STATUA DI CULTO

Enciclopedia dell' Arte Antica (1997)

STATUA DI CULΤO (v. vol. VII, p. 476, s.v. Statua)

S. De Angeli

Mondo classico. - Con questa definizione si indica la più importante rappresentazione di divinità in un santuario, oggetto e centro di culto, in quanto destinataria dell'azione sacrificale e coinvolta, in alcuni casi, in particolari pratiche cultuali.

Sostituto terreno della divinità e manifestazione simbolica della sua presenza, l'immagine di culto si distingue, per questa sua funzione, dalle altre raffigurazioni scultoree di un santuario o di un tempio che non stanno in un analogo rapporto con l'azione cultuale, come p.es. le statue votive. Nondimeno, anche nella sua particolare accezione, la statua oggetto di culto doveva presentare una particolare Erscheinungsform in grado di esprimere e di rappresentare al meglio i caratteri proprî della figura divina, a partire da un'idea data e comunemente accettata di quest'ultima e tramite un linguaggio che è principalmente quello della rappresentazione antropomorfica.

Basato sulla credenza tipica del mondo classico che gli dei abbiano la stessa natura degli uomini, l'antropomorfismo sembra essere la soluzione greca, già propria anche del mondo minoico-miceneo ed ereditata in seguito da quello romano, per la raffigurazione delle divinità. È già stato ampiamente sottolineato che, tra le civiltà artistiche dell'antichità, quella greca più di ogni altra «si pose e risolse in piena autonomia il problema della statua come rappresentazione della figura umana» (Paribeni). Di qui, la frequente scelta della scultura a tutto tondo, quale mezzo il più efficace e idoneo per la resa antropomorfica di una figura divina, e dunque per immagini di culto, di fronte al più raro, anche se significativo, impiego del rilievo, nell'ambito di alcuni culti popolari e domestici e in altri di origine non greca.

Sebbene fossero note anche altre forme di rappresentazione del divino, come le immagini di culto aniconiche, quelle semiantropomorfiche delle erme e delle maschere su pilastri di Dioniso, nonché quelle teriomorfe e semiteriomorfe, tutte connesse, sostanzialmente, a precise motivazioni storico-religiose e risalenti per lo più alla tradizione minoico-micenea, tuttavia, per il mondo greco di età storica la raffigurazione antropomorfica delle divinità rimase sempre la forma di gran lunga più comune e diffusa, a cui corrispose un preciso linguaggio figurativo che andò progressivamente elaborandosi già a partire dall'VIII sec. a.C., in concomitanza con la comparsa delle prime immagini di culto. Anche se da un punto di vista strettamente storico-artistico la produzione di immagini di culto partecipa, come è naturale, degli sviluppi stilistico-formali della scultura greca a tutto tondo, tuttavia, per la sua specifica funzione e per il suo profondo significato religioso, nonché per i suoi caratteri di conservatorismo formale, essa va intesa come un fenomeno particolare dell'esperienza artistica greca. Tale rappresentazione costituiva infatti per i Greci un elemento fondamentale della pratica religiosa.

Nel mito della creazione evocato da Protagora in Platone (Prot., 322a), l'erezione di altari e di immagini di divinità è ritenuta addirittura una delle prime azioni degli uomini. Una prassi che trova, all'interno del vocabolario greco, una precisa definizione nel verbo ίδρύειν, il quale indica infatti la fondazione di un culto unitamente all'erezione di un'immagine della divinità, da cui anche il termine άφίδρυσις per denominare l'azione di trasferimento o di duplicazione di un culto, tramite il trasporto della statua della divinità oppure l'erezione di una sua copia - si veda a riguardo l'esempio offerto da Senofonte (Anab., V, 3, 6-13), relativo alla fondazione del culto dell'Artemide Efesia a Skillous presso Olimpia. In generale, per i Greci di età storica, il culto è inconcepibile senza immagini e strani risultano loro quei popoli che non hanno statue di divinità (Herodot., I, 131; IV, 59). Sebbene assai rari, tuttavia, sono noti anche in Grecia santuari, per lo più dedicati a Zeus, privi di immagini di culto; un fenomeno dietro al quale è probabile che vi fossero, come del resto le stesse fonti letterarie lasciano supporre, credenze e costumi religiosi particolarmente antichi, per i quali la percezione della presenza della divinità non necessitava del tramite figurativo. Ancora aperta, a tal riguardo, è la discussione sull'esistenza, in età minoico-micenea, di vere e proprie immagini di culto e sulla venerazione, già in quest'epoca, di una singola statua raffigurante il dio come signore del santuario e ospitata all'interno di un tempio, così come documentato in età storica, a partire almeno dalla fine dell'VIII sec. a.C.

In questo periodo, contestualmente alla comparsa delle prime s. di c., inizia anche il processo di graduale definizione, in termini strutturali e architettonici, del tempio greco arcaico e si precisa sempre più la sua specifica finzione come casa (ναός) della divinità, nella quale è appunto custodita la sua immagine da venerare. Per tale nesso si è supposta un'influenza sul pensiero religioso greco di modelli dell'area vicino-orientale. Alcune somiglianze con l'Oriente nelle pratiche rituali greche che coinvolgono le immagini di culto, sembrano avvalorare tale ipotesi, mentre un'evidenza di tale rapporto sta anche nel fatto che in generale in Grecia per le immagini di culto aniconiche non furono costruiti edifici templari, sebbene non manchino esempî di statue oggetto di culto prive di un proprio tempio e sistemate all'aperto, sub divo - vedi lo Zeus Eleuthèrios a Platea (Paus., IX, 2, 5), l'Atena Hygìeia sull'Acropoli di Atene (Plut., Per., XXIII, 13; Paus., I, 23, 4) o l’Eirene e Ploutos di Kephisodotos nell'Agorà di Atene (Paus., 1, 8, 2) - oppure in complessi architettonici monumentali, come p.es. il θρόνος dell'Apollo Amyklàios a Sparta.

L'introduzione di un'immagine di culto e insieme la definizione della forma e della funzione del tempio greco dovettero costituire una rottura con il passato, configurandosi come un fenomeno che coinvolse, più o meno contemporaneamente, l'intero mondo greco, con evidenti conseguenze sul piano dell'ideologia religiosa, che in quel periodo andava lentamente prendendo forma. Progressivamente i due elementi religiosi, statua e tempio, divennero l'emblema della pòlis greca, l'espressione della sua identità, vera e propria manifestazione del suo potere e del suo prestigio. Già la poesia omerica sembra conoscere il tempio come abitazione della divinità e la sua statua come destinataria dell'azione di culto (Hom., Il, VI, 87- 94, 269-275, 297-304; cfr. ν, 445-448). Nell'Atena di Ilio va infatti riconosciuta non tanto la dea del palazzo miceneo, quanto piuttosto la divinità poliade, la quale ha un suo tempio, la sua immagine di culto, in questo caso una statua seduta, e la sua sacerdotessa.

