tempo che non per quanto esprimeva di potentemente originale), a Donato Giannotti, Antonio Brucioli, Niccolò Guicciardini, Bartolomeo Cavalcanti, Luigi Alamanni, Lorenzino de' Medici, Pierfilippo Pandolfini, Piero Vettori e, sull'altro versante, a Francesco Guicciardini, Lodovico Alamanni, Roberto Acciaiuoli, Francesco Vettori, Luigi Guicciardini, Alessandro de' Pazzi. Espressione delle diverse mentalità politiche sono anche le opere storiografiche: Piero Parenti, Bartolomeo Cerretani, Iacopo Nardi, Benedetto Varchi, Bernardo Segni, Iacopo Pitti, Luca Della Robbia, Giovan Battista Busini, Filippo de' Nerli, Giovanni Cambi, Biagio Buonaccorsi. Si tratta per lo più di esponenti del gruppo repubblicano popolare e di quello ottimatizio favorevole dapprima a una repubblica aristocratica e convertito poi al principato. Per le espressioni politiche dei radicali dobbiamo affidarci quasi esclusivamente alla narrazione storiografica intesa come fonte indiretta, mentre la voce del ceto meno colto e più popolare (questa volta in senso moderno e non fiorentino) è affidata alle cronache e ai diari.

Il pensiero fiorentino dei primi decenni del Cinquecento ci si presenta dunque come un pensiero essenziale, legato ai problemi della città, senza attenzione ad altri aspetti della sistematica politica (con le eccezioni, così diseguali e così diversamente motivate, dei Discorsi machiavelliani e dei Dialogi brucioliani). Nella ricerca di una soluzione repubblicana (prescindiamo per il momento dallo scetticismo e dal cinico disincanto degli aristocratici una volta accettato il principato) si fonda su un accentuato costituzionalismo, cioè sulla convinzione di poter risolvere il problema dell'instabilità politica agendo sugli ordinamenti cittadini, dato che li si ritiene in grado di determinare o per lo meno di condizionare i comportamenti dei singoli.

Questa convinzione si muove lungo due direttrici: una ottimistico-pedagogica (una repubblica ben ordinata può esercitare un influsso positivo, educativo sui «costumi» individuali), un'altra pessimistico-giuridica (gli «ordini» devono essere pensati in modo da ridurre al minimo gli spazi non controllati dell'agire politico e devono riuscire a impedire che i vari gruppi operino nell'interesse di parte, il che accade automaticamente se sono in qualche modo lasciati liberi di farlo dall'ordinamento).

Vedremo come all'estremo opposto di tale costituzionalismo si collochi, nella tradizione occidentale e nel prosieguo della storia fiorentina del Cinquecento, l'ideologia principesca, per la quale l'istituzione-principe, fondata sulla discrezionalità e sul giudizio di equità emesso dal monarca caso per caso, eguaglia e reprime gli uomini che sono incapaci di autogovernarsi con giustizia.

Per capire dunque perché a Firenze si discuta così tanto sugli «ordini» e perché la parte vincitrice cerchi non tanto di occupare gli organi esistenti quanto piuttosto di modificare l'assetto costituzionale, è necessario tener presente che era convinzione diffusa che a determinati meccanismi istituzionali corrispondesse la prevalenza di determinati ceti nel momento decisionale e che questi decidessero poi sempre in linea con i loro specifici interessi. Invano cercheremmo nelle pagine degli scrittori fiorentini l'esposizione dei contenuti di un'azione di governo, con l'eccezione di qualche intervento sulla decima scalata o sulla politica estera; lo scontro è sul tipo di governo, sulla definizione dell'ordinamento costituzionale, dal quale discenderà in modo fisiologico un indirizzo politico. Non esiste, insomma, una costituzione neutrale in grado di poter prevedere la prevalenza alternata del popolo e dei grandi; e abbiamo visto che anche lo stato misto finisce per essere, nelle reali intenzioni dei suoi sostenitori, uno strumento di surrettizia affermazione di uno o dell'altro schieramento; non è concepibile dai Fiorentini un'assemblea dove la maggioranza possa cambiare. Il loro costituzionalismo, la loro ostinata ricerca di nuovi assetti istituzionali, l'insistita quantità delle loro proposte di ordinamento per la città si basano sulla convinzione che una parte politica possa esprimere i suoi interessi solo mediante determinati «ordini», dai quali non possono derivare che determinati contenuti.

In concreto ciò vuol dire che le scelte dei grandi non passeranno in una città in cui ci sia un Consiglio Grande numeroso e con molti poteri, dove le cariche si attribuiscano a sorte, dove i membri delle magistrature si avvicendino con rapidità, dove il Senato o non esista o venga eletto per un periodo breve o si veda attribuiti poteri modesti. Chi vuole prevalere deve adattare a sé le regole del gioco, chi vuole affermare i propri interessi e i propri programmi deve difenderle o cambiarle a seconda della situazione di partenza.

I Pareri, i Dialogi o i Trattati si susseguono così in gran numero; essi sono impegnati quasi esclusivamente a progettare gli «ordini» di Firenze. Si tratta di progetti spesso assai complessi e sofisticati che hanno invariabilmente lo scopo di far passare in maniera sfumata e ambigua fino alla contraddittorietà una soluzione istituzionale filopopolare o filoaristocratica, con la frequente variante di doverle rendere accettabili ai Medici, ancora cittadini «privati», senza negare quella che possiamo considerare la filosofia di base del sistema cittadino-repubblicano.

Tutto questo, come si è detto, fino alla definitiva svolta filoprincipesca del gruppo più significativo dell'aristocrazia fiorentina; allora l'apparato ideologico monarchico entrerà con prepotenza in scena e a progettare gli «ordini» repubblicani rimarranno solo, fino all'estinzione generazionale, gli esuli di orientamento popolare moderato.

La fenomenologia mentale repubblicano-popolare ritiene che gli ottimati siano sostanzialmente ostili a un ordinamento che promuova da un lato la virtù civica e che controlli dall'altro le ambizioni di parte. Ritiene ancora che essi siano propensi a una gestione della città affidata più ai poteri de facto che non a quelli de iure: li accusa infatti di voler svalutare le sedi decisionali istituzionali, magistrature e consigli riuniti nei palazzi pubblici che creano il prestigio attraverso l'esercizio della funzione, a vantaggio di quelle private, cioè le riunioni informali di grandi nelle loro case, le pratiche strette aperte anche a chi non ricopre magistrature. La fenomenologia mentale aristocratica, dal canto suo, vorrebbe che le istituzioni rappresentassero una conferma formale di valori sociali preesistenti e che le cariche pubbliche venissero attribuite a chi naturalmente le merita, cioè ai savi e preparati membri delle grandi famiglie. Quando ciò non accade, i grandi, in effetti, tentano sovente di prendere le distanze dalle istituzioni per trasferire altrove il processo decisionale reale. Su questo tema l'Aristotele del saper comandare e del saper ubbidire, della pericolosità dei cittadini eminenti per l'ordinamento repubblicano e del primato delle leggi, offriva ampio sostegno all'ideologia popolare.

Certamente la questione del primato delle leggi, come quella, centralissima nell'ideologia popolare, della libertà, vengono talvolta percepite come più complesse di quanto le formule polemico- tradizionali non esprimano; ma per lo più (qui forse con la sola eccezione di Machiavelli e Guicciardini) i Fiorentini restano alla superficie del problema, limitandosi a utilizzare quanto la tradizione repubblicana offriva loro.

Era all'incirca chiaro cosa intendeva in quegli anni chi affermava che le leggi dovevano governare; il concetto bastava per indicare il principio al quale doveva ispirarsi un organismo politico che volesse realizzare il vivere civile. Ma è altrettanto chiaro come lo scontro avvenisse poi sul piano dei contenuti e, di conseguenza, su quello delle procedure istituzionali in base alle quali fare le leggi, dato che, lo ricordiamo, deliberare con una meccanica piuttosto che con un'altra o attribuire a un Consiglio piuttosto che a un altro il potere di decidere su certe materie incideva automaticamente, nella visione dei Fiorentini, sul contenuto delle leggi.

Il problema si sposta dunque dalla dicotomia governo delle leggi-governo degli uomini all'interrogativo: chi fa le leggi ? Non sono forse le leggi espressione del gruppo che detiene il potere decisionale nel momento in cui vengono approvate ? Ecco quindi che la cultura politica comune classico-repubblicana, sostenitrice in questo caso del primato delle leggi, si spacca al momento dello scontro delle parti in lotta. Vale a dire: un sì comune al primato delle leggi, ma le leggi, ad esempio, in materia fiscale chi le deve fare? E ancora sì al primato delle leggi, ma ci deve essere una legge che prevede l'appello finale al Consiglio Grande? Il primato delle leggi si collega allora strettamente alla discussione sulle forme di governo, cioè sul meccanismo e sui criteri che portano alla formazione della legge; una discussione nell'ambito della quale riveste una particolare importanza il tema della tirannide, la forma di governo che rappresenta l'esatto opposto del governo delle leggi.

Perché, non dimentichiamolo, la polemica contro la tirannide non si limita a prendere in considerazione la figura tipica del tiranno inteso come monarca che ha usurpato il potere, che calpesti ogni regola intesa a limitare tale potere, e che, secondo la tradizione espressiva classico-rinascimentale, viola le vergini, depreda le vedove e gli orfani, umilia i cittadini e via dicendo. Tirannico può essere anche un regime popolare, tirannico può essere un regime oligarchico, tirannico può essere un organo cui l'ordinamento conceda un potere non sempre controllabile; per contro colui che è, per così dire, formalmente tiranno, tiranno ex defectu tituli, può poi non esserlo dal punto di vista del comportamento pratico. Sicché anche i frequenti riferimenti alla tirannide che troviamo nella letteratura politica fiorentina (e, si badi bene, la tirannide è da tutti giudicata negativamente sulla base della comune cultura repubblicano-aristotelica) esprimono posizioni contrastanti, modellate ideologicamente sulle scelte di campo degli scrittori.

Infatti anche in questo caso, come in quello del governo delle leggi, è sufficientemente chiaro per i Fiorentini cosa si intende quando si parla di governo tirannico. La cultura greco-latina ne fornisce tutte le descrizioni come pure tutte le invettive contro di esso: troviamo pagine antitiranniche in Platone, Aristotele, Polibio, Cicerone, Seneca e in molti altri; a loro volta tutti gli antitirannici del Rinascimento si rifanno ai modelli classici e in particolare a motivi filosofici stoicheggianti; la tradizione fiorentina possiede solidi punti di riferimento, come il Salutati o il Bruni. Ma negli scrittori delle prime decadi del Cinquecento, che vivono la crisi del loro mondo cittadino in termini ignoti ai primi umanisti, l'atteggiamento verso il tiranno rivela contrasti ed esitazioni, nel cui ambito campeggia il tentativo machiavelliano, nel Principe, di rovesciare la problematica classica: infrangere le regole umane e divine (e quindi compiere atti vituperati dalla tradizione repubblicana: depredare i privati, «spegnere» le discendenze, etc.) per rimediare a una situazione di corruzione. O addirittura (siamo al celeberrimo Discorsi i 18) violare le regole del vivere civile per poterlo instaurare di nuovo e autenticamente, cosa, per lo stesso Machiavelli, difficile se non impossibile): gli atti per la tradizione tirannici diventano funzionali all'instaurazione del vivere civile.

