di
STORIA
Storia di Giovanni Pugliese Carratelli
sommario: 1. Res gestae e historia rerum gestarum. 2. Wilhelm von Humboldt e Johann
1. Res gestae e historia rerum gestarum
L'ambivalenza, spesso rilevata, del termine ‛storia' (ἱστορία, hiytoria, e analogamente Geschichte), col quale si designa cosi l'indagine sulle res gestae come lo svolgersi di queste (intendendosi ovviamente come res gestae tutto ciò che è opera dell'uomo, τὰ γενόμενα ἐξ ἀνϑρώτων, dunque le idee non meno che le azioni nelle quali le idee si manifestano), è indice di una lunga esperienza: nel corso di secoli, infatti, ogni mente riflessiva ha constatato come le vicende umane si presentino, tanto nel loro proprio tempo quanto nei tempi successivi, nelle forme e nei termini in cui le vedono e descrivono, o le ricordano o ricostruiscono, i protagonisti, i contemporanei, i posteri. Non è dato, insomma, scindere τό γενόμενον dalla visione che ne ha e dall'interpretazione che ne dà chi lo ha vissuto oppure conosciuto, quale che sia il tempo intercorso: una necessità a cui non si sottraggono le idee, che una volta espresse vivono di vita propria, legate ai nomi ma non più agli intendimenti dei loro autori. Ma pur nella constatazione di questa inscindibilità, la diversità delle visioni e delle interpretazioni di un medesimo atto o pensiero implica una distinzione delle res gestae dalla loro historia.
Di ciò consapevole, lo storico sa parimente che le testimonianze, immediate o mediate che siano, sulle res gestae ch'egli considera, non seno ancora, per lui, historia; e che anche quando sia intervenuta un'indagine critica, e la notizia dei fatti gli pervenga per un tramite storiografico, nessuna autorità può esimerlo dal rinnovarne l'esame: perché l'indagine storica, che ha la sua fonte vera e primaria nella coscienza umana, non è quel che vuol essere se non è condotta con criterio individuale e quindi originale e con quell'impegno dialettico che solo può addurre a certezza.
Qui il discorso investe il problema di quel che è il compito dello storico e insieme il modo e la via per assolverlo. E il problema del compito del soggetto, lo ἱστοριογρὰϕος, è immediatamente connesso con quello della definizione dell'oggetto, la ἱστορία. Ovviamente questo duplice problema si è presentato, e ha trovato innumeri e differenti soluzioni, in tutto il corso della storiografia, dai giorni di Ecateo e di
Lo storico moderno esperimenta quotidianamente l'attualità della dottrina vichiana secondo cui l'uomo non può conoscere se non quello ch'egli ha fatto e può fare, vale a dire
2. Wilhelm von Humboldt e Johann O. Droysen
Della validità di questo principio crociano, dettato da una straordinaria esperienza di vita e di studio, sono altresì documento le lezioni dedicate da uno dei maggiori storici dell'Ottocento,
L'indagine storica esige, oltre al particolare fornito dalla empiria, ‟un universale in base al quale si spieghi che cosa esiste e avviene, perché esiste e avviene": ora ‟quell'universale e necessario che collega i singoli fatti della storia e a ciascuno, nel suo carattere individuale, dà il suo valore" è la continuità del divenire storico, che non è sviluppo (perché ciò presupporrebbe che la serie fosse preformata in germe) ma assiduo lavoro creativo il quale in una serie di ‛presenti' attua quella ἐπίδοσις εἰς αὑτό che è ‟la caratteristica del mondo umano, cioè morale. [...] E mentre il nostro presente, come ogni altro presente prima di noi, muovendo dai risultati assommati di ciò che fu prima, i quali ne formano il contenuto, procede oltre con la volontà che ne determina l'azione [...], si conferma che l'idea della continuità progressiva, quale è valsa finora, così continua ad essere il vero palpito della vita morale, cioè storica" (ibid., pp. 30 ss.).
Nella prefazione al suo Grundriss der Historik il Droysen si contrappone a ‟coloro che chiamano la storia fable convenue", e afferma che ‟un certo sentimento naturale e l'indubbia concordanza di tutte le epoche ci dicono che [...] nelle umane cose c'è un nesso, una verità, una forza che quanto più è grande e arcana tanto più stimola lo spirito a conoscerla e indagarla". Considerando quindi il problema del rapporto del singolo con questa forza della storia, e l'acquisita certezza che l'indagine storica deve compiersi ‟nelle più ampie prospettive", conclude dalla sua stessa esperienza che lo storico, ‟che solo storicamente conosce quanto hanno elaborato la filosofia, la teologia, le scienze naturali, ecc.", per poter ‟penetrare più a fondo nel problema della nostra scienza, giustificarne il procedimento e il compito e [...] svilupparne la configurazione", deve aver chiara coscienza di ‟non potersi prefiggere un'attività speculativa, ma di
La visione humboldtiana e droyseniana della storia dà ragione di un paradossale atteggiamento di un grande storico quale Leopold von Ranke, che dichiarava di esser pago, per i suoi interessi filosofici, di Platone e Aristotele e, per la storiografia, di Tucidide: in che trovavano espressione, non senza una punta polemica verso la storiografia e la filosofia idealistica (ch'egli chiamava ‛panteistica') contemporanee, quella esigenza di ricerca dell'eterno che l'autentico storico sente nell'atto stesso in cui si impone una precisa cognizione dei fatti, e insieme la vocazione propriamente scientifica alla certezza del conoscere, al τό σαϕὲς σκοπεῖν di che discorre Tucidide nei capitoli conclusivi della sua ἀρχαιολογία, ove asserisce la necessità di una ἱστορία dei dati concreti (τὰ ἕκαςστα) in adesione al metodo induttivo inaugurato nella scienza medica da Ippocrate. Nella dottrina humboldtiana ha le sue radici anche il paragone dello storico con l'artista (‟L'imitazione dell'artista procede dalle idee, e la verità della forma gli appare solo per mezzo di queste. Lo stesso deve accadere, perché in entrambi i casi la natura dell'oggetto da imitare è la stessa, anche nell'imitazione storica"): che ha esercitato particolare suggestione sul Ranke, ma ancora sul Mommsen (il quale ha fatto suo il detto humboldtiano circa la fantasia necessaria allo storico al pari che al poeta), e ha infine contribuito alla genesi, in funzione antipositivistica, di un famoso saggio di Croce, La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte (1893).
3. Da Giambattista Vico a Benedetto Croce
Lo svolgimento della dottrina humboldtiana e droyseniana è avvenuto in totale indipendenza dalla dottrina di Vico, che - trascurando il ‟mondo naturale [...] del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza" - rivendica agli uomini, dei quali è opera il mondo della storia, ‟questo mondo civile", la conoscenza intellettuale di esso: vale a dire la consapevolezza delle idee che hanno diretto e illuminato l'agire umano; e questa conoscenza si attua mediante la conversione del vero e del fatto, vale a dire l'azione reciproca della filosofia e della filologia: ‟La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l'autorità dell'umano arbitrio, onde viene la conoscenza del certo" (Scienza nuova seconda, I 2 x). Come è noto, l'opera di Vico non ha assunto il posto che le spettava nella cultura storica e filosofica europea, finché un vigoroso impulso allo studio e all'intelligenza critica della Scienza nuova non è venuto da Benedetto Croce, non soltanto col classico libro su La filosofia di G. B. Vico (1911), ma con l'intera sua dottrina della storia, che della dottrina vichiana è interpretazione e originale svolgimento. Per la sua potenza speculativa, l'alta ispirazione, la varietà e complessità delle esperienze di cui s'è alimentata, essa segna il punto più alto del pensiero moderno sulla storia agli occhi dello storico che considera la propria indagine come un costante sforzo di intelligenza della ‛storia ideal eterna' e sente se stesso partecipe, nel profondo, della vita intellettuale e morale dell'umanità di ogni tempo e ne rivive pertanto le esperienze, respingendo tanto canoni astratti di stampo naturalistico o sociologico quanto interpretazioni ‛metastoriche' che costituiscono in definitiva una rinuncia al giudizio storico in favore di criteri di carattere metafisico. Il superamento dell'iniziale esperienza di erudizione storica; il rifiuto della visione positivistica della storia, ridotta a monotona ripetizione di schemi politici, sociali, economici entro una meccanica struttura di ‛leggi'; il riconoscimento del contributo apportato alla storiografia dal materialismo storico entro i limiti di un opportuno richiamo all'importanza del momento economico; l'esperienza politica e l'inflessibile difesa della libertà e della civiltà europea a fronte delle dittature trionfanti: sono stati i più visibili segni di un'inintermessa meditazione sul concetto e l'essenza della storia.
Una meditazione che ha pervaso tutto il pensiero crociano, presiedendo all'elaborazione della teoria delle quattro forme dello spirito e da questa ricevendo a sua volta lume e ulteriore stimolo, come è già evidente in ciascuno dei trattati che costituiscono la Filosofia dello spirito; per culminare nel libro su La storia come pensiero e come azione (1938) e nei successivi saggi filosofici, fino alle Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952). Principio fondamentale della dottrina crociana è l'identità di filosofia e storia: ‟Per fini didascalici filosofia e storia [...] vengono bensì distinte col considerare filosofia quella forma di esposizione in cui è dato risalto al concetto o sistema, e storia quella in cui il risalto è del giudizio individuale o racconto. Ma, per ciò stesso che il racconto include il concetto, ogni racconto vale a chiarire e risolvere problemi filosofici, e, per converso, ogni sistema di concetti getta luce sui fatti" (v. Croce, 19285, p. 209). ‟La filosofia, in conseguenza della nuova relazione in cui è stata posta, non può essere necessariamente altro che il momento metodologico della storiografia: dilucidazione delle categorie costitutive dei giudizi storici ossia dei concetti obiettivi dell'interpretazione storica. E poiché la storiografia ha per contenuto la vita concreta dello spirito, e questa vita è vita di fantasia e di pensiero, di azione e di moralità [...] e in questa varietà delle sue forme è pur una, la dilucidazione si muove nelle distinzioni dell'Estetica e della Logica, dell'Economica e dell'Etica, e tutte le congiunge e risolve nella Filosofia dello spirito" (v. Croce, 19435, p. 136). Non è dunque concepibile né una filosofia né una storia ‛generale', nel senso ch'essa sovrasti alle filosofie o alle storie ‛speciali', uniche concepibili perché ‟il pensiero in tanto pensa i fatti in quanto ne discerne un aspetto speciale"; ma è altrettanto vero che non esiste storia o filosofia che non sia generale, perché ‟l'astratta distinzione e l'unità astratta sono entrambe, del pari, misconoscimento della distinzione e dell'unità concreta, che è relazione. E quando non si spezza la relazione e si pensa in concreto la storia, si avverte che pensarne un aspetto è pensare insieme tutti gli altri" (ibid., pp. 106 ss.).
La dottrina crociana della circolarità dello spirito, vale a dire del continuo svolgersi di esso trapassando da una forma all'altra, si oppone a ogni caratterizzazione dell'attività storiografica secondo particolari punti di vista, i quali tutti necessariamente devono risolversi, quando non diano luogo a pseudostorie, in storia nel senso unitario e totale, al modo stesso che ogni indagine storica, da quella che si svolge intorno a un tema del più ampio respiro a quella che si è proposta il tema più circoscritto, per la ragione stessa che la storia è filosofia, guarda con pari intensità all'eterno.
La qualificazione di ‟etico-politica", che Croce ha dato alla sua propria storiografia, già contiene in nuce la dottrina della storia come pensiero e come azione, espressa nella fase più recente delle riflessioni crociane sulla storia: le quali il filosofo ha alimentato di esperienze di vita, di nuovi problemi sorti in un periodo di estrema crisi della civiltà, di rinnovate meditazioni su grandi ideali offuscati da incomprensioni e avvilenti deformazioni. Segna uno dei momenti più alti della civiltà moderna la memorabile dichiarazione del valore dello storicismo come teoria della storia quale ‟storia della libertà" una teoria che, in antitesi a visioni deterministiche della storia, riconosce in questa la creatività e la libertà che è del Tutto (‟del Tutto ossia degli individui bensì, ma nella reciprocità delle reazioni tra loro onde compongono il Tutto, e non degli individui astratti e della illusione in ciascuno di fare quel che è fatto dal Tutto": v. Croce, 1952, p. 174), e nel processo storico un'inintermessa tensione tra l'irrazionale della ‟vitalità irrompente e prepotente" e la razionalità suprema del concetto di libertà. Per essere meditato frutto di un'esperienza vitale nella quale l'amarezza di quotidiane vicende personali e comuni viene superata dalla filosofica contemplazione del corso della storia e degli ideali che perennemente lo illuminano, la dottrina della storia come storia della libertà ha in sé un afflato religioso in cui lo storico ha trasfuso quel sentimento animatore ch'egli ha descritto, con ispirate parole, come ‟la religione della libertà": ‟Perché è questo l'unico ideale che abbia la saldezza che ebbe un tempo il cattolicesimo e la flessibilità che questo non poté avere, l'unico che affronti sempre l'avvenire e non pretenda di concluderlo in una forma particolare e contingente, l'unico che resista alla critica e rappresenti per la società umana il punto intorno al quale, nei frequenti squilibri, nelle continue oscillazioni, si ristabilisce in perpetuo l'equilibrio. Quando, dunque, si ode domandare se alla libertà sia per toccare quel che si chiama l'avvenire, bisogna rispondere che essa ha di meglio: l'eterno" (v. Croce, 1932, p. 356).
4. Il materialismo storico
La dottrina elaborata da Marx ed
5. Filologia e storiografia
L'idealismo hegeliano e la dottrina vichiana e crociana da una parte, il materialismo storico dall'altra sono state le principali energie vivificatrici della storiografia del Novecento, ovviamente col concorso delle grandi esperienze politiche connesse all'ideologia liberale e a quella marxista. Come, nella seconda metà dell'Ottocento, correnti filosofiche e moti politici hanno ispirato i maggiori storici, così le lotte politiche e i conflitti internazionali, le grandi rivoluzioni e le riforme, le crisi morali e religiose segnano di un'orma profonda l'odierna storiografia, non solo nell'interpretazione dei dati ma specialmente nella visione, per ciò stesso fattasi più penetrante, dei problemi, e nella coscienza, per ciò più acuta, dello storico. Questa coscienza critica e le vivaci polemiche ch'essa suscita hanno prodotto una più rigorosa esigenza d'informazione, col superamento della storiografia erudita o ‛filologica', come si suole impropriamente designarla, perché la vera filologia implica un tal senso del concreto da render attuabile la vichiana sua ‛conversione' con la filosofia: non è un caso, infatti, che il grande sviluppo della filologia, e specialmente della filologia classica, abbia coinciso con lo straordinario movimento di idee prodotto dalla filosofia postkantiana nella cultura europea. È un fatto che i maggiori progressi nella filologia sono stati realizzati da studiosi dotati di vivo senso storico, quali un Niebuhr, un Baur, un Boeckh, un Savigny, un Mommsen. In questi dotti la passione politica o la fede religiosa ha alimentato la vocazione alla storia; e in loro, come in ogni vero storico, si manifesta la validità della proposizione formulata da Croce, che ‟ogni vera storia è storia contemporanea" (v. Croce, 19435, p. 4). In un disegno della storiografia del Novecento devono quindi rimanere al margine le opere di mera erudizione e le ‛storie' cronachistiche, cui sono stati quasi estranei gli orientamenti ideologici e i loro contrasti.
