STATI UNITI

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Stati Uniti

Elio Manzi
Giuseppe Smargiassi
Tiziano Bonazzi
ENCICLOPEDIA ITALIANA VI APPENDICE TAB stati uniti 01.jpg

(XXXII, p. 523; App. I, p. 1019; II, ii, p. 889; III, ii, p. 821; IV, iii, p. 457; V, v, p. 238)

Ambiente e geografia umana ed economica

di Elio Manzi

Cambiamento globale e dimensione umana dei problemi ambientali

Gli S. U. costituiscono un laboratorio privilegiato per l'analisi delle tendenze globali in atto nelle relazioni tra l'uomo e l'ambiente naturale, perché consentono di osservare in anticipo l'andamento dei meccanismi che conferiscono sempre maggiore complessità alle società e agli spazi da esse organizzati. Gli S. U. svolgono un ruolo primario nel processo di transnazionalizzazione mondiale, sia perché restano l'organismo statale economicamente e militarmente più potente sia perché sperimentano storicamente al loro interno grandi processi di transnazionalizzazione e globalizzazione, derivanti dall'immigrazione (in media 1 milione di individui all'anno, per lo più di provenienza latino-americana e asiatica) e dalla presenza, nell'assetto socio-territoriale e strategico del paese, di una pluralità di capitali e di operatori economici.

La dimensione umana del cambiamento ambientale globale trova espressione negli intenti e nelle azioni per lo sviluppo sostenibile, che negli S. U. sono ufficialmente rappresentati dal Council of Sustainable Development, istituito dal presidente Clinton nel 1993, per tentare di "condurre la popolazione a soddisfare i bisogni del presente senza mettere in pericolo il futuro", sulla scia dei principi enunciati nel 1987 dalla Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite (Rapporto Bruntdland). La sfida paradossale eppure ineludibile che gli S. U., come avanguardia del mondo sviluppato, e il resto del pianeta si trovano ad affrontare all'inizio del 21° secolo consiste nel creare opportunità economiche individuali e saldezza sociale ed economica, tali da consentire il superamento dei rischi ambientali e delle iniquità sociali che hanno caratterizzato lo sviluppo economico del passato. Questa sfida fa degli S. U. l'auspicabile leader delle politiche internazionali necessarie al conseguimento di obiettivi di sviluppo sostenibile. Alcuni progetti-pilota di recupero ambientale o di ripensamento di concetti consolidati nell'uso e nel consumo del territorio sono significativi di una tendenza che va espandendosi negli Stati Uniti. Ne esaminiamo alcuni qui di seguito.

Ripensare l'urban sprawl. - La California è lo Stato-simbolo dell'urban sprawl, cioè dell'espansione diffusa degli insediamenti periferici delle aree metropolitane; questa crescita incontrollata delle sedi umane incide tanto sulla società quanto sul paesaggio, con enormi costi che la California, come del resto molte altre regioni degli S. U., non può più sostenere. Lo studio Beyond sprawl. New patterns of growth to fit the New California (Bank of America, California Resources Agency, Greenbelt Alliance, Low Income Housing Fund, 1995) evidenzia come lo sviluppo insediativo in grandi aree molto distanti dai centri urbani storici - soggetti, questi ultimi, a un declino sempre più grave - determini un incremento notevole dell'uso dell'automobile, con diseconomie di tempo; inoltre, vaste aree agricole e forestali vengono irrimediabilmente rese sterili, mentre aumentano per la popolazione tasse e altri costi al fine di creare nuove infrastrutture. Il rapporto dimostra la necessità di tornare a insediamenti più compatti per comunità più efficienti, in modo da conservare gli spazi agricoli e rivitalizzare le città; esso considera non solo la situazione californiana, ma anche quella della regione dell'industria storica del Nord-Est (tra i Grandi Laghi e la costa atlantica), del Middle West, del Sun Belt (la "fascia del sole", specie per quanto riguarda Florida,Texas, Arizona, New Mexico) e del Nord-Ovest. Soltanto con l'azione congiunta di interessi pubblici e privati sarà possibile moltiplicare le 'comunità sostenibili'.

Chattanooga, una città rifatta. - Chattanooga, nel Tennessee, aveva conosciuto un declino urbano ed economico veloce sin dagli anni Cinquanta, con la contemporanea espansione della outer city, la periferia suburbana, come effetto dell'urban sprawl. Nel 1969 Chattanooga fu classificata come la città più inquinata d'America. Ma dal 1984 in poi una serie di progetti coinvolgenti strutture pubbliche e private, con la partecipazione diretta dei cittadini, ha conseguito tali miglioramenti che la città vanta negli ultimi anni un'ottima qualità dell'aria, fino a essere considerata una 'città ambientale' (environmental city). I progetti hanno arrestato il declino del downtown, rivitalizzato i quartieri che si affacciano sul fiume Tennessee, creato nuova occupazione, rilanciato la conservazione e l'ampliamento di parchi, aree naturali, trasporto alternativo.

Cleveland e la rivitalizzazione delle aree industriali dismesse. - Cleveland, nell'Ohio, esemplifica il problema dei numerosissimi brownfields, le aree industriali abbandonate e spesso fortemente inquinate in molte grandi città, soprattutto del Nord-Est (la vecchia regione industriale detta Rust Belt, cioè "fascia della ruggine", per via della parziale decadenza del tessuto produttivo). La bonifica e il riutilizzo delle aree dismesse contribuiscono a limitare l'espansione esterna degli insediamenti, quindi la trasformazione di aree agricole o naturali. Nel 1990 la superficie inutilizzata in Cleveland si valutava al 13% del totale. Nel 1993 tre progetti-pilota per la bonifica di altrettante aree abbandonate hanno condotto all'approvazione di una legge dello Stato dell'Ohio per stimolare la bonifica volontaria delle aree dismesse. Queste iniziative si vanno estendendo in molte altre città degli S. U., con l'aiuto della Environmental Protection Agency federale.

La protezione delle zone costiere umide in Louisiana. - Ogni anno una superficie di circa 60 km² di terre umide costiere della Louisiana viene sommersa dal mare. L'erosione rapida sta sconvolgendo gli ecosistemi naturali e mandando in rovina centinaia di comunità umane del delta del Mississippi. Negli ultimi anni la situazione va lentamente migliorando, anche per l'azione del Louisiana Coastal Wetlands Interfaith Stewardship Plan, un organismo che riunisce congregazioni religiose di fedi diverse, finalizzato alla protezione delle zone umide costiere. La presenza di organismi religiosi nei tentativi di soluzione di problemi ambientali può sembrare strana, ma il loro coinvolgimento permette un proficuo contatto con le comunità locali e i loro problemi (per es. pescatori che perdono il lavoro). Quest'associazione opera accanto ad altri organismi, nei quali sono rappresentati, talora in conflitto tra loro, da un lato le compagnie petrolifere che operano in Louisiana e l'Associazione dei proprietari terrieri, dall'altro organismi di salvaguardia ambientale come il Sierra Club e la Louisiana Wildlife Federation. Nel 1989 lo Stato della Louisiana ha approvato e finanziato una legge sulla conservazione delle zone umide costiere, e nel 1990 il Congresso degli S. U. ha varato una legge per le zone umide di tutti gli S. U., in cui un miliardo e mezzo di dollari era destinato alla Louisiana, che ospita uno dei maggiori delta fluviali del mondo.

Nel 1995 gli S. U. presentavano un migliaio di aree protette a vario titolo, per una superficie di 982.400 km², vale a dire il 10,3% di quella complessiva del paese. Il National Park System comprendeva alla stessa data 368 siti protetti, per un totale di 333.212 km², fra cui 54 parchi nazionali, estesi su 206.846 km², 10 National Seashores (2.370 km²) e 4 National Lakeshores (916 km²), cioè coste, spiagge e litorali marini e lacustri (sui Grandi Laghi) di particolare rilevanza naturalistica e storico-culturale. Il National Park System include non soltanto i grandi parchi naturali, ma anche siti storici e archeologici e aree ricreative nazionali, che spesso servono ad attenuare la pressione dei visitatori sui parchi più famosi, frequentati da milioni di persone. Ma i parchi non sono realtà isolate, bensì inserite in una realtà territoriale che cambia velocemente: per questo il National Park Service ha lanciato alcune campagne di sensibilizzazione e di studio, con il sostegno finanziario privato, sia da parte di individui sia di grandi aziende, e con il coinvolgimento delle comunità in cui i parchi sono inseriti. Nel 1996 il programma Expedition into the Parks ha coinvolto numerosi volontari, per lo più studenti universitari, organizzazioni scoutistiche e altre organizzazioni senza scopo di lucro, per indagini e studi mirati in 20 parchi.