Da un punto di vista strettamente religioso la statua, come ogni altra immagine cultuale, oltre a definire, insieme all'altare, il luogo di culto (cfr. Serv., Georg., III, 16: «et semper sacratus numini locus est, cuius simulacrum in medio collocatur, alia enim tantum ad ornatum pertinent»), stabiliva la legittima e sacra associazione del santuario alla divinità e garantiva, localizzandola e materializzandola, la presenza permanente di quest'ultima nella città o nel territorio. In tal senso essa costituiva, come si è detto, un sostituto terreno, una manifestazione concreta della presenza della divinità, e dunque anche una forma di conoscenza di quest'ultima, sulla base di un rapporto di identità simbolica, la cui specificità merita di essere ancora ulteriormente approfondita e che trova, p.es., espressione nel fatto che alcuni testi epigrafici menzionino l'immagine di culto con il termine θεός e che nelle fonti letterarie, in particolare Pausania, questa sia spesso indicata con il nome stesso della divinità.

Per questo suo specifico carattere, connesso del resto alla sua funzione, tale tipo di statua veniva a caricarsi di una particolare sacralità che, nel caso soprattutto di alcune immagini più antiche, risultava a volte aumentata dal ricordo di una loro origine leggendaria o divina, oppure di legami con personaggi del mito, nonché, in alcuni casi, dall'attribuzione all'operato stesso di Dedalo. Si pensi, oltre al famoso Palladio di Ilio, caduto miracolosamente dal cielo, come altre famose s. di c., e oggetto incomparabilmente prezioso e misterioso, anche alla mitica statua di Artemide, che Ifigenia portò via dalla Tauride e con la quale diversi santuari della Grecia identificavano il proprio antico simulacro di culto. A essa, come all'Atena Poliàs, erano attribuite capacità protettive, mentre in altri casi si ricordano addirittura proprietà miracolose. Tali qualità contribuivano a conferire alla statua destinata al culto una maggiore sacralità, così come la pratica di proibirne la vista ai fedeli o, in alcuni casi, addirittura di legarle.

Oggetto e centro dell'azione cultuale, tali immagini erano destinatarie da parte dei fedeli di sacrifici, offerte votive, preghiere e atti diversi di devozione. Una serie di testimonianze letterarie ed epigrafiche ricorda che alcune raffigurazioni arcaiche erano anche direttamente e fisicamente coinvolte in determinati rituali, come processioni, bagni di purificazione, nutrizioni e vestizioni. C'erano cerimonie durante le quali, in un giorno stabilito, l'effigie della divinità veniva rimossa dal suo tempio e posta altrove per essere vista e venerata dai fedeli. E il caso dell'ágalma di Dioniso Eleutherèus ad Atene, il quale veniva rimosso dal suo tempio e portato in un ναός presso l'Accademia, il giorno prima dell'inizio delle Grandi Dionisie. Raffigurazioni vascolari che mostrano statue di divinità sistemate su colonne o basi, presso un altare, riflettono verosimilmente una simile pratica, che mirava a porre l'immagine di culto in un rapporto più diretto con l'azione sacrificale.

Come è noto manca nel vocabolario greco un preciso termine che indichi esclusivamente la statua di culto. Àgalma e xòanon, comunemente impiegati per indicare genericamente una statua di divinità, sottolineandone da un lato la «preziosità» sul piano estetico e materiale e dall'altro gli aspetti tecnici che ne contraddistinguono la realizzazione, non consentono, se non indirettamente, di distinguere tra funzione cultuale e funzione votiva. Il termine έδός, usato più frequentemente nelle iscrizioni, sembra il solo che indichi, nel suo impiego particolare riferito a un'immagine di divinità, una vera e propria statua di culto.

Tra gli autori antichi che ricordano o addirittura descrivono immagini di culto, Pausania è senz'altro il più attendibile e il più ricco di informazioni, in particolare per quel che riguarda la scultura cultuale più antica, riferendo in genere il nome dell'artista, racconti mitici connessi alla statua, il materiale in cui questa è eseguita, la sua posa e, in alcuni casi, anche le dimensioni e gli attributi. Le fonti epigrafiche, tra cui le più importanti relative a inventari di santuari, come l’Heràion di Samo, i santuari di Artemide Brauronìa a Brauron e sull'Acropoli di Atene o quello di Apollo a Delo, offrono dal canto loro utili informazioni, oltre che sull'aspetto e sul materiale, anche sul kòsmos delle statue e sulle cerimonie e i rituali che le vedevano coinvolte, nonché sul numero delle immagini di culto di un santuario.

Lo studio congiunto di tali testimonianze ha consentito di ricostruire le dimensioni, l'aspetto e in alcuni casi anche gli attributi, nonché di definire il materiale e la tecnica di esecuzione, di alcune tra le più antiche immagini di culto greche, databili tra l'VIII e il VII sec. a.C.

Sono invece poche e lacunose le testimonianze archeologiche dirette di statue di culto. L'impiego di materiali deperibili o particolarmente preziosi ha spesso impedito la sopravvivenza di tali operé. Inoltre, il riconoscimento della funzione cultuale di una statua è spesso ostacolato dalla mancanza di notizie certe intorno al suo luogo di ritrovamento e alla sua originaria sistemazione o di indizi precisi di carattere epigrafico o di altro genere. Lo stesso contesto cultuale non consente sempre di distinguere tra statue votive e statue di culto. Anche il formato colossale di una statua non costituisce in sé un sicuro elemento di distinzione, dal momento che già in epoca arcaica furono dedicate in santuari statue votive di divinità di dimensioni superiori al naturale. Nondimeno statue votive e immagini di culto possono a volte condividere le stesse caratteristiche tipologiche e iconografiche. Si veda p.es. la fortuna del tipo del kouros per dediche e per rappresentazioni di Apollo, in particolare in età arcaica.

La provenienza dall'interno di un edificio cultuale costituisce il dato di maggiore certezza ai fini della determinazione della funzione di una statua. Il ritrovamento nel fondo della cella del tempio di Dreros dei noti sphyrèlata della triade apollinea costituisce di fatto il principale motivo per una loro identificazione con le immagini di culto del tempio, così come del resto per i frammenti della statua colossale di culto di Atena del tempio di Priene e per diversi altri frammenti di statue di divinità in marmo recuperati in contesti analoghi. Alla scarsità di testimonianze archeologiche dirette dell'età arcaica e classica corrisponde una più ricca documentazione di età ellenistica e romana.