L'esigenza di rigore filologico che s'è affermata nella storiografia dell'Ottocento, specialmente per opera di storici come Mommsen e Ranke, ha arricchito il repertorio dei dati e perfezionato gli strumenti per la ricerca; ma naturalmente lo sviluppo dell'euristica, se fornisce nuovi e maggiori sussidi allo storico e ne asseconda la vocazione, resta un elemento accessorio. Importante efficacia pratica, particolarmente nella storiografia concernente il mondo antico e quello medievale, hanno avuto del pari gli sviluppi delle filologie orientalistiche e dell'attività esplorativa archeologica e geografica, che hanno dilatato i tradizionali orizzonti temporali e spaziali e mostrato l'inconsistenza di schematiche divisioni e classificazioni e la molteplicità e intensità dei rapporti e degli scambi tra culture coeve e distanti nello spazio e nello spirito: lo straordinario incremento nella conoscenza del Vicino Oriente e in generale del mondo asiatico, frutto dei rapidi progressi della filologia e dell'archeologia orientali, e gli effetti delle esplorazioni geografiche e dell'estensione ecumenica delle relazioni internazionali, politiche ed economiche, hanno dato nuovo impulso all'inclinazione (di cui aveva già dato notevoli segni la storiografia del Sette e dell'Ottocento) verso temi di grande ampiezza, con predilezione per le ‛storie universali', nel senso di ‛storie dell'intera ecumene e per tutti i tempi'; nelle quali un desiderio di informazione enciclopedica, evidentemente connesso all'impostazione, ha suggerito una trattazione sistematica di tutti gli aspetti della vita e della cultura di ciascuna delle suddivisioni geografiche e cronologiche. ‛Storie universali' di questo tipo, che per la vastità e complessità del loro disegno vengono generalmente composte da più autori, per questo fatto stesso si presentano - quando non siano mere compilazioni - come aggregazioni di saggi di carattere, ispirazione e valore diversi: come osserva Croce, ‟in quanto veramente storie, o in quella parte in cui tali sono, si risolvono in nient'altro che in ‛storie particolari', ossia suscitate da un particolare interesse e incentrate in un particolare problema, e comprendenti quei fatti soli che entrano in quell'interesse e rispondono a quel problema". Né si sottraggono a questa inevitabile soluzione opere autorevoli quali le tre
Similmente la Propyläen-Weltgeschichte (nella sua edizione curata da Walter Goetz, non già nel rifacimento imposto dal regime nazionalsocialista), e altre meno articolate ma sostanzialmente analoghe, come la Histoire générale fondata da
Se le opere di questo tipo obbediscono a un proposito di informazione ‛scientifica' (la storia ‟è semplicemente una scienza, né più né meno", asseriva il Bury), e nelle storie ‛filologiche' e cronachistiche il gusto dell'erudizione prevale sul senso storico, nelle ricerche propriamente storiche nelle quali è la coscienza dello storico che anima e dirige l'opera storiografica, le idee e le ideologie, le fedi religiose, le passioni civili fanno sentire la loro viva presenza, seppur in vario grado, secondo la sensibilità e il vigore critico dello storico. Perciò ogni storico degno del nome riflette più o meno distintamente - e più o meno icasticamente, secondo le doti dello scrittore - i moti ideali dell'età sua: così dal tempo di Ecateo ai nostri giorni. E nella storiografia del Novecento si riconoscono, in una con l'eredità del pensiero filosofico e con le grandi tradizioni dell'euristica degli ultimi secoli, le fedi e le speranze, le angosce, i disorientamenti e i contrasti che agitano la vita degli individui e delle loro organizzazioni politiche, e, in relazione con tutto ciò, le dottrine filosofiche, le tematiche e le forme d'indagine che ne sono nate. Scrive Croce a questo proposito: ‟Così abbiamo veduto la vita domestica e sociale, trascurata dai vecchi storici, non solo acquistare a poco a poco rilievo, ma gettare nell'ombra le guerre e i negoziati diplomatici: le cosiddette ‛masse' trascurate a pro dell'individuo geniale, riavanzarsi facendo quasi sparire nel loro ampio grembo gli eroi (il che non vuol dire che questi non prenderanno la loro rivincita) [...]. Esempi di codeste fluttuazioni offre anche la recente storiografia italiana, che nel periodo del Risorgimento giudicò sommamente importanti, e per eccellenza storici, la formazione delle nazionalità, il costituirsi delle borghesie e dei comuni, le ribellioni delle popolazioni contro gli stranieri o contro i tiranni; e ora, sotto l'efficacia del moto socialistico, si è volta di preferenza ai fatti economici, alle lotte di classe, alle ribellioni proletarie" (v. Croce, 19285, pp. 197 ss.).
6. Storiografia positivistica e sociologica
Le grandi idee di democrazia liberale che hanno caratterizzato la storiografia europea della seconda metà dell'Ottocento, in armonia con le lotte per l'unità nazionale in
Proprio in antitesi a questa storiografia si manifesta la validità della dottrina idealistica che riconosce la vera ‛fonte' della storia nella coscienza dello storico e distingue quindi nettamente questo dall'istoriografo di stampo archivistico e dall'annalista; di là dal ‛metodo' (con cui viene spesso confusa la techne dell'indagine) o dalle premesse ideologiche, e indipendentemente da enunciazioni filosofiche non ripensate e fatte proprie, è la vocazione storiografica (che è vocazione alla filosofia e consapevolezza della ‛storia ideal eterna', ed è naturale come la vocazione poetica) l'autentica e sicura guida verso la storia, cioè verso il pensiero dell'universale: ‟dell'universale nella sua concretezza" (come ha scritto Croce) ‟e perciò sempre particolarmente determinato"; perché ‟non c'è fatto, per piccolo che si dica, che si possa altrimenti concepire (realizzare e qualificare), se non come universale". Temi amplissimi o temi estremamente circoscritti, siano essi considerati sotto il rispetto etico-politico o artistico o economico, si risolvono sempre, in quanto soggetti di storia, in conoscenza dell'universale. E pertanto vano ricercare la validità di un'opera di storia nei suoi postulati ideologici o nella qualificazione del suo tema o nell'analisi e nella sistemazione delle cosiddette ‛fonti'. Giova quindi considerare la storiografia del Novecento appuntando lo sguardo sui più significativi storici e sui loro orientamenti piuttosto che sulla varietà dei temi o sui progressi dell'euristica.
7. Le ‟Annales"
Un chiaro esempio di quanto s'è ora osservato è offerto da un cospicuo gruppo di storici contemporanei, non soltanto europei, che si è costituito intorno alle ‟Annales" (prima ‟Annales d'histoire économique et sociale", poi ‟Annales d'histoire sociale", infine ‟Annales. Économies, Sociétés, Civilisations"), la rivista parigina fondata nel 1929 da
Come Bloch e Febvre hanno suggerito nella loro presentazione delle ‟Annales", temi e punti di vista e forme e modi di indagine possono facilmente moltiplicarsi; e a prima vista la loro copia e varietà può dar l'impressione di una radicale innovazione nella storiografia: ma indagini del genere non sono nuove, specialmente nell'ambito degli studi sull'antichità, nel quale per la penuria e frammentarietà delle testimonianze divengono oggetto di attento esame tutti gli aspetti sui quali i dati disponibili gettino una pur tenue luce. L'archeologia classica e orientale conosce da tempo le vie dell'indagine che vengono ora indicate allo studio storico di età meno antiche; e le va ora conoscendo anche la cosiddetta archeologia medievale, sorta nei paesi poveri o affatto privi di memorie dell'antichità classica, ma coltivata attualmente anche là dove l'archeologia classica ha le sue radici. È naturale che la storiografia si valga di ogni sussidio; e non v'è ricerca analitica nei cui risultati un intelletto di storico non sappia ravvisare lineamenti della storia vera e propria: ne danno un esempio i saggi di Michail Rostovzev culminati nelle due grandi storie economiche e sociali del mondo ellenistico e dell'Impero romano. Tuttavia, di fronte alla fortuna che hanno ottenuto i modelli delle ‟Annales", promotori di innumeri ricerche sulla vita quotidiana di individui e di società, sull'ambiente fisico e sui fenomeni naturali che gli appartengono, ivi comprese le variazioni climatiche e le calamità e le malattie, e alla miriade di indagini archivistiche e antiquarie esauritesi in sistematiche ricognizioni o classificazioni di dati, senza dar luogo a un'interpretazione propriamente storica, vengono alla mente certe opportune riflessioni di Croce: ‟La storia (per adottare l'incondito gergo dei positivisti e sociologi, al quale, per un momento, discendo) non è già un ‛fenomeno naturale', ma un ‛fenomeno morale', e non si spiega mercé una causa unica, quale che questa sia, e neppure mercé una molteplicità di cause, ma solo con ragioni interne, come sforzo spirituale [...]. Clima, ubertosità o avarizia di terreno, salubrità o insalubrità, posizione geografica, disposizioni etniche, strade e mancanza di strade, spostamenti di linee commerciali, e simili, sono tutte cose importanti, se considerate come condizioni o materia o strumenti tra cui e su cui e con cui si travaglia lo sforzo spirituale, che deve formare sempre il punto centrale della considerazione; ma tutte prive d'importanza prese per sé, fuori del centro, inerti e incapaci di condurre ad alcuna conclusione" (v. Croce, 19433, p. 287). Menti naturaliter historicae, come quelle di Bloch e Febvre, hanno saputo valersi di questi strumenti nelle loro meditazioni storiche, ricche di travagli ideali; ma l'insuccesso di altri pur diligenti ricercatori conferma che la soluzione dei problemi storiografici non dipende dall'analisi delle ‛fonti'.
Se le ‟Annales" hanno esercitato un'importante funzione di stimolo in una vasta area internazionale, non altrettanto benefico è stato l'indirizzo sociologico e comparativistico, che ha estesamente applicato, trasformandole in canoni d'interpretazione, certe intuizioni espresse in particolari contesti storiografici, e ha così favorito il ricorso a schemi, nella costruzione dei quali necessariamente la rinunzia all'infinita varietà delle esperienze storiche fa prevalere l'astratto sul concreto e fa cadere in oblio l'irrepetibilità del fatto storico: per tal modo la ricerca tende a riconoscere le ‛leggi' che governerebbero la vita delle società umane; e a fondamento della storiografia viene apprestata una tipologia dei fattori e delle strutture sociali. Anche in questo ambito si sono imposti, in accordo con la diffusa inclinazione a preferire l'assimilazione alla distinzione, indirizzi di ricerca ‛antropologica' che nella storiografia ottocentesca avevano informato specialmente gli studi sulle società primitive e sulle religioni classiche e orientali (nel quale ambito peraltro dotti come
Questa chiara diagnosi si applica a una divulgata opinione che afferma la perenne ripetizione dei fatti storici secondo un principio di uniformità e persistenza valido per il mondo degli uomini al pari che per il mondo fisico, e che in ultima analisi considera l'uomo come un'entità biologica e ignora la sua attività di essere pensante. L'opinione non è soltanto volgare: non pochi esegeti di Tucidide hanno interpretato un luogo famoso dell'introduzione alla sua storia (I, 22,4: ‟Quanti vorranno considerare con criterio certo le cose avvenute e quelle che in avvenire saranno ancora, per quel che attiene all'umano, simili e analoghe, questi mi basterà che giudichino utile l'opera mia") come una dichiarazione di pratica possibilità, per lo storico come per il politico, di prevedere per analogia lo svolgimento futuro di fatti politici, grazie alla immutabilità della natura umana: che così costituirebbe un'anticipazione di quella confidenza nella prévision des faits sociaux nutrita da sociologi e politici positivisti del primo Novecento. In una tale visione della storia come meccanica iterazione di motivi e di corrispondenti effetti è ovviamente implicita una negazione del progresso. Ora, come avverte Croce, ‟che alcune concezioni trascendenti e religiose, guardando al mondo e alla storia come a uno stato di male e dolore, che sarà risanato e sostituito solamente in un altro mondo, neghino il progresso perché negano la vita stessa, è cosa del tutto coerente. Ma non del pari coerente è la combinazione che si suol fare in talune filosofie, le quali risentono forte l'influsso dei miti religiosi e delle teologie, del concetto di progresso con quello dello stato terminale e paradisiaco, della vita intesa come attività con la vita intesa come stasi" (v. Croce, 19733, p. 40).
8. Definizioni della storia
Il disinteresse di molti storici di professione per la filosofia, peraltro raramente dichiarato, che in più casi si traduce in diffidenza verso le discussioni dei filosofi e nel contempo in una predilezione per soluzioni empiriche sollecitata dalla pratica della ricerca erudita, ha tenuto lontani dalle grandi dispute sui problemi storiografici non pochi scrittori di storia dotati di acuto ingegno: viene qui subito alla mente il nome di un finissimo storico, autore di avvincenti libri, qual è stato
Nell'ambito delle ‟Annales", invece, parimente estraneo ai dibattiti della storiografia idealistica e pervaso di esprit de géometrie oltre che di esprit de finesse, si sono prodotte formule originali e brillanti, che hanno avuto grande fortuna ma sono indici dell'ingegno arguto di scrittori di storia piuttosto che di un'approfondita meditazione di menti filosofiche: talvolta, anzi, è proprio il disinteresse di molti storici militanti per le teoriche della storiografia a conferire una patente di novità a formule che ripetono riflessioni di antica data o coincidono con considerazioni ormai ovvie: valga l'esempio della ‛pluralità del tempo sociale', con la distinzione del tempo breve della histoire événementielle, del tempo medio delle congiunture economiche, della longue durée in cui si rivela l'ampio e lento processo della storia e il continuarsi del passato nel presente e nel futuro: in che evidentemente si manifestano non già ipotetici ‛tempi' della storia, ma le varie visioni di uno storico secondo la sua capacità di cogliere la continuità dello svolgimento storico attraverso i nessi degli eventi e delle idee e di riconoscere il valore del particolare nell'universale, quale che sia l'orientamento e la definizione del tema della sua ricerca. L'antica dottrina tucididea della continuità e logica interdipendenza delle tradizionali scansioni del tempo (alle quali corrispondono l'ἀνὰμνησις, la διὰγνωσις, la πρόνοια) si dichiara ben altrimenti originale e vigorosa di fronte alla definizione blochiana della storia come comprensione del presente mediante il passato e del passato mediante il presente, ripresa nelle proposizioni braudeliane ‟il passato spiega il presente" e ‟il presente spiega il passato".
