BERTOLINI, Stefano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 9 (1967)

BERTOLINI, Stefano

Mario Mirri

Nacque a Pontremoli, il 13 giugno 1711, da Giulio Cesare e Anna Maria Canossa, secondogenito di famiglia nobile (suo padre era anche cavaliere dell'Ordine di s. Stefano; alla sua morte, la commenda passerà al primogenito Giovanni Tommaso e nel 1767, venuto a mancare anche questi, gli succederà Stefano).

Il B. fece i primi studi letterari al collegio Cicognini di Prato; passò poi a Pisa, dove frequentò quella università, laureandosi nel 1734. Formatosi alla scuola pisana di diritto, fece per pochi anni pratica legale a Firenze, per iniziare la sua carriera di funzionario nel 1740, quando fu nominato tra gli auditori della Camera granducale. Questa era stata allora istituita con giurisdizione su tutti gli affari dell'appalto generale delle rendite pubbliche del granducato; un appalto proprio in quell'anno deciso dalla Reggenza, a favore di una compagnia di finanzieri francesi. Nei lunghi anni che trascorse presso la Camera granducale (fino al 1756), il B. ebbe così modo di venire a contatto con alcuni problemi fondamentali dell'economia e della produzione agricola della Toscana, dovendo spesso intervenire nelle questioni e nelle liti che dividevano gli appaltatori dagli affittuari, i quali conducevano le fattorie granducali facendole lavorare dai mezzadri.

Il B. appartiene dunque al numero dei "nuovi funzionari" che, nel periodo della Reggenza, furono chiamati a collaborare nell'amministrazione dal conte di Richecourt, ministro certamente illuminato, il quale si preoccupò di utilizzare personale colto e di orientamenti moderni, proveniente dalla università di Pisa; in questa, infatti,. proprio fra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, si erano affermate sensibilmente alcune caratteristiche tendenze della cultura "moderna", sia nell'ambito degli studi giuridici, sia nel dibattito intorno ai problemi scientifici.

Rifacendosi agli insegnamenti, che aveva seguito con prontezza e intelligenza, della scuola giuridica culta pisana, anche il B. aveva fatto proprio un atteggiamento che, mentre rifiutava il principio di autorità, le astratte discussioni su basi scolastiche e le complicazioni degli innumerevoli commentatori, manteneva un atteggiamento di grande rispetto nei confronti del diritto romano. Entro questi limiti, non di pura accettazione della tradizione, ma piuttosto di positiva valutazione di una autentica classicità (come i suoi maestri pisani e il più noto di essi in particolare: l'Averani), egli aveva assorbito l'insegnamento della scuola giusnaturalistica e la sua lezione razionalistica; non a caso le sue posizioni erano più vicine a quelle di un Pufendorf, che non a quelle di un Grozio. Sicché, riflettendo anch'egli intorno al problema, sollevato per tempo nelle sfere governative, della possibilità di formare un nuovo Codice, mentre si limitava alla proposta di una rifusione e semplificazione della intricata legislazione esistente, insisteva affinché ci si facesse guidare dal criterio di tener presenti, contemporaneamente, il diritto romano e l'insegnamento della scuola giusnaturalistica. Parallelo a quello verso il diritto romano era il suo atteggiamento, più in generale, nei confronti della cultura classica, valutata egualmente nei termini della rìconquista di una autentica classicità, al di là della decadenza e delle complicazioni dell'età di mezzo, nei termini cioè di un genuino umanesimo antiscolastico. Egli poteva così insistere sul fatto che il fondatore della scienza politica moderna, Bacone, come Grozio, fondatore della scienza del diritto delle genti, o anche Montesquieu, che fu poi l'autore da lui più apprezzato, si erano formati alla scuola dei classici, tanto che il loro pensiero trovava nei testi di questi concordanze o addirittura anticipazioni.