Rare sono le testimonianze conservate quasi per intero. A parte la triade di Dreros, si tratta per lo più di opere in marmo, come la Cibele del santuario di Moschato, datata agli inizi del IV sec. a.C., il cui tipo riprende quello della statua della Madre degli Dei del santuario dell'Agorà di Atene, opera di Agorakritos (v.), secondo la più verosimile tradizione pliniana; e anche la nota Demetra seduta dal santuario della dea a Cnido, databile intorno al 340 a.C., parte probabilmente di un gruppo statuario con Kore, di cui si conserva ancora la testa. Più spesso si è trattato del 'recupero di semplici frammenti o, nel caso di statue realizzate nella tecnica dell'acrolito, di parti del corpo in marmo, come piedi, mani, braccia o testa. Solo in rari casi, grazie all'abbondanza dei frammenti, è stata possibile la ricostruzione della statua, come per il gruppo statuario del Santuario di Despoina a Lykosoura (v.), realizzato da Damophon (v.) di Messene.

Normalmente, la lacunosità dei ritrovamenti impedisce, senza il supporto di altre fonti, di ricostruire l'aspetto complessivo di una statua o di definirne le caratteristiche tipologiche e formali. In tal senso le raffigurazioni di statue di divinità su coni monetali, e più raramente su gemme e cretule, possono costituire un'importante fonte di informazioni. L'associazione di testimonianze numismatiche ha infatti consentito un migliore recupero critico dei frammenti scultorei di diverse effigi venerate in età ellenistica, come l'Atena di Priene, l'Atena di Notion, lo Zeus di Egira, opera di Eukleides, e lo Zeus Sosìpolis di Magnesia al Meandro. In altri casi le testimonianze monetali sono servite da trait d'union tra noti tipi statuari della tradizione copistica e testimonianze letterarie relative a statue di culto.

Mentre alcune proposte di identificazione necessitano di essere riconsiderate su basi interpretative più solide, altre, al contrario, sembrano aver trovato una definitiva conferma, come p.es. il riconoscimento dell'immagine di culto del Tempio di Afrodite dell'acropoli di Corinto nel tipo dell'Afrodite di Capua. La statua, descritta da Pausania come ώττλισμένη, è infatti nota da coni monetali corinzi di età imperiale, che ripetono, precisandone anche i caratteri iconografici, tale tipo statuario e che mostrano, in alcuni esemplari, la statua della dea all'interno di un tempio posto su una roccia, a conferma della sua funzione cultuale e della sua stessa collocazione topografica. Convincente, tra gli altri casi, appare anche l'identificazione dell'Afrodite Nymphìa del santuario della dea di Trezene nel tipo dell'Afrodite «Louvre- Napoli», documentato su conî monetali di età imperiale della città.

Nonostante le schematizzazioni e a volte la scarsa qualità del conio o dell'incisione, tali testimonianze offrono in alcuni casi preziose informazioni sull'aspetto e sul tipo statuario di diverse immagini di culto, note solo dalle fonti letterarie e alcune delle quali risalenti anche all'età arcaica. E il caso p.es. del famoso Apollo Delio, opera di Tektaios e Angelion, di cui sono note raffigurazioni su monete, cretule e gemme, oltre che su un rilievo, e per il quale di recente è stato proposto un più preciso e convincente inquadramento cronologico. Nondimeno una serie continua di monete del IV e III sec. a.C. e altri coni di età imperiale di Epidauro offrono un'immagine della s. di c. crisoelefantina del Tempio di Asklepios, opera di Thrasymedes, con una precisione nei particolari che trova un puntuale riscontro nella descrizione della statua fatta da Pausania (IV, 27, 2).

Per motivi strettamente religiosi e di convenzione iconologica, prima ancora che per i suoi valori formali, la s. di c. si impone a volte come modello della piccola plastica votiva dedicata in un santuario. Spesso si tratta di un'influenza generica, limitata alla sola assunzione del medesimo tipo statuario; in alcuni casi, invece, è possibile che statuette votive di maggior pregio si siano ispirate più da vicino alla s. di c. del santuario. Un esempio di tale rapporto sembra offerto da un piccolo bronzetto della fine del VI sec. a.C., proveniente dal Santuario di Atena Alea a Tegea e raffigurante la dea in armi, secondo il tipo del Palladio, nel quale si è ritenuto di poter riconoscere una riproduzione della s. di c., opera di Endoios. L'analisi della plastica votiva in bronzo e in terracotta del Santuario di Artemide Hemèra di Lousoi è stata più volte al centro dei tentativi di ricostruzione dell'immagine di culto del santuario, non senza recenti proposte di particolare interesse. In alcuni casi tale rapporto tra piccola plastica votiva e s. di c., ha determinato la realizzazione di statuette votive in marmo, la cui particolare qualità suggerisce una forte attendibilità iconografica e un alto grado di fedeltà al modello.

Rapporti di derivazione iconografica sembrano anche desumibili dalle raffigurazioni di divinità su rilievi votivi, nonché su quelli di decreto che replicano spesso, al fine di rappresentare una città, in quanto emblema e protettrice della pòlis stessa, la sua più importante statua di culto. Il culto della coppia eleusina, p.es., ha prodotto numerosi rilievi e statuette votive, suddivisi in diverse serie di varia provenienza: Kyparissi, Coo, Cirene, Derveni, Pireo, Atene e Creta (statuette Grimani), le quali, oltre ad affermare un diffuso costume votivo, sembrano denunciare un rapporto di dipendenza iconografica dalle s. di c. dei diversi santuari di provenienza. Il confronto di tali testimonianze con la tradizione copistica di età romana ha consentito l'individuazione, non senza alcune incertezze, di una serie di tipi statuari riconducibili alle figure di Demetra e Kore e ancora aperta è la discussione sul possibile accoppiamento di tali tipi, al fine di ricostruire gruppi statuari di culto delle divinità eleusine, in particolare di età classica, periodo in cui, a seguito delle guerre persiane, si assiste a un forte incremento del culto, con un rinnovamento dei santuari e la creazione di nuove statue cultuali. Anche i rapporti riscontrabili tra rilievi votivi greci e i diversi tipi statuari di Asklepios copiati in età romana hanno consentito il recupero e la datazione di alcuni originali di età classica, realizzati nel momento di maggiore diffusione del culto del dio; per questi è ora necessario arrivare a una determinazione dei santuari di appartenenza e alla definizione dei tipi statuari di Hygieia a cui questi erano accoppiati. Nel contempo le recenti proposte di identificazione dell'Asklepios di Pergamo, opera di Phyromachos (v.), ripropongono il problema delle statue erette per i diversi santuari pergameni del dio e del loro rapporto con le immagini di culto di Asklepios di età classica. Non meno significativo, infine, è il riconoscimento, tramite rilievi e statuette votive, della s. di c. di Bendìs nel santuario della dea al Pireo.