Ma è l'ideologia aristocratica che va progressivamente sfumando la chiara concezione cittadino-repubblicana della tirannide e va modificando, per difendere i propri interessi, l'atteggiamento risolutamente antitirannico che deve essere tenuto dal cittadino che ama la patria e il buon governo.

È Francesco Vettori a rispondere nella maniera più decisa e, potremmo dire, più innovativa a interrogativi del tipo: chi è il tiranno ? È colui cha ha preso il potere in modo illegale e illegittimo o colui che lo esercita tirannicamente ? Che differenza c'è tra il re e il tiranno? Le risposte canoniche avrebbero sostenuto che i re, così come una repubblica ben ordinata, sono legittimi e rispettano la legge. Ma la legittimità è un concetto che, oltre a essere poco significativo nella tradizione cittadino-repubblicana, viene smascherato (anche da Guicciardini) annullandolo nella considerazione dell'intrinseca violenza di ogni potere. Così come la nobile dignità del rispetto delle leggi quasi sbiadisce quando si deve confrontare con le domande sulle leggi di cui si è detto in precedenza: quale legge? Emanata da chi? A vantaggio di chi? Vettori, e con lui i grandi cui non era riuscito di instaurare il regime repubblicano stretto che era al fondo delle loro aspirazioni e che tra popolo e Alessandro de' Medici avevano scelto il «tiranno», sostituisce l'apprezzamento per l'una o l'altra soluzione istituzionale con quello per un governo genericamente «buono », e un governo può essere buono a prescindere dalla sua legittimità e dal tipo di regime: in pratica, può essere buono anche il governo di uno che abbia occupato il potere con la forza, sciolto i consigli e così via. In tal modo egli toglie ogni valore all'intreccio, saldissimo nel pensiero repubblicano, tra assetto istituzionale e qualità di una forma di governo, tra gli aspetti aristotelicamente formali, 'veri' della natura umana e il modo di organizzare la comunità politica, il che vuol dire che vivere da cittadino in una repubblica non significa affatto realizzare il fine dell'essere uomini.

Guicciardini trarrà da questa svalutazione della tradizione repubblicana le più estreme conseguenze sul piano dell'etica civica: la cosa migliore che chi ama la patria possa fare quando questa cada sotto una tirannia è affiancarsi il più possibile al tiranno per indirizzarlo nel miglior modo: diventare dunque suo consigliere per il bene della città.

2.2. Repubblicani popolari e repubblicani aristocratici: la conservazione dello stato, la libertà, il cittadino.

La formazione politica 'repubblica cittadina' ha sempre posto il problema del suo mantenersi o conservarsi come tale, essendo sempre apparsa come la forma di governo più carica di valori ma anche come la più fragile.

Pensare nell'ambito della tradizione cittadino-repubblicana significa quindi, più che nel caso di qualsiasi altro filone di pensiero politico, affrontare le questioni della «durata », della parabola ascendente e discendente degli stati, della corruzione, del mistero del consenso e dell'obbedienza collettiva alle leggi, del mantenimento dei contrasti socio-politici nei confini stabiliti dagli «ordini». Per i Fiorentini significa soprattutto affrontare le questioni della comprensione e del controllo delle forze in gioco, dell'individuazione di quanto possa l'azione umana per lo meno nel breve periodo (stante che nel lungo periodo non sembra possibile, per quanti sforzi si facciano, opporsi alle leggi quasi biologiche che paiono inesorabili nello scandire la vita degli stati). Significa dunque porsi il problema della fortuna e del ruolo che essa gioca nel raggiungimento di uno degli obbiettivi fondamentali della riflessione politica fiorentina: «conservare lo stato».

Ma conservare lo stato è un concetto tutt'altro che univoco e neutro e mai (nemmeno in Machiavelli, nemmeno, molto più tardi, in Ammirato) dà luogo a riflessioni esclusivamente tecniche, cioè all'elaborazione di regole mediante le quali tenere in piedi un regime quale che sia, senza tener conto della sua natura o della sua «bontà». Conservare lo stato vuol dire sì, in termini generali, opporsi alla tendenza della storia a distruggere, a consumare; ma nessun politico e nessuno storico fiorentino riflette sulla conservazione di un regime politico tout court-, ognuno si preoccupa di chiarire come è possibile fare in modo che l'assetto istituzionale che giudica il migliore possa resistere a quel complesso insieme di fattori di logoramento che il tempo porta con sé. Inoltre la struttura dello stato fiorentino (città indipendente con dominio) complica ulteriormente le possibili valenze dell'intenzione di conservare lo stato.

Ad esempio conservare lo stato può voler dire mantenerne l'indipendenza, così che i cittadini non debbano obbedire né pagare tributi a persone estranee allo stato, non debbano riconoscere nessun potere superiore al loro organo sovrano, non abbiano truppe straniere in casa. Ma a questo punto bisognerebbe chiarire qual era, per gli scrittori fiorentini, l'unità politico-territoriale che doveva conservarsi.

E certamente la città l'unità statale minima sovrana e indipendente che essi intendono «conservare»: dunque Firenze; la formazione statale dominante più dominio pone però altri problemi. Infatti a rigor di termini conservare l'indipendenza della Francia significa mantenere indipendente anche una qualsiasi regione che faccia parte del regno di Francia e che in esso si riconosca; così si dovrebbe parlare di indipendenza dello stato fiorentino e di Pisa. Ma i Fiorentini sanno benissimo che i Pisani fanno parte di un dominio e non partecipano al processo decisionale dell'organismo politico di cui fanno parte: i Pisani si sentono privati della loro indipendenza e i Fiorentini li considerano sudditi. Per i repubblicani fiorentini sia di parte popolare che di parte aristocratica conservare lo stato nel senso di mantenerlo indipendente significa quindi conservare l'indipendenza della città dominante e insieme ad essa il dominio su un territorio da lei assoggettato. Né questo limite così angustamente cittadino (brillantemente studiato da Gennaro Sasso e Giorgio Cadoni in relazione alla questione delle «armi proprie» a Firenze) viene superato in sede di riflessione più teorica: non viene nemmeno prospettata la possibilità che dal rapporto di conquista tra una città e il territorio circostante possa scaturire uno stato nuovo, in cui le classi dirigenti delle comunità annesse partecipino al potere sovrano.

Conservare lo stato, lo si è già accennato, può voler dire anche conservare un determinato regime, per dirla con i Fiorentini, una determinata forma di governo: può voler dire mantenere la libertà, cioè un ordinamento libero all'interno della città (dominante), oppure un qualsiasi altro assetto di potere (un principe, un papa, un'oligarchia possono conservare lo stato, nel senso di restare al potere). Per i repubblicani, come è ovvio, il problema è quello di mantenere, e nel caso riconquistare, la libertà.

La parola libertà appare un numero infinito di volte nei testi fiorentini ed è usata con molteplici accezioni che implicano utilizzi diversi della tradizione cittadino-repubblicana. Nel complesso credo si possa dire che la sua accezione privatistico-difensiva preoccupi poco gli scrittori fiorentini, impegnati come sono a sostenere gli interessi di ceti in ogni caso numericamente molto limitati rispetto alla popolazione complessiva della città. La libertà nel pensiero del Rinascimento è un concetto connesso agli «ordini» costituzionali, è essenzialmente una questione di partecipazione: essere liberi vuol dire partecipare al governo della città, essere cioè cittadino in uno stato in cui sia attuato il vivere politico. Il concetto di libertà che emerge dalle pagine di Machiavelli, Guicciardini, Giannotti, Brucioli può essere ricollegato al libro ih della Politica di Aristotele, là dove viene posto l'interrogativo su chi sia il cittadino. Certo il cittadino come lo vuole Aristotele ha caratteristiche giuridiche, sociali e comportamentali diverse da quelle, ad esempio, del «beneficiato» fiorentino, ma l'essenza della concezione aristotelica del cittadino (e quindi del vivere politico e quindi ancora della libertà) passa nel pensiero repubblicano rinascimentale senza sostanziali innovazioni teoriche.

Il cittadino non è dunque colui che è libero di fare ciò che vuole nei limiti della legge, cioè semplicemente il libero non schiavo; è invece colui che ha il diritto di partecipare (e che di fatto partecipa) al processo decisionale pubblico e all'amministrazione della giustizia. C'è da dire che Aristotele oscilla tra una visione filosofico-formale del problema e una visione giuridica, legata al diritto positivo. Nel primo caso il 'vero' cittadino è colui che partecipa, per cui coloro che non partecipassero, per motivi di tempo, di lavoro, etc., alla vita pubblica sarebbero in realtà 'falsi' cittadini, anche se l'ordinamento riconoscesse loro la cittadinanza; sarebbero in sostanza cittadini solo de iure, che però non realizzano l'essenza, il fine del cittadino. Nel secondo caso il cittadino è colui che è tale secondo l'ordinamento costituzionale della sua città.

Ebbene: la prima prospettiva, così fortemente filosofica, è pressoché assente dalle riflessioni politiche fiorentine; esse si concentrano sul problema della partecipazione ai Consigli, sulle modalità di elezione delle magistrature e non sulla definizione teorica di chi sia il cittadino. Lo scontro politico, e il conseguente confronto tra gli apparati ideologici popolare e aristocratico, avvengono (fino a un certo periodo) non sui princìpi generali del sistema (repubblica, consigli elettivi, libertà, un determinato rapporto dominante-dominio), quanto su chi decide cosa, sull'allargare o il restringere il fluttuante e spesso del tutto empiricamente determinato confine tra chi gode, potremmo dire, di diritti politici e chi no: discutere di questo significa di fatto discutere su chi debba essere cittadino.

2.3. Repubblicani popolari e repubblicani aristocratici: i miti ideologici, il giudizio su Machiavelli.

Per i sostenitori del Consiglio Grande il popolo, come nella tradizione classica, è vaso di saggezza, garanzia di libertà ed «equalità», depositario dell'amor di patria e dell'interesse generale della città; per gli ottimati è, e siamo sempre nella tradizione classica, massa bruta e strumentalizzabile, bestia senza testa che deve affidarsi a coloro che hanno appreso la prudenza del «maneggio» delle cose pubbliche dall'educazione familiare.