Popolazione, insediamenti e aree urbane

Gli S. U. sono al terzo posto nel mondo per popolazione, dopo Cina e India. Al censimento del 1990 la popolazione era di 248,7 milioni, ma una stima del 2000, che tiene conto anche degli immigrati illegali, valuta in 274.546.000 ab. la popolazione del paese. Per il 2010 ne sono previsti circa 300 milioni, e 325 per il 2020. Infatti, a differenza di altri paesi industrializzati ed evoluti, gli S. U. mantengono un tasso di natalità piuttosto elevato, tra il 15,2 e il 15,6‰, e uno di mortalità ormai da anni quasi costante, tra l'8,5 e l'8,7‰, con un tasso di incremento naturale ancora largamente positivo. Permangono differenze tra la maggioranza bianca (80%) e la più cospicua minoranza storica, quella nera (12,2%), la quale conserva un tasso di mortalità infantile più alto e una maggiore natalità media, sicché il numero di giovani nell'ambito della popolazione nera risulta più elevato. L'immigrazione legale è di circa 400.000 persone l'anno (1985-95), con una composizione sempre più univoca per lingua, lo spagnolo, e provenienza, il Messico e l'America Centrale. Se a questa immigrazione legale si somma quella clandestina, in grande misura proveniente dalle stesse regioni (ma in particolare dal Messico), si ha un quadro chiaramente delineato secondo una previsione a breve termine. L'immigrazione clandestina è difficilmente stimabile, forse oscillante tra le 100.000 e le 300.000 persone l'anno, mentre la provenienza linguistico-culturale è quasi univoca, a differenza della vecchia immigrazione europea, assai composita, sulla quale la lingua inglese agiva come veicolo comune di comunicazione da tutti accettato.

L'immigrazione stagionale, soprattutto messicana, viene largamente praticata specie per i lavori agricoli; questo fenomeno, che è tradizionale da decenni in California e in Texas, conosce nuovi sviluppi, perché decine di migliaia di lavoratori stagionali vengono impiegati nel Sud storico (Dixie), soprattutto nelle Caroline e in Georgia, per la raccolta e la lavorazione del tabacco, delle arachidi e anche del cotone in numerosi campi di accoglienza.

Attualmente lo spagnolo è la seconda lingua degli S. U., sebbene l'inglese resti l'unica lingua ufficiale: oltre che in alcuni Stati del Sud-Ovest, come California, Arizona, New Mexico, Texas, dove sull'antica tradizione ispanica originaria s'è innestata una forte immigrazione dal Messico, cospicue minoranze ispaniche sono presenti a New York, Chicago, Miami e in altre grandi aree metropolitane. All'immigrazione dal Messico e dall'America Centrale si aggiunge quella tradizionale da Porto Rico, Stato associato (i portoricani sono cittadini degli S. U.), dove lingue ufficiali sono lo spagnolo e l'inglese. I residenti legali che parlano spagnolo erano 22,4 milioni al censimento del 1990, ma sommando gli immigrati illegali e quelli in attesa di residenza stabile e cittadinanza, sia pure a livello di stima ipotetica, si superano i 26 milioni; al censimento del 1980, la minoranza 'ispanica' ufficiale era di 14,5 milioni, e al 1987 già era stimata in 19 milioni: questa minoranza cospicua che cresce velocemente, alimentata da continue correnti migratorie, potrebbe superare quella storica dei Neri, che invece sono di madrelingua inglese. La compattezza delle comunità ispaniche recenti fa sì che l'assimilazione linguistica anglofona venga spesso rifiutata; esistono ormai numerosi canali televisivi in spagnolo, scuole in cui i genitori pretendono l'uso della madrelingua spagnola, e in alcuni Stati compaiono cartelli bilingui; nei supermercati di grandi catene della fascia meridionale del Sud-Ovest e in alcune contee della Florida lo spagnolo è comunemente usato assieme all'inglese e così avviene per le insegne dei negozi, non soltanto nei quartieri abitati da ispanici (J. Garreau, in un saggio del 1981, The nine nations of North America, già ipotizzava una 'nazione' culturale meridionale, detta Mexamerica, senza confine politico con il Messico).

La quota della popolazione urbana è ormai sostanzialmente stabile (75% al censimento del 1990, 77% secondo stime del 1998). Il numero complessivo dei residenti nelle MSA (Metropolitan Statistical Areas), che possono includere anche zone non urbane (per i criteri seguiti nella loro istituzione v. stati uniti, in App. V, p. 239), superava i 200 milioni già nei primi anni Novanta. Alcune delle più grandi MSA, assieme a numerose altre medio-grandi, sono incluse in tre colossali regioni urbanizzate che, secondo il modello proposto da J. Gottmann negli anni Sessanta, si possono definire megalopoli, perché raggruppano costellazioni di città, incluse enormi estensioni di insediamenti periferici della classe media, le outer cities. La prima megalopoli è quella atlantica, tra Boston e Washington, e include le aree metropolitane di New York (19,5 milioni di ab.), Filadelfia (5,9) e Baltimora (2,4); la seconda è quella dei Grandi Laghi, che fa perno sull'area metropolitana di Chicago (8 milioni) e si può valutare estesa da Milwaukee a Buffalo, attraverso Detroit (4,7) e Cleveland (2,8), con un prolungamento in territorio canadese a Toronto; la terza megalopoli è californiana, da San Diego (2,5 milioni) a San Francisco (6,5), attraverso l'enorme area metropolitana che fa capo a Los Angeles (15,5) e gli insediamenti storici (come Sacramento) o quelli più recenti della Valle Centrale. Tuttavia, le aree metropolitane più vitali, che sono aumentate di popolazione negli ultimi anni, sono quasi sempre esterne a queste formazioni megalopolitane. Così, Atlanta (2,9 milioni) in Georgia, Denver (2) in Colorado, Seattle-Tacoma (2,9) nello Stato di Washington e soprattutto le metropoli texane Dallas-Fort Worth (4) e Houston (3,8) appaiono come le principali realtà urbane in espansione.

La suburbanizzazione spinta ha prodotto un nuovo tipo di centri di servizio, sparsi ai margini delle aree urbane primigenie, le edge cities (letteralmente "città del margine") che fanno le veci del vecchio downtown. Esse sono necessarie per la vita di estesissimi suburbi residenziali, come estrema trasformazione della vita urbana proiettata in un prossimo futuro. Le edge cities costituiscono poli funzionali, come centri di attrazione di servizi, in cui trasmigra e si divide, con funzioni multicentrali, il tradizionale ruolo della metropoli centrale interna quale centro erogatore di servizi qualificati: sono nuovi e numerosi downtowns sparsi attorno alle vecchie inner cities. Questi 'poli centrali di periferia' raggruppano alti edifici, qualche volta veri grattacieli, vasti e capaci parcheggi, uffici, diversi centri commerciali, alberghi di catene prestigiose o comunque di buon livello, e inoltre teatri, cinema multisala di prima visione, ristoranti di fascia medio-alta e altri servizi per il tempo libero e, non di rado, industrie migrate dalle fasce urbane più interne. Nei loro pressi si aprono spesso altre attività collegate, come vaste plazas commerciali dove operano supermercati giganteschi, attività al dettaglio, ristoranti di varie categorie e anche edifici residenziali. Bretelle autostradali, svincoli veloci, superstrade e una rete minore di strade efficienti collegano questi centri sia al vecchio downtown, sia alla rete autostradale, alle interstate highways (le autostrade federali) o ai turnpikes, autostrade a pedaggio gestite da società private o da consorzi misti: il 70% circa del terziario più vitale e dinamico opera nel contesto di queste nuove realtà urbane. Le edge cities consolidate o in avanzato sviluppo sono circa 300 negli Stati Uniti. Molte si trovano all'interno delle megalopoli descritte in precedenza, altre ai margini delle aree metropolitane in espansione. Il loro contraltare, diffuso ma di modesto impatto socio-economico, è la gentrification, cioè il recupero e il riuso di edifici storici (anche vecchi di solo 60 o 70 anni) nei centri delle inner cities. Un altro fenomeno relativamente recente, perché diffuso nella middle class e non più soltanto tra le ristrette fasce di popolazione con altissimi redditi, riguarda lo sviluppo di quartieri residenziali periferici 'fortificati', cioè sorvegliati da guardie armate e recintati, talvolta dotati di sofisticati sistemi di sicurezza elettronici.