La riproduzione consapevole della grande plastica greca in età romana, favorita da consuetudini devozionali e cultuali o, più spesso, dalle richieste di un vero e proprio mercato d'arte, costituisce, come è noto, un'importante fonte di informazione sull'aspetto delle s. di c., che per la loro importanza e per le loro qualità formali e stilistiche sono state oggetto di un simile fenomeno. La difficoltà di riconnettere precisi tipi statuari con le numerose immagini di culto ricordate dalle fonti ha spesso ostacolato l'archeologia filologica tradizionale nel recupero dell'identità dei relativi archetipi. Tuttavia i progressi della Typenforschung, volti a meglio definire la varia casistica offerta dalla libertà creativa delle botteghe di scultura di età romana, e le recenti acquisizioni intorno all'esistenza, già in età classica, del fenomeno di riproduzione di opere scultoree, tra cui spesso anche immagini di culto, consentono ora un approccio più consapevole ai problemi interpretativi posti dalla copistica di età romana. Superando i limiti della critica stilistica tradizionale, una più ampia e sistematica indagine ricostruttiva dell'attività delle botteghe copistiche romane, non senza l'impiego critico di altre fonti a nostra disposizione, può forse consentire una più fondata valutazione del problema del rapporto tra tipi scultorei individuati e rispettivi modelli, al fine di riuscirne a definire il significato e l'eventuale identità cultuale.

Incoraggianti, in tal senso, appaiono i recenti recuperi, tramite l'individuazione di frammenti originali e l'attenta analisi critica di fonti antiche ed epigrafiche, rilievi votivi e tipi statuari della tradizione copistica, di alcune importanti s. di c. di età classica, di ambiente attico. Tra queste, la Nemesi del tempio di Ramnunte, opera di Agorakritos (v.), l'Afrodite seduta del santuario della dea sulle pendici Ν dell'Acropoli di Atene, l'Afrodite stante del santuario di Daphnì, replica contemporanea della s. di c. eseguita da Alkamenes (v.) per il santuario ateniese di Afrodite dei Giardini, presso l'Ilisso, nota tramite copie di età romana, e inoltre la s. di c. di Atena Arèia, pàredros di Ares nel tempio del dio nell'agorà di Atene.

Non meno importanti per la conoscenza delle s. di c. sono inoltre le basi sulle quali queste erano sistemate. Alcune, individuate all'interno di edifici templari della fine dell'VIII sec. a.C., costituiscono di fatto le più antiche testimonianze archeologiche intorno all'esistenza di una statuaria di culto in Grecia. Dalle dimensioni di una base è possibile dedurre, talvolta, formato e posa della relativa statua e, nel caso di una base inscritta, conoscere anche il nome della divinità a cui questa apparteneva (si veda p.es. la base della statua di Atena Hygìeia sull'Acropoli di Atene). Le fonti scritte, confermate anche dalle testimonianze archeologiche, relative o a frammenti originali recuperati o a repliche di età romana, documentano basi e troni, per lo più di età classica, decorati con raffigurazioni mitologiche strettamente connesse alla divinità della statua di culto. Tra gli esempî più noti e meglio indagati: il trono dello Zeus di Olimpia, le basi dell'Atena Parthènos e della Nemesi di Agorakritos, nonché quella del gruppo cultuale di Efesto e Atena dell'Hephaistèion di Atene.

Materiali e tecniche. - Pausania (II, 19, 3), che impiega il termine xòanon (v.) nel significato restrittivo di statua di divinità in legno, sottolinea, insieme a Strabone (XIII, 601), la natura esclusivamente lignea delle più antiche statue di culto. Ciò appare confermato dalle testimonianze letterarie ed epigrafiche relative alle prime immagini di culto greche, databili tra l'VIII e la fine del VI sec. a.C. Le fonti offrono a volte notizie anche sul tipo di legno impiegato per la realizzazione di tali statue, la cui scelta va forse ricondotta a motivi di ordine religioso e cultuale, legati o alla consacrazione di un particolare tipo di legno a una certa divinità o a precise indicazioni oracolari da seguire nella realizzazione di una statua. L'uso del legno è comunque attestato anche per immagini cultuali di età tardo-arcaica e di epoca classica ed ellenistica. Seppure meno frequenti, sono note anche s. di c. di età arcaica realizzate interamente in avorio o combinanti legno e avorio. Le fonti ricordano inoltre immagini cultuali lignee rivestite di lamine d'oro (έπίχρυσον), molto probabilmente lavorate a sbalzo, realizzate secondo una tecnica mista di età arcaica, derivata dalla più antica tradizione di lavorare xòana e dalla tecnica dello sphyrèlaton (v.) con la quale, come testimonia la triade di Dreros, furono realizzate immagini dì culto, di dimensioni verosimilmente ridotte. Di legno rivestito di lamine d'oro dovevano essere l'Apollo di Tegea, opera di Cherisophos, l'Apollo del Delion di Beozia, la statua del Santuario di Apollo a Tornace e quella colossale del dio del santuario di Amyklai, per la realizzazione delle quali gli Spartani impiegarono l'oro offerto da Creso, nonché l'Apollo Delio di Tektaios e Angelion. Nello stesso modo fu realizzata la statua di Artemide Efesia, nota tramite una notevole serie di repliche in marmo di età ellenistica e romana, che consentono di ricostruirne, con un notevole grado di attendibilità, aspetto, dimensioni e caratteristiche tecniche. In una tecnica analoga dovettero essere eseguite anche molte delle s. di c. di ambiente anatolico e siriano che appaiono strettamente connesse al simulacro efesino e anche talune statue di età ellenistica, come p.es. l'Apollo Citaredo di Bryaxis a Daphnì, presso Antiochia, a conferma, ancora una volta, come si è già visto anche per l'impiego del legno, di un forte conservatorismo nella scelta dei materiali e dunque anche della tecnica di esecuzione.

Di legno, rivestito di lamine di bronzo, dovevano essere invece le statue di Atena Chalkìoikos e quella colossale dello Zeus Hypatos di Sparta. A partire dalla fine del VI sec. tale tecnica di lavorazione del bronzo fu sostituita, come è noto, con quella della fusione a cera persa. Diverse raffigurazioni cultuali di età classica ed ellenistica, oggi perdute, come la quasi totalità della produzione statuaria in bronzo greca, furono verosimilmente eseguite con tale tecnica; di esse, come si è detto, rimane un'eco nella produzione copistica di età romana. Non mancano tentativi di riconoscere alcune s. di c. in originali in bronzo superstiti, come p.es. nel caso dell'Apollo del Pireo. Di bronzo furono verosimilmente lo Zeus di Priene e la Tyche di Antiochia, opera di Eutychides, nonché l 'Hera di Alessandria e lo Zeus Nikephòros della capitale siriaca, entrambe inoltre rivestite d'oro.