A queste e ad altre empiriche formulazioni, sostanzialmente valide, che sono appunto nate da un'intensa esperienza di studio avvivata dalla curiosità di saggiare nuove vie d'indagine in relazione con la problematica suggerita non solo dalla storia ‛economica e sociale', ma anche da nuovi orientamenti delle ‛scienze morali' (o, nella dizione oggi prevalente, ‛scienze umane'), non corrisponde però un impegno teoretico pari a quello dei contemporanei filosofi interessati ai problemi della storia: così che le formule ora citate e le pagine che le illustrano riescono deludenti al confronto con le penetranti indagini o le luminose sintesi in cui meglio si dispiega l'ingegno storico dei maestri che hanno presieduto alla nascita e allo sviluppo delle ‟Annales". Anche alla grande tradizione empirica della storiografia britannica è rimasto generalmente estraneo - nonostante l'impegno di un teorico di formazione inizialmente crociana come Robin G. Collingwood - il dibattito degli storicisti europei, principalmente italiani e tedeschi: un acuto storico come il Bury ha assimilato la storia alle scienze sperimentali; e uno storico che ha avuto maggior fortuna, grazie specialmente all'estensione tematica e cronologica del suo magnum opus (A study of history), è rimasto irretito in una visione spengleriana di circoscritte ‛civiltà vere', nella quale l'accento cade sistematicamente sulla fine di ciascuna, sulla ‛morte delle nazioni'.
È significativo che mentre il Toynbee segue lo svolgimento di una civiltà o di un ‛impero' con l'occhio attento al momento ch'egli considera conclusivo (e d'altronde chi vede la storia come somma di esperienze di entità definite e distinte, ‛civiltà' od organismi statali che siano, deve necessariamente guardare alla fine di ciascuna come al momento che segna il compimento della sua funzione e permette quindi di collocarla, col suo definito carattere, nel precostituito sistema), uno storico di ben altra tempra,
Gli esempi fin qui citati di definizione della storia e della storiografia e dei connessi orientamenti possono ovviamente moltiplicarsi fino a coincidere col numero stesso degli storici, maggiori e minori, o almeno di quelli che sono autenticamente storici: ognuno di essi infatti non può prescindere da un'intima riflessione sulla sostanza, il valore e i fini della sua attività di studioso e sui temi e problemi della sua ricerca, anche se a tali suoi pensieri non dà forma esplicita. Avviene così che si incontrano enunciazioni più o meno precise e perspicue, nelle quali si esprimono propositi, desideri, esigenze, talvolta in formule paradossali o incisive per la loro concezione. Valga l'esempio di un illustre e autentico storico come Lucien Febvre, che ha coniato la fortunata formula della histoire à part entiere per affermare la necessità di una visione unitaria dell'uomo e del suo operare, che rifiuti le storie per compartimenti e si sforzi di fare della storia la ‛scienza dell'uomo': ‟scienza del perpetuo cambiamento delle società umane, del loro perpetuo e necessano adeguarsi a nuove condizioni di esistenza materiale, politica, morale, religiosa, intellettuale"; e ha così esortato i giovani storici della École Normale: ‟Storici, siate geografi. Siate anche giuristi. E sociologi. E psicologi. Non chiudete gli occhi dinanzi al grande movimento che trasforma davanti a voi a una welocità vertiginosa le scienze dell'universo fisico" (v. Febvre, 1941). Inviti e propositi suggestivi, ma più facili a figurarsi nei vibranti appelli di uno spirito entusiastico quale fu quello di Febvre, che a realizzarsi da chi non si contenti di una sia pure affinata ricettività, ma voglia effettivamente praticare la ἱστορία.
È chiaro infatti che quel comprensibile desiderio di visione unitaria non può trovare appagamento in un'appropriata indagine su tutti gli aspetti ai quali un tema storico può suggerire di dilatarla: come è ovvio, e s'è già osservato, una ‛storia' di tal genere si risolverebbe inevitabilmente in una somma di osservazioni o di trattazioni particolari, le quali esigerebbero per giunta una competenza nei piu vari settori di indagine, quale non è immaginabile per alcuno; sicché si ricadrebbe nella compilazione superficialmente informata che caratterizza tante opere di storia ‛generale' o ‛universale' oppure in meccaniche associazioni di contributi di diversa origine se non di diversi autori. Ma tutta la genuina storiografia dimostra la fondatezza di quel che Croce ha chiarito più volte: che ‟noi non possiamo conoscere altro che il finito e il particolare, anzi sempre questo finito o questo particolare" (v. Croce, 19435, p. 45), e che ‟negare la storia universale non significa negare l'universale nella storia. Anche qui è da ripetere, come per il Dio cercato invano correndo per la serie infinita dei finiti e ritrovato in ogni punto di essa: Und du bist ganz vor mir! Quel particolare e quel finito è determinato, nella sua particolarità e finitezza, dal pensiero, e perciò conosciuto insieme come universale: l'universale in quella forma particolare" (ibid., p. 49). D'altronde è l'esperienza stessa a superare certe formulazioni: e Febvre, storico geniale, ha dato con tutta la sua opera un più definito senso alla sua histoire ò part entiere, alla quale tanti si sono richiamati con interpretazioni deformanti e talvolta depauperanti, dimenticando ch'essa è prima di tutto una legittima opposizione a ogni astratto particolarismo, che nulla ha a che fare con la conoscenza del particolare. Febvre ha opportunamente affermato, in polemica con un'asserzione di Fustel de Coulanges (‟L'histoire se fait avec des textes"), che ‟senza dubbio la storia si fa con documenti scritti: quando se ne hanno. Ma essa può farsi, deve farsi con tutto ciò che l'ingegno dello storico può permettergli di utilizzare" (v. Febvre, 1953, p. 428). Questa dichiarazione riflette esperienze di Bloch, di Febvre e dei loro discepoli, grazie alle quali s'è affermata nella storiografia contemporanea, e particolarmente in quella che non aveva respirato la vivificante aria crociana, un'esigenza di sintesi in contrasto sia con l'astrattezza dell'antiquata ‛filosofia della storia' (al quale proposito è significativa l'ironica frase di Febvre nella sua prolusione al Collège de France: ‟Me lo son lasciato dire spesso: gli storici non hanno grandi necessità filosofiche"), sia con una certa unilateralità della tradizionale ricerca accademica e archivistica, sia ancora con l'atomizzazione delle storie speciali di stampo positivistico.
È vero che l'auspicata varietà e complessità dei modi dell'indagine può offuscare, per la molteplicità degli obiettivi e la diversità dei dati, la prospettiva storica; ma qui interviene, a orientare lo storico, il suo ingegno, la sua vocazione e, per non trascurare un elemento caro a Febvre, la sua ‛sensibilità'. Uno storico di acume e cultura straordinari, Delio Cantimori, ha però giustamente osservato che la posizione polemica di Febvre lo conduce ad affermare che occorre penetrare nella situazione psicologica intima degli uomini e dei gruppi umani come unico sistema per poter comprendere la storia, lo spinge insomma a voler conoscere quel che veramente non si può conoscere, l'intimo della personalità; e cita il ‛vecchio e saggio Droysen': ‟La personalità in quanto tale non trova la misura del suo valore nella storia in quello che opera, fa e soffre nella storia. Alla personalità viene riservato un ambito più proprio nel quale [...] essa è in rapporto solo con se stessa e con il suo Dio [...]. Per il singolo la cosa più certa che egli possiede è la verità del suo essere, la sua coscienza. In questo santuario non penetra lo sguardo dell'indagine" (v. Cantimori, 1971, p. 227). Ma è ancora nell'inviolabile santuario della propria coscienza che lo storico trova la sua chiave per l'interpretazione dei dati, la soluzione dei problemi. Indicativa in proposito è la vicenda intellettuale di un altro grande storico,
Contro la dottrina platonica dell'essere costituito da idee ha polemizzato
9. Euristica
La visione della storia e della storiografia che è stata alimentata dallo storicismo idealistico ed è preminente nel mondo moderno - per il vigore e l'originalità, se non per il numero dei suoi sostenitori - non accorda spazio a quella precettistica dell'indagine storica che era di prammatica nella storiografia del positivismo e si insigniva spesso del titolo di metodologia o, più propriamente, di euristica. Quanto di fatto attiene al reperimento, alla descrizione, all'edizione dei documenti (testi scritti e manufatti) è materia d'indagine filologica, archivistica e archeologica, paleografica e bibliografica; ed è ovvio che lo storico debba essere in grado di orientarsi nelle discipline (e loro suddivisioni) concernenti le testimonianze di cui egli si avvale nelle sue ricerche.
Oggi si ode spesso parlare della necessità di ricerche ‛interdisciplinari': l'esigenza è tutt'altro che nuova, e non è difficile mostrare che essa è stata avvertita e in qualche modo appagata in ogni tempo. Ma oggi se ne discorre con maggiore insistenza; ed è pertanto necessario premettere che ogni seria ricerca storica è per sua natura ‛interdisciplinare', prima di tutto perché per la storia, che è pensiero, in nessun momento, diffuso o puntuale che sia l'oggetto della ricerca, possono aver valore distinzioni puramente pratiche quali sono quelle consuete delle ‛discipline', di ciascuna delle quali l'autonomia è fittizia e trova la sua unica ragione di essere nella didattica o in esigenze di carattere tecnico, nell'uso degli svariati e assai affinati strumenti a cui può far oggi ricorso un ricercatore. La mente dello storico si giova non già dei sussidi che le si offrono in astratto, ma di ciò che essa stessa sceglie, col suo criterio e secondo il suo intendimento; e con quei sussidi si foggia intelligentemente, caso per caso, gli strumenti idonei alla sua particolare ricerca: senza di che, il ricorso ai detti strumenti, ‛interdisciplinari' o non che siano, si risolve in una meccanica e sterile aggregazione di nozioni, dati ed esperienze tecniche (non molto dissimile dal modello pickwickiano del saggio sulla metafisica cinese composto col sussidio delle voci Metafisica e Cina dell'Encyclopaedia Britannica). A considerazioni non diverse danno luogo non poche trattazioni di ‛metodologia' o di euristica, che spesso si presentano nella forma di ‛introduzione alla storia' e non si appagano della pratica utilità che possono avere come manuali e repertori sistematici. Ogni studioso sa bene quanto sia vano aggiungere alla ‛precettistica' tecnica delle varie discipline filologiche una serie di suggerimenti, adattati a prevedibili casi, circa l'esame, la valutazione dei documenti in sede storiografica, le prospettive e i rischi d'errore dell'ermeneutica.
Certo, anche l'esperienza altrui può giovare, e l'esemplificazione può rendere più attenti, specialmente quando si presentino casi analoghi (ma anche sotto questo rispetto nulla può giovare meglio dello studio dei grandi storici): tuttavia, di là dall'elementare analisi filologica, ogni documento acquista un suo proprio valore e significato per opera del suo interprete; e la lettura che questi ne fa non è, neppure sul semplice piano descrittivo o su quello paleografico, indipendente dal contesto ideale in cui il documento viene collocato nel corso dell'indagine. Per ogni documento, i dati realmente ‛obiettivi' sono scarsissimi, e tutti esteriori; quel che attiene alla lettura, all'esegesi, all'uso che del documento viene fatto nella ricerca storica, non appartiene più al documento come ϕαινόμενον, ma all'intelletto dello storico. È stato giustamente detto, non solo in relazione all'ermeneutica, ma alla lectio stessa di un manoscritto difficile a decifrarsi (sia esso di pertinenza della ‛paleografia' o della ‛papirologia' o della ‛epigrafia', per servirsi di una discutibile nomenclatura invalsa nella pratica accademica), che un testo non si legge veramente (anche come spelling) se non quando lo si è compreso: che è un paradosso solo apparente, perché di fatto è la mente che guida gli occhi e ne perfeziona la visione. Allo stesso modo, i documenti parlano secondo le sollecitazioni che ricevono dallo storico; e queste sollecitazioni sono efficaci nella misura in cui le idee, i problemi, gli intendimenti dello storico sono chiari e precisi. Come ogni ricercatore, lo storico trova quello che cerca; ciò significa che la sua εὕρεσις è, come quella di Archimede, non già un ritrovamento accidentale, ma la logica conclusione di un'assidua e rigorosa riflessione; analogamente, come ha osservato Kant, nel metodo galileiano l'indagine segue un disegno delineato dalla ragione. Testi e monumenti noti da secoli possono acquistare, in un contesto storiografico originalmente elaborato, non solo un significato inatteso, ma addirittura un aspetto nuovo; particolari comunemente considerati trascurabili possono assumere, in una geniale interpretazione storica, valori imprevisti; e anche da documenti dei quali sia accertata la falsità lo storico può trarre elementi validi per la sua indagine.
Ogni studioso di storia che non si appaghi di compilazioni cronachistiche ha la consapevolezza che l'opera sua non consiste nel raccoglier dati né nell'analizzarli o classificarli, ma nel pensarli. Come ha mostrato Kant, pensare è giudicare; e come ha visto Croce, il giudizio non ha altra forma che il giudizio storico, ‟unità di un soggetto, che è una rappresentazione o intuizione che si chiami, e pertanto individuale, e di un predicato che è universale" (v. Croce, 1945, vol. II, p. 12). Sia o no convinto dell'identità di storia e filosofia, chi si dedica alla storiografia fa diretta esperienza di un intimo travaglio che è proprio della ricerca storica: un processo di διανόησις, del quale Platone fa cenno nella Lettera VII: ‟A forza di consumare l'uno contro l'altro gli elementi (del conoscere), nomi e definizioni, immagini e sensazioni, e di discuterli in discussioni serene [...] allora a chi vi intenda quanto è possibile a capacità umana, subitamente rifulge comprensione e intuizione intorno a ciascun oggetto"; e un ulteriore chiarimento viene da Croce: ‟Se il solo atto che meriti il nome di giudizio è quello che giudica dei vari atti spirituali e delle loro forme e determinazioni varie, unico vero giudizio è quello storico, e poiché altra realtà non v'è che la storia, la sola filosofia concreta e piena è la storiografia, e, in senso didascalico e professionale, la riflessione sulla storiografia, la quale peraltro è sempre in certo modo, e non può non essere, riflessione su se stesso, possesso dei propri principi e delle proprie categorie di giudizio" (v. Croce, 19662, vol. II, p. 142).
