STATI UNITI

Enciclopedia Italiana - III Appendice (1961)

STATI UNITI (XXXII, p. 523; App. I, p. 1019; II, 11, p. 889)

Roberto ALMAGIA
Florio GRADI
Giorgio SPINI
Oscar HANDLIN
Ornella FRANCISCI OSTI
Biancamaria TEDESCHINI LALLI

UNITI I più importanti avvenimenti di interesse generale riguardanti l'ordinamento politico degli S. U. A. negli ultimi anni sono stati l'ingresso nella Confederazione di due nuovi stati, cioè l'Alasca, "territorio incorporato" dal 1912, eretto a stato (490) il 3 gennaio 1919, e l'arcipelago delle Hawaii, annesso agli S. U. A. come "territorio esterno" nel 1900, eretto a stato (50°) il 12 marzo 1959. Portorico non è andata incontro alla medesima sorte; l'isola costituisce (dal 25 luglio 1952) il Commonwealth of Puertorico, ai cui cittadini sono stati riconosciuti gli stessi diritti che ai cittadini statunitensi (v. portorico, in questa App.), al pari dei cittadini delle isole Vergini che hanno (dal 1954) un proprio governo parlamentare.

La condizione di "territorio" ha pertanto cessato di esistere come entità politico-amministrativa degli S. U. A. (solo le isole Samoa restano con la qualifica di "territorio americano non organizzato e non incorporato", ma con propria legislatura bicamerale dal 1948; un nuovo statuto è in via di applicazione). La Confederazione consta pertanto oggi di 50 stati e del Distretto Federale o Columbia. La tabella a pag. 822 fornisce i dati statistici essenziali.

Il modulo di incremento della popolazione nel decennio 1940-1950 è stato del 14,5%; ed esso rappresenta il più basso incremento verificatosi dal 1860 in poi (se si eccettui il decennio precedente, caratterizzato da grande depressione, 7,2%); nel decennio 1950-60 il modulo è stato del 18,5%.

Nel Distretto Federale e in tre stati - Virginia Occid., Arkansas e Mississippi - la popolazione è diminuita nel decennio 1950-60 e nel primo di essi la diminuzione è stata del 7,2%. Evidente è il contrasto fra taluni stati dell'Est, dove il modulo è inferiore alla media (Vermont 3,2; Kentucky 3,2), e quelli del Centro-Ovest e del Pacifico: in California il modulo è stato del 48,5%, nell'Arizona del 73,7%. Anche la Florida (78,7) e il Nevada (78,2) registrano un modulo altissimo.

L'incremento straordinario della popolazione è dovuto oggi in massima parte all'eccedenza dei nati sui morti. Nel quadriennio 1957-60 si ebbero circa 4.225.000 nati vivi l'anno, contro 1.650.000 morti (1.702.000 nel 1960, anno di punta).

L'immigrazione permanente è tuttora regolata, come è noto, da leggi restrittive che stabiliscono le quote annue massime ammesse per le diverse provenienze. Per il 1950 il totale fu di 249.187, dei quali 199.115 dall'Europa; per il 1955 fu di 237.780 (127.492 dall'Europa), per il 1960 (anno chiuso al 30 giugno) fu di 265.398, dei quali 139.670 dall'Europa. Da alcuni anni alla testa degli immigranti sono i Messicani (circa 32.500 nel 1960); seguono Tedeschi, Canadesi, Britannici, Italiani, Polacchi, Olandesi, Irlandesi, Ungheresi. Nelle cifre sono compresi i cosiddetti "rifugiati" contemplati dal Refugee Relief Act del 1953; dalla promulgazione di questo atto fino al 1960 ne furono ammessi oltre 200.000. Non sono compresi invece tra gli immigranti i Portoricani e i cittadini delle isole Vergini, i quali, essendo, come si è detto, cittadini degli S. U. A., hanno libertà di stabilirsi ovunque senza alcuna formalità; il loro afflusso fino a qualche anno fa cresceva di anno in anno, specie nei grandi centri dell'Est ed in prima linea a New York; ora tende ad attenuarsi.

Per rendersi conto dei grandi divarî nell'incremento della popolazione fra i varî stati occorre aver riguardo alle migrazioni interne che si sono straordinariamente intensificate durante e dopo la seconda guerra mondiale. Tra il 1940 e il 1947, circa 12,4 milioni di persone si trasferirono da uno stato all'altro e oltre 13 milioni da una contea all'altra del medesimo stato. Tali spostamenti continuano ancora: intenso è il richiamo degli stati dell'Ovest - California e Washington - non nelle campagne, ma nelle città, che si espandono con ritmo incessante. Anche fuori dell'Ovest l'urbanesimo si manifesta con correnti imponenti. Di fronte a queste vi è una corrente finora debole, ma che tende a intensificarsi, specie negli stati dell'Est, rappresentata da famiglie che si trasferiscono dalle aree urbane nelle prossime campagne, costituendovi spesso nuovi insediamenti in località favorite dalle comunicazioni.