Tuttavia il criterio con cui il B. giudicava degli apporti culturali, sia dell'antichità sia dei "moderni", era quello della possibile utilizzazione pratica delle conoscenze e delle idee: nel campo degli studi giuridici e politici le sue "fonti" potevano e dovevano essere utilizzate al fine di assicurare rapporti più civili tra le nazioni da un lato e tra gli Stati e gli individui dall'altro. Altrettanto egli pensava di un altro filone culturale, di cui avvertì fortemente l'influsso, quello muratoriano. L'erudizione storica, la raccolta dei documenti del passato, era concepita come un mezzo per conoscere la realtà, in cui si doveva operare, per fornire materiali conoscitivi (sulle condizioni oggettive del passato e del presente, sulle premesse legislative, amministrative o politiche dei problemi che si dovevano affrontare), indispensabili ad ogni progetto di intervento efficace e realizzabile. In questo senso egli applicò uno specifico "metodo muratoriano" (di raccolta di materiali e documenti) in tutta la sua attività di funzionario, oltre a sentire più direttamente l'influsso (sulla questione, per esempio, dei Codici e della amministrazione della giustizia) del cauto, ma deciso, riformismo del Muratori. Come tanti altri, anche il B. mostrava in questo una precisa forma mentis, di ispirarsi cioè alla possibilità di modellare la pratica del funzionario sull'esempio del metodo scientifico moderno (cioè del criterio di fondare interpretazioni valide e progetti di intervento nella realtà, utili e vantaggiosi agli uonxini, sulla base di "osservazioni" ed "esperienze"); se da un lato, dunque, valutava positivamente i progressi recenti delle scienze moderne e in particolare l'insegnamento di Galilei, Descartes e Newton, dall'altro giudicava auspicabile la generalizzazione di quel metodo scientifico, per applicarlo ad ogni altro campo dell'esperienza, della cultura e della vita. Per questa via il B. era giunto ad un giudizio, sul proprio tempo e sulla cultura contemporanea di tipo illuministico. E si chiariva così, definitivamente, quel motivo ispiratore comune, che si è sottolineato nei suoi atteggiamenti culturali, quella preoccupazione comunque di una cultura utile, di conoscenze utilizzabili al fine della maggiore possibile felicità degli uomini. Sosteneva che l'acquisizione di conoscenze scientifiche e di scoperte utili aveva condotto gli europei a vivere in un'epoca in cui le relazioni fra tutte le nazioni erano divenute ormai pacifiche, i costumi degli uomini più civili, mentre in ogni campo si lavorava a promuovere la produzione e lo scambio delle ricchezze, sotto governi non più dispotici, ma ormai "savi e moderati". In un "secolo dotato da Dio di tanta luce" l'Europa ormai costituiva quasi un solo Stato, capace di veder realizzata nella pratica l'utopia di Saint-Pierre della pace universale.

A queste posizioni, di tipo illuministico, il B. era giunto commentando l'Esprit des lois del Montesquieu. In effetti, egli fu tra i primi a entusiasmarsi per questo lavoro (in una Toscana che conobbe però un buon numero di ammiratori e anche di amici dell'immortale "Presidente") e aveva cominciato a preparare un vastissimo conimento, di note (che non porterà mai a termine) per una edizione di questo famoso testo. Nel '53 egli ne aveva terminata la prefazione, che fu pubblicata tuttavia solo nel 1771, e fu la fortunata operetta intitolata Analyse raisonnée de l'Esprit des lois.