Un altro idolo polemico-ideologico della fenomenologia mentale aristocratica è quello della necessità della speditezza e della segretezza nella decisione politica; si tratta di argomentazioni ideali per supportare un programma basato sul restringimento del numero dei deputati a deliberare e sulla loro non responsabilità di fronte a un'assemblea più larga. Ad esse i popolari contrappongono il mito della pubblicità e della trasparenza delle decisioni, della finale sovranità del popolo in assemblea, salvo poi a ricorrere, in linea con il tipico modo di agire dei governi radicali nei momenti di forte tensione, a consigli ristretti speciali e alla manipolazione dei desiderata della maggioranza della stessa assemblea larga.

Fa parte della fenomenologia mentale di ampi settori dello schieramento repubblicano-popolare fiorentino l'intreccio tra valori politico-civili e religiosità civica (e questo in un filone di pensiero come quello repubblicano-cittadino in genere lontano dal senso della sacralità e dalla visione teologica del potere politico). Di tale intreccio i grandi, quando non se ne servano per ambizioni personali o quando non siano spiriti particolarmente pii, temono le valenze popolari e misticamente egualitarie; e, una volta vittoriosi, ironizzano sul fideismo irrazionalistico foriero di errori e di demagogia.

Convinzione radicata e quasi cieca dei repubblicani è il ritenere Firenze soggetto «capacissimo» all'instaurazione di una repubblica ben ordinata e duratura, e in particolare di una repubblica mista.

I popolari continueranno a crederci per decenni; gli aristocratici smetteranno di crederci dopo aver perso la speranza di poter instaurare la loro repubblica ben ordinata. Si tratta comunque di un'affermazione ripetuta con insistenza, quasi un tòpos doveroso, e appare talvolta più il presupposto che non il risultato dell'analisi. Alla base di essa ci sono delle idee cardine della tradizione cittadino-aristotelica. Infatti da un lato si ritiene che un determinato assetto istituzionale possa influire non solo sui comportamenti politici ma anche sui «costumi», cioè sull'indole, sul modo di atteggiarsi dei cittadini nella vita pubblica e privata; dall'altro però si afferma, con Aristotele, che una costituzione deve essere adatta, pena l'impossibilità di riuscire e di durare, alla composizione sociale della popolazione dello stato, financo alla sua «natura», che è poi il risultato di un complesso di fattori quali l'origine, il sito, il clima, l'abitudine, l'educazione, e anche la stessa struttura sociale. La «natura» di un popolo (che è sì il risultato di influenze ambientali e di un processo storico, ma che finisce per diventare un elemento oggettivamente dato, quasi biologico) costituisce pertanto il limite invalicabile entro cui fare progetti politici per quel popolo; d'altro canto, lo si è detto, gli ordinamenti sono quasi in grado, oltre che di plasmare «costumi» di una popolazione, anche di influenzarne la «natura».

Il repubblicano popolare aristotelico è sensibilissimo al tema dei «costumi », al fatto cioè che i cittadini si comportino con rispettosa gravità nei pubblici Consigli; che provino un misto di giusto timore e di fiduciosa venerazione per le magistrature; che amino la patria; che abbiano un profondo e convinto rispetto per le leggi; che non cerchino vie straordinarie per affermarsi ed esauriscano invece le loro ambizioni nell'ambito degli ordinamenti cittadini (donde il modello dell'eroe eminente che si autolimita e si pone a disposizione della repubblica, come il Sarvognan giannottiano). Nella repubblica ben ordinata il buon cittadino deve vivere con lo stesso spirito la dimensione pubblica e quella privata; i giovani non siano arroganti ed entrino nell'agone politico ispirati dalla prudenza e dal rispetto per gli anziani; il comportamento sia sempre modesto e verecondo; il lusso non sia eccessivo. Diversissimi, agli occhi dei popolari, sono invece i costumi in una società dove non viga l'«equalità» e dove prevalgano invece comportamenti nobiliari, servili e cortigiani: quelli ad esempio dei giovani fiorentini che circondano i rampolli medicei, giovani chiassosi, scalmanati, impudenti, soldateschi, involgariti dall'impunità; o quelli di coloro che si inchinano, si tolgono il cappello, fanno anticamera nei palazzi di privati cittadini o, più tardi, del duca.

Di tutto questo complesso di miti ideologici ereditati dalla tradizione cittadino-repubblicana anche la visione politica dei repubblicani aristocratici è in certa misura partecipe. Infatti l'apparato ideologico-espressivo degli ottimati, pur differenziandosi nei modi di cui si è detto da quello popolare, ne condivide la tendenza verso la repubblica ben ordinata e materiata di valori civili; con la differenza che essa appare possibile solo lì dove i migliori, i sapienti, i raziocinanti abbiano a loro disposizione gli strumenti istituzionali per prevalere, e il popolo, emotivo e inesperto, non ostacoli le loro decisioni. Anzi, in alcuni scrittori di parte aristocratica è dato cogliere talvolta quasi stupore per il fatto che il popolo «non si contenti» di essere guidato dai savi.

Un ultimo tema su cui vorrei soffermarmi è quello del diverso atteggiarsi dei due schieramenti politico-ideologici nei confronti del dirompente pensiero di Niccolò Machiavelli, che a partire dalla fine del secondo decennio del secolo assume il ruolo di vera e propria discriminante tra le parti in lotta.

Se per i popolari Machiavelli diventa ben presto un maestro, all'opposto coloro che auspicano un ordinamento «stretto» diffidano delle opinioni del segretario fiorentino e dell'impianto culturale che le supporta, di cui colgono la funzionalità a una soluzione «larga», popolare e civica del problema del governo cittadino e di quello fiorentino in particolare. Quest'atteggiamento diffidente, che sopravviverà al repubblicanesimo aristocratico per diventare una delle costanti del pensiero politico sia principesco che neonobiliare e oligarchico nel corso del Cinquecento, si esprime, tra l'altro, nell'avversione per Roma antica come modello di esperienza repubblicana e soprattutto per il pregnante uso politico, talvolta provocatoriamente tendenzioso, che Machiavelli fa della storia romana. Così come tutti i 'conservatori' del secolo polemizzeranno contro l'idea machiavelliana della necessità per una repubblica di espandersi: a parte la quasi impossibilità di una prospettiva di espansione per gli stati italiani del secolo XVI, è certo che tutti gli avversari della repubblica popolare (vale a dire di un regime fondato sulla prevalenza dei ceti medi), da Guicciardini a Scipione Ammirato, hanno rifiutato, e direi in maniera lucida, l'intreccio machiavelliano tra ruolo politico della plebe (in senso romano, non fiorentino) e necessità di espandersi, tra una costituzione democratica, il popolo in armi (la «milizia propria »), e una politica estera aggressiva. Né la complessiva avversione aristocratica per le armi proprie (mito, per contro, quant'altri mai connesso alla mentalità popolare-larga) viene scalfita dalle posizioni di alcuni importanti aristocratici che, soprattutto nella prima parte della loro vita, avevano sostenuto l'idea di una milizia non mercenaria, animati da un forte senso dello stato e da un quasi nostalgico vagheggiamento per una repubblica ben ordinata.

In linea generale, comunque, c'è da notare che le tesi di Machiavelli vengono giudicate a Firenze, sia da parte repubblicano-popolare, sia da parte repubblicano-aristocratica, sia da parte medicea, con un atteggiamento del tutto normale, non scandalizzato né moralistico. Le argomentazioni di Machiavelli vengono ampiamente assunte dai contemporanei e dalla generazione immediatamente successiva (si veda quanto detto in alcune note di commento ai testi di Donato Giannotti, Antonio Brucioli, Filippo de' Nerli, Bernardo Segni, Benedetto Varchi); diventano anzi quasi canoniche, segno di una larga diffusione e di un massiccio ingresso nella forma mentis e nella cultura degli storici e politici della prima metà del secolo. In alcuni casi vengono confutate, ma gli avversari mostrano di considerarle nell'ambito del sistema mentale ed etico corrente e di combatterne, a seconda della posizione di chi scrive, solo le scelte da un lato principesche e dall'altro popolari, che nell'opera machiavelliana erano còlte come giustapposte e difficilmente integrabili in un'unica prospettiva politica.

Per alcune altre considerazioni relative a ulteriori esiti e problemi del machiavellismo e dell'antimachiavellismo nel secondo Cinquecento rimando alla Nota introduttiva a Scipione Ammirato.

3. Verso l'ideologia monarchica

È noto come l'impossibilità di instaurare uno stabile regime ot- timatizio e il radicalizzarsi, per contro, della repubblica del 15271530 abbiano spinto la stragrande maggioranza degli aristocratici fiorentini ad appoggiare una soluzione medicea radicale, e non più compromissoria come in passato, della crisi politica della città. Mentre si va consolidando un regime che abbandona i caratteri cittadino-principeschi che aveva mantenuto dai tempi di Cosimo il Vecchio per diventare formalmente monarchico, si afferma parallelamente una cultura politica (vale a dire, anche in questo caso, un apparato ideologico ed espressivo) che si rifà all'altro grande filone del pensiero politico occidentale, quello monarchico appunto, intrecciandone gli elementi costitutivi con gli specifici interessi del nuovo assetto di potere e con tematiche attinte dalla tradizione locale.

Questa affermazione conosce tre diverse fasi, durante le quali si assiste anche al modificarsi dell'estrazione e del ruolo sociali di chi scrive di storia e di politica. Si assiste altresì, come è facile aspettarsi, al prevalere delle opere storiche su quelle politiche; infatti fino a quando di uno scontro politico sono possibili vari esiti, è naturale che le parti impegnate nella lotta producano progetti, interventi, polemiche; quando uno degli esiti ha prevalso in modo pressoché irreversibile, gli interventi politici perdono gran parte del loro significato e si diffonde l'esigenza di ripercorrere, di capire, spesso di giustificare quanto accaduto, si analizzano le cause della sconfitta e della vittoria, si recrimina, si celebra.

3.1. Gli aristocratici dal compromesso alla reazione.

La prima delle tre fasi è quella che vede l'aristocrazia fiorentina schierarsi, in molti casi di mala voglia ma perciò stesso con radicale ed esasperata determinazione, dalla parte del papa Medici. La vittoria di questa parte rappresenta, paradossalmente, la sconfitta definitiva del progetto repubblicano oligarchico. Donde le ultime oscillazioni, gli ultimi scrupoli di coscienza, gli ultimi tentativi di alcuni tra i maggiori ottimati fiorentini di elaborare soluzioni che, pur svuotando completamente di significato il repubblicanesimo e l'autonomia della città, salvino una residua apparenza formale di libertà o salvino per lo meno, per dirla con Machiavelli, la loro anima.