10. Aspetti e figure della storiografia del Novecento
Oltre che dagli orientamenti già indicati, la storiografia del nostro secolo è caratterizzata da una varietà di temi che, se non è del tutto nuova (perché antecedenti possono additarsi nell'erudizione storica dal Seicento in poi), ha avuto però un assai vasto sviluppo, anche per le nuove acquisizioni negli studi umanistici oltre che nelle scienze sperimentali e per i moltiplicati sussidi tecnici del tempo presente. Alla storia del mondo antico sono state dedicate opere cospicue, in armonia con i progressi della ricerca archeologica e con le grandi conquiste - che datano in gran parte dall'Ottocento (con la decifrazione dei ieroglifici egizi e delle scritture cuneiformi), ma per una parte non irrilevante dal Novecento - della ricerca linguistica e filologica. Se nel secolo scorso la storia del Vicino Oriente dall'Egitto alla ‛mezzaluna fertile' (
Ma se tanti aspetti dell'economia e della società che nel Vicino Oriente sono ora ben illustrati restano tuttora in ombra nel mondo greco e romano, il primato di questo nelle grandi opere dell'ingegno, nel pensiero, nella poesia e nell'arte non è stato minimamente scosso, come il genio di Goethe aveva presentito; e nulla v'è in tutte le letterature orientali che sia comparabile alla storiografia classica. Superficiali, episodiche, acritiche, le registrazioni in varia forma fatte delle res gestae di monarchi orientali o di gesta deorum per homines offrono tuttavia un notevole sussidio anche alla ricerca storica sul mondo classico; e così da parte di classicisti come di orientalisti è stata avvertita l'importanza di una synopsis dei due mondi contigui e collegati, e non soltanto per le origini egee - al cui studio hanno dato nuovo impulso i grandi scavi di centri minoici e micenei e la recentissima decifrazione della scrittura micenea (‛lineare B') - e per l'età ellenistica. Alla ricordata Geschichte des Altertums di Eduard Meyer e alla Cambridge ancient history si sono dunque affiancate numerose opere analoghe di proporzioni minori, in alcuni casi come parti iniziali di ‛storie universali'. La storia dei singoli Stati ed ethne dell'Oriente classico è stata naturalmente oggetto di numerosi saggi e taluni di questi studi hanno un posto di rilievo nella storiografia contemporanea: vi si distinguono per originalità di concezione i saggi dedicati alla Weltanschauung del Vicino Oriente da un finissimo interprete dei monumenti,
Criteri, metodi e tecniche di ricerca della storiografia occidentale si sono diffusi nei paesi di tradizione culturale non europea, e studiosi asiatici e africani la cui formazione si è svolta sotto il segno di grandi religioni non nazionali (il buddhismo e l'islamismo, per citare le maggiori) non solo attendono a ricerche sulla storia dei loro rispettivi paesi, ma - come avviene segnatamente in
Nell'ambito filologico, accanto alla continuazione di sistematiche collezioni e di repertori di testi e documenti, che sono stati le patenti di nobiltà dell'erudizione storica del secondo Ottocento - i grandi corpora epigrafici greci, latini, semitici, i
L'impegno e il rigore nell'apprestamento dei ‛materiali' per la ricerca storica, il connesso intenso lavoro di archeologi, filologi e archivisti, il parallelo sviluppo della storia delle scienze fisiche restano però fatti notevoli ma marginali rispetto alla storiografia vera e propria, che esige in più vocazione filosofica, sensibilità ai problemi etico-politici, spirito liberale: la facoltà intuitiva, che si alimenta di queste doti, sa supplire al difetto di documenti, mentre questi, per copiosi che siano, non bastano a fare storia. È esemplare il caso del libro di Omodeo su L'opera politica del Conte di Cavour, in cui il geniale storico ha ‛divinato' quel che attestano o suggeriscono i documenti a cui la commissione incaricata dell'edizione delle carte cavouriane non permise accedesse lo studioso indipendente e inviso al regime fascista; e appunto Omodeo ha scritto, polemicamente, che ‟i documenti non basta copiarli e stamparli, ma bisogna anche capirli e connetterli"; e ha ricordato ‟il canone propedeutico che è così elementare da parer banale", che ‟alla storia è tanto necessaria l'euristica quanto l'ermeneutica delle fonti".
L'inesauribile ricchezza della storia si riflette nella ricchezza e varietà delle interpretazioni dei grandi storici, che dei canoni storiografici dettati da una secolare esperienza si valgono con la libertà e l'originalità con cui gli artisti si servono dei loro strumenti tradizionali. Come il pensiero e l'opera dell'uomo, la storia non soffre né schemi precostituiti né formule dogmatiche. Sentimento della dignità civile o passione politica, sensibilità artistica o finezza psicologica sono insieme stimolo e sigillo all'opera degli storici, come alla loro formazione. Ne danno testimonianza, nel nostro secolo non meno che nei precedenti, i maggiori storici, quelli che segnano la via:
Ai nomi ora ricordati, e a quelli precedentemente citati, sarebbe giusto aggiungerne molti altri, non meno degni di particolare memoria: ché le esperienze, i travagli, le speranze del nostro secolo hanno suscitato molte vocazioni alla ricerca sotto il segno di
Due nomi infine risplendono nella costellazione dei grandi storici del nostro tempo: Benedetto Croce e Adolfo Omodeo, uniti l'uno all'altro da ‟qualcosa di più obiettivo e più sicuro che non fosse l'amicizia personale: una cerchia di pensiero" (come ha scritto Croce commemorando l'assai più giovane amico). L'uno ha segnato del suo nome un'epoca della cultura europea; l'altro, non del pari noto né in Italia né fuori, ha vissuto una vita difficile. Da una giovanile ortodossia gentiliana è giunto, attraverso un'esperienza storiografica di inconsueta ampiezza e complessità e di eccezionale vigore e profondità, a una piena adesione alla dottrina crociana: una conversione che negli anni venti del secolo, in Italia, esigeva una forza d'animo singolare; e difatti non vi fu un altro esempio. Lo spirito che ha diretto l'opera di Omodeo - che si estende dalle origini cristiane, da Paolo e dall'evangelio giovanneo, alla visione europea del Risorgimento italiano, a Mazzini e Cavour, alla cultura francese della Restaurazione, a Tucidide e a Calvino - è quello che fa della storiografia un'esigenza irrinunziabile, della storia un bene perenne dell'uomo: ‟La storia sviluppata in un sistema di civiltà, in un patrimonio grandioso, che va dal patrimonio tangibile dei monumenti, delle scoperte e delle invenzioni, a quello, sempre più sfuggente ad un apprezzamento economico, delle idee, della sensibilità morale, della coscienza giuridica, del gusto artistico, non può da noi essere apprezzato se non in un sistema e in un organismo. È perciò sempre positiva, quale che sia l'incremento che noi vagheggiamo, e il nostro canone di valutazione: anche se il prezzo d'opere e di dolori d'ogni acquisto poté parer troppo grave alle passate generazioni; anche se ad esse poté essere doloroso il non conseguire quanto desideravano. Noi questa opera di civiltà la scopriamo interiore a noi, e ne prendiamo possesso, e la riconosciamo ineliminabile" (v. Omodeo, 19552, pp. 599-600). (V. anche filosofia, progresso e storicismo).
Bibliografia
Antoni, C., Dallo storicismo alla sociologia, Firenze 1940.
Antoni, C., Storicismo e antistoricismo, Napoli 1964.
Arcangeli, B.,
Bloch, M., Apologie pour l'histoire ou Métier d'historien, Paris 1945 (tr. it.: Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino 1969).
Borsa, G., Introduzione alla storia, Firenze 1980.
Braudel, F., Écrits sur l'histoire, Paris 1969 (tr. it.: Scritti sulla storia,
Braudel, F. (a cura di), Problemi di metodo storico, Bari 1973.
Braudel, F. (a cura di), La storia e le altre scienze sociali, Bari 1974.
Calogero, G., Storia, in Enciclopedia Italiana, vol. XXXII, Roma 1936, pp. 771-774.
Cantimori, D., Storici e storia. Metodo, caratteristiche e significato del lavoro storiografico, Torino 1971.
Carr, E. H., What is history?, London 1961 (tr. it.: Sei lezioni sulla storia, Torino 1966).
Chabod, F., Lezioni di metodo storico, Bari 19733.
Collingwood, R. G., The idea of history, Oxford-London 1946 (tr. it.: Il concetto della storia, Milano 1966).
Crespi, P. (a cura di), Storia e sociologia, Milano 1974.
Croce, B., Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, Bari 1908.
Croce, B., Filosofia della pratica. Economia ed etica, Bari 1909.
Croce, B., Logica come scienza del concetto puro, Bari 1909, 19285.
Croce, B., La filosofia di Giambattista Vico, Bari 1911.
Croce, B., La rivoluzione napoletana del 1799, Bari 1912, 19485.
Croce, B., Saggio sullo Hegel, seguito da altri scritti di storia della filosofia, Bari 1913.
Croce, B., Teoria e storia della storiografia, Bari 1917, 19435.
Croce, B., Materialismo storico ed economia marxistica, Bari 1918.
Croce, B., Conversazioni critiche, Serie I-V, Bari 1918-1939, 19512.
Croce, B., Pagine sparse, 3 voll., Napoli 1919-1927, Bari 19603.
Croce, B., Etica e politica, Bari 1921.
Croce, B., Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari 1921, 19292.
Croce, B., Storia del Regno di Napoli, Bari 1924, 19433.
Croce, B., Storia d'Europa nel secolo decimonono, Bari 1932.
Croce, B., Ultimi saggi, Bari 1935.
Croce, B., La storia come pensiero e come azione, Bari 1938, 19733.
Croce, B., Il carattere della filosofia moderna, Bari 1940.
Croce, B., Discorsi di varia filosofia, 2 voll., Bari 1945.
Croce, B., Filosofia e storiografia. Saggi, Bari 1949.
Croce, B., Nuove pagine sparse, 2 voll., Napoli 1949, Bari 19662.
Croce, B., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bari 1952.
Droysen, J. G., Grundriss der Historik (1858-1882), München 1936 (tr. it.: Istorica. Lezioni sulla enciclopedia e metodologia della storia, Milano 1966).
Febvre, L., Vivre l'histoire. Propos d'initiation, Paris 1941.
Febvre, L., Combats pour l'histoire, Paris 1953 (tr. it. parziale in: Problemi di metodo storico, Torino 1976).
Febvre, L., Pour une histoire à part entière, Paris 1962 (tr. it. parziale in: Problemi di metodo storico, Torino 1976).
Finley, M. J., The use and abuse of history, London 1975 (tr. it.: Uso e abuso della storia, Torino 1981).
Fueter, E., Geschichte der neueren Historiographie, München 1911 (tr. it.: Storia della storiografia moderna, Napoli 1944).
Gadamer, H.-G., Geschichte und Geschichtsauffassung. Geschichtlichkeit, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, vol. II, Tübingen 1958.
Huizinga, J., La mia via alla storia e altri saggi (a cura di
Le Goff, J., Storia, in Enciclopedia Einaudi, vol. XIII, Torino 1981, s. v.
Le Goff, J., Chartier, R., Revel, J. (a cura di), La nouvelle histoire, Paris 1978 (tr. it.: La nuova storia, Milano 1980).
Le Goff, J., Nora, P. (a cura di), Faire de l'histoire, Paris 1974 (tr. it.: Fare storia, Torino 1981).
Marrou, H.-I., De la connaissance historique, Paris 1954 (tr. it.: La conoscenza storica, Bologna 1962).
Meinecke, Fr., Die Entstehung des Historismus, 2 voll., München 1936 (tr. it.: Le origini dello storicismo, Firenze 1954).
Omodeo, A., Religione e civiltà dalla Grecia antica ai tempi nostri, Bari 1948.
Omodeo, A., Il senso della storia, Torino 19552.
Omodeo, A., Studi sull'età della Restaurazione, Torino 1970.
Rossi, P. (a cura di), Lo storicismo contemporaneo, Torino 1968.
Samaran, Ch. (a cura di), L'histoire et ses méthodes, Paris 1961.
Topolski, J., Metodologji historii, Warszawa 1973 (tr. it.: Metodologia della ricerca storica, Bologna 1975).
Veyne, P., Comment on écrit l'histoire. Essai d'épistémologie, Paris 1971 (tr. it.: Come si scrive la storia. Saggio di epistemologia, Bari 1973).
Fonti storiche di Giuseppe Galasso
sommario: 1. La ‛dottrina delle fonti' e le sue origini. 2. La revisione della nozione di fonte storica e le tecniche moderne. La storia à part entiére. 3. L'uso del calcolatore e le sue implicazioni. 4. Le ‛nuove fonti' della storia contemporanea: a) le fonti audiovisive; b) le fonti orali; c) la stampa periodica; d) arricchimento della tipologia delle fonti; e) la fisionomia generale delle nuove fonti. 5. Progresso e innovazione nella tutela e conservazione dei materiali. 6. Considerazioni conclusive. La storia come ‛storia contemporanea'. □ Bibliografia.
1. La ‛dottrina delle fonti' e le sue origini
Nei suoi scritti di ‛enciclopedia' e di ‛metodologia' della storia Gustav Droysen fissò, nei primi due o tre decenni dopo la metà del XIX secolo, una ‛dottrina delle fonti' che riassumeva sostanzialmente il cammino compiuto in più di quattro secoli dalle discipline storiche in Europa. Droysen distingueva accuratamente le ‛fonti' (Quellen) vere e proprie dagli ‛avanzi' (Überreste). Fonti in senso proprio erano per lui i materiali trasmessi ad hoc dal passato e aventi come fine ‟la rappresentazione o il ricordo che ne è stato registrato". Ciò che in essi ‟per noi è essenziale si è che coloro da cui provengono si proponevano di dare notizia di avvenimenti o situazioni precedenti". Avanzi erano, invece, per Droysen, i resti di cose del passato tuttora ‟conservate nel nostro presente", per quanto ‟variamente trasformate o frammentarie e quindi sfigurate": ‟così un antico edificio, un antico istituto corporativo, la nostra lingua stessa" e cosi via per tante ‟altre cose, forse dissotterrate o che si sono conservate nelle macerie e anticaglie di vecchie chiese o di castelli a lungo disabitati". Queste cose sono ‟testimoni tanto più eloquenti di tempi passati" in quanto ‟cento o trecento anni fa sono rimaste ferme, come sopra pensiero", mentre la lingua, ad esempio, è anch'essa ‟un pezzo del passato", ma ‟tuttora vivo e in pieno uso". Un tertium genus di fonti storiche veniva poi individuato da Droysen nei ‛monumenti' (Denkmäler), ossia in quei materiali costituiti da avanzi del passato aventi lo stesso ‛fine' delle fonti, la registrazione e il ricordo: una iscrizione o una pietra, un edificio o un'opera d'arte, una moneta o una medaglia e così via (v. Droysen, 1936; tr. it., pp. 38-39). A questa tripartizione fondamentale Droysen accompagnava varie distinzioni, interne a ciascuno dei tre ambiti fondamentali. Dalla sua classificazione emergeva, per un verso, che ‟la differenza di valore delle tre specie di materiali dipende dallo scopo per il quale debbono servire al ricercatore"; per l'altro verso, che ‟le fonti, anche le migliori, danno, per così dire, soltanto una luce polarizzata", mentre lo storico ‟procede con piena sicurezza fin nei minimi particolari, quando si tratta di avanzi: più acutamente li scruta, più gli riescono fruttuosi, ma sono come frammenti casuali e dispersi" (ibid., p. 347).