Certo è che il B. dava del lavoro del Montesquieu un'interpretazione illuministico-riformatrice, ne ricavava cioè l'indicazione di consigli utili per i reggitori degli Stati: la considerava un'opera di "science du gouvernement", ma non nel senso "sociologico" quanto piuttosto in quello della "scienza pratica", utilizzabile per stabilire i migliori rapporti tra sovrani e sudditi, favorire i buoni costumi e assicurare la dolcezza delle leggi. In effetti, egli insisteva sul concetto di libertà, sull'idea che questa dipenda dalla chiarezza delle leggi e dalla corretta amministrazione della giustizia, dalla divisione dei poteri, da un equilibrio politico assicurato dalle funzioni riconosciute a una nobiltà mediatrice tra sovrano e sudditi. Soprattutto, però, con una insistenza ben maggiore di quanto proporzionalmente non avesse fatto il Montesquieu, egli ricavava indicazioni sul modo di promuovere la prosperità economica e la ricchezza degli Stati come condizioni di un governo dolce e moderato; se, da un lato, le funzioni politiche della nobiltà erano concepite come corrispettivo di una partecipazione attiva alla vita economica, alla direzione di case di commercio e attività bancarie e manifatturiere, dall'altro l'intensificazione così auspicata delle tradizionali forme di produzione cittadine era concepita come possibile solo se appoggiata dalla attiva coltivazione delle campagne circostanti da parte di numerosi piccoli proprietari. In questo schema rientrava la concezione (già del Montesquieu, come di tanti neo-mercantilisti del primo Settecento) della numerosa popolazione come condizione di ricchezza dello Stato e l'ideale di un determinato equilibrio città-campagna, fondato su una abbondante produzione di generi agricoli forniti al consumo e alla industria cittadina da numerosi agricoltori, a loro volta consumatori sicuri di quei prodotti artigianali. Nella lettura del Montesquieu il B. si era dunque formato un ideale di società (con i suoi fondamenti economici e la sua organizzazione giuridicopolitica) che comportava un atteggiamento di critica allo sviluppo recente dello "stato cittadino", all'abbandono da parte delle maggiori famiglie dei "traffici" per divenire nobiltà oziosa in possesso di estesi latifondi provocando la distruzione della numerosa piccola proprietà e l'allontanamento della popolazione dalle campagne: questo ideale di società economicamente e politicamente equilibrata egli cercherà di applicare alla sua Toscana, e in particolare alla Maremma (nei suoi rapporti con Siena).

Si è detto che l'interesse per Montesquieu si sviluppò nel B. presto, subito dopo il '50; ed è importante sottolineare che in quegli anni egli discusse analoghi motivi anche in alcuni importanti articoli pubblicati anonimi, sul parigino Journal étranger (dal '53 al '56). In questi, ai motivi montesquieuiani si affiancava un altro importante motivo, quello del rapporto Montesquieu-Machiavelli, del confronto Machiavelli-Tucidide, e della valutazione del Machiavelli "repubblicano", sulla linea della interpretazione antidispotica del Montesquieu già sottolineata e che egli aveva in comune col circolo intellettuale, che allora si raccoglieva intorno ad Anton Filippo Adami. Essi erano ripetuti in un curioso libretto, stampato anch'esso anonimo a Firenze, nel 1756 (Massime, esempi e trattati pubblici in Tucidide) e furono ripresi, ma con intenti politici più precisi (di critica alla legislazione economica del principe riformatore Pietro Leopoldo), in quella raccolta di passi machiavelliani pubblicata nel 1771,col titolo di La mente di un uomo di Stato, ben presente agli studiosi della fortuna di Machiavelli nel '700.

Dopo aver tenuto, tra il 1756 e il 1760, la carica di "auditore della Religione dei cavalieri di S. Stefano e dello Studio pisano", il B. fu nominato, nel 1760, auditore generale dello Stato senese. Membro di una deputazione incaricata di proporre provvedimenti a favore della Maremma, presentò nel giugno 1761 tre progetti di legge, nei quali, accanto a svariate e troppo particolari proposte, comparivano da un lato la richiesta di libertà di esportazione dei grani e del loro libero accesso al resto del granducato e dall'altro quella di costituire un gran numero di piccole proprietà, a conduzione diretta, garantite dal diritto pieno di uso (recinzione e abolizione dei diritti di pascolo). Applicava così alla pratica il suo ideale (montesquieuiano), condannando le grandi proprietà esistenti in Maremma e l'abitudine di concederle a grandi "speculatori" (i "faccendieri").