La linea che prevale è comunque quella dell'accettazione del dato di fatto che un governo autoritario costituisce ormai la sola garanzia contro il ripetersi della «grande paura» dell'ultima repubblica. L'atteggiamento degli ottimati filomedicei è quello tipico della 'reazione', animato com'è dalla decisione e financo dalla spietatezza nel voler esorcizzare un ritorno del popolo al potere e, forse, le loro stesse residue esitazioni. Ciò che colpisce infatti in alcuni scrittori di parte aristocratica dei primissimi anni Trenta è il cinismo con il quale vogliono, possiamo dire machiavellianamente, «assicurarsi», anche a costo di delegare il loro potere al «principe» e di rinnegare quanto avevano sostenuto negli anni precedenti.

Si tratta di una vera svolta culturale e, pertanto, espressiva. Si confrontino i pareri di Francesco Guicciardini, di Luigi Guicciardini, di Francesco Vettori, di Roberto Acciaiuoli redatti intorno al 1530 o, più tardi, le considerazioni di Filippo de' Nerli nei Commentarii, con quanto il repubblicanesimo aristocratico, pur legato da grossi interessi al papato mediceo, aveva affermato nei pareri di dieci anni prima; o ancora con quanto aveva elaborato a livello più teorico con lo stesso Francesco Guicciardini o con il Quemadmodum di Niccolò Guicciardini.

Abbiamo già visto come lo scetticismo aristocratico, così acuto nel cogliere la funzionalità dell'insistenza sui valori civili ai fini politici dei popolari, abbia finito per preparare il terreno all'accettazione dell'assolutismo mediceo e insieme del sistema ideologico- espressivo connesso al potere monarchico. La separazione, così netta e polemica nel pensiero repubblicano-popolare, tra libertà e tirannide, tra cittadino e suddito, tra vivere civile e vivere cortigiano, si era andata attenuando nelle pagine dei repubblicani aristocratici sotto la spinta del pragmatismo e della concezione della politica come tecnica della sopravvivenza e non come valore antropologico. Ora il dado è tratto; nelle voci del ceto che, nonostante la rinuncia obbligata al progetto politico perseguito per decenni - quello di una repubblica aristocratica -, risultava vincitore, alle considerazioni squisitamente politiche si somma lo sfogo psicologico di chi ha molto rischiato e ora può considerare con acredine l'operato e i miti ideologici del radicalismo popolare. Si veda la maramaldesca ironia 'illuminista' con cui Luigi Guicciardini, nel suo Savonarola, si sforza di liquidare il fideismo democratico-religioso dei repubblicani «ostinati». 0 la critica insistita di Francesco Guicciardini ai comportamenti politici dei Consigli larghi nella Storia d'Italia: lo schema narrativo che vede la contrapposizione tra i pochi saggi e i molti testardi, incapaci e superficiali, ritorna con ossessività nel capolavoro guicciardiniano.

Lo sforzo principale degli ottimati, dal punto di vista dello scontro ideologico, è dunque quello di svuotare di valore etico, prima ancora che di validità politica, il repubblicanesimo popolare e poi il repubblicanesimo in sé, al fine di giustificare anche teoricamente quello che poteva venir considerato un tradimento: l'essersi venduti all'aborrito esito principesco della crisi fiorentina. Nonostante ciò questa prima fase del processo di affermazione di una visione politica monarchica è abbastanza deideologizzata; la nota dominante è costituita, come si è detto, dall'aggressività, dalla volontà di farla finita con le oscillazioni e i compromessi del passato, senza che per questo i grandi facciano propri i valori del principato e senza che essi passino ai modi di una cultura monarchico-cortigiana. Guicciardini e Vettori non contribuiscono a elaborare i valori del «governo di uno» sulla scia di una secolare tradizione di pensiero che lo aveva considerato il migliore possibile; sembrano piuttosto adattarsi alla tirannide, consci che di tirannide si tratta, senza edulcorarla e senza tentare di inserire il regime di Alessandro o di Cosimo nella categoria aristotelica del «regno», il governo retto di uno.

3.2. La storiografia.

La seconda fase della 'monarchizzazione' della cultura politica fiorentina passa soprattutto attraverso il recupero da parte di Cosimo di alcuni intellettuali un tempo antimedicei o per lo meno molto freddi nei confronti del nuovo assetto istituzionale. Tale recupero si inserisce nel quadro della particolare attenzione di Cosimo I (ampiamente studiata ed evidenziata) verso una determinata politica culturale nel tentativo di ancorare il suo potere a valori legittimanti, desunti dalla tradizione politica monarchica coniugata con la tradizione fiorentina, quali nobiltà, antichità, origini, svuotamento del modello 'romano', pietas religiosa non di tipo civile, mito di Firenze, toscanità, giustizia, concordia. È la storiografia la forma espressiva di questi intellettuali di mezzo, non ancora arrivati, per generazione e per formazione culturale, alla spontanea e totale adesione al principato e alla sua manifestazione più compiuta nell'ambito qui esaminato: la trattatistica principesca. Nella narrazione dell'accaduto, invece, ci si può abbandonare a rapsodiche considerazioni, a commenti meno impegnativi, trincerandosi dietro ai canonici doveri dello storico e approfittando, nel caso, di quel calcolatissimo margine di indipendenza di giudizio che Cosimo concedeva come accorto complemento alla sua strategia di controllo della cultura.

Significativi sono i casi di Segni, Varchi e Iacopo Pitti, storici e letterati a un tempo, non più intellettuali 'cittadini', non ancora intellettuali 'medicei'. Bernardo Segni, aristocratico con simpatie repubblicano-moderate, affida alla sua storia 'privata' uno scontento sordo e non esprimibile pubblicamente. Egli resta in pectore un dissidente, anche se la sua carriera si svolge senza particolari ostacoli al servizio del nuovo signore, se si lascia coinvolgere nelle istituzioni culturali cosimiane e se assume il ruolo, tipico dei nuovi intellettuali medicei, dell'erudito che sostiene il regime se non altro con un atteggiamento asettico e neutrale. Sarebbe difficile aspettarsi da questo intellettuale, che sta a metà tra l'universo culturale dei Rucellai, dei Guicciardini, dei Vettori (per limitarci agli ottimati) e quello degli Adriani, dei Borghini, dei Bartoli, degli Ammirato, un'opera di teoria politica tanto di impostazione repubblicana quanto principesca. Egli, per scelta di campo e per struttura mentale, non si identifica né con coloro che progettano regimi alternativi né con coloro che teorizzano il principato e danno consigli al principe. Ci restano le sue pagine di storia-sfogo, la cui chiave di volta è la considerazione a posteriori che un'azione politica di tipo ottimatizio-moderato condotta con fermezza avrebbe salvato la repubblica alla fine degli anni Venti.

A Varchi, invece, l'opera storica del tutto pubblica, addirittura pagata dal principe, serve in primo luogo come giustificazione; egli cerca di rintracciare nella storia della città i motivi che lo hanno condotto ad accettare le lusinghe di Cosimo: tenta di portare avanti un ragionamento sulle vicende fiorentine volto a supportare una, per il vero umanissima, scelta 'facile' effettuata in un momento duro della sua vita. Il risultato di questo tentativo è eccellente, Varchi ne esce bene. Egli è quello che sfrutta maggiormente il margine di libertà vigilata concesso da Cosimo ed è quello che scrive l'opera storiografica forse più serena del trentennio 1530-1560, senza rinnegamenti moralmente spiacevoli e senza giudizi storiografici manichei.

L'idea base della sua opera mi sembra essere vicina a quella del «principe nuovo» machiavelliano, vale a dire quella dell'indispensabilità di una «potestà quasi regia» (nel caso di Varchi, ovviamente, del tutto regia) in una città corrottissima. Non paiono esserci, per lui, profonde responsabilità politiche di parte, proprio in quanto tutti ne hanno: la corruzione era ormai strutturale nella Firenze tardo-repubblicana. Ci sono stati certo molti errori, ma le condanne di Varchi sono per lo più individuali, motivate da comportamenti indegni e da meschinità dei singoli. Egli simpatizza per i repubblicani, ma si tratta più di un vagheggiamento affettivo che non di una profonda convinzione politica e del resto - e forse sta qui la principale novità del suo essere storiografo - egli non era un «beneficiato», non poteva essere, quindi, un cittadino di tipo aristotelico; era invece un intellettuale di mestiere, legato al repubblicanesimo più dalle amicizie e dalla suggestione culturale che da precisi interessi. Anche Varchi si colloca pertanto in una posizione intermedia: non è più motivato a pensare ed esprimersi secondo i moduli cittadino-repubblicani né tanto meno a coniugare cultura classica e impegno politico, ma neanche è disposto a diventare un dotto completamente asservito ai disegni culturali di Cosimo.

Un terzo atteggiamento di passaggio è quello del giovane Iacopo Pitti, che interpreta il successo dei Medici come frutto del collegamento base-vertice (popolo-principe), al quale guarda con favore, in funzione antioligarchica. Si tratta di una situazione detestata come poche altre dall'ideologia cittadino-repubblicana sia popolare (che la interpreta perlopiù come congiunzione tra plebe e principe ai danni del ceto medio) che aristocratica; costituisce invece uno dei temi più tipici e amati dalla tradizione monarchica.

Il governo di uno appare, sulla base di questa interpretazione, una forma di salvezza dei ceti più deboli nei confronti della prepotenza nobiliare. Siamo in presenza di una concezione diametralmente opposta a quella del repubblicanesimo, ad esempio, di un Giannotti, per il quale la tirannide rappresenta l'estremo tentativo dei grandi per mantenere il loro ruolo privilegiato nella città; una concezione però che possiamo anche riferire a un aspetto del pensiero machiavelliano (il principe che «spegne» i grandi in quanto la loro forza impedisce qualsiasi forma di vivere civile). Se ai repubblicani-popolari-aristotelici, esponenti, è inutile ribadirlo, di interessi largamente minoritari nelle città italiane, faceva paura il non 'civile' connubio tra plebe e principato, Pitti sposta i termini della questione e considera invece i popolari come secondo termine dell'accoppiata 'molti-uno', mettendo in mezzo questa volta non il popolo (che a Firenze rappresenta appunto i «molti» della tradizione cittadino-repubblicana), bensì i «pochi», gli ottimati: Cosimo, sostenuto all'inizio da questi in quanto difensore dei loro interessi, ne delude le attese e ne combatte i privilegi.

La posizione di Iacopo Pitti, che possiamo definire antiguicciardiniana, è distante, come si è visto, dalla tradizione cittadino-repubblicano-popolare, di cui modifica i contenuti sociali, e rappresenta quasi certamente una forzatura della reale situazione fiorentina degli anni Venti e Trenta. Pur tuttavia egli coglie uno degli aspetti più significativi della politica medicea, e di Cosimo in particolare: cercare di liberarsi dal condizionamento degli ottimati fiorentini per raggiungere una maggiore autonomia di azione e per rendere più omogenee di fronte al suo potere le componenti sociali dello stato toscano (grandi, popolo e plebe di Firenze; sudditi del dominio nelle loro complesse articolazioni). Si tratta senza dubbio di una strategia in grado di contribuire al discreto consenso di cui potè godere il regime cosimiano, anche se è da notare, proprio in relazione alle tesi di Pitti, che la parte più riottosa nei confronti della politica di Cosimo rimase proprio quella popolare fiorentina, quella che annoverava nelle sue file la maggior parte dei membri dell'assemblea larga.