La mobilità territoriale della popolazione è tradizionalmente elevata, per cui cambiare residenza e lavoro più volte nella vita è considerato abbastanza normale. Le zone più ambite sono ubicate nel Sun Belt: dapprima California centro-meridionale, Arizona, New Mexico, Texas, Florida; destinazioni alternative riguardano aree della Louisiana, varie regioni del Sud storico (soprattutto le Caroline, la Georgia, la costa dell'Alabama) e del Nord-Ovest (California settentrionale, Oregon, Stato di Washington). Il Rust Belt (cioè la regione medio-atlantica unita a quella dei Grandi Laghi) e il Frozen Belt ("fascia del gelo", cioè la regione dei Grandi Laghi assieme alla fascia centro-settentrionale delle Grandi Pianure, con un clima continentale dagli inverni rigidi) hanno perso popolazione per vent'anni, per poi stabilizzarsi e aumentare lentamente in qualche distretto rivitalizzato e in alcune MSA solo a partire dagli anni Novanta. Il Sun Belt aumenta invece costantemente. Emergono due fenomeni particolari: il ritorno dei Neri verso il Sud storico, nelle aree metropolitane più sviluppate ed evolute, cioè verso i luoghi dai quali le loro famiglie emigrarono in passato, e la migrazione dei pensionati con redditi medi e medio-alti verso la Florida, l'Arizona, alcune aree della California meridionale, alla ricerca di condizioni climatiche più favorevoli. Il center of population, cioè il baricentro demografico dell'insediamento umano negli S.U., che al censimento del 1990 si trovava nel Missouri, seguita a spostarsi verso Ovest e soprattutto verso Sud, a testimoniare la crescente propensione della popolazione per il Sun Belt.

Condizioni economiche

Il prodotto interno lordo per abitante risultava nel 1998 di oltre 29.000 dollari, fra i più alti del mondo e tuttavia inferiore a quello di Lussemburgo, Svizzera, Norvegia, Danimarca, Giappone. Esistono numerose sacche di povertà, sia nelle aree rurali del vecchio Sud (Tennessee, Alabama, Mississippi, Louisiana ecc.) sia, specialmente, nelle inner cities degradate. Ma esiste anche una vastissima classe intermedia, che garantisce i consumi del gigantesco mercato interno, prima ragione della forza economica del paese.

L'agricoltura (solo il 2,7% della forza di lavoro è addetto ufficialmente al settore, ma il part time viene largamente praticato), l'industria alimentare, le catene di ristorazione, i supermercati, ma anche le numerose affiliazioni minori di ditte apparentemente individuali, formano un apparato gigantesco che garantisce una distribuzione capillare a prezzi popolari di prodotti e cibi di largo consumo; se l'impiego ufficiale diretto in agricoltura è ridotto, si calcola tuttavia che le attività connesse diano lavoro al 16% degli attivi. L'agricoltura opera a prezzo di notevoli problemi ambientali, quali l'erosione accelerata del suolo, specie in alcune sezioni delle Grandi Pianure, l'uso eccessivo di pesticidi e lo sfruttamento intensivo delle falde acquifere, soprattutto nelle regioni semiaride. Perciò assumono notevole valore simbolico e pratico la diffusione recente dell'agricoltura sostenibile e della cosiddetta agricoltura metropolitana. Sebbene dalla Seconda guerra mondiale la superficie destinata alle coltivazioni resti costante (intorno al 20% della superficie territoriale), ampie fasce agricole di elevata qualità sono andate perdute perché urbanizzate.

L'agricoltura sostenibile si diffonde grazie alla maggiore coscienza collettiva e per l'azione del Governo federale, diretta alla conservazione del suolo, alla protezione delle terre agricole più produttive dagli usi non agricoli, al trattamento dei rifiuti dell'allevamento per evitare l'inquinamento del suolo e delle acque, e infine alla riduzione dei processi di produzione di energia non rinnovabile. Secondo un rilevamento del Dipartimento dell'agricoltura, dal 1982 al 1992 l'erosione del suolo dipendente dall'agricoltura si sarebbe ridotta di almeno 1 miliardo di t annue. È in atto il Conservation Reserve Program, con assistenza tecnica alle aziende agricole, che si propone di salvare altri 700 milioni di t di suolo potenzialmente erodibile. Inoltre vengono attuate più efficacemente, negli ultimi anni, le misure previste dal Farmland Protection Policy Act e dall'Agricultural Reconciliation Act (leggi del 1982 e del 1990).

L'agricoltura metropolitana viene praticata vicino alle grandi aree urbane e anche all'interno delle regioni megalopolitane. Essa si caratterizza per la minore dimensione areale delle aziende, per il largo impiego del part time, per produzioni maggiormente connesse al consumo urbano giornaliero o comunque di breve durata (ortaggi, frutta, alcuni derivati del latte). Anche nella silvicoltura si fanno strada criteri meno distruttivi rispetto al passato, specie nel Nord-Ovest, che ospita la più estesa area forestale, ma anche nel Sud-Est, con l'ampliamento delle foreste miste di latifoglie e conifere, in parte da taglio periodico. Gli S. U. restano i massimi produttori del mondo di mais (media annua, oltre 2,3 miliardi di q), ma la coltura che più si è diffusa negli ultimi decenni è quella della soia (media annua, 700 milioni di q), di cui il paese è pure il massimo produttore e che talora è esportata, al pari del grano, come strumento politico-strategico.

Le fonti energetiche alternative hanno conosciuto una sensibile espansione negli ultimi anni, in particolare mediante l'installazione di migliaia di generatori a vento nella Imperial Valley e ad Altamont Pass, in California, come in Arizona e in altre regioni del Sud-Ovest; alcune centrali idroelettriche sono state ampliate, altre riaperte; tuttavia la colossale quantità di energia che gli S. U. consumano come maggior paese industrializzato del mondo deriva ancora soprattutto dagli idrocarburi e dal carbon fossile: nonostante le massicce importazioni, gli S. U. restano il secondo produttore di petrolio del mondo dopo l'Arabia Saudita; inoltre, dopo la Cina, sono il massimo produttore di carbone. Le centrali nucleari sono ancora numerose e forniscono circa il 20% dell'energia elettrica, nonostante il rallentamento della costruzione di nuovi impianti e la chiusura dei più vecchi o dei meno sicuri.

L'industria elettronica, quella aeronautica e spaziale (da segnalare la fusione nel 1996 della Boeing con la McDonnell Douglas, che ha fatto nascere la più grande azienda aerospaziale del mondo), la stessa ricerca tecnologica applicata sviluppata in sedi universitarie ma più spesso in aree appositamente attrezzate, ormai numerose (Massachusetts, Texas, Carolina del Nord, California, Arizona, Washington ecc.), la ristrutturata industria automobilistica sono settori trainanti dell'economia, ma le imprese specializzate in servizi misti industriali-terziari conoscono da tempo un notevole sviluppo, come anche il terziario e il quaternario (cioè il terziario direttivo-organizzativo); le imprese proiettate a scala globale sono negli S. U. le più numerose del mondo, anche se il paese conosce da tempo il fenomeno della globalizzazione e transnazionalizzazione nel proprio territorio, grazie agli investimenti di capitali provenienti dal Giappone e dall'Europa. Il NAFTA (North American Free Trade Agreement), accordo di libero scambio fra Canada, S. U. e Messico, entrato in vigore nel 1994, tende alla completa eliminazione delle barriere doganali in 15 anni, e fa seguito ad accordi parziali fra S. U. e Canada. A questo proposito, un previsto ampliamento del NAFTA e alcuni segnali di ripresa economica nell'Ovest (la California ha creato 700.000 posti di lavoro fra il 1994 e il 1997) sembrano destinati ad accelerare processi di delocalizzazione produttiva e di mobilitazione di imprese e persone, in vista di un consolidamento dello sviluppo del paese in direzione del Pacifico.

La rete aeroportuale (che interessa anche alcune città canadesi) e quella delle interstate highways costituiscono il sistema circolatorio dell'organismo economico-sociale degli Stati Uniti. All'interno della regione megalopolitana atlantica esistono 5 grandissimi aeroporti (Boston, New York, Filadelfia, Baltimora, Washington) e almeno altri 10 di importanza intermedia; di altri numerosi scali, oltre al grande scalo Chicago-O'Hare e a quello di Detroit, dispone la regione megalopolitana dei Grandi Laghi, come anche quella californiana, che presenta parecchi aeroporti medio-grandi oltre ai colossi di San Francisco e Los Angeles. Ma scali grandiosi e moderni servono Atlanta, Dallas-Fort Worth, Houston, Phoenix, Denver, Miami, Orlando, Tampa-Saint Petersbourg, Saint Louis e ancora New Orleans e Seattle. Gli scali medi, a livello di un buon aeroporto europeo non intercontinentale, sono almeno un centinaio. Il sistema delle interstate highways si estende per 69.000 km e collega il 90% dei centri con più di 50.000 abitanti. Anche se questa rete rappresenta poco più dell'1% della lunghezza delle strade statunitensi, sia urbane sia extraurbane, essa raccoglie oltre il 20% del traffico. Poiché molte interstate highways, e le bretelle a esse collegate, fungono anche da assi di attraversamento urbano, talora fin dentro i downtowns delle metropoli, esse hanno certamente facilitato l'urban sprawl, cui si accennava all'inizio, e il pendolarismo. La rete ferroviaria viene ancora largamente usata per il trasporto merci, mentre le principali linee passeggeri (gestite dalla federale Amtrack) sono attive solo tra le grandi aree urbane, e tuttavia è in aumento il trasporto su gomma anche sulle grandi distanze. Alcune aree metropolitane, come quella di Los Angeles, hanno riscoperto il tram come mezzo di salvaguardia ecologica, mentre severi provvedimenti in materia di inquinamento da gas di scarico sono già attuati in alcuni Stati e sono allo studio concreto quasi ovunque, sia a livello industriale sia a livello di normativa di circolazione.