La classificazione di Droysen è solo un esempio fra i molti possibili nella trattatistica, anch'essa frequente fino ai primi decenni del XX secolo, di teoria e metodologia della storia. Droysen aveva, tuttavia, assai vivo il senso della peculiarità del lavoro storiografico. ‟Per la natura dei suoi materiali - egli scriveva - l'empirismo storico manca dei grandi aiuti che l'empirismo fisico ha nell'osservazione e negli esperimenti. Ma il presente del mondo etico compie esperimenti di ogni specie e consente l'osservazione più approfondita, e ciò offre all'indagine storica il surrogato che consiste nell'illuminare con analogie l'oscura incognita" (ibid.). Se si tralascia la forma di pura e semplice classificazione dei modi di trattare il materiale storico (ricerca e scoperta divinatoria, combinazione, analogia, ipotesi), Droysen coglieva, quindi, appieno almeno il senso della complessità del problema sia epistemologico che teorico della conoscenza storica. In generale, le altre classificazioni delle fonti nei trattatisti o negli studiosi coevi o posteriori a Droysen (v. Bernheim, 1889; v. Langlois e Seignobos, 1898) non manifestano orientamenti o indirizzi sostanzialmente diversi. Esse sono generalmente incentrate sulla distinzione fra, da un lato, le testimonianze lasciate dagli uomini e dalle società del passato intorno al loro pensiero, alla loro vita, azione, attività e, dall'altro lato, la funzionalità di tali testimonianze ai fini della conoscenza del passato; oppure, fra testimonianze dirette e volontarie e testimonianze indirette e involontarie. Solo in qualche caso la nozione di fonte storica viene elaborata in base a criteri di potenzialità e di onnicomprensività assolute e tali, quindi, da conferire al materiale a cui lo storico attinge la plasticità e la varietà che gli sviluppi della storiografia posteriore avrebbero richiesto, anche a prescindere - ove fosse possibile - dalle esigenze che in questo senso derivano da un'approfondita concettualizzazione o teoria della storiografia. Una definizione di questo genere (le fonti come ‟materiale dal quale la nostra scienza attinge la sua conoscenza") offre, ad esempio, - accanto ad altre sue che si muovono nella scia di quelle consuete - Bernheim (v., 1889, p. 252). Non è tanto, però, il forte carattere descrittivo e classificatorio della trattazione quanto il presupposto logico-epistemologico generale della considerazione relativa alle fonti a costituire il punto più debole della concezione tradizionale, se si guarda a essa dal punto di vista dell'esperienza storiografica posteriore. È stato osservato per Seignobos che ‟egli ha voluto darci le regole che permettono di stabilire la realtà di un fatto ‛esteriore', cioè ‛che accade nella realtà oggettiva'. Bernheim e molti altri lo avevano fatto prima di lui: si tratta di confrontare le affermazioni'. Il principio di tali confronti [è che] più osservatori indipendenti non possono ingannarsi allo stesso modo, se sono davvero indipendenti, se cioè non vedono le cose dallo stesso punto di vista, sia in senso letterale (osservatori nello stesso luogo) che in senso traslato (osservatori con gli stessi pregiudizi o soggetti a deformazioni analoghe). Occorre, inoltre, naturalmente, che le testimonianze indipendenti vertano sul medesimo ‛fatto', sugli stessi momenti, sugli stessi luoghi, le stesse persone, gli stessi episodi di un avvenimento. Se tutte queste condizioni sussistono insieme, se tutte le testimonianze concordano, il fatto è ‛scientificamente' stabilito; se non c'è concordanza, bisogna ‛soppesare' le testimonianze [...], scartare quelle ‛sospette' e, se sono tutte sospette, ‛astenersi dal concludere'" (v. Marichal, 1961, p. 1345). Sia la nozione di ‛fatto' che quelle di ‛realtà oggettiva' e di ‛prova scientifica', costituenti l'impalcatura concettuale della teorizzazione non solo di Seignobos, ma di tutta
Certo, non ovunque il processo è stato così articolato come si è potuto descriverlo per la Francia. Qui - è stato osservato - ‟la generazione posteriore a quella di Seignobos, la generazione dei Febvre e dei Marc Bloch, se ha fatto spesso di lui una sua ‛testa di turco' (soprattutto Febvre), professava tuttavia per lui ancora qualche indulgenza [...]. La generazione seguente fu più sdegnosa: ha studiato filosofia con Bergson [...]; ha letto, o avrebbe potuto leggere se avesse avuto, come dice Febvre, maggiori ‛bisogni filosofici', i primi scritti di Heidegger e di Jaspers; il ‛positivismo' di Seignobos le sembrava sommario. Si leggeva À l'ombre des jeunes filles en fleurs e la psicologia di Seignobos appariva sommaria. Si studiava la matematica elementare al tempo in cui Einstein andava a esporre la teoria della relatività al Collège de France e dialogava con Bergson sul tempo, mentre Planck e Bohr fondavano la meccanica dei quanti e Louis de Broglie la meccanica ondulatoria. I professori facevano del loro meglio per mettere la loro generazione al corrente di tutto ciò; ed essa, anche se non ne capiva forse gran che, ne coglieva abbastanza per trovare comico che un Seignobos potesse parlare di ‛Osservazione' e di ‛osservatore' a proposito di un Commynes, di un Tacito o anche di un Tucidide, e deplorevole che, ignorando così evidentemente i procedimenti delle scienze fisiche e naturali, egli si avventurasse a confrontarle con le scienze storiche" (ibid., pp. 1345-1346). In Germania l'ortodossia accademica e l'osservanza delle autorità stabilite da vecchie o da nuove tradizioni consentirono invece alla ‛linea Bernheim-Droysen' di mantenersi vigorosamente viva, al punto da rendere ineccepibile l'osservazione che ‟ci sono stati dei tentativi di critica alla classificazione di Bernheim, particolarmente all'interno della scienza tedesca, ma queste critiche (A. Feder,
La nozione di fonte storica elaborata dalla cultura positivistica rappresentava, in ogni caso, il culmine di un processo plurisecolare di
2. La revisione della nozione di fonte storica e le tecniche moderne. La storia à part entiére
Non è stato, tuttavia, tanto il dibattito relativo alla concezione generale della storiografia a provocare una revisione della nozione di fonte storica quanto, invece, l'esperienza concreta del lavoro storiografico quale si è venuto via via sviluppando alla luce di nuovi interessi e di nuovi atteggiamenti culturali e nel contatto diretto o indiretto fra le discipline storiche, nonché fra queste e altre discipline. Soprattutto per quanto riguarda i nuovi interessi, il processo è stato particolarmente chiaro e cospicuo. L'attenzione degli storici ha reso, infatti, non solo centrali (da periferici che erano), ma tendenzialmente addirittura esclusivizzanti o, almeno, dominanti i temi di studio concernenti la cosiddetta ‛
Può essere interessante osservare che gli sviluppi qui sommariamente illustrati hanno prodotto come una sorta di scivolamento dei tipi di fonti caratteristici di una periodizzazione o di un ambito storiografico a quelli successivi. Così il reperto materiale di tipo archeologico, proprio dello scavo preistorico e di quello consacrato alle antichità mediorientali e greco-romane, si è esteso fino all'arco della storia moderna e contemporanea nella quale il museo delle tradizioni popolari, le raccolte di attrezzi e strumenti o di macchine e di arnesi, le collezioni di arredamenti e di abbigliamenti, come pure di oggetti preziosi e decorativi, hanno ormai un posto consacrato dalla sensibilità generale prima ancora che dall'uso. A sua volta il documento notarile, fonte privilegiata della storiografia medievistica, ha fatto anch'esso il suo ingresso nella storia moderna e contemporanea, dove è diventato, fra l'altro, uno dei supporti principali delle tecniche quantitativistiche. A loro volta le grandi relazioni e inchieste dei poteri e delle amministrazioni pubbliche, che caratterizzano i primi momenti di maturità e di efficienza dello Stato moderno, sono rimaste anche alla base di procedimenti specifici della storia contemporanea. Inversamente, la fonte narrativa, memorialistica, epigrafica, di tradizione antica con prosecuzione medievale fino al Rinascimento, i regesti o le edizioni di intere serie notarili proprie della medievistica, le corrispondenze e i documenti diplomatici di tradizione modernistica hanno conosciuto un relativo declino della loro precedente egemonia. Gli apparati critici degli studi più significativi testimoniano con eloquenza gli effetti di queste variazioni. Negli archivi stessi, i fondi prima trascurati o reputati meno ‛nobili' di quelli della diplomazia o dell'alta amministrazione hanno acquistato una importanza affatto nuova e figurano, insieme con i fondi notarili, fra i più consultati. Parallelo è stato pure lo sconfinamento reciproco delle varie periodizzazioni e ambiti storiografici nelle loro tecniche e nei loro metodi di lavoro. Esemplare il caso dell'archeologia classica. Essa, ricordava
Questi esempi potrebbero essere facilmente moltiplicati. Più importante è, però, aggiungere, alla constatazione dello scivolamento sopra indicato dei vari tipi di fonti dalle periodizzazioni più antiche a quelle successive, la parallela constatazione di un inverso e altrettanto significativo rivolgersi della tecnica più recente verso le testimonianze del passato. L'applicazione delle tecniche moderne (dai raggi X ai rivelatori chimici, dalla fotografia aerea alle elaborazioni statistiche meccanizzate e più sofisticate, e via dicendo) all'esame delle fonti storiche ha comportato rinnovamenti sostanziali della tecnica e dei metodi di ricerca in tutte le discipline storiche. In sostanza, l'ampliamento delle testimonianze e dei dati considerati come fonti storiche non avrebbe di per sé comportato tutte le conseguenze che effettivamente ha comportato, se non fossero mutati anche i metodi di trattamento delle fonti stesse. Più esattamente, i due processi, quello di allargamento del materiale considerato come fonte storica e quello di innovazione del suo trattamento, formano un unico svolgimento che va esso stesso considerato nel suo insieme. Già agli inizi del XX secolo si avevano non solo le prime applicazioni del metodo stratigrafico agli scavi archeologici, ma anche l'applicazione di procedimenti fisico-chimici alla tecnica degli scavi, del restauro e della conservazione. Tra il 1907 e il 1913 si operavano pure, al largo di
Lo spostarsi del tipo di approccio e di valutazione delle fonti storiche da una disciplina all'altra e la generalizzazione dei procedimenti tecnici moderni non hanno annullato, tuttavia, le esigenze dello specialismo. Si può, anzi, dire che queste esigenze siano cresciute proprio in rapporto agli sviluppi sopra illustrati, dato che, al limite, ogni tecnica di trattamento delle fonti esige la sua specializzazione. In tale senso si è, comunque, di fatto accentuato, proprio e soprattutto per la problematica delle fonti e in tutta l'attività storiografica, l'indirizzo generale della ricerca moderna e contemporanea, che si esprime nella segmentazione progressiva (cronologica, geografica, settoriale, tematica) delle competenze disciplinari. Riflessi metodologici più alti e più cospicui non sono mancati. La graduale transizione dell'oggetto storico da fatto o evento a processo o sviluppo, il conseguente metro della lunga durata come canone più adeguato all'impostazione dello studio di processi e sviluppi, la prevalenza dell'analisi quantitativa su quella qualitativa per gli studi da condurre con ampiezza soddisfacente sulla base sociale più larga sono altrettanti esempi di reciproca interferenza tra le nuove vedute, che spingevano a una diversa considerazione e trattamento delle fonti, e le tecniche sollecitate dalla nuova configurazione che le fonti assumevano proprio per effetto della nuova considerazione e del nuovo trattamento. Né questa situazione è priva di elementi contraddittori. Da un lato vi sono, infatti, la forte spinta alla storicizzazione, che deriva dalla prevalenza della dimensione di processo su quella di evento, dall'allargamento della considerazione storica all'ambiente naturale e all'influenza delle permanenze di più lunga durata, e la promozione storiografica di ogni ambito e momento della vita sociale a oggetto perfino privilegiato della considerazione storica. Tali elementi corrispondono all'esigenza storicistica che la cultura europea ha sentito più di ogni altra nel XIX secolo e che si è tradotta, nei diversi momenti e tendenze di quella cultura, in idee centrali come quelle di progresso, dialettica, civiltà, evoluzione e così via. La stessa aspirazione a una storia globale, à part entiere, totale, integrale, o come altrimenti veniva e viene detto, si trova già matura nella stessa fase della cultura europea. Andrebbe messo, anzi, in rilievo che idee fortemente storicizzanti, quali quella di progresso o quella di civiltà intesa come totalità storica, appartengono già al patrimonio intellettuale europeo nella fase matura dell'illuminismo. Da questo punto di vista il parallelismo o la sovrapponibilità fra molti modelli, idee e nuclei espositivi della storiografia illuministica, di quella positivistica e di quella della seconda metà del XX secolo sono addirittura macroscopici. Ulteriormente da notare è anche il legame fra questi modelli, idee e nuclei, già nella loro prima formulazione illuministica, con la curiosità, i metodi e le aperture dell'erudizione europea dalla metà del XVII secolo in poi
3. L'uso del calcolatore e le sue implicazioni
Gli esempi e le considerazioni di Le Roy Ladurie meritano di essere ulteriormente seguiti sia perché illustrano un modo rilevante di trattare le fonti sia per le riflessioni che sollecitano. ‟Il calcolatore egli scrive ha finito per trovarsi al centro di una delle più feconde discipline della nuova scuola, la demografia storica. In questo campo il compito più arduo e, soprattutto, più faticoso consisteva nella rincostruzione delle famiglie vissute ad esempio nel XVII e XVIII secolo. I ricercatori che vi si accingevano erano costretti finora a compilare per un determinato villaggio, oggetto dei loro studi, schede di tutti i matrimoni, battesimi e sepolture annotati nel corso di due secoli nei registri parrocchiali tenuti dai successivi curati. In un secondo tempo bisognava riunire queste decine di migliaia di dati in ‛schede familiari', ricostruendo in tal modo per ogni coppia la nascita, il matrimonio e la morte dei genitori e dei figli. Si trattava di un lavoro di schedatura titanico e deprimente, per cui potevano occorrere mesi ed anni senza che all'orizzonte spuntasse il più piccolo bagliore di scoperta intellettuale. Solo quando finalmente le famiglie erano state ricostruite, si poteva procedere a calcoli illuminanti sulla fecondità, la limitazione delle nascite, la mortalità, ecc. È questo il motivo per cui molti ricercatori a Cambridge e a Parigi elaborano dei programmi grazie ai quali si può affidare al calcolatore tutta la fase preparatoria più ingrata, dallo spoglio iniziale dei registri alla ricostruzione e all'impiego statistico dei dossier familiari. Alla fine, il compito dello storico consisterà quasi unicamente nel pensare: cosa che, in realtà, dovrebbe rappresentare la sua specifica vocazione" (v. Le Roy Ladurie, 1973; tr. it., p. 5). Non meno eloquente è l'altro esempio addotto da Le Roy Ladurie e relativo alla ricerca di un gruppo della École des Hautes Études sugli affitti a Parigi dal XV al XVIII secolo. Anche per questa ricerca ‟la chiave del successo stava nel calcolatore. I dati di base, relativi a questi affitti, dormivano da secoli negli archivi notarili o nei registri contabili di ospedali e conventi. Grazie a quest'indagine, considerevolmente accelerata dall'uso dei calcolatori, si è riusciti a risvegliare quei dati polverosi dal loro lunghissimo sonno e a porgli le domande fondamentali che assillano la storia quantitativa, quali ad esempio in quale periodo si colloca a Parigi una vera e propria rinascita economica? Si è avuto in questa città uno ‛sviluppo del XVI secolo' o una ‛crisi del XVII secolo' o una depressione alla fine del Medioevo? Il calcolatore ha consentito di trattare questi problemi con un margine di sicurezza molto superiore a quello ottenibile con i procedimenti classici del calcolo manuale. Entro limiti di