Alla base dell'atteggiamento intellettuale di transizione c'è dunque uno sforzo, ci sono dei ragionamenti mediante i quali arrivare a una giustificazione della propria adesione a un regime dubbio dal punto di vista della tradizione etico-politica della città. Può trattarsi, come nei tre casi qui esaminati, di uno sforzo di simulazione, oppure di giustificazione personale, oppure di analisi politica: comunque sono posizioni ancora lontane dalla pacifica accettazione- celebrazione del principato, della sua legittimità, della dignità etica e culturale dei suoi valori che già caratterizzava i nuovi intellettuali cosimiani. Con questi ultimi siamo alla terza fase del processo di affermazione di una cultura politica e di una fenomenologia mentale ed espressiva principesche che diventano dominanti a Firenze in tutti i generi letterari in cui si parli di stato, di potere, di valori pubblici della comunità (e perciò nei testi politici, nella storiografia, nella biograna, nelle orazioni celebrative e funerarie, in molte opere di argomento erudito, antiquario, genealogico).

3.3.1 Nuovi intellettuali medicei.

Giambattista Gelli, Pierfrancesco Giambullari, Cosimo Bartoli, Vincenzio Borghini, Giovan Battista Adriani, Giovan Francesco Lottini, Scipione Ammirato (ad essi se ne potrebbero aggiungere molti altri per i quali rimando all'elenco di testi posto in chiusura di questa Introduzione): sono i nuovi intellettuali medicei, i nuovi storici, politici, biografi, eruditi che subentrano alla tradizione degli storici e politici «cittadini». Nessuno dei cognomi elencati, con l'eccezione dell'Adriani, rimanda a una famiglia che abbia avuto un ruolo nella vita politica della repubblica; nessuno di essi discende da eminenti «popolani» fiorentini; alcuni non sono nemmeno fiorentini; alcuni sono ecclesiastici; i più sono intellettuali di professione; la loro vita è lontanissima dagli ideali e dai ritmi del cittadino aristotelico.

Il principato origina e incoraggia una cultura storico-politica diversa da quella dell'umanesimo urbano; essa elimina radicalmente il classicismo civile, senza il quale la cultura repubblicana fiorentina sarebbe inconcepibile. Agli intellettuali è tolta la possibilità, direi la ragione stessa del progettare politicamente: non ci sono più assetti istituzionali da proporre per Firenze e la nuova forma di trattatistica è il consiglio al principe; dalla lezione delle cose antiche e dall'esperienza delle moderne si possono tutt'al più ricavare massime di comportamento, politico o morale, non finalizzato ad alcuno specifico esito sociale e istituzionale.

La lezione delle cose antiche si amplia. Si dia uno sguardo alle note storiche e di commento apposte a testi machiavelliani o in questo volume ai testi di Donato Giannotti, Antonio Brucioli, Bartolomeo Cavalcanti; si dia poi uno sguardo alle note relative ai testi di Giambullari e di Ammirato. Nelle prime prevalgono, talvolta in modo esclusivo, i classici greco-latini e gli storici fiorentini; nelle seconde si aggiungono autori quali Eusebio, Tertulliano, Giovanni Diacono, Gregorio di Tours, Vincenzo di Beauvais, Teodoreto di Ciro, Liutprando, Giovanni Albino, Gilbert Genebrard, Aimoino di Fleury-sur-Loire, Vitichindo di Sassonia, Ottone di Frisinga, san Tommaso. Sono fonti di tipo ecclesiastico e medievale, due filoni del tutto assenti nella cultura storica e politica cittadino-repubblicana. Ad essi si aggiunge il nuovo classico tra i moderni, Francesco Guicciardini, che diventa perfettamente utilizzabile come riferimento autorevolissimo perché in primo luogo ci si rende conto che la Storia d'Italia è un capolavoro che abilita i moderni a stare alla pari con gli antichi; in secondo luogo Guicciardini è stato nel complesso un gran servitore dei Medici; in terzo luogo la sua opera, così disincantata dal punto di vista del giudizio sull'uomo e sulla possibilità di conoscere-controllare la storia, non rischia di condurre ad antropologie pericolose e mobilitanti. L'opera di Guicciardini è vista un po' come quella di Tacito: uno straordinario campionario di azioni umane, di azioni soprattutto dei potenti della terra, redatto da un autore saggio, morale, scettico e disilluso. Di lui, inoltre, non si conoscevano gli scritti politici, così pervasi dal vagheggiamento di una repubblica ben ordinata.

Si riscoprono, dunque, il Medioevo e l'erudizione europea e questo certamente a causa delle letture e delle curiosità culturali di studiosi la cui collocazione sociale è diversa, come si è detto, da quella dei cittadini-letterati repubblicani; ma forse anche per il fatto che della cultura classica si intuisce la potenziale carica 'civile' e universalistica, cui andavano invece contrapposte le tematiche pietoso-monarchiche e il tentativo di costruire una tradizione locale regionale. Si allargano anche i confini delle vicende narrate dalla storiografia; si parla di storia italiana ed europea, spesso del tutto svincolate dalla tradizionale giustificazione degli storici fiorentini, che affermavano di essere costretti a volgere lo sguardo ai fatti esterni per capire le vicende cittadine; compaiono anche pagine di storia esotica, della Turchia e della Persia; e pagine di storia non contemporanea, anch'essa considerata fine a sé stessa e non come introduzione alle problematiche della Firenze del secolo XVI. A questi fenomeni si accompagnano il progressivo allontanarsi dell'opera storiografica da interessi politici (che anzi, in qualche misura, si colloca all'origine di essi) e il crescente interesse per la ricerca minuta ed erudita.

I nuovi intellettuali medicei si muovono per lo più nell'ambito di istituzioni culturali strettamente controllate dal potere; coltivano studi linguistici e di erudizione a difesa e valorizzazione della toscanità, risalendo al Medioevo, al mito etrusco e ancora più indietro: la teoria aramaica, il mito noaico. Scrivono biografie dei loro signori o li celebrano in orazioni e trattati dai quali si deduce che il modello da presentare al lettore (De optimo . . ., Il vero governo . . .) esiste già nella realtà, realizzato dalle grandi figure che essi lodano, alle quali la nobiltà dei natali e del parentado garantisce già una elevatissima percentuale di virtù. Scrivono storie, ancorché bellissime, dove ogni atto di aggressione da parte del principe è presentato come una dolorosa scelta cui egli è stato costretto per preservare la quiete e la libertà d'Italia. Scrivono opere che dimostrano come la vera politica sia morale e come sia quindi conveniente dal punto di vista politico comportarsi moralmente; e dimostrano anche come siano in realtà morali le deroghe alla morale che devono concedersi ai principi.

Rimandando, per l'approfondimento di queste considerazioni, alle Note introduttive a Giambullari, Adriani e Ammirato, vorrei qui soffermarmi su alcuni aspetti dell'ideologia monarchica e in particolare sull'innesto della secolare tradizione espressiva e di pensiero sul governo retto di uno nelle esigenze dello stato mediceo del secolo XVI.

Sono due gli elementi più significativi nel complesso di argomentazioni che nel corso dei secoli hanno sostenuto ideologicamente il governo monarchico nelle sue varie manifestazioni: la giustizia e la religione.

La suprema positività del governo retto di uno sta nella sua possibilità di fare giustizia con equità: il principe è in grado così di intervenire in tutte le fattispecie che si possano presentare, mentre la legge in primo luogo non può prevederle tutte (come già avvertiva Aristotele), in secondo luogo può essere espressione degli interessi di singoli gruppi (e ritorniamo alla domanda: «chi fa la legge?» in grado di mettere in crisi il principio del primato delle leggi). Per la sua capacità di essere giusto in tutti i casi possibili, il governo retto di uno era stato giudicato dalla tradizione di pensiero monarchico come la migliore forma di governo. Questo però più in linea tendenziale che non nella realtà: infatti questo «uno» dovrebbe essere il più saggio di tutti, dovrebbe essere quasi un dio che si distacchi dagli altri nella sua imperturbabile saggezza; proprio perciò Aristotele passa a considerare quale sia la migliore forma di governo prescindendo da questa, che gli appare utopica.

Ma l'«uno» quasi divino rappresenta solo un tipo di esito della riflessione politica monarchica. I sostenitori dell'Impero, o del re di Francia, o dei signori italiani sono molto più di bocca buona: anche nei limiti di comportamenti non divinamente saggi, il governo di uno garantisce più di ogni altro la giustizia e tutela le aspettative di equità di tutti i membri della comunità statale più di quanto non faccia un complesso sistema di leggi che oggi chiameremmo garantiste. Siamo al rovesciamento del primato delle leggi: il principe retto rappresenta una difesa per i più deboli e compensa le divaricazioni dei diritti e dei privilegi dei sudditi; le caratteristiche del suo potere sono l'opposto di quelle del tiranno che stupra vergini e deruba orfani.

Questa identificazione del principe con la giustizia, e di questa con il giudizio di equità e non con l'applicazione delle leggi, comporta l'accettazione, anzi l'esaltazione della sua discrezionalità, del fatto che tutto il bene non possa venir che da lui. Ne conseguono l'elaborazione di una teoria del comportamento fondata sul tentativo di accattivarsi i suoi favori, di un'etica anche pubblica caratterizzata dall'imprevedibilità di un rapporto personale tra disuguali, di una gestualità basata sull'omaggio e sull'attesa. Tutto questo è detestato dalla mentalità cittadino-repubblicana (ricordiamo il tema dei «costumi»), che vede la realizzazione della natura politica dell'uomo nella certezza, garantita dalla legge, di poter esprimere liberamente la propria opinione.

La tendenza alla privatizzazione della decisione pubblica, che abbiamo visto essere propria di una visione aristocratico-oligarchica del potere cittadino, viene nel caso del principato portata ai suoi estremi limiti: l'atto decisorio del principe è privatissimo, maturato il più delle volte in una ristrettissima cerchia di collaboratori che non sempre costituiscono un organo istituzionale. Là dove nel repubblicanesimo aristotelico c'era l'ossessione della pubblicità e del controllo, ci sono ora la segretezza, l'imperscrutabilità, l'arcano, tutti elementi considerati indispensabili tecnicamente alla gestione dello stato e che estremizzano anch'essi temi già cari alla mentalità aristocratica, quali appunto la segretezza, la prestezza nelle decisioni, la concentrazione del comando.