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Politica economica e finanziaria

di Giuseppe Smargiassi

Al termine della recessione del 1991-92, l'economia degli S. U. si è avviata verso una fase di crescita del reddito tra le più lunghe e sostenute della seconda metà del 20° secolo. Nel periodo 1992-99, l'incremento del PIL statunitense ha oltrepassato il 3,5% in media annua, sopravanzando le principali economie industrializzate e in particolare quella giapponese e quella tedesca, la cui crescita media nello stesso periodo si è attestata rispettivamente sull'1,1% circa e sull'1,4%. Il rafforzamento dell'economia statunitense si è inoltre tradotto in un sensibile miglioramento della situazione occupazionale che, anche in questo caso, ha fatto registrare un andamento contrapposto alle condizioni di ristagno che hanno caratterizzato il mercato del lavoro nei paesi aderenti all'euro. Tra il 1992 e il 1999 l'occupazione negli S. U. è cresciuta di più di 12 milioni di posti di lavoro, grazie ai quali la disoccupazione è scesa nel 1999 a un tasso del 4% circa, un livello, quest'ultimo, che non veniva raggiunto dagli anni Sessanta. Il quadro positivo dell'economia degli S.U. ha infine trovato riflesso nella sostanziale stabilità dell'inflazione che si è mantenuta, con qualche oscillazione, intorno al 2% fino al 1997, scendendo sotto l'1% nel 1998 e raggiungendo l'1,6% nel 1999.

L'aspetto più sorprendente di questa fase espansiva è stata la capacità evidenziata dal sistema economico di coniugare il progressivo calo del tasso di disoccupazione con la diminuzione dell'indice dei prezzi al consumo. Si tratta infatti di un fenomeno difficilmente inquadrabile nella teoria economica tradizionale secondo la quale le fasi espansive dell'economia incontrano un limite nel 'tasso naturale' di disoccupazione (variabile a seconda dei periodi e dei contesti produttivi), al di sotto del quale l'ulteriore crescita economica si traduce in un aumento dell'inflazione, in accordo con l'ipotesi del NAIRU (Non Accelerating Inflation Rate of Unemployment). Proprio questa caratteristica del ciclo economico statunitense ha indotto diversi osservatori economici ed esponenti del mondo accademico a ritenere superata la vecchia teoria economica e a postulare un 'nuovo paradigma' economico (Blinder 1997) che punta l'attenzione sugli effetti che la rapidissima diffusione delle tecnologie dell'informazione e l'estensione dei processi di globalizzazione economica hanno avuto sulla capacità produttiva dell'economia nel suo insieme. Secondo i teorici del 'nuovo paradigma', i massicci investimenti in tecnologie informatiche (cresciuti negli S. U. di oltre 14 volte nel corso degli anni Novanta) e la sempre più accentuata esposizione delle imprese alla concorrenza estera hanno generato profondi mutamenti nei criteri di organizzazione e gestione dei processi produttivi tali da determinare un aumento continuo del potenziale di crescita dell'economia. Proprio l'incremento dei livelli di produttività, derivante dagli effetti a cascata delle innovazioni tecnologiche, rappresenta il segreto della nuova economia in grado di sostenere un'espansione illimitata senza inflazione. Questa visione ottimistica è stata comunque oggetto di diverse critiche (Krugman 1998). Infatti, l'incremento dei tassi di produttività registrato negli anni Novanta è rimasto circoscritto solo ad alcuni settori dell'economia e in particolare nel comparto dell'informatica. Inoltre la combinazione di crescita elevata e bassa inflazione sembra legata più alla presenza di elementi di carattere ciclico che non a mutamenti di struttura dell'economia. La diminuzione dei prezzi è interpretabile in misura più agevole considerando altri fattori quali l'apprezzamento del dollaro, che ha ridotto il prezzo delle importazioni negli S. U., la forte flessibilità del mercato del lavoro interno, accentuata dalla crescita dei lavori temporanei e dall'indebolimento dei sindacati, che ha reso i lavoratori più vulnerabili e restii a richiedere aumenti salariali, nonché la riduzione dei programmi di assistenza ai lavoratori e i tagli al sistema sanitario (v. oltre). L'insieme di tali fattori, parte dei quali temporanei e quindi reversibili, ha consentito all'economia di operare fino al punto limite del suo potenziale produttivo in un contesto di stabilità dei prezzi, senza per questo configurare l'avvio di nuove tendenze di lungo periodo dell'economia.

Nel corso della ripresa economica la politica adottata ha subìto mutamenti di rilievo rispetto all'impostazione che aveva caratterizzato le due precedenti fasi espansive del dopoguerra, quella del periodo 1961-69 e quella degli anni 1982-90. Mentre queste ultime facevano perno su stimoli fiscali espansivi (la prima richiamandosi esplicitamente all'impostazione keynesiana, la seconda, invece, ispirandosi alla supply-side economics), gli indirizzi di politica economica avviati da B. Clinton si basavano su una combinazione di politiche fiscali di tipo restrittivo e di politiche monetarie cautamente permissive. Il programma di risanamento del disavanzo fiscale, che ha rappresentato fin dall'inizio uno degli obiettivi prioritari per l'amministrazione di Clinton, è stato coronato da pieno successo: il deficit federale è stato infatti ripianato in anticipo rispetto ai tempi previsti dal programma e già nel 1998 è stato possibile raggiungere un avanzo primario (al netto degli interessi sul debito pubblico) di 300 milioni di dollari.

Nonostante il suo pieno successo, il programma di riduzione del disavanzo venne ostacolato da un prolungato conflitto politico-istituzionale tra presidente e Congresso. Nel 1993 Clinton aveva presentato un piano di finanza pubblica finalizzato al duplice obiettivo di stimolare l'economia (in quel periodo non ancora in piena ripresa) attraverso l'incremento della spesa pubblica nel campo dell'istruzione, delle infrastrutture, della ricerca scientifica e della riqualificazione professionale e di ridurre il pesante deficit federale (che aveva superato nel 1992 il 4% del PIL) attraverso l'aumento del prelievo fiscale. Questo progetto era stato accolto nelle sue linee essenziali dal Congresso che, con l'approvazione dell'Omnibus Budget Reconciliation, mise in atto un inasprimento fiscale tra i più rigidi della storia economica del paese. Il nuovo indirizzo finanziario, infatti, oltre ad aumentare dal 31% al 36% l'aliquota marginale sulle fasce di reddito più alte, introduceva una soprattassa aggiuntiva del 10% sui redditi superiori ai 250.000 dollari, e portava l'aliquota massima sul reddito delle imprese dal 34 al 35%, con effetto retroattivo all'inizio del 1993. Nel 1994, con l'elezione del nuovo Congresso a maggioranza repubblicana iniziarono a delinearsi profonde divergenze con il presidente riguardo all'adozione delle misure di politica fiscale. Il nuovo Congresso, infatti, approvò nel giugno del 1995 una legge per il raggiungimento del pareggio di bilancio entro il 2002 (Balanced Budget Act), nella quale erano previsti forti tagli alle spese per l'assistenza sanitaria agli anziani (Medicare) e ai soggetti meno abbienti (Medicaid) e alleggerimenti fiscali in favore delle classi più agiate (abolizione della tassa sui capital gain, minore progressività dell'imposta sul reddito delle persone fisiche). Nel luglio dello stesso anno il presidente presentò un progetto alternativo che, pur recependo l'obiettivo del pareggio di bilancio (il quale veniva però differito al 2005), si distingueva da quello approvato dal Congresso sia perché la riduzione delle spese veniva rimodulata in modo da preservare l'intervento pubblico nei settori dell'istruzione e della ricerca, sia perché gli sgravi fiscali erano riservati alle famiglie con redditi medio-bassi. L'incompatibilità tra i due piani di risanamento emerse pienamente allorché lo scontro politico tra il presidente e il Congresso si trasferì sulle procedure di attuazione della politica fiscale. Nel novembre del 1995, infatti, il presidente si avvalse del suo diritto di veto per respingere il Balanced Budget Act, già approvato dal Congresso, innescando uno stallo nella procedura di approvazione dei bilancio che durò diversi mesi e che richiese il ricorso all'esercizio provvisorio per evitare la chiusura degli uffici pubblici. Solo nell'aprile del 1996 fu raggiunto un compromesso (con cui veniva accolta la data del 2002 e venivano decisi tagli ai programmi di assistenza sanitaria, riduzioni fiscali a favore dei ceti medi e un moderato incremento delle spese sociali), che diede via libera alla legge nel 1997. Grazie anche a una combinazione di fattori positivi (crescita sostenuta dell'economia, incremento del gettito sui capital gain dovuto al vivace andamento del mercato azionario, riduzione della disoccupazione e delle relative spese sociali) le entrate tributarie subirono dopo il 1997 un fortissimo incremento, permettendo una rapida eliminazione del disavanzo pubblico. Sulla destinazione dei futuri avanzi di bilancio previsti nei prossimi anni (che secondo il Congressional Budget Office dovrebbero raggiungere il 3% del PIL entro il 2009) si è aperto un confronto tra il presidente, che vorrebbe utilizzarli per finanziare il sistema della sicurezza sociale, e la maggioranza del Congresso, che invece punta al loro impiego per ridurre la pressione tributaria a carico dei ceti medio-alti.