La densità media della popolazione per il complesso degli S. U. A. è di 19 ab. per km2, ma essa varia entro limiti molto estesi. Gli stati meno densamente popolati sono l'Alasca (con meno di 1 ab. ogni 10 km2), il Nevada (1 ab. ogni 2 km2) e il Wyoming (con 1 ab. per km2). All'estremo opposto sono cinque stati (New York, New Jersey, Connecticut, Massachusetts e Rhode Island) che superano i 100 ab. per km2 con massimo nel Rhode Island. Nel quadrilatero compreso all'incirca fra Boston, Milwaukee, Saint Louis e Washington, che costituisce il distretto della grande industria, la densità è di circa 85 ab. per km2 e il blocco che, entro tale quadrilatero, supera i 100 ab. abbraccia un'area di circa 350.000 km2, di poco superiore a quella dell'Italia. In altri più limitati distretti industriali si superano i 50 ab. per km2. Le regioni prevalentemente agricole presentano naturalmente densità minori (10-25); ad ovest del 100° meridiano, in paesi dove l'agricoltura deve essere sussidiata dalla irrigazione e sussistono ancora vaste aree a foreste o a pascoli e addirittura incolte, la densità scende sotto i 10 ab. per km2. Vi sono poi, come è noto, nell'Ovest vaste aree desertiche perché aride o perché coperte di nuda roccia o perché lacerate da erosioni (Bad Lands, ecc.). Una carta della densità rivela anche l'influenza dell'altitudine e quella, non però ovunque uniforme, del mare.

I dati per razza si posseggono per il censimento 1950. Se ne ricava che su un totale della popolazione di 150.697.361 ab. (escluse l'Alasca e le isole Hawaii), 134.942.028 erano Bianchi, e di essi 124.780.860 nativi, il resto nati all'estero. Dei 15.755.333 non Bianchi, 15.042.286 erano classificati come Negri, 343.410 come Indiani; 141.768 erano Giapponesi, 117.629 Cinesi, ecc. Numericamente solo i Negri hanno dunque importanza; essi erano 12.865.518 nel 1940; il loro numero è perciò notevolmente aumentato, nel decennio 1940-50, mentre fra gli Indiani e i Giapponesi l'aumento è stato lentissimo (i Giapponesi sono in parte emigrati). I Cinesi sono aumentati anche per una corrente di immigrati dalla Cina comunista.

La tabella accanto espone le cifre della popolazione negra per alcuni stati che ne hanno, in linea assoluta, un numero maggiore.

Nel 1957 la popolazione non bianca era calcolata a 18.765.000 individui su un totale di 171.229.000.

Per i Bianchi nati all'estero il seguente prospetto fornisce i dati per i principali stati (cifre arrotondate in migliaia)

Il numero dei cittadini nati in Italia è diminuito rispetto al censimento 1940 che ne denunziava circa 4,5 milioni e diminuita è anche l'aliquota (34%) spettante allo stato di New York. Seguono la Pennsylvania (11,5%), il New Jersey (11%), la California (7,1%), il Massachusetts (7%), l'Illinois, il Connecticut.

Urbanesimo - Città. - Nel 1950 la popolazione classificata come urbana era calcolata in 96,5 milioni circa, cioè circa il 64% della totale. Della popolazione rurale - oltre 54 milioni - un po' più di 23 milioni abitava in farm, il resto in altre forme di residenza. Non vi era divario notevole in questa distribuzione, fra Bianchi e Negri. La popolazione indiana è quasi tutta rurale, quella giapponese e cinese in massima parte urbana.

Le città con più di 100.000 ab. erano nel 1960 in numero di 130; di esse una ventina non raggiungevano quella cifra nel 1940. Ventuno città superano il mezzo milione; ne diamo qui l'elenco con la popolazione al 1960 e (fra parentesi) quella al 1950. New York 7.781.948 (7.891.957), Chicago 3.550.404 (3.620.962): Los Angeles 2.479.015 (1.970.358); Filadelfia 2.002.512 (2.071.605); Detroit 1.670.144 (1.849.568); Baltimora 949.024 (949.708); Houston 938.219 (596.163); Cleveland 876.050 (914.808); Washington 736.956 (802.178); Saint Louis 750.026 (856.796); San Francisco 742.855 (775.357); Milwaukee 741.324 (637.392); Boston 697.197 (801.444); Dallas 679.684 (434.462); New Orleans 627.525 (570.445); Pittsburgh 604.332 (676.806); San Antonio 587.718 (408.442); San Diego 573.224 (334.387); Seattle 557.087 (467.591); Buffalo 532.759 (580.132); Cincinnati 502.550 (503.998).