Anche nei suoi progetti per la Maremma, il B. partiva dall'ideale di un armonico equilibrio econornico città-campagna: le sue proposte presupponevano un determinato rapporto con Siena, nella quale dovevano continuare a fiorire le attività artigiane e commerciali, appoggiate alla sua campagna (la Maremma), nella quale un numeroso ceto di piccoli proprietari avrebbe dovuto sostituire gli attuali possessori di "latifondi", spingendoli a ritornare all'antica abitudine "repubblicana" e comunale di investire i propri capitali prevalentemente nelle imprese economiche cittadine. In effetti, pochi anni, dopo (nel 1764) egli pubblicò a Firenze una raccolta di passi di scrittori di economia (Les suffrages unanimes sur les moyens de rétablir une contrée inculte), nella quale era evidente il tentativo di presentare indicazioni conformi a questo ideale, rese più facilmente attuabili., ai suoi occhi, data l'occasione di intervenire in una "contrée inculte", nella quale era possibile rifare le leggi dalle fondamenta (o, machiavellianamente, ridurre le cose ai loro principi). I suoi autori erano, preferibilmente, accanto a Montesquieu, gli scrittori del tardo mercantilismo fino ai più recenti pre-fisiocratici (ma i fisiocratici erano assenti): Uztariz, Plumart de Dangeul, Melon, Turbilly, Patullo, Hume, Forbonnais, l'Ami des hommes. Le sue posizioni non erano affatto arretrate, né insensibili a diverse proposte di riforme avanzate allora da tante parti a livello europeo: abolizione dei diritti di pascolo, recinzione delle terre, redistribuzíone ai privati dei beni comunali, abolizione delle corvées, riforma del sistema tributario, abolizione di ogni esenzione e privilegio fiscale. Ma egli insisteva soprattutto sulla tesi della opportunità di diffondere la piccola proprietà e sulla critica della grande proprietà, fino a fare gli elogi (sulla scorta di Montesquieu) della legge agraria. Poiché queste idee partivano dal. presupposto di un certo equilibrio cittàcampagna, di una ripresa delle attività econorniche cittadine. appoggiate al circostante mercato (di rifornimento e di consumo) agricolo, ne traeva questa conseguenza, relativamente alla politica economica: libertà del commercio internodei prodotti agricoli, ma estrema diffidenza (e sostanziale opposizione) verso ogni proposta di liberalizzazione del loro commercio con l'estero (sulle tracce, ovviamente, di Uztariz).

Il presupposto del B. di una possibile ripresa delle attività economiche cittadine e di un loro specifico rapporto economico con l'attiva coltivazione dei campi da parte di numerosi piccoli proprietari, non appariva realistico, né confrontabile con le contemporanee tendenze di sviluppo della economia toscana. Così ne ricavava proposte di politica economica, che lo porranno ben presto in disaccordo col nuovo granduca riformatore e col gruppo più deciso di funzionari, che lo consigliavano.

Appena giunto in Toscana, già nel 1765, Pietro Leopoldo volle la separazione della Maremma da Siena, costituendo la provincia inferiore di Siena, onde poter intervenire più massicciamente e direttamente in quella plaga desolata. Si rompeva così il rapporto Siena-Maremma, in contrasto coll'ideale del B. di un armonico equilibrio città-campagna; e, in effetti, egli, auditore generale, fu all'opposizione, già di fronte a questa avvisaglia di riforme. E quando, fra il '66 e il '67, cominciò a discutersi e a proporsi efficacemente quella politica di liberalizzazione del commercio estero dei grani, che sfociò nella legge del 18 sett. 1767, il B. si schierò di nuovo all'opposizione, con ragionate e precise argomentazioni, rivolte a difendere i bassi prezzi dei prodotti agricoli e quindi gli interessi dei produttori tradizionali cittadini.

Pubblicata nel 1771, La mente di un uomo di Stato assumeva il carattere di una critica, per quanto blanda e coperta, della nuova politica economica condotta avanti dal principe riformatore. I passi machiavelliani qui raccolti (corretti e rielaborati, al punto di giungere a voluti travisamenti al fine di presentare un Machiavelli religioso, costumato, difensore della virtù e della pace, della giustizia e della umanità) non solo ritornavano sui terni già noti, sulla condanna della "tirannia" e sull'ideale "repubblicano" e antidispotico di equilibrio dei poteri, fino alla rivendicazione delle funzioni della nobiltà in un governo "dolce e moderato", ma insistevano anche su tesi di politica economica abbastanza precise, che, appoggiate a dichiarazioni mercantilistiche e al solito ideale di una prospera attività artigiana e commerciale cittadina sostenuta da un mercato circostante di campagne coltivate da numerosi piccoli proprietari, concludeva nella proposta di curare di tener bassi i prezzi dei prodotti agricoli, ricorrendo anche all'uso di quei magazzini pubblici, che era stato proprio in quegli anni condannato con l'abolizione delle tradizionali funzioni del Magistrato dell'Abbondanza e della Grascia.