Tutto ciò è considerato positivo nel caso del principe legittimo e giusto: il suo vantaggio si identifica con il vantaggio dello stato. I problemi sorgono nel caso in cui il principe non sia giusto, e d'altra parte ci si chiede se può esistere un potere monarchico giusto ma illegittimo, usurpato. Un'analisi delle questioni sollevate in linea generale da questi interrogativi è qui impossibile: mi limito pertanto a gettare uno sguardo su come si pongono i Fiorentini nei confronti di esse.

Mi sembra che gli intellettuali medicei non se ne curino molto o evitino di affrontarle; dato che ritengono la fenomenologia del tiranno lontanissima dalla realtà del principato mediceo. Così non ha molto senso per loro analizzare le implicazioni teoriche di un governo monarchico ingiusto e illegittimo: il loro sforzo è quello di convincere tutti che il governo mediceo è giusto e legittimo. Per quanto riguarda il principe non retto e l'identificazione o meno del suo interesse con quello generale, alcuni (e cioè Bernardo Segni, un dissidente in segreto, ma anche, tra le righe, i più allineati Giovan Battista Adriani e Scipione Ammirato) elaborano quasi una teoria della rassegnazione o addirittura una didattica della sofferenza, sfuggendo a un confronto teorico con la questione: affermano infatti di voler mostrare ai Fiorentini, che sono stati incapaci di gestire la loro libertà, come devono comportarsi ora che si trovano a subire il meritato giogo del principe. Ma nel complesso, trovandosi di fronte a Cosimo e ai suoi successori, il trattatista e lo storico non esitano, ad esempio, a considerare la deroga morale concessa al principe (la Ragion di stato, che è una deroga morale moralmente accettabile) perfettamente coincidente con i bisogni della comunità; nell'atteggiamento di tripudiante omaggio in cui l'intellettuale scrive e porge le sue opere, «conservare lo stato» perde ogni possibile connotazione di mantenimento di un potere personale, di un potere di parte e tutto l'accento si sposta sulla difesa dell'indipendenza dai pericoli esterni e della pace e della tranquillità, a tutti gradite, dalle turbolenze interne.

Riguardo alla legittimità ancora una volta si prendono le distanze dal repubblicanesimo che o non si poneva il problema (in quanto il potere risiede naturalmente nei cittadini, negli ànthropoi politici non meccanici), oppure accettava come dato di fatto che la lotta per il potere prevalesse sui valori giuridici, sulla scia della storia italiana tre-quattrocentesca costellata dall'ascesa violenta di principi «nuovi» (ed è il caso, su tutti, di Machiavelli e, per altri versi, di Francesco Guicciardini). Abbiamo altresì visto come il pensiero aristocratico in via di abdicazione avesse sottolineato come ogni potere sia usurpato e violento e come, per contro, possa risultare poi buono indipendentemente dalla sua origine, legittimata o meno da procedure di tipo repubblicano (volontà che sale dal basso) o monarchico (diritto divino, investitura, discendenza oppure, anche in questo caso, elezione dal basso).

Gli intellettuali medicei, i quali non devono limitarsi a celebrare l'esistente ma devono soprattutto legittimarlo, non possono correre rischi, non possono accettare visioni pragmatiche della nuova signoria pervenuta definitivamente al potere in una città la cui tradizione e la cui «natura» erano tenacemente repubblicane. Vale a dire non possono limitarsi a fondare la legittimazione di Cosimo solo sulla sua «bontà», né quella dei Medici solo su una vittoria ottenuta con la maggiore abilità politica o con la forza militare, e neanche solo sul loro ruolo di pacificatori e riordinatori di una città corrottissima. Essi hanno bisogno di una fonte di autorità non legata all'individualità del principe o alle contingenze della lotta che lo ha condotto al potere.

Le argomentazioni a loro disposizione sono quella della volontà imperiale e quella dell'elezione di Cosimo nel 1537; si tratta di legittimazioni entrambe pericolose, perché potrebbero ledere l'autonomia del principe, che vede la sua autorità promanare da fonti in grado di ritirarla e verso le quali risulta responsabile. Questo pericolo è in realtà insito in qualsiasi ricerca di legittimazione all'indietro di un potere monarchico e ad esso si sfugge solo con il diritto divino che è ovviamente indimostrabile dal punto di vista giuridico. Non essendo, potremmo dire, matura la situazione dei Medici per un appello sistematico al diritto divino, ecco che, al fine di attenuare il rischio di cui si è detto, assumono grande importanza, ancorché più sul piano emotivo della ricerca del consenso che non su quello della legittimazione giuridica, tutti quegli scritti erudito-fantasiosi vòlti ad accrescere la dignità del potere mediceo che vanno a costituire quello che di recente è stato definito il «mito etrusco».

Un mito, non a caso, preromano. Si è già parlato, infatti, della pericolosità del modello romano per il principato e del sempre possibile uso 'civile' dell'umanesimo latino. Inoltre dobbiamo considerare che sono temi tipici della cultura prescientifica quelli del prestigio dell'antichità (una famiglia, uno stato sono 'nobili' in quanto antichi) e del carattere impresso a un popolo e a una formazione statale dal tipo di origine che essi abbiano avuto. Tutto ciò si ritrova anche nella tradizione repubblicana, ad esempio nei temi del fondatore, del legislatore, dell'origine libera o servile di una città che condiziona poi il carattere degli abitanti, della nobiltà e della gloria degli antenati. Rifarsi pertanto a un passato precedente a Roma vuol dire ancorarsi a qualcosa di più prestigioso di Roma.

Il mito etrusco è complesso, carico di allusioni accomunate dallo scopo di dimostrare che l'assetto politico del presente non è una novità nella storia toscana, che anzi è la continuazione di una tradizione antichissima, perciò nobile e perciò legittimante. Il carattere originario degli Etrusco-Toscani è segnato dalla forma monarchica, da virtù belliche profondamente congiunte con la pietas religiosa e con la moderazione propria dello stato solido ma non votato all'espansione; gli stessi elementi si ritrovano nella trattatistica della seconda metà del secolo vòlta a supportare ideologicamente la stabilità politica fondata su assetti sociali interni e situazioni internazionali sempre meno modificabili. Ritroviamo infatti, in polemica con le teorie machiavelliane, la tematica dello stato «mezzano» che non si espande; la religione intesa non tanto come suprema legittimazione (diritto divino dei principi), quanto come strumento irrinunciabile di buono ed efficace governo; l'eccellenza del governo retto di uno, con la rimozione della possibilità di un principe cattivo.

E siamo così alla caratteristica principale del tachismo: l'ambiguità, che percorre gli scritti politici, del rapporto volutamente non risolto tra essere e dover essere. E siamo anche, più in generale, al centro del pensiero politico della Controriforma, al tentativo cioè di restaurare la possibilità di una convivenza basata su principi etici e rassicuranti, capaci di dare un fondamento solido alla discriminazione tra bene e male nel giudizio politico. Ciò comporta l'inevitabile polemica con il pensiero di Machiavelli. Di esso non si può più fare a meno se si vuole condurre un'analisi politica che abbia senso; ma va esorcizzato in quanto pericoloso per l'assetto uscito dalle guerre d'Italia e in quanto pensiero impossibile per una società (cioè, in fondo, per tutte le società) che, per il solo fatto di esistere come compagine collettiva, non può assolutamente adottare a livello esplicito come suo il criterio della separazione radicale tra politica e morale (per un approfondimento di quanto detto rimando alla Nota introduttiva a Scipione Ammirato).

Questo gigantesco sforzo di restaurare un universo politico moralmente conoscibile e giudicabile è indispensabile al principe, e a coloro che a lui si appoggiano, giacché un regime basato sul massimo di sottrazione del potere alla società, sull'obbedienza e non sulla partecipazione, non può tollerare il probabilismo morale. L'operazione di rassicurazione su ciò che è buono e sulla reale manifestazione del bene nello stato conduce a un ribaltamento totale del punto di partenza delle riflessioni machiavelliane: per Machiavelli scrivere di politica è uno sforzo militante contro una realtà profondamente corrotta; per contro, ci segnala il Berner, Iacopo Soldani e Lorenzo Giacomini avvertono che si sta vivendo un'età felicissima.

Chissà, forse era vero: Firenze si avvia a vivere i «forgotten centuries », ma si potrebbe anche pensare che quando la storiografia si occupa poco di uno stato in certi periodi della sua storia, questo è un buon segno, per lo meno per i ceti più umili della popolazione.

4. Gli ultimi repubblicani

Mentre si afferma la nuova cultura, quella repubblicana sopravvive ancora per qualche decennio nelle pagine di Giannotti, Cavalcanti, Nardi, Giovan Battista Busini, Galeotto Giugni, Lorenzino de' Medici, anche se quest'ultimo è certamente un personaggio sui generis rispetto al repubblicanesimo cittadinesco, e nelle righe di qualche cronaca. È difficile dire quanto il suo progressivo isterilirsi dipenda dalla sua eventuale interna contraddittorietà, dalla sua distanza dalla realtà sociale fiorentina e toscana o dall'allontanarsi della prospettiva di una vittoria delle forze sulle quali gli antimedicei puntano (su tutte la Francia); così come è diffìcile dire quanto le sue manchevolezze di analisi e di giudizio abbiano influito sull'inefficacia della lotta contro Cosimo de' Medici.

Due sembrano essere le argomentazioni fondamentali della polemica e della teoria politica dei tardi repubblicani fiorentini: la prima è la ricerca di consensi attraverso la denuncia della slealtà e dell'ingiustizia dei vincitori del 1530; la seconda, che abbiamo visto già faceva parte del tradizionale bagaglio argomentativo repubblicano, è l'affermazione che Firenze (e negli anni Cinquanta anche Siena) è «soggetto adattissimo» a un regime repubblicano e in particolare a un governo misto: idea che si basa sul già segnalato assunto teorico che la migliore costituzione per uno stato è quella che corrisponde alla struttura sociale e alla «natura» dei suoi abitanti. La prima argomentazione anima i discorsi e, sia pur in una situazione psicologica diversa, la storia di Iacopo Nardi; la seconda gli scritti di Donato Giannotti e, in certa misura, quelli di Bartolomeo Cavalcanti.

E chiaro che la posizione di Nardi e dei fuorusciti al «processo» di Napoli del 1535-1536 è perdente, legata com'è all'ultima improbabile spiaggia di una visione etico-giuridica della decisione politica. Ma dal canto loro anche Giannotti e Cavalcanti procedono spesso in modo del tutto intellettuale e irrealistico, in quanto che, rovesciando quello che dovrebbe essere il ragionevole modo di esaminare la struttura sociale di Firenze e di Siena, piegano l'analisi in maniera tale da farla corrispondere alle condizioni ritenute ottimali per poter instaurare la forma di governo auspicata (per tutto questo rinvio alle Note introduttive a Nardi, Giannotti e Cavalcanti).