Da Erodoto (v, 82), sappiamo che in età arcaica la pietra poteva costituire un altro dei materiali impiegati, in alternativa al legno, per la realizzazione di una statua di culto. Pausania (II, 37, 1-2), dal canto suo, ricorda una statua di Afrodite in pietra, dedicata dalle figlie di Danao e forse particolarmente antica. La scarsità delle testimonianze letterarie ed epigrafiche fa ritenere che l'uso della pietra per immagini di culto non fosse particolarmente diffuso in età arcaica. A partire almeno dalla seconda metà del VI sec. a.C., iniziò anche l'impiego del marmo, come testimonia infatti la statua di Dioniso da Icarion, databile al 530-520 a.C., che costituisce la più antica immagine marmorea di culto a noi finora nota. Come l'Artemide in marmo del Dèlion di Paro sembra confermare, si tratta di un impiego che, già à partire dagli inizi del V sec. a.C., dovette costituire una scelta normale all'interno della statuaria greca con funzione cultuale; una scelta che venne progressivamente affermandosi nel corso del secolo, come testimoniano i recuperi sopracitati di frammenti originali in marmo di diverse s. di c. di età classica, e che proseguì anche in periodo ellenistico. Nel tardo ellenismo, in particolare, la statuaria di culto si distingue, a causa anche del suo formato colossale, per l'impiego di una tecnica di assemblaggio delle singole parti in marmo della statua, a cui si associa la pratica di eseguire teste prive della calotta cranica o svuotate interiormente e con gli occhi realizzati in materiale diverso (vedi p.es. il Gruppo di Lykosoura). Una tecnica in cui è possibile riconoscere un'imitazione della più costosa tecnica crisoelefantina, di cui Damophon di Messene, visto anche il suo intervento di restauro della s. di c. crisoelefantina di Zeus a Olimpia (Paus., IV, 31, 6), era del resto un esperto.

Sebbene la tecnica crisoelefantina sia normalmente associata all'età classica, per via soprattutto dei colossi fidiaci dell'Atena Parthènos di Atene e dello Zeus di Olimpia, dell’Hera policletea dell’Heràion di Argo e dell'Asklepios del santuario di Epidauro, opera di Trasymedes, immagini di culto crisoelefantine sono di fatto note già in epoca arcaica, come l’Afrodite seduta del santuario di Sicione, opera di Kanachos, e la statua di Artemide Làphria di Calidone, opera degli scultori tardo-arcaici Menaichmos e Sóidas (Paus., VII, 18, 10). Mancano invece testimonianze dirette di statue crisoelefantine di età ellenistica destinate al culto, anche se è probabile che ne siano state realizzate (si veda p.es. la statua di Artemide Làphria eseguita da Damophon per la città di Messene, a imitazione di quella arcaica crisoelefantina di Calidone). Un interessante esempio di non-finito in tale tecnica è offerto, dal canto suo, dalla statua di Zeus oggetto di culto nell'Olympièion di Megara, opera, in collaborazione forse con Fidia, di Theokosmos di Megara (Paus., I, 40, 4; VI, 7, 2).

Già attestata in età tardo-arcaica e spesso impiegata anche in epoca classica per immagini di culto (si veda p.es. la sua particolare diffusione in ambiente magno-greco), la tecnica dell'acrolito, basata sull'utilizzo congiunto di marmo, per la testa e le parti nude del corpo, e legno, rivestito spesso con lamine d'oro o di bronzo dorate, per il resto del corpo, caratterizza in particolare la statuaria cultuale di età ellenistica e romana. Diverse sono le testimonianze di teste, braccia, gambe e piedi marmorei, pertinenti sulla base di particolarità tecniche connesse alla loro applicazione sul nucleo ligneo, ad aeroliti di questo periodo relativi al culto. Tra le più importanti, l'Atena di Priene, il gruppo di Igea e Asklepios di Pheneos e la statua di divinità femminile del tempio Β dell'area sacra di Largo Argentina a Roma.

Da un punto di vista strettamente tecnico sembra di fatto esistere una relazione di continuità tra i più antichi esempî di s. di c. e i colossi aeroliti e crisoelefantini di età classica ed ellenistica. Questi costituiscono infatti, nel loro uso congiunto di materiali differenti, due diversi esiti, a seguito anche di momenti di decisivo rinnovamento, nel corso in particolare del V sec. a.C., dello sviluppo di un artigianato arcaico, specializzato nella realizzazione di statue di divinità ed esperto nella tecnica xoanica e degli sphyrèlata arcaici. Una relazione di continuità tecnica giustificabile con il conservatorismo iconografico-formale, basato evidentemente su motivazioni di ordine religioso, che contraddistingue la statuaria di culto e che verosimilmente dovette condizionare anche le scelte dei materiali e della tecnica di esecuzione di quest'ultima. Dal canto suo, la tecnica dell'acrolito, più diffusa a partire dall'età ellenistica, sembra essere, rispetto alle costose realizzazioni crisoelefantine di età classica, una sorta di traduzione «povera» di queste ultime.

Per quanto riguarda le dimensioni, le fonti letterarie e archeologiche ci danno notizia del formato spesso ridotto delle più antiche statue di culto. Una serie di raffigurazioni vascolari, che mostrano immagini di culto di forma arcaica inserite in scene mitologiche o di sacrificio, sembra di fatto confermare una simile realtà e testimonia inoltre la particolare mobilità di queste statue, che giustifica, del resto, il loro possibile coinvolgimento, come si è visto, in alcune pratiche cultuali. Già nel VI sec. a.C., tuttavia, parallelamente alla dedica in importanti santuari di statue votive colossali, compaiono le prime sculture di dimensioni maggiori del vero, e dunque caratterizzate da una sostanziale fissità, come l'Apollo del santuario di Amiklai, alto all'incirca 30 cubiti, e l'Apollo Delio, opera di Tektaios e Angelion. Nel V sec. a.C., attraverso le statue crisoelefantine dello Zeus di Olimpia e dell'Atena Parthènos di Atene, tale costume trovò, sul piano sia tecnico sia artistico, la sua più elevata espressione. In seguito, le proporzioni dei due colossi fidiaci divennero esemplari per molte immagini cultuali di età ellenistica, le cui dimensioni erano normalmente maggiori del naturale, se non addirittura colossali.

La s. di c. poteva essere conservata in una parte segreta dell'edificio templare oppure mostrata apertamente (cfr. Paus., Il, 13, 4). Alcuni autori antichi (Eur., Iphig. Taur., 92-103; Paus., X, 24, 5; cfr. anche Plin., Nat. hist., XXXVI, 32) ricordano statue custodite nella parte più interna del tempio, l’àdyton, motivi cultuali potevano infatti impedirne in alcuni casi la vista ai fedeli. Più spesso, la statua di divinità era visibile a tutti e sistemata su una base posta sul fondo della cella, in asse con la porta di ingresso e dunque rivolta verso l'altare esterno situato di fronte al tempio. Una sistemazione, quest'ultima, canonica a partire almeno dalla fine del VI sec. a.C., ma che in età arcaica, quando la collocazione della statua doveva essere condizionata da motivi ancora strettamente religiosi, risulta di fatto poco frequente, come testimoniano infatti le basi di alcune antiche sculture (triade di Dreros, Hera di Samo, Atena di Chio), poste fuori asse rispetto all'ingresso. A partire dalla metà del VI sec. a.C., con l'erezione di immagini di culto monumentali e il sempre più sofisticato impiego di materiali preziosi e rilucenti come il marmo, il bronzo e l'oro, sembra affermarsi una maggiore attenzione per il rapporto tra statua e luce interna del tempio, con un avanzamento della base verso il centro della cella, così da aumentarne, grazie anche all'introduzione della ripartizione in tre navate di quest'ultima, la spettacolarità e l'efficacia rappresentativa. In età ellenistica la ridotta ampiezza della cella del· tempio, per lo più prostilo in antis, ha costretto spesso a una sistemazione della statua a ridosso della parete di fondo. Manca, comunque, nel rapporto tra dimensioni dell'effigie divina e spazio interno della cella una qualche regolarità costruttiva. La particolare larghezza di quest'ultima, a volte di forma quasi quadrata, e le grandi porte di ingresso dovevano favorire una particolare relazione tra l'immagine della divinità e la luce interna.