La tendenza alla flessione dei prezzi al consumo, agevolata anche dalla diminuzione delle aspettative inflazionistiche e dal risanamento del deficit federale, ha facilitato l'adozione delle strategie di politica monetaria del presidente della Riserva Federale, A. Greenspan, consistenti nel perseguire gli obiettivi della massima occupazione e della moderazione dei tassi di interesse a lungo termine compatibilmente con la stabilità dei prezzi. Su questa linea, già a partire dal 1993, alla vigilia della ripresa economica, Greenspan aveva portato il tasso ufficiale di sconto al 3%, che, con un tasso di inflazione in quel periodo pari al 3%, risultava equivalente alla fissazione di un tasso reale di interesse pari a zero. Ma anche in seguito, la conduzione della politica monetaria è stata caratterizzata da una relativa flessibilità, subordinata tuttavia all'attento monitoraggio dei segnali provenienti dal mercato e delle tensioni sui prezzi prodotte da una crescita salariale al di sopra delle aspettative inflazionistiche. Proprio in risposta ai segnali di ripresa dell'inflazione, a partire dal 1994, i tassi di interesse a breve vennero più volte ritoccati verso l'alto dalla Riserva Federale, che li fissò al 5% circa agli inizi del 1996, per lasciarli poi inalterati fino al 1998. Le autorità monetarie rivolsero inoltre particolare attenzione all'andamento dei corsi azionari di borsa che, dall'inizio degli anni Novanta, avevano cominciato a crescere a ritmi molto sostenuti. La minaccia di una bolla speculativa che portasse a un nuovo crack borsistico simile a quello dell'autunno del 1987 aveva posto le premesse per un mutamento in senso restrittivo della politica monetaria, per frenare ciò che lo stesso Greenspan aveva definito nel 1996 una 'esuberanza irrazionale' dei mercati. Il mutamento indicato dalle autorità monetarie venne però evitato dall'esplodere della crisi valutaria e finanziaria che nell'ottobre del 1997 aveva investito i mercati asiatici. Infatti, il rischio di una deflazione mondiale, innescata dalle svalutazioni a catena e dalla contrazione degli sbocchi nei mercati di quei paesi, rese sostanzialmente inutile un aumento dei tassi a breve. La Riserva Federale non ha avuto più la necessità di frenare la crescita economica interna per abbassare l'inflazione, in quanto si è avvantaggiata della caduta dell'attività produttiva dei paesi asiatici, e soprattutto dello sgretolamento dei rispettivi mercati finanziari che con i loro rendimenti elevati, ma assai rischiosi, imponevano un rialzo dei tassi di interesse sui mercati occidentali. Tuttavia, il ripetersi di nuove turbolenze, partite questa volta dalla Russia nell'ottobre 1998 e dal Brasile nei primi mesi del 1999, ha fatto emergere in piena luce l'estrema fragilità dei mercati finanziari e spinto la Riserva Federale a sciogliere il dilemma tra il mantenimento di bassi tassi di interesse, per evitare il dilagare degli effetti deflazionistici delle crisi finanziarie, e l'aumento dei tassi per rallentare la crescita dei prezzi interni a favore della prima soluzione. Nell'ottobre del 1998, per la prima volta dopo quasi tre anni, la Riserva Federale ha abbassato il tasso ufficiale di sconto portandolo gradualmente al 4,5%.

Una delle principali conseguenze delle tre crisi finanziarie del 1997-99 è stato il riversarsi sulle piazze finanziarie degli S. U. di un'ingente quantità di liquidità internazionale attratta dagli elevati rendimenti obbligazionari, sospinti dalla riduzione dei tassi di interesse. Questi flussi, che si sono aggiunti ai cospicui investimenti in titoli statunitensi (sia privati sia pubblici) da parte di Europei e Giapponesi, sono stati di entità tale da influenzare significativamente l'andamento del tasso di cambio del dollaro. Quest'ultimo, infatti, dopo una brusca caduta nell'estate del 1997, ha iniziato a fare registrare un continuo apprezzamento sui principali mercati valutari, aprendo un ciclo ascendente durato per tutto il 1999 e ancora in atto all'inizio del 2000. Il forte incremento delle entrate nette di capitali ha inoltre alimentato ulteriormente l'ascesa dei titoli azionari, portando l'indice della borsa di New York (Dow Jones) a circa 11.000 punti alla fine del 1999, contro i circa 3800 punti di cinque anni prima. L'afflusso di capitali esteri ha permesso di finanziare un incremento molto sostenuto degli investimenti interni (la formazione di capitale fisso è cresciuta dopo il 1992 a tassi costantemente superiori al 5%, fino a raggiungere una punta di quasi il 13% nel 1998) e dei consumi privati (aumentati a tassi superiori del 3%), compensando in questo modo l'insufficienza di risparmio interno. L'accresciuta dipendenza dell'economia dai finanziamenti esteri ha avuto però come riscontro un rapido deterioramento del saldo delle partite correnti che, oltre a far registrare un persistente passivo commerciale (cresciuto fino a superare i 350 miliardi di dollari nel 1999, contro i circa 95 del 1992), ha messo in luce, per la prima volta, un saldo negativo anche nella sezione delle partite invisibili, dovuto al maggiore volume dei redditi da capitale in uscita rispetto a quelli in entrata.

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Anche se con un certo rallentamento rispetto ai precedenti anni, la crescita del PIL statunitense è proseguita anche nel 1999. I timori di una ripresa dell'inflazione (con una crescita tendenziale del 2,2% a metà anno) hanno spinto in estate la Riserva Federale a ritoccare per due volte il tasso di sconto, mantenendo, tuttavia, un atteggiamento assai prudente per evitare le conseguenze di una restrizione eccessiva del credito sull'andamento del mercato azionario. Il rischio di una brusca caduta delle quotazioni di borsa, la cui crescita non sembra più giustificare pienamente una corrispondenza tra il valore dei titoli quotati e il valore delle aziende che rappresentano, appare infatti legato ad alcuni fattori di debolezza dell'economia statunitense che sono emersi con maggiore evidenza alla fine degli anni Novanta. Il primo di questi riguarda il livello di indebitamento del settore delle famiglie. Il tasso di risparmio delle famiglie statunitensi (calcolato sul reddito disponibile) è sceso nel 1999 al 2,5%, contro il +7,1% del 1993. La caduta del tasso di risparmio è in gran parte da attribuire agli elevati guadagni di capitale realizzati in borsa (che interessano il 40% delle famiglie statunitensi), e un loro ridimensionamento per effetto di un'improvvisa caduta dei corsi azionari finirebbe con l'incidere in maniera significativa sulle condizioni della domanda interna, innescando i rischi di una profonda recessione. Il secondo fattore di debolezza è relativo alla crescita del disavanzo commerciale degli Stati Uniti. Questo, nella prima metà del 1999, ha raggiunto i livelli registrati nel corso di tutto il precedente anno. Tale peggioramento, derivante sia dalla diminuzione di esportazioni statunitensi, sia dal forte incremento di importazioni provenienti dai paesi asiatici, potrebbe costituire un elemento di sfiducia sulla tenuta del dollaro e provocare una fuga di capitali verso titoli denominati in valute più stabili. Proprio per arginare tale rischio, la Riserva Federale è intervenuta nel luglio del 1999 a difesa del cambio del dollaro nei confronti dello yen giapponese, modificando in parte l'atteggiamento di 'benevola negligenza' che ha caratterizzato a lungo il comportamento delle autorità monetarie statunitensi sui mercati valutari. Tra febbraio e marzo del 2000, dopo oltre 107 mesi di crescita, si sono manifestati segni di una lieve accelerazione del tasso d'inflazione (+0,7% tra febbraio e marzo). La Riserva Federale, nel tentativo di smorzare queste tensioni, ha effettuato due successivi rialzi di un quarto di punto del tasso di sconto, portandolo al 5,25% all'inizio di febbraio e al 5,50% verso la fine di marzo. (v. .)

bibliografia

Sulla politica economica degli Stati U. in generale, si veda:

The politics of American economic policy making, ed. P. Peretz, Armonk (N.Y.) 1987, 1996².

Riguardo ai problemi della politica di bilancio, cfr.:

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J.J. Gosling, Budgetary politics in American governments, New York 1992, 1997².

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Sulla globalizzazione e l'economia statunitense, si veda:

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E. Zupnick, Visions and revisions. The United States and the global economy, Boulder (Colo.) 1999.