Non a caso il B. si scontrava contemporaneamente con l'altra fondamentale tesi leopoldina della opportunità della bonifica della Maremma, come condizione preliminare alla ripresa economica di quella regione. Nel 1769 il padre gesuita e matematico di S.A.R. Leonardo Ximenes (che condurrà poi per anni, con risultati discussi e discutibili, l'impresa della bonifica) aveva pubblicato un lavoro intitolato Della fisica riduzione della Maremma senese. Ragionamenti due,in cui si insisteva sulla tesi della urgenza e priorità di interventi tecnico-idraulici. Il B. prese posizione, nel 1773, pubblicando a Siena un suo Esame di un libro sopra la Maremma senese (a cui rispose lo Ximenes, stampando a Firenze nel 1775 un Esame dell'esame di un libro sopra la Maremma senese, ripartito in tante note da uno scrittore maremmano). Il B. giudicava inutile l'impiego di grossi capitali per queste opere di bonifica, poiché ai suoi occhi le "cause fisiche" della decadenza della Maremma erano sempre esistite; egli però tentava di dimostrare che, ciononostante, quella zona in tempi più antichi era stata assai più popolata e ricca, e ne ricavava la convinzione che più importanti fossero le "cause morali e politiche" e che quindi su queste preferibilmente si dovesse agire. Egli elencava quindi ben centoquindici rimedi legislativi, disperdendosi intorno a innumerevoli particolari, dalla pulizia e tenuta delle strade e delle case, alle fogne, cimiteri e così via. In sede di politica economica ritornava alla sua idea, della utilità di una "legge agraria". Anzi, questa volta più esplicitamente, presentava il suo mito della civiltà "repubblicana" dei secoli precedenti alla decadenza, fondata sull'impegno delle maggiori famiglie nelle attività artigiane e commerciali cittadine, mentre le campagne circostanti erano coltivate da numerosi piccoli proprietari. E condannava il fenomeno, all'origine della decadenza, per cui quegli esponenti delle maggiori famiglie, ritrattisi dalle loro precedenti attività (e allontanati dai corrispettivi onori e incarichi politici e pubblici), avevano acquistato terre e si erano trasformati in "latifondisti" oziosi, danneggiando insieme l'economia agricola (dopo avere abbandonato a sé stessa quella cittadina) e spopolando le campagne. Molto più realisticamente lo Ximenes assumeva questo processo economico di decadenza delle attività cittadine e di costituzione di grandi proprietà terriere come un dato di fatto ormai irreversibile e come punto di partenza di ogni possibile politica economica: questa avrebbe dovuto semmai favorire l'attività di quanti, su quelle vaste estensioni di terra, si dimostravano capaci di "speculare" (sui grani e sul bestiame) accumulando rapidamente grandi capitali.

In dissenso, ormai, sui punti principali della politica economica leopoldina, il B. non poteva mantenere cariche. che. con questa interferissero; tuttavia, la sua preparazione giuridica e l'educazione "moderna" acquisita fin dagli anni pisani lo rendevano ancora utilizzabile in altre funzioni, dove esse più facilmente potessero accordarsi con una politica di riforme rivolte alla costruzione e alla difesa di uno Stato moderno. Così, nel 1773, fu nominato primo auditore della Consulta di Grazia e Giustizia, praticamente primo magistrato dello Stato, proprio nel periodo in cui tutta l'organizzazione giudiziaria del granducato veniva riformata, per darle una forma razionale e uniforme. E non a caso, in quegli anni, egli si impegnò anche in una lunga e argomentata memoria in difesa dei superiori diritti del sovrano e dello Stato, in risposta a uno scritto di M. Maccioni (Difesa del dominio dei conti della Gherardesca sopra la signoria di Donoratico, Bolgheri, Castagneto, Lucca 1771), che riproponeva gli antichi diritti delle famiglie feudali in contrapposto alla politica antifeudale lorenese e leopoldina.