La collocazione rigidamente frontale della s. di c., a favore del fedele che entrava nel tempio, oltre a essere un portato delle frontalità delle più antiche immagini cultuali, doveva servire ad aumentare l'impressione di superiorità e di grandezza della divinità. Ciò nell'ambito di un rapporto con il devoto che, diversamente da quanto accade in età arcaica, in cui la statua della divinità partecipa a volte al rituale, si fa sempre più distaccato, in conseguenza sia della monumentalizzazione delle rappresentazioni scultoree sia di un mutato modo di considerare e sentire la divinità, e dunque anche la sua immagine, che sembra affermarsi in particolare nel corso del V sec. a.C.

Iconografia. - È probabile, come si desume anche dalle fonti letterarie, che alcune tra le più antiche immagini antropomorfiche di culto presentassero un aspetto assai semplice. Esse indossavano talvolta veri e propri abiti in tessuto e portavano diversi tipi di accessori che costituivano parte del loro kòsmos. Si è ipotizzato che una possibile motivazione per tale pratica potesse risiedere, inizialmente, nell'intento di celarne la semplicità formale e di raggiungere così un aspetto completamente antropomorfico. Poiché vestiti e accessori erano removibili, la statua poteva, nel tempo, mutare in parte il proprio aspetto (si vedano le variazioni supposte per l'Atena Poliàs di Atene). Una parziale variabilità iconografica trova un riscontro anche in immagini più monumentali di età arcaica, come p.es. l'Apollo Delio, per il quale infatti sono stati sottolineati di recente una serie di mutamenti degli attributi che comunque lasciarono sostanzialmente invariata la struttura originaria della statua.

Sul piano sia formale sia cromatico, la scelta di particolari materiali e di determinate tecniche di esecuzione contribuiva a offrire all'immagine da venerare una particolare Erscheinungsform, estremamente efficace nell'esprimere, nei diversi momenti, quei caratteri riconosciuti propri, sul piano simbolico, della divinità, a partire da un'idea data e comunemente accettata di quest'ultima. Progressivamente iniziarono a fissarsi anche precisi tipi statuari i cui motivi iconografici erano ritenuti particolarmente idonei alla rappresentazione di una determinata divinità e all'espressione dei suoi caratteri specifici. Ciò spiega la pratica frequente, già a partire dall'età arcaica, di realizzare s. di c. a «imitazione» di altre più importanti. Significativa in tal senso è la fortuna del tipo del kouros per immagini di Apollo che, introdotto forse all'interno della statuaria di culto con la realizzazione dell'Apollo Delio di Tektaios e Angelion, fu in seguito assunto a modello da immagini come l'Apollo Philèsios di Kanachos o l'Apollo del Pireo, non senza una sua ulteriore fortuna come tipo statuario del dio anche in età classica. L'impiego del tipo della Pròmachos sembra caratterizzare p.es. la statuaria in onore di Atena tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C., come testimoniano infatti le immagini di culto di Atena Prònaia del santuario di Delfi, la statua-acrolito del Tempio di Atena Aphàia a Egina e infine una statua frammentaria in marmo proveniente dall'acropoli di Sparta e datata alla fine del VI sec. a.C., nella quale si è di recente proposto di riconoscere o una statua votiva che copia l'immagine cultuale in bronzo, opera di Gitiadas, del Santuario di Atena Chalkìoikos o la statua del vicino Santuario di Atena Ergàne.

Nel corso del V sec. a.C., con il rinnovamento dei santuari a seguito delle guerre persiane e la realizzazione di nuove immagini di culto, si assiste a un forte rinnovamento sul piano sia tecnico sia stilistico-formale della statuaria greca con funzione cultuale. Esemplari in tal senso sono i colossi crisoelefantini fidiaci di Olimpia e Atene. Le mutate esigenze politico-religiose e un diverso modo di considerare e sentire la divinità stanno senza dubbio alla base della realizzazione di nuove statue che sostituiscono e spesso affiancano immagini più vecchie, introducendo nuovi tipi statuari, che a volte vengono contemporaneamente riproposti anche per altri santuari (si veda il caso del tipo dell'Afrodite «appoggiata»). Un fenomeno, quello del rinnovo iconografico della statuaria di culto di età classica, che necessita ancora di essere approfondito nei suoi diversi aspetti e nelle sue motivazioni storico-religiose.

Meglio indagata risulta invece la produzione di età ellenistica. È questo il momento in cui si realizzano, utilizzando spesso nuovi tipi statuari, immagini di culto di divinità in grado di esprimere, a seguito di nuove e particolari aspettative, precise concezioni religiose e politiche. È il caso di figure divine come Dioniso e Apollo, entrambe connesse con l'ideale religioso della festa e che in quanto tali garantivano alla città pace e prosperità, le cui immagini di culto si distinguono infatti per l'aspetto festoso e per la ricchezza degli abiti (si veda la fortuna del tipo «Sardanapalo» per Dioniso e il frequente impiego, per Apollo, del tipo citaredico, come nel caso p.es. dell’Apollo Patròos del tempio dell'Agorà di Atene, opera di Euphranor, e dell'Apollo del Tempio di Daphnì presso Antiochia). Non meno significativa in tal senso appare anche la realizzazione di immagini di culto di nuove divinità introdotte nel pantheon greco, come Iside e Serapide, o di personificazioni astratte, come p.es., la nota Tyche di Antiochia che, per l'aspetto e gli attributi, sottolinea il ruolo di protettrice della città svolto dalla dea, assicurandole prosperità economica e un'ordinata vita civile. Dall'altro, invece, l'esperienza artistica di età classica, e in particolare quella di alcune importanti realizzazioni della statuaria cultuale, assume in pieno il carattere dell'esemplarità per diverse s. di c. di età ellenistica, per le quali è evidente una dipendenza da noti tipi statuari dell'arte del V e IV sec. a.C. Si tratta per lo più di immagini di culto di Zeus, Atena e Asklepios che ripetono liberamente il tipo dello Zeus in trono di Olimpia, quello dell’Atena Parthènos di Atene e i diversi tipi statuari, seduti e stanti, delle immagini di culto di Asklepios, realizzate nel corso dell'età classica per alcuni tra i più importanti santuari del dio in Grecia.