Per quanto riguarda la politica monetaria, vedi:

P.A. Johnson, The government of money: monetarism in Germany and United States, Ithaca (N.Y.) 1998.

Per quanto riguarda infine il dibattito relativo alla teoria del 'nuovo paradigma', si vedano:

A.S. Blinder, The speed limit: fact and fancy in the growth debate, in The American prospect, September-October 1997, pp. 57-62.

P. Krugman, America the boastful, in Foreign affairs, May-June 1998, pp. 32-45; M. Zuckerman, A second American century, in Foreign affairs, May-June 1998, pp. 18-31.

Storia

di Tiziano Bonazzi

La famosa esortazione di H. Luce del 1941 ai suoi compatrioti affinché facessero del Novecento un 'secolo americano' può considerarsi una profezia realizzata. Dopo la fine della guerra fredda, gli S. U. sono rimasti l'unica superpotenza mondiale, egemoni in un'età ormai 'unipolare'; ma, nonostante le affrettate previsioni di chi parlava di 'fine della storia' provocata dal trionfo definitivo del capitalismo democratico americano (Fukuyama 1992), l'ultimo decennio del secolo ha evidenziato l'emergere di tensioni tali da portare altri autori a paventare una 'disunione dell'America' causata dalle lotte fra conservatori e progressisti, le cosiddette guerre culturali (Schlesinger jr 1995), e l'emergere di nuovi scontri globali, non più ideologici, ma di civiltà, primo fra tutti quello tra cristianesimo e Islam (Huntington 1997). Pur non essendosi ancora realizzate, queste previsioni restano come sintomo di problemi per i quali non si hanno strumenti di analisi adeguati.

L'ultimo decennio del 'secolo americano' si aprì nel 1989, con la caduta del muro di Berlino, anche se i suoi primi anni, quelli della presidenza del repubblicano G. Bush, appaiono come un periodo di transizione rispetto ai successivi. Il trionfo del 1989, infatti, non fu una vittoria per l'appena eletto presidente, ma per il suo predecessore, R. Reagan, l'uomo che dal 1981 al 1988 aveva guidato l'affondo finale contro l'Unione Sovietica, così come un'eredità reaganiana era il conservatorismo rinnovato e ottimista, ma fortemente ideologizzato che Bush, conservatore moderato anche se vicepresidente di Reagan, si trovò a dover continuare. Le speranze di un ordine mondiale in grado di sostituire quello bipolare della guerra fredda e di assicurare al tempo stesso stabilità, pace e progresso sotto l'egemonia americana caddero quasi subito davanti alla fine politica di M. Gorbačëv nel 1991 e alla dissoluzione dell'Unione Sovietica, mentre la situazione internazionale si frammentava e ogni conflitto rischiava di diventare una scheggia impazzita. Bush dimostrò di saper reagire con efficacia, all'insegna di una politica multilaterale che ricordava quella di H. Truman negli anni Quaranta e che gli consentì di mobilitare una vasta alleanza internazionale sotto bandiere ONU per sconfiggere nel gennaio-febbraio 1991 con l'operazione Desert Storm il presidente irakeno Ṣaddām Ḥusayn che aveva occupato il Kuwait. Così come si servì della libertà di azione consentitagli dalla diminuita importanza strategica di Israele dopo la fine della guerra fredda, per avviare a soluzione la crisi israelo-palestinese con la Conferenza di Madrid dell'ottobre 1991, convocata servendosi dell'aiuto del nuovo uomo forte di Mosca, B. El´cin. Nonostante la sua indubbia competenza, egli non riuscì tuttavia a individuare un ruolo per gli S. U. nel disordine del dopo guerra fredda. Ne conseguì una serie di contraddizioni, come lo scollamento fra i fini limitati dell'operazione contro Ṣaddām Ḥusayn, mirante a impedire a una potenza regionale di compiere azioni destabilizzanti, e la retorica apocalittica (e da guerra fredda) sulla difesa dei valori democratici usata nei suoi confronti, che provocò la nascita di una pericolosa fobia anti-islamica nell'opinione pubblica; ovvero l'estrema cautela usata nei confronti della Cina dopo i drammatici fatti di piazza Tien An Men del 1989, volta a non mettere in pericolo i rapporti politici e commerciali con Pechino, anche a costo di limitarsi a proteste formali per la tragica violazione dei diritti politici e umani degli studenti cinesi. Contraddizioni, queste e altre, che misero in luce non tanto gli inevitabili limiti della potenza americana, quanto quelli intrinseci alla progettazione della politica estera statunitense. Se in campo internazionale Bush riuscì a ottenere dei successi, in quello interno - dominato dall'eredità della reaganomics, la radicale politica economica monetarista del suo predecessore basata sulla teoria dell'offerta - egli subì soprattutto sconfitte. Nel 1991 il PIL ebbe addirittura una crescita negativa, mentre la disoccupazione saliva fino al 7,5% nel 1992 e si veniva accumulando un deficit pubblico (290 miliardi di dollari nel 1992) che, contraddicendo lo scopo primario della politica economica reaganiana, ossia il pareggio di bilancio, ne indicava il sostanziale fallimento. I sanguinosi riots razziali di Los Angeles del 1992 mostrarono inoltre che i conservatori, al potere da oltre dieci anni, non avevano allontanato lo spettro delle rivolte nei ghetti urbani che ossessionava gli Statunitensi dagli anni Sessanta e portarono a un ripensamento politico nell'opinione pubblica.

Alle elezioni presidenziali dell'autunno 1992, dominate dalla politica interna, molti elettori moderati abbandonarono Bush, mentre un forte candidato indipendente, il miliardario conservatore e populista R. Perot, gli tolse i voti della destra religiosa e dei conservatori militanti che avevano sostenuto Reagan. La vittoria andò quindi al poco conosciuto governatore democratico dell'Arkansas B. Clinton, che conquistò il 43% del voto popolare e 480 voti elettorali contro il 37,5% e 168 voti elettorali a Bush e il 19% a Perot.

Le elezioni del 1992 dimostrarono che l'eredità degli anni Ottanta - la vittoria della democrazia capitalista nella guerra fredda e le 'guerre culturali' - aveva cristallizzato due subculture radicali e nemiche, l'una conservatrice e tradizionalista, con profonde radici nella vasta destra cristiana, l'altra progressista, legata alle teorie multiculturali e della 'differenza'. Fra di esse si veniva però formando un vasto centro, per lo più indipendente, che innovativamente accettava il femminismo, la presenza gay e la realtà multiculturale del paese, ma aveva anche interiorizzato i due principi della 'rivoluzione conservatrice', la centralità del dovere di ognuno di farsi carico di se stesso e l'avversione per il big government, dissipatore, immorale perché con l'eccesso di welfare abitua i singoli alla dipendenza, e nemico della libertà per i lacci che impone ai cittadini. In campo internazionale, inoltre, esauritasi l'euforia per la vittoria nella guerra fredda, prevaleva una tendenza, se non neoisolazionista, almeno unilateralista, secondo la quale il ruolo degli S. U. nel mondo si identificava con la difesa degli interessi economici nazionali, senza la prospettiva di un ordine mondiale da ricreare e garantire. Le elezioni del 1992 possono considerarsi emblematiche del nuovo quadro politico in cui posizioni e valori fino ad allora distinti si mescolavano fino a diventare irriconoscibili, in un contesto internazionale soggetto alle opposte tendenze della globalizzazione e delle rivendicazioni nazionali ed etniche.

Clinton, simbolo tutto americano dell'uomo che viene dal niente, ma con una storia altrettanto americana di infanzia in una famiglia difficile, riuscì a essere il migliore interprete di questa inedita realtà, sia per il suo approccio innovatore alla politica, sia per l'esasperato opportunismo che sembrò spesso guidare la sua azione. Già come presidente del Democratic Leadership Council, un gruppo moderato all'interno del Partito democratico, aveva contribuito, mentre era governatore, a ridisegnare la strategia del partito tenendo conto delle ragioni della vittoria conservatrice degli anni Ottanta. Su quella linea - che andava raccogliendo una parte del partito, i cosiddetti New Democrats - nel 1992 Clinton conquistò non solo la presidenza, ma anche il Congresso, recuperando gli elettori centristi con il suo ripudio del moralismo conservatore, per molti fastidioso, accompagnato dal rifiuto di rinfocolare da sinistra le guerre culturali, e con un programma che accoglieva idee repubblicane come i tagli di bilancio per ridurre l'imponente deficit (imputabile peraltro ai presidenti repubblicani), la flessibilità del lavoro, la riduzione della burocrazia di Washington, un federalismo che accresceva i poteri degli Stati e una mano dura nei confronti della criminalità, compreso l'appoggio alla pena di morte. Clinton vi aggiunse alcune importanti aperture all'ala riformatrice del suo partito con il progetto per l'assistenza sanitaria a tutti i cittadini e l'appoggio alle richieste delle minoranze etniche e delle donne.