Morto Giulio Rucellai, nel 1778 il B. fu chiamato a succedergli, come segretario del Regio Diritto e dunque responsabile della politica ecclesiastica. Continuò la politica giurisdizionalistica dei suoi predecessori, fu anzi fra i più strenui difensori di posizioni, regalistiche, contribuendo a mantenere il suo sovrano su questo terreno: insisteva perché nessun territorio (per esempio, Pontremoli) dipendesse da diocesi che avessero la loro sede fuori del granducato, si oppose alla possibilità di stipulare un concordato con la S. Sede, favorì provvedimenti che limitassero i privilegi del foro ecclesiastico, propose di non accordare l'accesso a nuovi vescovi se non dietro giuramento di fedeltà al sovrano, secondo una formula analoga a quella in vigore nella "chiesa gallicana" francese. è vero, tuttavia, che anche questa stagione di consenso conla politica di difesa dei diritti dello Stato sostenuta da Pietro Leopoldo non duròmolto. Quando, dopo il 1780, si affermò sempre più nettamente la nuova tendenza all'accordo fra la politica regalistica del sovrano e i tentativi di riformismo ecclesiastico e persino religioso del De' Ricci, come tanti altri funzionari di vecchia scuola il B. sembra si sia mostrato incerto e perplesso: certo, dovette conoscere la diffidenza e il sospetto dell'attivo e radicale vescovo di Pistoia e Prato e sperimentare i tentativi, che questi faceva, per scavalcare la sua autorità onde risolvere le questioni in accordo diretto col sovrano (il quale appoggiava questa tendenza del vescovo a simili "scavalcamenti" di autorità).

Il 12 genn. 1782, forse tenendo conto della situazione, Pietro Leopoldo allontanava il B. da segretario del Regio Diritto e lo nominava consigliere di stato. Già membro della "Pratica segreta" e della Deputazione dei monasteri e monache, fu anche fatto senatore. Morì il 21 genn. 1782.

Opere: Diverses réflexions politiques et morales, in Journal Etranger,ott. 1754, luglio e sett. 1755; Parallèle de Thucydide et de Machiavel, ibid., genn. 1755; Paralléle d'Athènes et de l'Angleterre, ibid.,nov. 1755; Massime, esempi e trattati pubblici in Tucidide, Firenze 1756; Les suffrages unanimes sur les moyens de rétablir une contrée inculte, Florence 1764; Analyse raisonnée de l'esprit des lois, Genève 1771 (2 edizione, Pisa 1784; ristampato in Montesquieu, (Euvres Posthumes…, Paris 1783); La mente di un uomo di Stato,Roma 1771 (2 ediz., Lausanne 1771, con una finta lettera di N. Machiavelli al figlio Bernardo come prefazione; ristampato in N. Machiavelli, Opere,Firenze 1782 e poi in tutte le successive raccolte delle opere machiavelliane fino a quella di Firenze dei 1833); Esame di un libro sopra la Maremma senese, Siena 1773 (2 ediz., corretta e accresciuta di vari documenti, Colonia 1774).

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Manoscritti, ff. 767-784; Reggenza, ff. 263-283, 290, 296, 298, 306, 308, 315, 326, 375-377, 667; Consulta, ff.400-402; Novelle letterarie, Firenze, 8 maggio 1782, col. 174; P. Bologna, S. B. giureconsulto e statista toscano, in Rass. nazion.,16 nov. 1904, pp. 188-208, e 1° dic. 1904, pp. 378-399; A. Anzilotti, Le riforme toscane nella seconda metà del sec. XVIII, in Movim. e contrasti per l'Unità ital., Milano 1964, pp. 146, 176; L. Dal Pane, La questione del commercio dei grani nel 1700 in Italia, I, Toscana, Milano 1932, pp. 186-189; G. Giorgetti, S. B…, in Arch. stor. ital., CIX (1951), pp. 84-120; Montesquieu, Oeuvres complètes, III, Paris 1955, pp. 1485 e 1524-25; Illuministi ital., III, Riformatori lombardi, Piemontest e toscant, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1958, pp. 292, 892; P. Berselli Ambri, L'opera di Montesquieu nel settecento ital. Firenze 1960, passim; R. Shackleton, Montesquieu, Oxford 1961, p. 365; M. Rosa, Dispotismo e libertà nel settecento, Bari 1964, p. 50; G. Procacci, Studi sulla fortuna del Machiavelli, Roma 1965, pp. 361-362; M. Mirri, Profilo di S. B…, in Boll. stor. pisano, 1964-65-66, pp. 433-468.

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