Quello che qui vorrei mettere in luce è come le posizioni dei repubblicani fiorentini in questa fase presuppongano, per poter avere la validità che i loro sostenitori proclamavano, una universalizzazione di esigenze politiche e ideali appartenenti a una fascia di persone, i «mediocri» fiorentini, che ormai costituivano una parte piccolissima della popolazione, si badi bene, non più di Firenze ma della Toscana medicea; mi riferisco ai concetti di popolo e libertà, di onore e utile, alla teoria dei desideri sociali delle diverse componenti della città, a quella della scomposizione del processo decisionale pubblico in consultazione, deliberazione, esecuzione da affidarsi rispettivamente ai «molti », ai «pochi» e ancora ai «molti », e così via. I valori antropologici della tradizione aristotelica, così funzionali alla lotta politica cittadina e all'aggregazione ideologica ed emotiva del ceto medio urbano, perdono intensità in uno stato territoriale dove non è possibile riunire fisicamente i cittadini in un determinato luogo e dove anzi l'idea stessa di cittadino come colui che ha ed esercita i diritti politici è vanificata dall'impossibilità materiale del loro esercizio. Le tematiche del pensiero cittadino-repubblicano hanno un senso solo in uno stato dove la città che abbia conquistato un territorio mantenga il suo ruolo di dominante. Il tentativo di Cosimo di operare, con tutti i noti limiti del caso, un appiattimento di Firenze rispetto al dominio in modo da avere sotto di sé un unico organismo politico, in ogni angolo del quale si possano nutrire le medesime aspettative nei confronti del principe, è vincente proprio perché più «universale» della «libertà» della tradizione repubblicano-aristotelica. L'azione di Cosimo destituisce di ogni fondamento la mitica concezione degli aventi diritti politici (solo Fiorentini) riuniti in assemblea; e la potenziale possibilità di partecipare al governo che il principe concede a qualsiasi suddito dello stato territoriale necessita la riduzione del potere in un unico centro, il principe e il suo entourage, del quale non si ha in nessun caso il diritto di essere membri, ma al quale si viene discrezionalmente cooptati; i criteri di questa cooptazione, in linea di principio, non tengono in nessun conto la distinzione tra cittadini (fiorentini) e sudditi (del dominio).

A questo proposito si potrebbe commentare che i valori della tradizione repubblicano-aristotelica, basati sulla manifestazione di volontà degli aventi diritto a formare il popolo in assemblea, riacquisteranno il loro significato nello stato territoriale allorquando la massa degli aventi diritti politici (che, come nella pòlis, potrà essere più o meno ristretta) andrà a costituire essa stessa l'assemblea larga di prima istanza che si esprime senza bisogno di riunirsi fisicamente, e cioè delegando un'assemblea più stretta, il parlamento, che la rappresenti. Ciò sarà reso possibile, a mio avviso, essenzialmente dallo sviluppo della comunicazione, che sostituirà per l'assemblea di prima istanza (il corpo elettorale per intenderci) il dibattito assembleare; la totalità di coloro che hanno i diritti politici, rimanendo sparsa nel territorio, potrà conferire periodicamente la delega a deliberare proprio in quanto informata degli eventi e delle intenzioni di chi si candida a rappresentarla. Costituirà dunque un immenso Consiglio Grande dove ognuno, come nella tradizione cittadino-repubblicana, si esprime con un voto. In tali condizioni i valori e l'universo politico del repubblicanesimo urbano di marca aristotelica potranno tornare a essere l'asse portante dell'ideologia dei sostenitori dei nuovi assetti politici in senso lato liberali, assetti voluti principalmente dal ceto dei «mediocri».

«Solo la città può essere repubblica» ho detto parlando della cultura politica repubblicana fiorentina. Ebbene, se non erro, non una delle pagine dei repubblicani fiorentini si riferisce a uno stato territoriale in termini di repubblica; non una adombra la possibilità della partecipazione dei non Fiorentini al governo dello stato né mostra di considerare, sia pur al livello tendenziale di ricerca di una soluzione istituzionale per lo stato regionale, Aretini, Pisani o Pistoiesi come concittadini. E se è vero che lo stato di antico regime si articolava in sostanza in un insieme di patti, più o meno paritari o autoritari, tra il governo centrale e una serie di situazioni giuridicamente assai diverse tra di loro (articolazione che in linea di principio non cambia gran che nel passaggio del governo centrale dalla forma repubblicana a quella monarchica), è anche vero che l'avvento del principe di fatto legibus solutus toglie significato al sistema dei diritti politici della città dominante, in base al quale questa si separava nettamente dal dominio.

Né 1' insieme dei diritti e dei privilegi preesistenti sparsi nel territorio che condizionano il principe più dal punto di vista dell'opportunità politica che non da quello dei limiti imposti al suo potere sul piano istituzionale, modifica i caratteri di fondo di quanto detto. L'autorità del principe è teoricamente uguale nei confronti di tutti, anche se poi si articola in un complicato sistema di relazioni differenziate: su questa base è possibile che si metta in moto il processo di identificazione delle classi dirigenti periferiche con lo stato territoriale, processo impossibile nel dominio della repubblica. In sostanza: Aretini, Pisani, e via dicendo, possono andare a dirigere lo stato se chiamati dal principe; mentre nessuno degli scrittori repubblicani ipotizza che possano entrare a far parte dei Consigli e delle magistrature fiorentine.

Non consapevoli della fatale particolarità di una concezione politica e anche antropologica ritenuta universale, gli intellettuali repubblicani fiorentini vivono la loro diaspora malinconica oscillando tra il tentativo di inserirsi nei disegni politici antimperiali e l'assunzione del ruolo mai accettato di intellettuali cortigiani, tra momenti di ripiegamento su attività culturali più sganciate dall'impegno politico e fragili contatti con Cosimo. Credo che con loro muoia, con la sola (parziale) eccezione di Venezia, la figura dell'intellettuale cittadino-aristotelico, per lo meno in area cattolica.

5. La cronaca e la storia

La cultura storico-politica fiorentina e poi toscana tra la fine del Quattrocento e la fine del Cinquecento si esprime, lo si è già detto, attraverso molti 'generi': le cronache e i diari; le storie vere e proprie, considerate tali in base ai criteri formali della tradizione classico-umanistica; le memorie e i commentari (Nardi, Nerli), che si collocano un po' a mezzo tra i due generi precedenti; le biografìe; le genealogie e i libri sulla famiglia de' Medici; l'orazione, politica o laudativa o funeraria; il trattato e il dialogo; il parere o il consiglio politico.

Uno sguardo agli autori. Per le cronache e i diari: numerosi anonimi, Simone Filipepi, Piero Parenti, Bartolomeo Cerretani, Luca Landucci, Tommaso Ginori, Bartolomeo Redditi, Bartolomeo Masi, Filippo, Alamanno e Neri Rinuccini, Baccio Carnesecchi, Giuliano Ughi, Paolo Velluti, Agostino Lapini, Giuliano de' Ricci, Bastiano Arditi, Antonio Marucelli da Sangallo.

Gli storici e i narratori a vari livelli espressivi e formali: Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, Bernardo Rucellai, Biagio Buonaccorsi, Luca Della Robbia, Filippo de' Nerli, Bernardo Segni, Iacopo Nardi, Benedetto Varchi, Francesco Vettori, Iacopo Pitti, Migliore Cresci, Giovan Battista Adriani, Pierfrancesco Giambullari, Scipione Ammirato, Giovan Battista Busini, Giovanni Cambi, Galeotto Giugni, Ludovico Guicciardini, Luigi Guicciardini, Francesco Bocchi.

I biografi, i polemisti e gli eruditi: Machiavelli, Donato Giannotti, Niccolò Valori, Vincenzio Acciaiuoli, Antonio Benivieni, Baccio Baldini, Vincenzio Borghini, Giambullari, Bernardo Davanzati, Paolo Mini, Remigio Nannini, Pitti, Nardi, Segni, Filippo Sassetti, Lorenzo Strozzi, Piero Usimbardi, Adriani.

Gli oratori: Luigi Alamanni, Bartolomeo Cavalcanti, Pier Filippo Pandolfini, Piero Vettori, Cosimo Bartoli, Nardi, Adriani, Ammirato, Leonardo Salviati.

Gli scrittori politici, autori di trattati o dialoghi, oppure di pareri, consigli, progetti: Machiavelli, Francesco Guicciardini, Antonio Brucioli, Giannotti, Cavalcanti, Luigi Guicciardini, Niccolò Guicciardini, Alessandro de' Pazzi, Lorenzino de' Medici, Niccolò Martelli, Roberto Acciaiuoli, Luigi Alamanni, Lodovico Alamanni, Cresci, Giovanni Della Casa, Luigi Velluti, Paolo Arrighi, Bartoli, Ammirato, Francesco Bocchi, Francesco Bonciani, Domenico Cecchi, Giovanni Bernardo Gualandi, Battista Guarini, Giacinto Gucci, Giovan Francesco Lottini, Lucio Paolo Rosello, Ciriaco Strozzi, Francesco de' Vieri, Piero Machiavelli.

L'elenco è in realtà incompleto: altri, di cui non ho conoscenza diretta, se ne potrebbero aggiungere. Esso serve a dare un'idea immediata, visiva, della straordinaria abbondanza di testimonianze che l'ambiente fiorentino ci ha lasciato in uno dei secoli più drammatici della sua storia. Testimonianze che ci arrivano dalle varie componenti della società fiorentina e toscana: il gruppo dei cittadini «mediocri», gli ottimati, i mercanti e i popolani anche fino a livelli piuttosto bassi, gli intellettuali di professione, gli ecclesiastici, i nuovi burocrati e consiglieri anche non toscani.

Se noi ordinassimo cronologicamente le opere e gli interventi degli scrittori compresi nella lista che segue questa Introduzione (dove compaiono in ordine alfabetico), aggiungendo quelli degli scrittori di cui qui in particolare ci occupiamo, constateremmo che fino agli anni Trenta i nomi appartengono quasi sempre a famiglie cittadinesche fiorentine: Parenti, Ginori, Guicciardini, Vettori, Aeriamoli, Nardi, Cavalcanti, Pazzi e altri ancora. Tali nomi scompaiono progressivamente: a partire dagli anni Quaranta accanto ai Segni, ai Pitti, agli Strozzi si moltiplicano i nomi nuovi, senza legami con il repubblicanesimo cittadino. Si assiste quindi a un avvicendamento non solo generazionale ma anche sociale: alla scomparsa di un certo tipo di cultura si accompagnano il progressivo ritirarsi dalla scrittura storico-politica del ceto di cui quella cultura era espressione e insieme un radicale mutamento del ruolo e della collocazione sociale di chi scrive. Sembrerebbe che le famiglie «popolane» fiorentine, sia le «mediocri» che le aristocratiche, non abbiano nulla da dire sul principato, nessun intervento da fare, quantunque molte di esse mantengano un prestigio notevolissimo nel regime mediceo. Il nuovo linguaggio, l'organizzazione della nuova ideologia, la traduzione letteraria dei nuovi rapporti con il potere basati sulla discrezionalità di questo, paiono essere lasciati a nuove figure di intellettuali, privilegiate dalle opportunità di mobilità sociale verticale che il principato offre oppure dal diverso clima religioso.