Nei primi anni della sua presidenza, Clinton cercò di cementare attorno ai New Democrats il consenso di un'opinione pubblica interessata soprattutto all'andamento dell'economia con una politica che, evitando le asprezze dei suoi predecessori, ne proseguiva sostanzialmente la linea. Per le stesse ragioni, in campo internazionale, egli abbandonò l'approccio geopolitico per una visione geoeconomica che teneva conto della globalizzazione e intendeva collocare gli S. U. al centro di una rete di accordi che dessero loro un vantaggio competitivo sui paesi concorrenti. Di conseguenza, senza curarsi delle differenze ideologiche, costruì solidi rapporti economici con la Cina, volti secondo molti a contrastare il Giappone, fece approvare nel 1993 il NAFTA (North American Free Trade Agreement), che, con un occhio all'Unione Europea, creava una zona di libero scambio fra i tre paesi nordamericani, Canada, S. U. e Messico, e nel 1994 chiuse i negoziati sul GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), il trattato destinato a regolare il commercio mondiale secondo principi di libero scambio da cui gli S. U. avrebbero potuto trarre chiari vantaggi. Questi successi, perseguiti anche a costo di alienarsi tradizionali alleati come i sindacati, avversi al NAFTA per timore che il minor costo della manodopera in Messico portasse alla perdita di posti di lavoro negli S. U., vennero favoriti anche dal mutare del ciclo economico e dall'inizio della ripresa; ma non furono sufficienti a dare un decisivo vantaggio al progetto politico del presidente, che subì una disastrosa disfatta quando venne respinta la sua proposta di riforma sanitaria. Nel settembre 1993 Clinton aveva presentato un piano, studiato da una commissione presieduta dalla moglie Hillary, che assurse così a un ruolo politico del tutto inusuale per una first lady, volto a fornire assistenza ai 38 milioni di cittadini che ne erano privi e a migliorarla per coloro che avevano una parziale copertura, diminuendo al tempo stesso le spese. In linea con l'impostazione antistatalista dei New Democrats, il piano seguiva la via della 'concorrenza privata regolata' fra associazioni private di medici e ospedali che avrebbero fornito i servizi sanitari. Le incertezze sui costi, il timore diffuso che i cittadini potessero perdere la libera scelta del medico, l'opposizione delle compagnie di assicurazione e di importanti lobbies sanitarie costrinsero però il presidente ad abbandonare il progetto nell'estate 1994.

Ad approfittare delle difficoltà di Clinton fu l'ala destra del Partito repubblicano che attribuiva la sconfitta del 1992 al moderatismo di Bush e che, in vista delle elezioni 'di mezzo termine' del 1994, formulò, sotto la guida di N.Gingrich, un programma totalmente conservatore chiamato Contract with America. L'importanza dell'iniziativa non era nei suoi contenuti, tutti noti fin dagli anni Ottanta, bensì nella ripresa dello scontro ideologico. Le elezioni diedero ragione alla militanza dei conservatori radicali, appoggiati da gruppi di pressione religiosi come la Christian Coalition, tanto che alla Camera dei rappresentanti i repubblicani conquistarono, con 230 seggi contro 204, una maggioranza che non avevano dal 1954, mentre al Senato si passò da una situazione di 56 a 44 a favore dei democratici a una di 54 a 46 a vantaggio dei repubblicani. Gingrich, eletto nuovo speaker della Camera, si mise all'opera per mettere in pratica il Contract with America e, sebbene il Senato si dimostrasse in parte restio ad avventurarsi su un terreno così marcatamente ideologico, con una serie di leggi che culminarono nel Personal responsibility and work opportunity act del 1996 ottenne una drastica riduzione dei programmi di assistenza, che vennero basati sul principio del workfare e non più del welfare, cioè sull'obbligo di accettare qualunque lavoro o di perdere sussidi e benefici. Il provvedimento più clamoroso fu l'abolizione dei sussidi alle madri bisognose non sposate o sole, un programma di grande impatto sociale dal momento che un quarto dei minori statunitensi viveva con un solo genitore. Gingrich, che si atteggiava quasi a primo ministro di un sistema presidenziale alla francese, alla fine del 1995 si impegnò anche in un braccio di ferro con il presidente sul bilancio, che ne impedì l'approvazione e portò alla chiusura degli uffici federali. La mossa, del tutto inaudita nella politica degli S. U. e destinata a dare la spallata finale a Clinton delegittimandolo come fautore di spese eccessive, risvegliò invece un senso di fastidio nell'opinione pubblica per uno zelo ideologico che tornava a scapito dei cittadini. I buoni risultati ottenuti da uno dei principali esponenti della destra cristiana, il rev. P. Buchanan, alle primarie repubblicane per le presidenziali del 1996 spaventarono ulteriormente i moderati e convinsero i leader repubblicani ad appoggiare la candidatura del loro capogruppo al Senato, B. Dole; ma il riposizionarsi del pendolo politico al centro favorì il presidente. Clinton, infatti, abbandonò ogni visione welfaristica dello Stato per basarsi sul principio di human capital, il capitale costituito da ogni cittadino, che il governo, attraverso incentivi fiscali e sociali, doveva mettere in grado di funzionare al meglio per se stesso e la comunità. La scarsa consistenza politica di Dole, la forte ripresa economica che aveva portato la disoccupazione al 5,4% e il deficit pubblico sotto il 3%, con un'inflazione scesa a sua volta al 2%, i timori degli anziani che i repubblicani mettessero in pericolo l'assistenza medica e pensionistica e la convinzione delle donne che Clinton sostenesse sia la loro lotta per l'uguaglianza sia la famiglia diedero al presidente un vantaggio incolmabile. A novembre Clinton fece un ritorno trionfale ottenendo il 49% dei suffragi e 379 voti elettorali contro il 41% e 159 per Dole e l'8% per Perot. I repubblicani che, compreso da tempo di aver perso la presidenza, si erano impegnati a difendere la maggioranza al Congresso, riuscirono a limitare le perdite a 11 seggi alla Camera guadagnandone uno al Senato.

Le presidenziali del 1996 si svolsero all'insegna della politica interna, anche se Clinton era stato molto attivo in campo internazionale dove, nell'impossibilità di delineare un nuovo ordine mondiale, aveva assegnato agli S. U. il ruolo di 'nazione indispensabile' alla soluzione delle crisi più pericolose. Il rischio era quello di una politica 'unilateralista', in cui essi avrebbero fatto valere la propria volontà al di fuori di ogni concertazione, forti dell'essere la sola potenza militare globale. Dopo l'intervento ad Haiti del 1994 per riportare al potere il presidente legittimo J.-B. Aristide, compiuto ancora in ambito ONU, Clinton ottenne un successo nella guerra etnico-religiosa in Bosnia quando, a fronte dell'impotenza europea, riuscì a portare le parti alla pace di Dayton alla fine del 1995, impegnandosi anche sul terreno con 20.000 uomini, parte di una forza NATO di garanzia. Negli altri scacchieri, però, come quelli medio-orientale e russo, dovette limitarsi a controllare le crisi in atto. Dopo la sua rielezione, nel marzo 1997 centrò l'obiettivo dell'allargamento della NATO ad alcuni paesi dell'Europa orientale e si impegnò ad ampliare la sfera di influenza americana in Africa centrale; un approccio regionalista alle situazioni e crisi internazionali che trovava il proprio ancoraggio nell'idea che la globalizzazione dell'economia avrebbe portato a politiche economiche simili e coerenti di tutti i paesi e a uno sviluppo comune all'insegna del libero scambio guidato da organismi internazionali come il Fondo monetario e la WTO (World Trade Organization). Il fallimento di questa visione, portato alla ribalta dalla crisi finanziaria delle 'tigri asiatiche' nella seconda metà del 1997, causata da un eccesso di indebitamento con l'estero che mise in pericolo anche il sistema bancario giapponese, costrinse gli S. U. a costosi interventi di sostegno, che nel 1998 si dovettero allargare alla Russia, travolta anch'essa dalla crisi mondiale. Quando la tempesta toccò il Brasile, Clinton cercò di costituire una rete finanziaria internazionale di protezione, una mossa obbligata anche se dagli esiti incerti. Nel frattempo, però, la situazione politica internazionale presentava nuovi focolai di crisi, evidenziati dagli esperimenti atomici di India e Pakistan dell'estate 1998 e dal braccio di ferro fra gli ispettori ONU - incaricati di controllare la presenza di armi di distruzione di massa in Iraq - e Ṣ. Ḥusayn. In questo caso l'unilateralismo statunitense venne allo scoperto con i bombardamenti di installazioni militari del dicembre 1998, compiuti con l'aiuto della sola Gran Bretagna, che buona parte della comunità internazionale giudicò eccessivi e inutili.