tempo relativamente brevi, si sono ottenuti, infatti, non già un unico grafico medio degli affitti parigini, bensì più di un centinaio di curve che si avvalorano reciprocamente e che inoltre mettono in luce un'infinità di altri aspetti curve degli affitti secondo la professione dei locatori, secondo i quartieri, secondo il tipo di immobile o di proprietario, ecc." (ibid., pp. 5-6). Vero è che precisa Le Roy Ladurie ‟nella storia, come in ogni altro campo, ciò che conta non è la macchina, bensì il problema. La macchina può interessarci solo nella misura in cui ci permette di affrontare problemi nuovi e originali per metodo, contenuto e soprattutto ampiezza" (ibid., p. 3). Si resta in dubbio, tuttavia, fino a qual punto possa essere considerata puramente ‛tecnologica' questa trasformazione dei metodi di indagine, anche se, ad avviso dello storico francese, ‟gran divoratore d'informazioni, il calcolatore-stonografo si adatta del resto alle problematiche e addirittura alle ideologie più diverse" a quelle dello storico sovietico, che vuole ‟stabilire il grado di sfruttamento cui i grandi latifondisti russi del passato sottoponevano i contadini" (è il ‟più puro marxismo-leninismo, adattato però all'elettronica") come a quelle degli storici americani che, per ‟rivalutare la rivoluzione del 1776" e per ‟trovarci un contenuto eversivo e magari castrista", analizzano col calcolatore ‟le centinaia di migliaia di cifre contenute nei documenti fiscali delle Tredici Colonie", tentando di ‟dimostrare che le prime sommosse della guerra di indipendenza furono causate da uno stato di crisi sociale", giacché ‟i piccoli agricoltori, vittime della depressione e ridotti in miseria dal frazionamento delle loro terre, polarizzarono i loro rancori contro i dominatori britannici" (ibid., p. 4). In realtà, non è l'‛innocenza tecnica' del calcolatore a essere in discussione, e nemmeno la centralità permanente dell'iniziativa storiografica che sottopone al calcolatore le sue fonti e i suoi problemi, bensì piuttosto, e più radicalmente, il tipo di problemi e di fonti intorno a cui il calcolatore porta a focalizzare l'attenzione dello storico. Da questo punto di vista le vecchie fonti (fonti narrative, fonti ideologiche come esposizioni di dottrine e di fedi -, fonti della diplomazia e della politica, epistolari, memorialistiche e simili) rappresentano, indubbiamente, un momento capitale di richiamo alle dimensioni non quantificabili, irriducibili comunque a elaborazioni meccaniche o ad analisi fisico-chimiche, di forze storiche essenziali: da quelle della volontà individuale, variante perenne di ogni permanenza o struttura, a quelle di piccole e grandi forze sociali, nei cui atteggiamenti e comportamenti il contingente, la necessità attuale o le circostanze immediate giocano un ruolo analogo a quello della volontà individuale per il singolo. E si può da ciò misurare la superficialità con cui suole, per lo più, essere liquidata la ‛storia politica', la ‛storia degli avvenimenti', la ‛storia dei re e delle loro guerre e trattati', la ‛storia delle battaglie e delle conferenze diplomatiche', la ‛storia delle amministrazioni municipali' e di tutti gli organismi che, a livello (come suol dirsi con sufficienza) ‛ufficiale', rappresentano le articolazioni formali del potere e della vita civile. A parte l'elemento decisivo che il potere come tale (ossia, anche come volontà immediata e contingente) gioca nella realtà umana di ogni tempo e di ogni paese, l'importanza della sua considerazione in sede storiografica non sta certamente nella banale opportunità di ‟buoni repertori, modesti, coscienziosi, comodi e maneggevoli" o di ‟liste di fatti ‛oggettivabili'" con nomi di sovrani e magistrati, loro itinerari, vicende, ecc. (v. Manchal, 1961, pp. 1348-1350), per quanto sia giusto auspicare che ciò venga in ogni caso fatto sempre di prima mano sulle fonti e con i requisiti imposti dalla critica moderna. Quella importanza sta, infatti, innanzitutto nell'alternativa metodologica e teorica che la vecchia storia purché, beninteso, ininterrottamente ‛svecchiata' - rappresenta nei riguardi della ‛nuova' storia. La frequentazione, la ricorrente proposta, la revisione testuale, l'approfondimento critico delle ‛vecchie' fonti e della loro genesi testuale, ideologica, sociale, ecc. ne conseguono di necessità, non fosse altro che per la medesima insoddisfacente giustificazione e fondatezza teoretica già indicate a proposito della considerazione che porta a liquidarle allo stesso modo della ‛vecchia' storia e insieme a essa. Ma a parte ciò c'è da valutare lo stimolo pratico che da quelle fonti deriva (foss'anche soltanto sul piano psicologico) a uscire dalla logica della reductio ad unum meccanica e quantitativa, delineantesi sull'orizzonte metodologico e concettuale delle nuove tecniche di ricerca. È, però, vero ed è di particolare importanza il fatto che, come ancora nota Le Roy Ladurie, ‟la storia basata sull'informatica non si esaurisce in una categoria di ricerche ben determinate, ma sfocia altresì nella costituzione di un ‛archivio'. Una volta trasferiti su nastro o in schede perforate, e dopo essere stati usati da un primo storico, i dati possono essere infatti conservati per futuri ricercatori, che vogliano trovare correlazioni inedite. [...] Ne emerge un nuovo tipo di archivista, una specie di ingegnere della storia molto diverso dai grandi eruditi formatisi all'Ecole des Chartes" (v. Le Roy Ladune, 1973; tr. it., p. 6). La novità documentaria e archivistica trova, quindi, un corrispettivo immediato nei centri di formazione degli esperti dei nuovi tipi di dati rispetto a quelli della consolidata tradizione degli studiosi di carte, diplomi, cronache, narrazioni, atti vari, di cui l'École des Chartes è l'esempio storico più simbolico e significativo.
4. Le ‛nuove fonti' della storia contemporanea
a) Le fonti audiovisive
Ciò che per le varie branche della ricerca storica configura un nuovo status delle fonti in rapporto al loro trattamento tecnico si traduce, invece, nelle discipline storiche dell'età contemporanea, direttamente in un nuovo tipo di fonti. Tali sono, innanzitutto, le riprese fotografiche, radiofoniche, cinematografiche e televisive degli avvenimenti contemporanei. La tecnica moderna offre qui allo storico una opportunità medita e impareggiabile quella di assistere dal vero, e anche a distanza notevole di tempo, agli avvenimenti da lui studiati. Nastroteche, fototeche e filmoteche compongono ben presto fondi archivistici di nuovo tipo, ancor più consistenti di quelli, pur così originali e cospicui, forniti dal calcolatore. Tra fotografia, da un lato, e cinema e televisione, dall'altro, sussiste, invero, una differenza fondamentale quella fotografica è una ripresa statica, laddove la sequenza cinematografica o televisiva introduce il movimento con una completezza dell'immagine eguale a quella fonica della registrazione radio, che a sua volta dal vivo fornisce le voci e i rumori degli avvenimenti. Naturalmente, anche qui non si tratta di sconvolgimenti radicali. La tranche de vie che la fotografia o la ripresa cinematografica o la registrazione radiofonica riproducono è sempre un frammento ristretto della realtà. Nessun documentario potrà mai offrire nella sua totalità lo svolgimento di una battaglia, di una manifestazione, di una giornata. È bensì vero che la ripresa audiovisiva offre documenti più diretti e immediati di qualsiasi cronaca, racconto o documento scritto, ma la collocazione della macchina da presa e/o del registratore non è meno unilaterale di quella dello scrittore che seleziona tra i tanti documenti quelli che obbediscono ai canoni del suo mestiere o al suo estro individuale. Anche le immagini e i suoni ‛in diretta' sono una selezione e una versione dei fatti osservati e riprodotti. Se non si tiene ben presente questo carattere selettivo e soggettivo (nel suo senso di ‛interpretativo' in base ai canoni e all'estro), si cade nell'errore, che è pure frequente, di ritenere il materiale offerto dai nuovi mezzi tecnici come garantito da una oggettività particolare. Lo sviluppo della fotografia è, per questo aspetto, il più significativo, forse, fra tutti quelli affini. Il progresso tecnico spinge alla massima ‛fedeltà' delle immagini. L'impressionabilità degli obiettivi e delle pellicole tocca col tempo punte esaltanti. L'intervento diretto, il ‛ritocco', ossia una modifica che si muove (e vuole muoversi) largamente sul piano di una elaborazione artistica - tra disegno e pittura - contraddistingue ancora fortemente tutte le prime tecniche fotografiche, a partire dal dagherrotipo e dal callotipo. Nei primi decenni del XX secolo il ritoccatore - che, con la sua arte manuale, dovrebbe portare la fotografia proprio a quella fedeltà di cui la macchina non appare capace - declina inesorabilmente. Ben presto la fotografia avrà dalla macchina anche il colore. Alla fine ne avrà addirittura lo sviluppo istantaneo l'immediatezza, il carattere diretto della ripresa appariranno definitivamente consolidati. Ma tutto ciò, ben lungi dal ridurre la dimensione selettiva e interpretativa della fotografia, la potenzierà ulteriormente. Già prima della fine del XIX secolo la fotografia recherà la firma dell'autore passerà, per così dire, da una presunta condizione di documento notarile, che conserva un anonimato di fondo, quasi di vocazione, pur portando nome e firma del rogatore, a quella di racconto d'autore. La mostra, l'esposizione di fotografie, così come si è venuta in ultimo delineando di gran lunga più vicina (anche quando vuol essere tematica o informativa e anche se associata a oggetti d'altro genere) alla mostra di arti visive che a una mostra documentaria, a un'esposizione di documenti ne è una ulteriore conferma. Perfezionamento tecnico vuol dire perciò insieme, ma non contraddittoriamente, maggiore aderenza del mezzo impiegato alla ‛realta' (o, come suol dirsi, fedeltà) e maggiore libertà e possibilità di espressione e di interpretazione che il mezzo consente all'operatore. D'altra parte, le fonti audiovisive della storia contemporanea non si riducono solo a quelle dirette e volontarie del documentario o del reportage foto-cinetelevisivo e della registrazione radiofonica. Esse comprendono pure la gamma assai ampia di tutta la produzione foto-cine-televisiva e radiofonica. Nel cinema, ad esempio, l'intero arco della produzione, da quella unicamente industriale e commerciale a quella detta d'arte o al cosiddetto cinéma d'essai, è una miniera incomparabile di volti, situazioni, abbigliamenti, arredamenti, costumi, comportamenti, stati di luoghi e di cose, attrezzature domestiche e pubbliche, strumenti del più vario ordine, avvenimenti riprodotti o ricostruiti e così via. Anche quando il fine dell'autore del film è tutt'altro che quello dell'analisi di una qualsiasi realtà storica o sociale, le condizioni tecniche della produzione assicurano anche al film di pura fiction o, addirittura, di sfruttamento di filoni narrativi di mera speculazione commerciale una capacità documentaria (intanto, della storia del cinema stesso), che - per quanto possa essere, come si è detto, indiretta o involontaria - richiede solo di essere interrogata e utilizzata in modo congruo. Ne questa capacità documentaria è limitata alla storia sociale, alla ricostruzione socio-antropologica, alla storia della cultura materiale o della vita quotidiana, come di primo acchito potrebbe apparire. Essa si estende alla storia politica, a quella degli istituti politici e amministrativi, a quella di fatti di grande e di piccolo rilievo. Basti pensare ai film dei ‛telefoni bianchi' nella produzione italiana degli ultimi anni del fascismo o a molti di quelli della produzione francese negli anni del Fronte popolare o di quelli del cinema espressionista germanico o di quelli prodotti dalla diaspora hollywoodiana di questo stesso cinema negli anni trenta o quaranta del Novecento per rendersene immediatamente conto. Inoltre, ed è un punto su cui non si è riflettuto affatto, è proprio il cinema che - se di una qualche forma di esperimento si può parlare in storiografia - ne offre una qualche concreta possibilità. Un film come La presa del potere di Luigi XIV di
b) Le fonti orali
Parallele a quelle sulle fonti audiovisive sono le considerazioni sulle più specifiche fonti foniche che la tecnica moderna ha messo a disposizione della ricerca (ovviamente, non solo di quella storica). La questione principale riguarda qui la possibilità di raccogliere col registratore testimonianze, ricordi, esposizioni di fatti presenti e passati attingendoli direttamente dalla voce di coloro che ne sono stati o ne sono protagonisti, partecipanti, osservatori. Per la verità i ricordi, le testimonianze, le esposizioni delle generazioni giovani e anziane non hanno un bisogno assoluto del registratore per essere trascritte e riportate. Certo è, però, che nessuna trascrizione stenografica può pareggiare in fedeltà e in autenticità la conservazione della viva voce che quelle testimonianze, esposizioni o racconti ha originariamente pronunciato. Peraltro, anche per queste fonti orali specifiche sussiste un pregiudizio favorevole che va ridimensionato e sfatato, perché se ne possa cogliere più precisamente e più proficuamente il motivo di verità. Tale è il caso dello storico che ritiene per questa via di poter ‟finalmente [...] porre domande alle [sue] fonti, chiedere loro di spiegare meglio quanto non [gli] riusciva di capire"; e vede in ciò ‟un vantaggio enorme rispetto alle ambiguità o alle risposte silenziose che talvolta si ottengono dai documenti" e la possibilità di ‟fare una storia viva che non poteva venire sperimentata semplicemente leggendo un libro o un documento" (v. Ewans, 1975, cap. 1). In realtà, il diaframma che così viene indicato e denunciato nella muta freddezza del documento sussiste egualmente e va egualmente indicato nella personalità dell'interlocutore. Questi non solo non può essere considerato come eco passiva, una pura e semplice trasmissione di tradizioni e di fatti, ma, proprio in quanto fonte viva e reattiva, fonte emotiva e pensante, è, semmai, rispetto alle tradizioni e ai fatti riferiti, ancor più ambiguo e difficile a decifrarsi di quanto non lo siano le fonti scritte. Si può, quindi, esprimere ogni scetticismo anche riguardo all'affermazione per cui i testi orali sono ‟portatori inconsci della tradizione" e quelle che essi trasmettono non sono, ‟in un certo senso, conoscenze personali [...], ma conoscenze personali [filtrate] attraverso la loro memoria sociale" (ibid.). La variante della formulazione individuale, del prisma mnemonico ed espressivo della singola personalità assoggetta, anzi, le versioni orali del singolo a oscillazioni, variazioni, confusioni, sovrapposizioni, semplificazioni, trasformazioni, ecc., che il documento scritto per sua natura può comportare solo fino a un certo punto. La pratica di fonti siffatte lo dimostra senza possibilità di dubbio, date le differenze riscontrabili, oltre che fra versioni di soggetti diversi sugli stessi fatti, anche fra più versioni dello stesso individuo sullo stesso fatto. Per di più, come in ogni caso in cui si sottopongono quiz o domande o questionari, il modo stesso di porli può essere (e, in linea di principio, è) un istradamento alla risposta. Il condizionamento soggettivo dello storico rispetto alla ricerca è, su questo terreno, almeno potenzialmente, non solo non inferiore, ma addirittura superiore che sul terreno della documentazione scritta tradizionale. Lo stesso è da dirsi anche per quanto riguarda le mediazioni eventuali fra il raccoglitore della testimonianza orale e la sua fonte rispetto a quelle che di fatto si sono verificate (e che la filologia ricostruisce e valuta) fra le fonti originarie (archetipi, istruzioni o qualsiasi altro documento possibile) e le versioni narrative o documentarie offerte nelle fonti scritte pervenute a noi: le mediazioni della prima specie sono, almeno potenzialmente, maggiori di quelle della seconda. Dove - come si vede - è proprio la comparazione con le fonti della tradizione storiografica più antica a mostrare, nelle evidenti differenze con le fonti rese disponibili dalle nuove tecnologie, che queste ultime, nella loro