Non si nota una parallela successione dei generi. Spariscono, con rarissime eccezioni, i pareri e le proposte sull'organizzazione della vita pubblica a Firenze; ma nel complesso trattatistica politica, cronaca, 'vera' storia e biografia continuano a coesistere nel corso del secolo, pur con i dovuti cambiamenti di contenuto, di impostazione, di tono.

Il genere 'cronaca' rimane per tutto il secolo nelle abitudini dei ceti fiorentini medio-bassi. È una forma espressiva tipica dei ceti medi delle città italiane e forte a Firenze di una lunga e gloriosa tradizione. L'atteggiamento mentale che vi sottostà deriva dalla visione seriale degli eventi, priva di organizzazione gerarchica di quanto raccontato; i cronisti, generalmente, non compiono scelte problematiche né, soprattutto, danno al loro ricordare quella struttura formale che sola, nella tradizione umanistica, dava a un'opera la dignità di 'storia'. Lo storico infatti doveva dare forma a un opus oratorium, diviso in libri e capitoli, dal quale si potessero ricevere insegnamenti; un opus che realizzasse i fini della storia vista come magistra vitae di volta in volta pragmatica, educativa, morale, dissuasiva, incitante.

Come la cronaca, la storiografia fiorentina della prima parte del secolo procede in modo seriale ed è pressoché tutta politico-événementielle (nelle cronache e nei ricordi c'è una maggiore presenza di fatti che con linguaggio odierno chiameremmo appunto di cronaca, affiancati a quelli più strettamente politici). La crisi del 1530 provoca un certo cambiamento in questa serialità di fondo: si intuisce che un dato periodo di tempo è stato decisivo, ha portato dei mutamenti profondi, ha chiuso una fase dalle ben individuabili caratteristiche e ne ha aperta un'altra; merita perciò di essere studiato come cosa a sé stante. Si coglie inoltre che il significato di quanto accaduto a Firenze e dell'avvento del nuovo regime può essere capito e raccontato solo volgendo lo sguardo anche a quanto successo fuori della città; fino al genio di Francesco Guicciardini, che scrive che gli anni 1494-1530 hanno cambiato la storia d'Italia, rivoluzionato l'assetto del potere nella penisola e modificato il peso e la collocazione dell'Italia in Europa.

Insieme a lui gli storici partecipi delle vicende della crisi fiorentina riflettono su quegli anni isolandoli, nel tentativo di dare una spiegazione o più semplicemente per recriminare. Ne consegue che la serialità, nel raccontare la storia di Firenze, si altera: gli avvenimenti che precedono il primo trentennio del secolo XVI vengono compressi e diventano propedeutici a una migliore comprensione del periodo che si vuole ricostruire; in qualche caso essi vengono del tutto eliminati. Gli autori di queste storie sono tutti fortemente polemici: ognuno dà la sua interpretazione, emette giudizi, sottolinea la possibilità di altre soluzioni oppure, come si è detto, recrimina. E sono storie generalmente laiche: con l'eccezione forse del solo Nardi, tutti gli storici sono portati a cercare motivazioni e responsabilità a livello umano e la presenza della volontà di Dio sembra essere più un doveroso omaggio alla mentalità corrente e quasi irriflessa di chi scrive che non un fattore reale in grado di influenzare la storia.

Con il distanziarsi della crisi e l'attenuarsi, fino a scomparire, del coinvolgimento personale dello scrittore in quegli eventi, la storiografia tende a ritornare seriale, narrazione quindi della successione degli eventi piuttosto che risposta a degli interrogativi; si configura quindi come cronaca più sofisticata, che non evidenzia né gerarchizza problematicamente gli avvenimenti. È il caso del capolavoro dell'Adriani (che è libro di storia contemporanea) e, pur nel diverso impianto (si tratta di una storia ab urbe condita), delle storie dell'Ammirato, la cui ripartizione della materia non mette affatto in rilievo i momenti nodali della storia di Firenze nel Cinquecento. Alla storia dei suoi tempi lo scrittore leccese dedica un numero di pagine non superiore a quelle che raccontano i secoli passati: egli narra una serie appiattita di fatti che si susseguono con andamento annalistico. La cronaca come forma espressiva del Fiorentino meno colto continua a convivere con le evoluzioni del genere storico, che a lei si riaccosta, dopo essersene distanziato, man mano che diminuisce la rilevanza degli intenti politici nell'opera dello storico.

I due generi sono anche il frutto di due diverse eredità che confluiscono nel Cinquecento fiorentino: quella della cronachistica e della memorialistica medievali (seriali, moralistiche, provvidenzialistiche, allargate al privato e all'aneddotica non politica) e quella della storiografia classica e umanistica (strutturata dal punto di vista formale, politica, oratoria, laica). Molto è stato scritto sul passaggio dalla cronaca alla storia (in realtà i due generi coesistono per tutto il secolo come espressione di diverse istanze e di diversi livelli culturali); così come molto è stato scritto sulle novità metodologiche e narrative di questa prima storiografia moderna, sicché non mi soffermerò su questi argomenti. Vorrei solo rimandare alle Note di introduzione a Bernardo Segni, Benedetto Varchi e Giovan Battista Adriani per quanto concerne tre temi significativi, cui in parte ho già fatto cennno: l'allargamento alla storia extra-fiorentina; la metodologia di ricerca, che supera la prassi umanistica; il formarsi dello storico 'principesco'. Mentre rinvio alle Note introduttive a tutti gli storici postguicciardiniani per il problema che più ha occupato gli studiosi: quello dell'interpretazione e del giudizio sul fallimento della repubblica e sul significato del nuovo regime.

6. La tradizione della libertà

Mi rendo conto di aver sottolineato in maniera forse eccessiva la tipicità, l'iscriversi di questi testi in tradizioni espressive consolidate, i punti in comune e le somiglianze tra gli autori ascrivibili alle medesime fenomenologie mentali. Spero che, pur in questa prospettiva, emergano le differenze, le evoluzioni del pensiero dei singoli autori e i mutamenti verificatisi nel periodo esaminato. Tuttavia credo sia difficile sottrarsi all'impressione che la cultura storico-politica fiorentina del secolo XVI sia una cultura legata a modelli e tópoi espressivi diventati canonici e che anzi dell'adesione a fonti prestigiose e nobilitate dall'antichità faccia un criterio di legittimazione per quanto vada affermando. Credo sia soprattutto interessante cogliere come problemi legati alla situazione contemporanea vengano affrontati con una strumentazione ritenuta nobile proprio perché ereditata dal passato.

Ritengo che dal volume emerga la mia convinzione che il filone di pensiero più affaticato da questo obbligato utilizzo di una cultura antica e legittimante sia quello repubblicano popolare, quello dell'assemblea larga e della vita politica cittadino-repubblicana come valore antropologico. Lo scetticismo degli aristocratici sui valori della politica e della tradizione cittadino-aristotelica è uno strumento più agile per adattarsi alle vicende degli anni Trenta: si tratta di un atteggiamento che è l'anticamera del cinismo repressivo ma che coglie anche le contraddizioni e i forti limiti ideologici dei popolari. Così come la cultura monarchica riesce, pur con tutte le sue cortigiane meschinerie, a contribuire al superamento dell'assetto statale fondato sulla dicotomia dominante-dominio e alla trasformazione della Toscana in stato regionale. Per contro il ceto medio non ha la forza di controllare la situazione attraverso il canale repubblicano-assembleare e neanche quella di elaborare una soluzione dittatoriale (la «potestà quasi regia»), tutt'altro che estranea alla vicenda delle città italiane; e gli scrittori repubblicano-popolari non riescono a concepire esiti istituzionali che non siano angustamente cittadini e basati sul tentativo di coinvolgere anche idealmente gli ottimati in regimi che andavano per forza di cose contro i loro interessi.

E anche vero, ed è fin troppo ovvio ricordarlo, che l'ingresso delle grandi potenze europee nella politica italiana aveva talmente modificato i criteri e le possibilità di azione nella penisola, che le capacità strategiche dei soggetti politici italiani erano diventate in buona parte inutili: il successo di un'intenzione politica era ormai quasi del tutto condizionato da decisioni prese altrove.

Non si può certo parlare, e altri sono già intervenuti più volte su questo argomento, di anticipazioni liberali riferendosi al pensiero politico cittadino-repubblicano-aristotelico, né starò qui a ripetere le motivazioni, ispirate a un vigile anche se talvolta un po' facile storicismo, in base alle quali le ipotesi di tali anticipazioni sono state contestate. Ma credo che non si possa negare che nella storia millenaria del pensiero politico occidentale esista una componente, che attraversa intatta i secoli, basata sui princìpi di libertà, di dignità del cittadino di fronte all'autorità, di garanzia fornita dalle leggi. Si segnala, giustissimamente, che nel tempo sono esistite varie libertà; non si può tuttavia negare la costante presenza della libertà (concetto forse non definito con precisione, ma da millenni in linea di principio chiaro a tutti coloro che la difendono o che la combattono) nel filone 'civile' della nostra cultura politica: una libertà la cui essenza non viene alterata dal fatto che coloro che se la attribuiscono costituiscano una parte più o meno scarsa degli abitanti di un territorio.

A questa ideologia della libertà se ne sono contrapposte altre, spesso forse più funzionali alle esigenze dei ceti più deboli, spesso nel giusto quando hanno proclamato la necessità di ordine, di unità di comando, di tempestività di decisione, di autorevole equità contro il privilegio. Resta il fatto che si tratta di ideologie contro la libertà, che comportano l'espropriazione della 'naturale' capacità (vorrei dire, con Aristotele, della «forma») dell'uomo di discutere garantito dalla legge per decidere insieme ai suoi simili del destino collettivo.

Il repubblicanesimo fiorentino si iscrive in questa tradizione della libertà; mai come nel suo caso è possibile storicizzare i grandi valori che esso proclama e individuarne l'angustia, la funzionalità agli interessi di un gruppo ristretto, la falsità delle pretese antropologiche universali; se ne può inoltre verificare l'inadeguatezza agli sviluppi storico-politici della prima metà del secolo XVI. Ciò nonostante, i principi regolativi tendenziali che lo hanno animato hanno mantenuto il loro valore proprio di principi regolativi tendenziali anche in formazioni socio-politiche molto diverse; né tale valore è stato infirmato dall'utilizzo inevitabilmente ideologico che di questi principi è stato fatto allorché si sono calati nello scontro politico. Ed è probabilmente per questo che esso è entrato nel patrimonio di riferimenti di coloro i quali, nei secoli successivi, hanno visto nell'instaurazione di un sistema fondato sulla libertà di esprimersi garantita dalla legge il fine ideale della loro lotta politica.

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