La ripetizione di un motivo statuario era dovuta non solo all'unicità e alla fama di un opus nobile, ma anche a motivi di ordine iconografico (si vedano p.es. lo Zeus Sosìpolis di Magnesia al Menandro, lo Zeus di Egira e lo Zeus Phìlios di Pergamo che ripropongono il modello dello Zeus di Olimpia, per esprimere l'idea della superiorità divina), oppure a motivi di ordine strettamente religioso, come nel caso di Asklepios, nonché, anche, a riflessioni politico-culturali, come per l'Atena di Priene. Da un punto di vista strettamente stilistico-formale, tale fenomeno dovette costituire una delle premesse dell'emergere di quella corrente classicistica che, come è noto, diverrà dominante a partire ¡ dal tardo-ellenismo (si vedano le statue di artisti come Damophon ed Eukleides), ma che all'interno della statuaria di culto ellenistica, sembra comparire già alla fine del III sec. a.C. Fenomeno non meno importante, connesso alla prassi del culto dei principi ellenistici, è infine l'erezione di statue di questi ultimi in appositi templi, come nel caso, p.es., dei Tolemei ad Alessandria, o quali sỳnnaos di altre divinità, come per Attalo III, nell'Asklepièion di Pergamo.

Roma. - Alla statuaria di culto greca di età tardo-ellenistica, e in particolare alla sua forte impronta classicistica, sono debitrici le iconografie romane tardo-repubblicane, le quali riflettono la progressiva ellenizzazione del mondo romano di questo periodo. Da un punto di vista formale e tecnico, esse costituiscono un profondo rinnovamento della statuaria di culto romana, della quale poco ci è noto precedentemente al II sec. a.C. Legate, per lo più, a schemi formali arcaici, le immagini di culto più antiche, realizzate dall'età arcaica fino al III sec. a.C., erano quasi esclusivamente in legno o in terracotta, sulla base, molto probabilmente, di un forte conservatorismo religioso che regolava l'aspetto e il materiale stesso di tali simulacra (cfr. Plin., Nat. hist., XXXIV, 34). Dalle fonti letterarie deduciamo che furono realizzate in legno la Diana dell'Aventino, simile forse nell'aspetto all'Artemide Efesia, la Fortuna Muliebris, l'immagine seduta di Fortuna nel Foro Boario, la Iuno Regina dell'Aventino, trasferita a Roma da Veio, e la prima s. di c. del Tempio di Veiovis sul Campidoglio. In terracotta erano invece il simulacro arcaico dello Iuppiter Optimus Maximus, andato distrutto nell'incendio del tempio capitolino dell'83 a.C., e l'Hercules Fictilis del tempio del dio presso l'Ara Massima al Foro Boario. Un'importante eccezione è offerta dall'immagine di culto in bronzo di Cerere del tempio dell'Aventino che, come ricorda Plinio (Nat. hist., XXXIV, 15), era il più antico simulacro divino realizzato in questo materiale a Roma. Il chiaro carattere greco del culto e l'impiego di artisti greci per la decorazione del tempio suggeriscono una realizzazione della statua da parte di scultori greci, ipotesi che giustificherebbe l'impiego del bronzo, in rottura con la tradizione.

A partire dal II sec. a.C., in conseguenza della sempre più forte ellenizzazione del mondo romano e della dedica di nuovi edifici templari, eretti per lo più con i proventi dei bottini delle conquiste in Oriente, si assiste alla realizzazione di nuove sculture, a opera soprattutto di artisti greci, in particolare ateniesi, che ripropongono a Roma il linguaggio formale di impronta classicistica della statuaria di culto greca tardo-ellenistica, basato sul riferimento a modelli del V e IV sec. a.C. Esemplare in tal senso è l'attività della bottega connessa alla famiglia di artisti ateniesi che fa capo agli scultori Polykles e Timarchides (v.), la quale realizza immagini di culto, sia per santuari della Grecia (si vedano le statue dei templi di Atena Kràneia e di Asklepios a Elateia: Paus., X, 34, 8; 34, 6), sia per i nuovi templi di Roma. A questa bottega sono infatti attribuibili, sulla base delle fonti (Plin., Nat. hist., XXXVI, 35), l’Apollo «qui citharam tenet» del Tempio di Apollo Medico, opera di Timarchides, e le s. di c. di Giove Statore e di Giunone Regina dei templi della porticus Metelli, realizzate da Polykles e Dionysios. Dell'Apollo di Timarchides, la prima statua in marmo a noi nota, si conserva forse un frammento della mano colossale, mentre il tipo statuario è noto da diverse repliche, per lo più di età antonina, alcune delle quali, a conferma dell'originaria funzione cultuale del tipo, impiegate come immagini di culto (si veda p.es. l’Apollo di Cirene, l’Apollo di Bulla Regia e forse anche l’Apollo di Corinto). In una testa colossale in marmo pentelico, conservata al Museo Capitolino e relativa a un aerolito, si è invece supposto di poter riconoscere la Giunone del tempio della porticus Metelli. La statua di bronzo dorato di Ercole del Museo dei Conservatori è stata riconosciuta, sulla base anche delle fonti letterarie, come quella relativa al culto nel tempio rotondo dell'Ercole Emiliano, dedicato nel 142 a.C. In diversi frammenti marmorei colossali (teste soprattutto), relativi a sculture eseguite nella tecnica dell'acrolito, sono stati individuati i resti di importanti statue destinate al culto, realizzate tra il II e il I sec. a.C., a Roma e nel Lazio: la Fortuna huiusce diei del tempio Β dell'area sacra di Largo Argentina, la Feronia di Terracina, la Fortuna Primigenia di Preneste, la Diana di Nemi, l'Esculapio trovato presso il tempio tetrastilo dell'area sacra repubblicana di Ostia, la Giunone Sospita di Lanuvium, la Fides del tempio capitolino della dea e, probabilmente, la Mens del tempio della dea posto anch'esso sul Campidoglio. Non meno importante, anche per via del suo stato di conservazione, la statua seduta in marmo, di dimensioni colossali, del Santuario di Ercole di Alba Fucente (v.), risalente all'età sillana e realizzata in diversi pezzi, successivamente assemblati insieme. Per alcune di queste opere, unitamente agli edifici di culto che le ospitavano, è stato possibile definire, attraverso la discussione delle testimonianze letterarie e archeologiche, il carattere delle committenze e le occasioni storiche che le hanno determinate, all'interno di un quadro storico, come quello tardo- repubblicano, nel quale religione e propaganda politica rivestono un ruolo di particolare importanza.