Come si vede, gli incrementi non sono in genere molto cospicui per queste città maggiori, anzi talune risultano in stasi demografica o in regresso. Aumenti considerevoli presentano invece alcune città della California e del Texas, come Los Angeles, San Diego, Houston, ecc.; in queste e in altre città l'incremento demografico continua con progressione rapida. Tra le città minori, Corpus Christi nel Texas ha veduto la popolazione quasi triplicata nell'ultimo ventennio (da 57.000 ab. a 167.670) e Phoenix è passata da 65.000 ab. a 439.170, ecc.

Altre città con numero di abitanti fra 100.000 e 500.000 al censimento del 1960 (oltre le capitali di stati): Memphis, Tenn. (497.524); Minneapolis, Minn. (482.872); Kansas City, Mo. (475.539); Newark, N. J. (405.220); Louisville, Ky. (390.639); Portland, Ore. (372.676); Oakland, Calif. (367.548); Fort-Worth, Texas (356.268); Long Beach, Calif. (344.168); Birminghan, Ala. (340.887); Rochester, N. Y. (318.611); Toledo, Ohio (318.003); Norfolk, Va. (305.872); Omaha, Nebr. (301.598); Miami, Fla. (291.688); Akron, Ohio (290.351); El Paso, Texas (276.687); Jersey City, N. J. (276.101); Tampa, Fla. (274.970); Dayton, Ohio (262.332); Tulsa, Okla. (261.685); Wichita, Kans. (254.698); Syracuse, N. Y. (216.038); Tucson, Ariz. (212.892); San Jose, Calif. (204.196); Mobile, Ala. (202.779), Charlotte, N. C. (201.564); Albuquerque, N. M. (201.189); Jacksonville, Fla. (201.030); Flint, Mich. (196.940); Yonkers, N. Y. (190.634); Worcester, Mass. (186.587); Spokane, Wash. (181.608); St. Petersburg, Fla. (181.298); Gary, Ind. (178.320); Grand Rapids, Mich. (177.313); Springfield, Mass. (174.463); Youngstown, Ohio (166.689); Shreveport, La. (164.372); Fort Wayne, Ind. (161.776); Bridgeport, Conn. (156.748); New Haven, Conn. (152.048); Savannah, Ga. (149.245); Tacoma, Wash. (147.979); Paterson, N. J. (143.663); Evansville, Ind. (141.543); Erie, Pa. (138.440); Amarillo, Texas (137.969); Fresno, Calif. (133.929); South Bend, Ind. (132.445); Chattanooga, Tenn. (130.009); Lubbock, Texas (128.691); Rockford, Ill. (126.706); Kansas City, Kans. (121.901); Greensboro, N. C. (119.574); Glendale, Calif. (119.442); Beaumont, Texas (119.175); Camden. N. J. (117.159); Columbus, Ga. (116.779); Pasadena, Calif. (116.407); Portsmouth, Va. (114.773); Newport News, Va. (113.662); Canton, Ohio (113.631); Dearborn, Mich. (112.007); Knoxville, Tenn. (111.827); Hammond, Ind. (111.698); Scranton, Pa. (111.443); Berkeley, Calif. (111.268); Winston Salem, N. C. (111.135); Allentown, Pa. (108.347); Cambridge, Mass. (107.716); Elizabeth, N. J. (107.698); Waterbury, Conn. (107.130); Duluth, Minn. (106.884); Anaheim, Calif. (104.184); Poria, Ill. (103.162); New Bedford, Mass. (102.477); Niagara Falls, N. Y. (102.394); Wichita Falls, Texas (101.724).

Per molte città che hanno una popolazione superiore a 50.000 ab. è definita ufficialmente un'"area metropolitana", che può includere altri grossi centri intorno a quello principale, in modo da determinare, insieme a centri minori e a popolazione dispersa, una larga concentrazione di popolazione. Nel 1960 erano definite 211 aree metropolitane, denominate dalla città principale o centrale (tranne l'area di New York, che comprende, come città centrali, oltre a questa, anche Jersey City e Newark). L'area metropolitana di New York nel 1960 comprendeva 14.650.818 ab. (12.911.994 nel 1950), dei quali il 75% nelle tre città centrali. Altre ventitré città avevano più di un milione di ab. nell'area metropolitana: sono indicate qui di seguito con la percentuale di abitanti viventi nella città centrale: Atlanta 1.010.577 (47,9%); Baltimora 1.707.462 (54%); Boston 2.566.732 (22,5%); Buffalo 1.301.604 (40,6%); Chicago 6.743,316 (56,8%); Cincinnati 1.067.669 (48%); Cleveland 1.786.740 (48,6%); Dallas 1.071.003 (62,7%); Detroit 3.743.447 (44,1%); Filadelfia 4.301.283 (45,8%); Houston 1.236.704 (75,4%); Kansas City 1.034.150 (45,7%); Los Angeles 6.668.975 (41,7%); Milwaukee1.184.806 (61,8%); Minneapolis - St. Paul 1.474.149 (53,6%); Newark 1.682.882 (23,9%); Paterson 1.183,514 (23,4%); Pittsburgh 2.392.086 (24,5%); St. Louis 2.046.477 (36,5%); San Diego 1.000.856 (54,4%); Saint Francisco-Oakland 2.725.841 (39,5%); Seattle 1.098.741 (50,1%); Washington 1.967.682 (37,3%).