Quest'ultima iniziativa, secondo alcuni, potrebbe essere stata in parte dettata dalle difficoltà interne del presidente, alle prese con l'ultimo atto di una lunga vicenda di scandali e inchieste iniziata nel 1993 con l'affare Whitewater, riguardante un sospetto di finanziamento illecito a Clinton attraverso una società immobiliare dell'Arkansas di cui l'allora governatore e la moglie erano soci. Complicatasi nel 1994 con le accuse a Clinton di molestie sessuali da parte di un'impiegata dello Stato dell'Arkansas, P. Jones, la vicenda non approdò a nulla; ma nel 1996 il procuratore speciale, K. Starr, prese in esame l'eventualità di 'ostruzione alla giustizia' da parte del presidente nella vicenda, un tema che gli consentì di indagare su qualunque argomento. Fu in questo quadro che nel 1998 l'ammissione di una stagista della Casa Bianca, M. Lewinsky, di aver avuto rapporti sessuali con il presidente portò alle involute negazioni di quest'ultimo, costretto a un umiliante interrogatorio, trasmesso più volte da tutte le reti televisive, nel quale fondò la sua difesa su una contorta interpretazione del significato di rapporto sessuale. Le conclusioni del procuratore, secondo cui Clinton aveva mentito sotto giuramento, consegnate al Congresso, aprirono la strada alla procedura costituzionale di impeachment, che può portare alla destituzione del presidente. L'opinione pubblica rimase fedele a Clinton e parve credere che la vicenda, data la fede conservatrice di Starr, fosse viziata da fini politici, tanto che alle 'elezioni di mezzo termine' dell'autunno i repubblicani persero alcuni seggi alla Camera e vari governatorati; ma la Camera, ancora a maggioranza repubblicana, approvò in dicembre la richiesta di rinvio a giudizio di Clinton davanti al Senato per ostruzione alla giustizia e spergiuro.

Si giunse così al secondo processo di impeachment nella storia americana dopo quello di A. Johnson, il successore di Lincoln, nel 1868 (il presidente Nixon nel 1973 si dimise prima che il processo avesse inizio). La pressione dell'opinione pubblica e la difficoltà di tradurre comportamenti moralmente riprovevoli in termini costituzionalmente rilevanti impedirono però alla maggioranza dei senatori di votare per la condanna. Ancora una volta il presidente uscì vincitore da una situazione apparentemente senza uscita mentre l'ideologia moralizzante della destra religiosa si dimostrò di nuovo perdente, e i suoi esponenti parvero inclini a lasciare la scena politica attiva per dedicarsi al missionariato nella società civile. Contemporaneamente nel Partito repubblicano riprendevano quota, anche in vista delle presidenziali del 2000, politici centristi come il governatore del Texas G.Bush Jr, figlio dell'ex presidente.

La vicenda dell'impeachment può essere considerata il coronamento di un decennio paradossale in cui un presidente democratico, Clinton, aveva messo fine allo Stato interventista per seguire una politica economica più moderata, ma non dissimile da quella dei suoi predecessori repubblicani, ottenendo, però, un boom economico senza precedenti. All'inizio del 1998, con la diminuzione della disoccupazione e dell'inflazione, egli poté prevedere un bilancio in pareggio per l'anno successivo. Nel 1999 si verificò addirittura un surplus sul cui uso si accese una nuova battaglia politica fra i repubblicani, intenzionati a usarlo per ridurre ulteriormente le tasse, e i democratici che volevano invece servirsene soprattutto per l'incentivazione del capitale umano e per le politiche di welfare. Al di là di questo scontro, che non esce dalla normale logica bipolare statunitense, occorre sottolineare la costante dell'azione politica dei New Democrats di Clinton. Essi sembrarono muoversi nel corso del decennio sulla base dell'idea che le conseguenze socioeconomiche della rivoluzione informatica e della globalizzazione in un paese come gli S. U. avrebbero premiato la flessibilità e l'inventiva e dovessero essere assecondate dall'azione di governo. La loro 'terza via' fra progressismo e conservatorismo, fondata sul principio che non esistono diritti all'assistenza basati su un dovere pubblico di redistribuzione delle ricchezze, ma che la mano pubblica deve fornire strumenti che portino i singoli ad aiutarsi da sé, andò in effetti in questa direzione e conquistò il pubblico americano affermandosi, almeno nell'immediato, rispetto alle posizioni radicale e conservatrice che subirono un momentaneo ridimensionamento della loro influenza. Lungo queste linee Clinton riuscì a governare con abilità una situazione inedita; ma di questa stessa situazione, in cui i confini fra pubblico e privato risultarono sempre più tenui, rimase vittima. Le sue capacità politiche non cancellarono certo le incertezze e i punti oscuri della politica interna dei New Democrats, tanto che il candidato democratico per le elezioni del 2000, il vicepresidente A. Gore, non sembrava avere alcun vantaggio rispetto ai repubblicani. Il centrismo dei democratici, insomma, per quanto vincente poteva essere declinato in molti modi.

Allo stesso modo paradossale era la situazione degli S. U. in campo internazionale, in cui, dimostratosi irrealizzabile il piano di Bush di un nuovo ordine mondiale, la loro azione si 'disaggregava' in una serie di risposte a conflitti regionali garantite dallo strapotere militare, ma fondamentalmente unilaterali e poco decifrabili nel loro disegno generale. L'intervento della NATO del marzo 1999 nella regione iugoslava del Kosovo, voluto e guidato dagli S. U. per impedire la pulizia etnica contro gli Albanesi kosovari avviata dal presidente serbo della Iugoslavia, S. Milošević, rifletteva questa situazione. Sebbene giustificato dalla realtà delle cose e dal vuoto politico degli Stati europei, esso si svolse all'insegna di un'inedita visione politica umanitaria che tagliava fuori l'ONU, unico organismo legittimato a compiere operazioni di polizia internazionale in violazione della sovranità nazionale degli Stati: un'innovazione gravida di potenzialità tanto radicali quanto difficili da valutare. Il coinvolgimento della NATO nell'operazione, inoltre, non modificava, ma anzi rafforzava l'unilateralismo della politica estera statunitense, in quanto dimostrava che gli S. U. si muovevano sui vari scacchieri regionali servendosi in modi inediti delle alleanze militari sorte durante la guerra fredda. Dopo oltre due mesi di un'azione esclusivamente aerea contro le infrastrutture della Iugoslavia e le sue truppe in Kosovo, l'operazione si concluse con successo in giugno, con il ritiro delle forze iugoslave e l'ingresso nella regione di un forte contingente di pace formato da truppe NATO e russe, giustificando così l'intervento sia a livello interno sia internazionale; ma le sue conseguenze nei Balcani sono ancora da verificare. Il permanere della 'sindrome Vietnam', e quindi la dichiarata volontà di affidare le operazioni militari alla sola forza aerea onde evitare perdite americane, non impedisce infatti che gli S. U. continuino a fondare ancor più la loro politica estera sulla potenza militare, basando questa strategia sulla premessa che la globalizzazione debba portare a un convergere spontaneo delle politiche nazionali e quindi a un'accettazione internazionale degli interventi contro chi opera in nome di interessi culturali o politici a essa estranei. Un'impostazione di questo genere ha una sua razionalità in quanto consente di affrontare separatamente le crisi regionali alla luce di un'unica linea politica; ma, date le oscurità che avvolgono ancora il senso e la direzione dei processi di globalizzazione, può risultare un ostacolo alla comprensione delle singolarità delle situazioni locali e reggersi su una visione dell'egemonia americana poco chiara nei suoi fini e limiti politici e sostanzialmente giustificata dalla potenza militare.

Nel secondo semestre del 1999 si accese la battaglia per le presidenziali del 2000 fra Gore, Bush e numerosi candidati minori; ma la vera novità fu la candidatura di H. Clinton al seggio senatoriale di New York contro il popolare sindaco di New York City, R. Giuliani. Il presidente, intanto, in vista del vertice della WTO a Seattle, si adoperò per favorire accordi commerciali bilaterali con la Cina, che furono stipulati nel novembre 1999, un atto che fu un segnale di distensione nei rapporti tra i due paesi. Riuscì anche a impedire ai repubblicani di servirsi del surplus di bilancio del 1999 solo per tagliare le tasse nel 2000 a scapito di misure sociali. Questi successi, però, vennero sminuiti dal fallimento dell'incontro di Seattle ai primi di dicembre, fallimento provocato non solo dai profondi contrasti sui temi dell'agricoltura e della protezione dell'ambiente e del lavoro, ma ancor più dalle manifestazioni di decine di migliaia di dimostranti giunti dagli S. U. e dall'estero che paralizzarono la città. Vi confluirono ambientalisti e giovani della sinistra radicale, ma anche esponenti dei sindacati americani e sostenitori dell'isolazionismo economico. Si trattò di una dimostrazione confusa, ma potente, delle ansie e dei problemi che le rivoluzioni economiche e sociali in atto provocavano in settori dell'opinione pubblica internazionale e della sfiducia verso un progresso che gli S. U. guidavano ma non riuscivano a governare.

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