specificità tecnica, presentano, oltre ai problemi ermeneutici propri di ogni fonte o documentazione, problemi ermeneutici nuovi e specifici per le fonti audiovisive, data la complessità dei loro procedimenti, ciò è vero in misura addirittura maggiore che per altri tipi nuovi di fonti. E, naturalmente, ciò che vale per la raccolta di fonti orali attinenti alle tradizioni, alla lingua, agli oggetti, al lavoro, alla mentalità, ai comportamenti, ossia alla vasta materia di un'antropologia o di una sociologia storica, vale altrettanto per le fonti orali attinenti alla vita politica, alle lotte sociali, alla biografia, alle esperienze varie e alla prassi della vita istituzionale. Il registratore, insomma, è sempre deposito di una fonte che va assoggettata alla critica, come ogni altra. È vero, invece, che la suggestione della ‛storia orale' si è esercitata nella storiografia anche come riflesso assai forte della ‟pratica corrente per gli antropologi [di] studiare le persone di prima mano, mentre gli storici le studiavano sui documenti". E, anche se già nella seconda metà del XIX secolo non era più del tutto vero che la storia venisse considerata come ‟una disciplina che si occupava unicamente di materiale scritto o stampato", e anche se in ciò si poteva vedere ‟solo una differenza di tecniche che aiutava a separare le due discipline", non si poteva negare che ‟era proprio questa tecnica del servirsi di testimonianze orali che manteneva la storia e l'antropologia più o meno divise". Anzi, la differenza tecnica costituiva un elemento di distinzione fra le due discipline maggiore, e non minore, di quello ravvisato nel fatto che ‟gli antropologi si occupano principalmente degli elementi inconsci o irrazionali presenti nelle persone che studiano", laddove gli storici avrebbero ‟sempre escluso l'irrazionale dal loro campo di azione e, dandogli una cattiva fama e scartandolo come folclore, [si sarebbero] preclusi la possibilità di prendere atto di una importante determinante culturale" (ibid.). Una informazione più estesa di storia della storiografia, oltre che della cultura europea, dimostra subito che l'interesse per l'‛irrazionale' - così come per tante altre ‛novità' della storia sociale presentata come quella più all'avanguardia - è già largamente presente sia nel positivismo che nell'illuminismo, come abbiamo, riguardo a problemi analoghi, già ricordato. La storia orale, in quanto fornisce una fonte suppletiva diretta e impreveduta per la storia contemporanea, non è però necessariamente limitata, a differenza di quella che attinge alla documentazione foto-cine-televisiva, all'arco dell'esperienza biografica dei soggetti intervistati. Essa presenta una retroflessibilità, una possibilità di proiezione nella dimensione del passato assai forte, anche se variabile da caso a caso. E ciò che giustamente ha messo in rilievo R. Romano, commentando le ricerche etnostoriche di J. Murra sul mondo andino. ‟Si è diffusa come egli nota - l'abitudine di intendere (come storia orale) l'armarsi di un registratore e andare ad interrogare l'operaio centenario o il contadino non meno vecchio per chieder loro dello sciopero del 1902 o della fondazione della lega nel 1903. Il che è certo utile; va fatto, ma non esaurisce l'immensa possibilità della storia orale. V'è più. Per esempio la possibilità di ricostituire una toponomastica vecchia di quattro secoli", come appunto è accaduto a J. Murra. L'esempio merita, anzi, di essere specificato per la sua esemplarità. Si è trattato, come riferisce Romano, della ricostruzione di tutto un sistema di toponomastica regionale. Si è partiti dal fatto che ‟nel 1562 Íñigo Ortiz visita tutta la regione intorno a Huànuco (Viejo) e dà l'indicazione di tutta una serie di villaggi. Di questi, oggi, non resta che un manay, una pietra miliare, o solo un orto che conserva l'antico nome del villaggio. Ora, intervistando informatori molto anziani, si è giunti ad ubicare più del 60 per cento dei luoghi. Sembra facile, evidente. Ma non lo è affatto, e John Murra mette in guardia ‛Lavorando con attenzione sul terreno, l'ubicazione non presenta problemi seri, malgrado i numerosi cambiamenti politici ed economici che si sono verificati, particolarmente negli ultimi anni. Questo indica che l'identificazione di siti, gruppi etnici e strati archeologici dell'Orizzonte Tardo è possibile nella nostra zona, con l'aiuto della visita che - naturalmente - abbiamo appreso ad usare, con ogni classe di precauzioni'. Debbo qui ricordare che questi ‛archivi della memoria' sono cosa delicatissima, fragilissima; che quasi sempre, nel porre la domanda, si rischia di offrire già la risposta all'interrogato; che questi informatori a volte - sono deformati da quanto un viaggiatore di passaggio gli ha detto erroneamente" (R. Romano, Introduzione a J. V. Murra, Formazioni economiche e politiche nel mondo andino; tr. it., Torino 1980, pp. XV-XVI). Anche in questo caso, insomma, non è tanto un nuovo vangelo documentario che deve essere bandito quanto la necessità di integrarlo immediatamente col suo codice critico.
c) La stampa periodica
Accanto a quelle foto-cine-televisive e a quelle della registrazione sonora, un terzo vastissimo settore di fonti nuove si offre alla storia contemporanea nel mondo vastissimo della stampa periodica, a cominciare da quella quotidiana fino alle riviste di meno frequente apparizione. La novità è qui, invero, assai più relativa. Il giornalismo attuale vanta un'esistenza regolare che si avvia a essere ormai trisecolare nei paesi che ne hanno più antica esperienza. Inoltre, anche in tempi e paesi diversi da quelli del giornalismo moderno, non è mai mancata, essendo un elemento indispensabile alla vita della società, una qualche informazione, di cui ci rimangono - organiche (è raro) o sparse che siano - le testimonianze scritte o, comunque, ricostruibili. È, tuttavia, soltanto col XX secolo che il giornalismo raggiunge la completa maturità della sua struttura tecnica e organizzativa e consegue la ricchezza differenziata e molteplice di articolazioni che ne fa un mezzo di comunicazione di massa vitalissimo e irriducibile, anche dopo l'avvento di mezzi di comunicazione tanto più rapidi e condizionanti come per esempio, e soprattutto, la televisione. Questa vitalità del giornalismo merita riflessione. Per quanto nguarda l'interesse ai fini di una panoramica delle fonti storiche, essa attesta che una particolarità di tali fonti per l'epoca contemporanea è la netta tendenza a una progressiva moltiplicazione della loro tipologia. Il progresso sta tutto nell'affiancare, ai vecchi, nuovi tipi di documentazioni possibili. Il giornalismo lo prova non solo rispetto ad altri tipi di fonti, ma anche al suo stesso interno. La specializzazione ne ha, infatti, moltiplicato le forme in maniera da farne un documento dei più fondamentali, e insieme dei più duttili, per l'analisi e per la comprensione del mondo contemporaneo. Soprattutto, il progressivo sviluppo ne ha accentuato l'inserimento nella società e, quindi, il valore di fonte per la conoscenza di quest'ultima. Basti pensare alla parte vastissima assunta nel giornale del XX secolo dalla piccola pubblicità, la quale, tranne che in inchieste sociologiche di tipo particolare, non ha ricevuto finora un trattamento storiografico adeguato. Vi si ritrovano, pure, gli elementi essenziali di una storia della società nei suoi aspetti materiali e quotidiani, con implicazioni e aperture di inapprezzabile valore sulle mentalità e i gusti, i comportamenti e la condizione socioeconomica. Per di più, l'uso del calcolatore permette ormai di affrontare con semplicità un lavoro scoraggiante dal punto di vista della quantità del materiale da esaminare, mentre la sua suscettibilità di trattamento quantitativo è praticamente illimitata. Negli sviluppi del giornalismo contemporaneo va, inoltre, tenuta presente una serie di tendenze di grande rilievo per fissarne il valore e il significato. È notevole, ad esempio, l'importanza assunta dall'‟interesse dell'utente dell'informazione alla conoscenza primaria degli avvenimenti geograficamente più vicini". Ciò ha portato ‟anche i giornali definiti di distribuzione nazionale a essere, a loro volta, giornali regionali, cioè della regione che gravita intorno al luogo dove è edito
d) Arricchimento della tipologia delle fonti
Nel quadro - notevolmente ampliato rispetto alla tipologia tradizionale - delle fonti della storia contemporanea, le novità non vanno riferite, peraltro, soltanto alle nuove possibilità assicurate dal progresso tecnico, bensì anche alle nuove esigenze a cui la vita sociale contemporanea impone di soddisfare. Il progresso tecnico ha già permesso, grazie al calcolatore, di dare una fisionomia assai più semplice e leggibile anche a documentazioni tradizionali, la cui consultabilità era fortemente condizionata dall'imponenza quantitativa. Basti pensare a ciò che è diventata, da questo punto di vista, la contabilità bancaria il calcolatore è in grado di fornire all'istante le schede di ogni conto e tutte le più sofisticate elaborazioni. Ciò non implica soltanto una semplificazione materiale del lavoro, secondo quanto abbiamo già avuto occasione di dire riguardo all'ausilio apportato in generale dal calcolatore alla fatica dello storico; nel caso di dati del tipo di quelli della contabilità bancaria le possibilità della loro organizzazione consentite dal calcolatore hanno in certo qual modo mutato la fisionomia stessa dei dati, in quanto già in partenza le banche ne hanno potuto disporre in modo diverso, arricchendone la raccolta e l'elaborazione. Ma, oltre a questo e agli altri casi analoghi, per i quali si può parlare più di trasformazione che di novità della fonte, vi sono i casi di vero e proprio incremento della tipologia delle fonti. Per quanto riguarda la storia economica e sociale appare, ad esempio, di grandissima importanza il vasto materiale di cui si è venuti a disporre con le molte inchieste degli studiosi di sociologia, con le ricerche degli uffici di pubbliche relazioni e di human relations nel mondo economico, con le analisi di mercato, con le inchieste promosse e realizzate dai poteri pubblici, con le informazioni e le elaborazioni che sempre più sono ritenute opportune o necessarie per l'attività religiosa, per quella politica e sociale, insomma per ogni aspetto o momento della società. Un altro esempio può essere attinto alla storia demografica e sanitaria i servizi moderni non solo hanno incrementato e variato in maniera radicale i dati relativi alla struttura e al movimento della popolazione, ma hanno pure assicurato una ricchezza senza alcun precedente di dati ospedalieri e clinici che permettono una visione fondamentalmente nuova del problema storico della malattia. È, anzi, da segnalare che la dispersione ingentissima della documentazione diagnostica, di quella connessa ai ricoveri ospedalieri e, soprattutto, di quella connessa alle cure private non basta a togliere importanza a una fonte di storia sociale che, già così come risulta negli archivi ospedalieri, si inserisce tra le grandi sezioni documentarie da tenere presenti nello sviluppo delle fonti contemporanee. Si tratta, comunque, soltanto di esempi, che potrebbero essere facilmente moltiplicati. C'è da aggiungere, semmai, che lo sviluppo delle fonti per la storia sociale non implica una perdita di importanza, e meno che mai una contrazione, del tipo di fonti tradizionali della storia politica. Il forte ampliamento dei relativi archivi, la forse ancor più accresciuta attività normativa e operativa della pubblica amministrazione, per effetto di un costante e universale allargamento delle competenze dei pubblici poteri, la moltiplicazione del numero dei centri di attività politica sia internazionale che interna a ogni paese, il crescente rilievo delle forze sociali e dei più vari tipi di movimenti quali centri ispiratori di volontà e di azione politica accrescono di gran lunga, rispetto al passato, la serie delle fonti qualificabili come politiche e pertinenti sotto questo aspetto. Appare anche da aggiungere la considerazione che gli aspetti sotto i quali la tecnica moderna non risulta - come di regola - amica della conservazione e dell'ampliamento della documentazione di interesse storico non nguardano esclusivamente la storia politica. Un caso tipico è la funzione assolta, da questo punto di vista, dal telefono. Le comunicazioni telefoniche, infatti, hanno largamente sostituito, come appare nell'esperienza di tutti, altri tipi di comunicazione, e innanzitutto e soprattutto quelle epistolari o, comunque, scritte. Non solo il telefono ha prodotto una rapidità di contatti senza confronto con quella dei rapporti tradizionali, ma a esso si deve la possibilità di adeguare lo scambio alle esigenze della conversazione, senza la rigidità dello scritto che deve attendere risposte, repliche e controrepliche e che consente solo in minima misura le ambiguità, le duttilità e la reattività proprie della comunicazione orale. Rapidità e funzionalità si congiungono, quindi, nel determinare la netta prevalenza assunta dalla conversazione telefonica in un campo una volta dominato dallo scambio massiccio di corrispondenza. Ora la registrazione delle conversazioni telefoniche è, presumibilmente, assai scarsa in rapporto alla massa effettiva dei contatti che avvengono per tale mezzo. Nessun apparato poliziesco o di controllo, né alcun sistema di record o di memorizzazione può reggere al confronto. Nella misura in cui vi si riesce, è ovvio che i nastri conservati delle registrazioni sono l'equivalente moderno della documentazione dei rapporti ottenuti per via tradizionale. Infine, analogo è stato l'effetto della celerità degli spostamenti resa possibile dai nuovi mezzi di trasporto. Grazie a essi in un tempo, ancora una volta, incomparabilmente più breve di quello dei rapporti tradizionali è possibile realizzare contatti sostitutivi dello scambio di lettere e di documenti, che scavalcano anche la mediazione telefonica e si affidano ai colloqui personali e diretti, consentendo di riservare l'oggettivazione scritta di accordi, pareri e volontà tutt'al più alla fase conclusiva o ad altre fasi determinanti dei rapporti così intrattenuti (molte volte si preferisce di non lasciarne addirittura alcuna traccia). Ovviamente, in funzione di tali nuove possibilità è scemata pure la necessità di ricorrere a mediatori o, comunque, a terze persone nella trasmissione e conclusione di condizioni, accordi, informazioni, ecc. Alla luce di tali considerazioni risalta molto più che per il passato l'esigenza di integrazioni disciplinari che rendano possibili l'acquisizione, il confronto e lo sfruttamento complessivo della tanto cresciuta e diversificata serie di fonti resa disponibile dagli sviluppi della tecnica e della società moderna. Le frontiere tra le singole discipline, già poste in crisi dalle nuove esigenze e dai nuovi modelli di una storiografia più aperta nei suoi interessi critici e nella sua capacità di concettualizzazione, vengono, quindi, ulteriormente indebolite dal nuovo apparato di informazioni a cui lo storico può attingere le risposte ai suoi problemi.
e) La fisionomia generale delle nuove fonti
Riassumendo, le caratteristiche principali dei nuovi tipi di fonti possono essere così sintetizzate a) specificità tecnica dei singoli nuovi tipi di fonte, la quale, come del resto già per i vari tipi via via affiorati nel passato, impone criteri ermeneutici peculiari, connessi appunto a tale specificità; b) relazione strettissima dei nuovi tipi di fonte con i temi di storia della vita quotidiana, della cultura materiale, insomma con i temi socio-antropologici; c) esaltazione dell'elemento quantitativo nella considerazione storica, a seguito non solo dell'accresciuto numero dei dati disponibili, ma anche della possibilità tecnica di dominarli e di elaborarli in funzione di tematiche anche assai complesse; d) spinta oggettiva alle connessioni interdisciplinari o, meglio, a più forti suggestioni reciproche fra le varie discipline; e) modificata documentabilità di molti aspetti e momenti della vita sociale; f) maggiore connessione, ma anche maggiore autonomia potenziale rispetto al potere politico, sociale, ideologico, economico.