In tale quadro storico si inserisce anche la nuova s. di c. di Giove Capitolino, eretta a seguito del restauro del tempio, promosso da Siila dopo l'incendio dell'83 a.C. Si trattava, come si deduce dalle fonti letterarie, di un'immagine seduta, a imitazione quasi certamente, come altre rappresentazioni di Zeus di età ellenistica, del colosso fidiaco di Olimpia, con parti molto probabilmente dorate. Una replica di tale opera è stata riconosciuta in un torso colossale in marmo, relativo alla statua di Giove venerata nel Capitolium di Pompei, di età tardo-repubblicana. Da tale tempio proviene anche una testa colossale in marmo, pertinente all'immagine di culto di Giunone.

La politica religiosa di rinnovamento dei culti, promossa da Augusto, portò al restauro e alla costruzione di molti edifici e con essi anche alla realizzazione di nuove immagini cultuali che, in accordo con il classicismo augusteo, ripropongono per lo più modelli scultorei greci del V e IV sec. a.C. Un esempio in tal senso è offerto dalla statua di Cibele, realizzata in occasione del restauro del tempio del Palatino del 3 d.C., a imitazione, molto probabilmente, dell'effige della Madre degli Dei venerata nel santuario dell'agorà di Atene. In alcuni casi, relativi, tra l'altro, a culti particolarmente importanti, Augusto fece addirittura esporre sculture originali greche, asportate da importanti santuari della Grecia, come nel caso del Tempio di Apollo sul Palatino, dove Apollo era un'opera di Skopas, Diana una statua di Kephisodotos, e Latona una di Timotheos, oppure del Tempio di Giove Tonante, la cui immagine di culto era una statua di bronzo di Leochares. Non mancano comunque esempî di statue cultuali, le quali non ripropongono modelli scultorei classici, ma si configurano come libere Neuschöpfungen romane. È il caso dell'immagine di culto del Tempio di Marte Ultore del Foro di Augusto, nota da un rilievo di Cartagine, raffigurante l'intero gruppo scultoreo, con anche la figura di Venere, e da una statua colossale del dio del Museo Capitolino che, realizzata probabilmente in età domizianea, in sostituzione forse della statua di età augustea, ne ripete l'aspetto, per evidenti motivi di conservatorismo religioso.

Analoghi motivi stanno molto probabilmente alla base della riproposizione di un medesimo tipo statuario anche per le successive immagini di culto di Giove Capitolino e in particolare per quella realizzata dopo l'incendio dell'8° d.C., il cui aspetto ci è noto tramite una serie di statue di Giove provenienti da diversi Capitolia (Khamissa, Valentano, Gemila, Thuburbo Maius, Dugga), le quali ripetono il medesimo tipo statuario e sono tutte databili dopo l'età flavia.

Sulla base delle testimonianze a nostra disposizione, più ricca e articolata appare invece la tipologia delle immagini di culto urbano di Minerva, cui corrispondono anche diverse funzioni e significati cultuali, mentre in generale, per la maggior parte delle immagini di culto di importanti templi di età imperiale mancano, di fatto, testimonianze utili a una loro identificazione. Alla prassi del culto imperiale appartiene l'erezione di statue all'interno di edifici di culto specifici, come testimoniano del resto numerose fonti letterarie, epigrafiche e numismatiche (più rare sono invece le testimonianze dirette). Il grande formato, a volte colossale, la nudità eroica e un'iconografia simile a quella delle immagini di Giove, sono le caratteristiche più frequenti di tali raffigurazioni di imperatori destinate al culto.

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Raffigurazioni vascolari: I. B. Romano, op. cit., pp. 7, 22-24, 455-464; B. Alroth, Changing Modes in the Representation of the Cult Images, in R. Hägg (ed.), The Iconography of Greek Cult in the Archaic and Classical Periods. Proceeding of First International Seminar on Ancient Greek Cult, Delphi 1990, Atene-Liegi 1992, pp. 9-45.

Basi di s. di e.: I. Β. Romano, op. cit., pp. 22, 451-454; A. Mazarakis-Ainian, art. cit., p. 117 s.; P. Danner, Das Kultbild des Heraklestempels von Kleonai, in Boreas, XVI, 1993, p. 20-23. - Trono dello Zeus di Olimpia: G. V. Gentili, Il fregio fidiaco dei Niobidi alla luce del nuovo frammento da Modena, in BdA, LIX, 1974, p. 101 ss.; Ch. Vogelpohl, Die Niobiden von Thron des Zeus in Olympia. Zur Arbeitsweise römischer Kopisten, in Jdl, XCV, 1980, p. 197-226.

- Base dell'Atena Parthènos·. Β. Fehr, Zur religionspolitischen Funktion der Athena Parthènos in Rahmen des delisch-attischen Seebundes, II, in Hephaistos, II, 1980, pp. 113-125 e III, ibid., III, 1981, pp. 70-73; J. M. Aurwit, Beautiful Evil: Pandora and the Athena Parthènos, in AJA, IC, 1995, pp. 171-186. - Per la base della Nemesi di Ramnunte v. agorakritos.

Materiali e tecniche: Η. Ρ. Laubscher, op. cit., p. 148 s.; I. B. Romano, op. cit., pp. 351-381; J. Papadopoulos, Xoana e Sphyrelata, Roma 1980, pp. 9-12, 77-87 (sugli sphyrèlata)·, P. C. Bol, Antike Bronzetechnik, Monaco 1985; S. De Angeli, art. cit., pp. 399-403. - Tecnica crisoelefantina: W. Schiering, Die Werkstatt des Pheidias in Olympia, 2. Werkstattfunde (Olympische Forschungen, XVIII), Berlino 1991. - Dimensioni: I. Β. Romano, op. cit., pp. 382-390; H. P. Laubscher, op. cit., p. 149. - Sulla colossalità come categoria estetico-religiosa: B. Gladigow, art. cit., p. 98; H. Cancik, Grosse undKolossalität als religiöse und ästhetische Kategorien. Versuch einer Begriffsbestimmung am Beispiel von Statius, Silvae I 1, in Visible Religion, V, 1990, pp. 51-64. - Per la tecnica dell'acrolito v. acrolito.

Sistemazione della s. di c.: P. E. Corbett, art. cit., p. 149 s.; I. B. Romano, op. cit., p. 5 ss.; A. Beyer, Die Orientierung griechischer Tempel. Zur Beziehung von Kultbild und Tür, in W. D. Heilmeyer (ed.), Licht und Architektur, Tubinga 1990, pp. 1-7; P. Danner, art. cit., pp. 20-23; H. U. Cain, art. cit., pp. 123-125. - Influenza del classicismo tardo-ellenistico sulle immagini di culto romane: G. Schwarz, Die Rezeption des klassizistischen Götterbildes bei den Römern, in Πρακτικα του XII Διεθνοuς..., cit., pp. 241-245; H. G. Martin, op. cit., p. 195 ss.

Per il problema dei copisti romani e degli originali greci v. copie e copisti.

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