Ciò non vuol dire che si possa giustificare una sopravvalutazione o una mitizzazione delle nuove fonti. Quando si parla, ad esempio, della forza condizionante dei mezzi di comunicazione di massa nella società moderna, si è tentati di pensare immediatamente che lo studio di quei mezzi risolva di per sé i problemi attinenti allo studio degli orientamenti politico-sociali. Si prenda il caso degli orientamenti politici. Per l'Italia uno scrittore particolarmente sensibile al problema faceva rilevare quanto fosse risultata scarsa l'influenza del maggiore giornale italiano anche in uno dei suoi momenti più felici. ‟Quando si trattava di farsi un'opinione, in materia politica soprattutto, scriveva infatti l'autore in questione quando veniva l'ora di prendere una determinazione, non si dava retta al giornale tanto ricercato e letto cosi volentieri. La tendenza antigiolittiana del ‟Corriere", con tutta la sua diffusione, non disturbò mai il cammino di Giolitti durante il decennio della sua ‛dittatura parlamentare'; nella stessa cerchia del Naviglio non ci fu una campagna elettorale a Milano in cui il ‟Corriere" registrasse una vittoria significativa non uscì mai dalle urne un deputato varato da esso. In un altro campo, tutti gli uomini d'affari lessero volentieri e discussero sulle generali, dopo pranzo, ma non tennero nessun conto degli articoli di
5. Progresso e innovazione nella tutela e conservazione dei materiali
Alla tecnica moderna non va riportata soltanto la possibilità di attingere a nuovi tipi di fonti o a nuove elaborazioni delle fonti tradizionali, bensì anche tutta una serie di nuove possibilità complementari rispetto tanto ai vecchi che ai nuovi tipi di fonti. Si tratta, innanzitutto, di nuove possibilità di tutela e di conservazione del materiale esistente. Fotografie, microfilm, microfiches, computerizzazione dei dati consentono una miniaturizzazione del materiale documentario rilevante per più aspetti. Nel momento in cui la produzione libraria ha raggiunto livelli quantitativi tali da rendere sempre più difficile, per ragioni di spazio, la formazione di biblioteche private - e talora anche pubbliche - autosufficienti, che abbiano dimensioni ragionevoli; in cui le esigenze di confronto di fonti tra loro lontane nello spazio e nel tempo, oltre che nella loro specificità settoriale o disciplinare, sono tanto cresciute; in cui la planetarizzazione dei grandi fenomeni di fondo connessi al progresso tecnico e la formazione definitiva di un mercato mondiale unico e di un unico sistema mondiale degli Stati, oltre che di un unica platea mondiale del dibattito ideologico, rendono inevitabile il frequente ampliamento del quadro materiale delle ricerche; in cui il recupero e l'ordinamento di materiali prima largamente dispersi è generale negli archivi e nei musei di ogni paese, la miniaturizzazione del materiale assume una importanza che non ha nemmeno bisogno di essere sottolineata tanto è evidente. Naturalmente, essa rappresenta anche una difesa in più contro la deperibilità del materiale documentario tradizionale. A sua volta, la deperibilità del nuovo materiale (specialmente di quello filmico e fotografico) è compensata dalla sua facile e rapida riproducibilità. Del resto, varie forme di diversa conservazione e sinottizzazione dei dati sono pure assicurate, in forma meno diretta e immediata, ma scientificamente di non minore validità, dalle rappresentazioni cartografiche, dalla tabulazione statistica, dalla schedatura automatizzata, dalla registrazione radiofonica e così via. In ciascuno di questi casi, poi, il procedimento adottato comporta una serie di passaggi tecnici che rendono sempre maggiore e sempre più mediata la distanza tra il dato originariamente tratto dalla fonte e il suo fissaggio nel contesto ultimo della sua utilizzazione. In definitiva, ciò viene a confermare la fisionomia generale che il problema delle fonti ha sempre più marcatamente assunto sin dalla fine del XIX secolo. A seguito di tale processo l'antichissima preminenza storiografica della scrittura come mezzo e dello scritto come oggetto dell'informazione, una preminenza equivalente a un vero e proprio monopolio, è venuta meno. La consuetudine aveva portato, a questo riguardo, a un'attenzione, anch'essa fin troppo largamente dominante, al contenuto delle informazioni anziché ai mezzi della loro trasmissione. Si può persino dire che un'attenzione più soddisfacente allo stesso mezzo di trasmissione delle informazioni scritte solitamente usate nella tradizione storiografica si è determinata soltanto quando l'esclusività dell'informazione scritta è andata riducendosi quando, cioè, la tipologia delle fonti ha preso gradualmente ad arricchirsi, con un incrocio di sviluppi fortemente significativo e parallelo all'avvento di sempre più complesse procedure di elaborazione delle informazioni e dei dati attinti alle fonti. L'esigenza di elaborazioni più complesse e la necessità di strumentazioni atte a conseguirle hanno, quindi, concorso a determinare, a loro volta, una cospicua trasformazione nelle attrezzature delle istituzioni destinate agli studi storici. Esse non fanno più riferimento soltanto a biblioteche, raccolte di manoscritti e depositi di carte, ma comprendono microlettori e proiettori, calcolatori, macchine foto-stampatrici e registratori, apparecchiature per tabulazioni e rappresentazioni cartografiche e così via. Perfino nella terminologia il mutamento si avverte in modo esplicito. La fortuna del termine ‛centro' per designare molte istituzioni nuove del settore rende in maniera persuasiva l'idea di una struttura più agile, più diversificata e meno chiusa nella sua autosufficienza.
6. Considerazioni conclusive. La storia come ‛storia contemporanea'
Una domanda a questo punto è necessaria.
Le osservazioni testé avanzate richiedono, infine, un'ultima serie di considerazioni. Estremamente ‛forte' sul piano dell'approfondimento dei suoi presupposti tecnici e dei suoi canoni di raccolta e di interpretazione , sperimentata nella sua robustezza e raffinatezza critica al contatto con le necessità di ricerca in contesti extraeuropei e, nello stesso tempo, con gli ampliamenti dei suoi interessi e dei suoi strumenti e con le esigenze di nuove relazioni interdisciplinari, la dottrina delle fonti storiche subisce, come si è accennato, tutte le implicazioni della vicenda attraverso cui passano non solo la teoria generale della storiografia, la concezione del pensiero storico, la Weltanschauung storica, la visione generale della storia, ma la concezione della scienza, la teoria della conoscenza, quella dell'informazione e della sua trasmissione, l'epistemologia e così via. Per questo aspetto fondamentale, il concepire la dottrina delle fonti come un'arte combinatoria neutra, una tecnica asettica e univoca per quanto proteiformi e numerose ne possano essere le esperienze applicative, un contenitore indifferente e invariante in cui versare i materiali via via attinti ai magazzini della memoria umana per trarne fuori le schede che in bella evidenza ‛spiegano' i ‛fatti' (o processi o intrecci che siano o che si voglia dire) è una visione deformata e depotenziata della fisionomia e del ruolo reali riconoscibili alle fonti, alla loro produzione e al loro studio, nel contesto generale della storiografia e nella vita sociale. Ciò non va inteso soltanto nel senso politico e ideologico, in cui può intenderlo, ad esempio, uno Chesneaux. Va inteso innanzitutto e soprattutto in un senso, insieme, metodologico e pratico più complesso. Lo intende, sempre a titolo di esempio, in tal senso Becker quando scrive che ‟la realtà storica è continua e infinitamente complessa, e i freddi fatti, in cui si pensa di poterla scomporre, non sono fette materiali di realtà, ma solo aspetti di essa. La materialità della storia è sempre scomparsa, e i ‛fatti' della storia, qualunque cosa fossero un tempo, sono solo immagini ideali o quadri che lo storico compone per comprenderli. E come si formano queste immagini? Non certo dalla realtà direttamente, perché questa ha cessato di esistere. Essa, tuttavia, ha lasciato qualche traccia, e sono proprio tali tracce che ci aiutano a costruirne l'immagine" (v. Becker, 1962, p. 118). L'esemplificazione che Becker porta dell'ufficio di tali tracce, che sono, appunto, il contenuto delle fonti storiche, introduce nel pieno del significato del problema. ‟Qualcuno - egli scrive - vide Cesare pugnalato, e possiamo supporre che dopo l'avvenimento scrivesse così ‛alle idi di marzo Cesare fu pugnalato dai senatori nell'edificio del Senato, sotto la statua di Pompeo, che, durante tutto quel tempo, sanguinò'. E adesso suppongo me stesso che leggo questa affermazione, da storico. Nel momento in cui leggo mi si forma nella mente un quadro: parecchi uomini in una stanza, ai piedi di una statua, che pugnalano uno di loro. Ma non è soltanto l'affermazione scritta che mi rende capace di formare questa immagine; ad essa partecipa anche la mia personale esperienza. Ho visto e uomini e stanze e pugnali, e la mia esperienza di queste cose fornisce gli elementi di cui l'immagine si compone. Supponiamo che non sappia nulla di Roma antica il mio quadro sarebbe senza dubbio fatto della stanza del Senato a Washington, di uomini in stiffelius e forse di pugnali. È ben vero che se imparassi un po' di più sul mondo romano il quadro muterebbe, ma a ogni stadio di questa trasformazione sarebbe pur sempre la mia esperienza a fornire gli elementi nuovi. Fonti nuove mi porrebbero in condizione di combinare insieme più correttamente gli elementi dell'esperienza, ma sarebbe pur sempre l'esperienza a scegliere questi elementi". Sicché diventa vero che ‟i ‛fatti' della storia non esistono per lo storico fino a quando egli non li crea, e in ogni fatto che egli crea ha parte la sua personale esperienza" (ibid.). Il carattere idealistico, che corrisponde anche a un preciso e concreto processo psicognoseologico, della rappresentazione storica è, così, egregiamente fissato come preliminare logico essenziale e costitutivo della sua funzione e della sua fisionomia culturale e ideologica, politica e sociale. Prende un senso filosoficamente e materialmente, idealmente e praticamente corretto, l'affermazione, che vale in pieno anche per le fonti storiche, secondo la quale ‟la realtà della storia può essere raggiunta solo attraverso la porta dell'esperienza presente". E prende corpo, come ovvio corollario della precedente, l'altra affermazione per cui l'esperienza presente ‟non solo fornisce gli elementi per l'immagine che le fonti ci aiutano a formare, ma è anche la corte d'appello finale per la valutazione delle fonti stesse"; e ‟la storia si fonda su testimonianze, ma il valore qualitativo delle testimonianze è determinato, in ultima analisi, da esperienze sperimentate ed accettate". Per questa ragione ‟lo storico sa bene che non vi è massa di testimonianze che basti a stabilire come realtà del passato una cosa di cui non si trovi esperienza nella realtà presente": a ciò, anzi, non basta neppure ‟trovare nell'esperienza di oggi gli elementi del quadro di un fatto che si afferma essere accaduto nel passato". Anche se ‟gli elementi per formare immagini" come quelle di una statua che sanguina o di una flotta che viene arsa con uno specchio ustorio ‟ci sono ben familiari", essi non valgono se ‟le fonti ci chiedono di combinare insieme elementi a cui l'esperienza solita della nostra epoca non dà fondamento". In questo caso lo storico nega fatti, come, ad esempio, i miracoli, ‟non perché siano contrari ad ogni possibile legge di natura o ad ogni possibile esperienza, ma solo perché sono contrari alle relativamente scarse leggi di natura che la sua generazione considera provate" (ibid., pp. 119-121). Va da sé che, qualora o la scienza o altri sviluppi dell'esperienza presente introducessero altri elementi nel quadro di riferimento dello storico, questi ammetterebbe senza difficoltà gli elementi prima negati. Ciò che Becker afferma va solo esteso ben al di là dell'ambito di ciò che tradizionalmente viene ancora inteso per scienza, perché la legittimazione nell'esperienza presente di elementi prima negati in via critica può derivare da innumerevoli e imprevedibili sviluppi della stessa esperienza presente al di fuori delle conoscenze scientifico-naturalistiche. Una nuova moralità può vedere la luce dove prima era solo oscurità. I rapporti con l'antropologia e l'etnologia hanno portato lo storico a sostituire alla nozione di superstizione tutta una ramificata trama di posizioni storico-sociali ed esistenziali. E l'esemplificazione potrebbe indefinitamente continuare. Ma per ogni tipo di storia, per ogni tipo di storiografia, per ogni tipo di fonte storica rimane vero che ‟se non possiamo avere dimestichezza col nostro passato, esso non è buono"; e che ‟noi abbiamo necessità di un passato che sia il prodotto del presente, e non sappiamo cosa farcene di fonti che ci dicono che esso non era tale, o piuttosto costringeremo le fonti a dire che il passato era come vogliamo che fosse" (ibid.). Liberato da ogni versione in chiave di arbitrarietà logica o ideologica, di incondizionabile soggettivismo individuale o collettivo, il principio che la storia è sempre, in realtà, storia contemporanea si profila anche sul piano dei processi psicologici, critici ed epistemologici attraverso cui viene elaborata, sulle fonti, sulle tracce del passato grazie a esse selezionate, la rappresentazione storica.
Bibliografia
Becker, C. L., Storiografia e politica (a cura di V. de Caprariis),
Bernheim, E., Lehrbuch der historischen Methode, Leipzig 1889 (tr. it. parziale: Manuale del metodo storico,
Bernucci, G. L., Analisi dell'attualità politica internazionale, Cento-Roma 1969.
Bianchi Bandinelli, R., Introduzione all'archeologia classica come storia dell'arte antica, Bari 1976.
Croce, B., La storia come pensiero e come azione, Bari 1938.
Droysen, J. G., Grundriss der Historik (1858-1882), München 1936 (tr. it.: Istorica. Lezioni sulla enciclopedia e metodologia della storia, Milano 1966).
Ewans, G. E., The days that we have seen, London 1975.
Langlois, Ch.-V., Seignobos, Ch., Introduction aux études historiques, Paris 1898.
Le Goff, J., Pour un autre Moyen Age. Temps, travail et culture en Occident, Paris 1977.
Le Roy Ladurie, E., Le territoire de l'historien, vol. I, Paris 1973 (tr. it. parziale: Le frontiere dello storico, Bari 1976).
Marichal, R., La critique des textes, in L'histoire et ses méthodes (a cura di Ch. Samaran), Paris 1961.
Pasquali, G., Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 19522.
Topolski, J., Metodologji historii, Warszawa 1973 (tr. it.: Metodologia della ricerca storica, Bologna 1975).
Vinciguerra, M., Stampa in democrazia, Roma 1946.