Come si vede, molto variabile è l'aliquota di popolazione vivente nella città centrale, rispetto a quella totale compresa nell'area metropolitana: raramente si superano i due terzi, salvo centri minori, mentre non è affatto infrequente il caso che la maggioranza degli abitanti viva nell'area metropolitana (Boston, Pittsburgh, ecc).

Le aree metropolitane sono delimitate - spesso anche con semplici linee geometriche - e rappresentate nelle carte geografiche; il concetto non corrisponde pertanto a quello, frequentemente adottato in Europa, di conurbazione: le conurbazioni in senso geografico possono esorbitare, anche negli S. U. A., dai confini dell'area metropolitana; e può verificarsi altresì il caso opposto. L'area metropolitana trova applicazione nei programmi di pianificazione urbanistica, sempre più frequente oggi negli Stati Uniti.

Attività economiche. - Secondo il censimento del 1950, il 18,3% della popolazione era occupato in attività agricole (comprese le foreste e la pesca), il 33,5% nelle industrie (comprese le costruzioni), il 18,8% nei trasporti, comunicazioni, ecc., l'1,7% nelle industrie estrattive, il 21,4% nel commercio, nei pubblici servizî, ecc. Nel gennaio 1959 l'Ufficio del censimento calcolò le forze lavorative a 70.027.000 individui, dei quali 67.430.000 occupati nei servizî civili: di essi il 7% erano temporaneamente disoccupati.

Il suolo in vario modo coltivato assomma al 24,7% della superficie totale (Alasca esclusa), le foreste al 33,1%, i prati e pascoli al 37%; il resto è rappresentato da incolto improduttivo, da aree urbane, da strade. Notevole è l'incremento dell'aliquota delle aree coltivate (nel 1945: 21,2%), dovuto anche agli energici provvedimenti contro l'erosione del suolo e alla diffusione delle opere irrigatorie, che hanno permesso di mettere a coltura vaste aree desertiche o comunque inutilizzabili, specialmente nell'Ovest. Tuttavia i quattro quinti o poco meno dei terreni coltivati sono ancora nella parte del paese ad est del 100° meridiano, nonostante che nel Nord-Est, fra l'Atlantico e i Grandi Laghi, il grandioso sviluppo industriale abbia determinato una riduzione delle aree coltivate e si manifesti anche la tendenza ad estendere i prati artificiali per l'allevamento del bestiame e per la connessa industria dei latticinî. Una maggiore estensione degli spazî per le colture - anche come compenso delle estesissime aree deteriorate dall'erosione del suolo, è stata ottenuta sia con l'applicazione dell'aridocoltura (dry farming), sia soprattutto con un grandioso sviluppo delle opere di irrigazione, collegato con la creazione di grandi serbatoi, come diremo più avanti.

Secondo il censimento agricolo del 1954 le farms (fattorie) erano 4.782.416 (nel 1958: 4.749.000), con una diminuzione del 12,5% rispetto al 1950, ma l'area complessiva non aveva subito che una riduzione minima. L'area media della farm era di conseguenza aumentata da ha 70,5 a ha 85; la popolazione totale delle farms era nel 1950 di 31.560.000 in confronto a 29.047.000 nel 1940. Si può concluderne che le piccole farms tendono a diminuire in confronto alle più estese. Il Texas è alla testa fra tutti gli stati sia per il numero delle farms, sia per l'area da esse occupata; a grande distanza seguono per numero di farms la Carolina del Nord, il Mississippi, il Tennessee, l'Iowa, il Missouri, il Kentucky, ecc., ma in tutti questi stati prevalgono le farms medie e piccole.

Negli ultimi anni la politica agricola degli S. U. A. ha continuato a perseguire l'obiettivo di estendere le colture che maggiormente servono al sempre crescente consumo interno del paese, e quelle industriali di più alto reddito.

Circa 12 milioni di ettari appartenenti a farms sono irrigati: una metà di essi spetta agli stati delle Montagne Rocciose e del Pacifico. Circa 4.200.000 farms, cioè l'88%, sono fornite; di elettricità circa 2 milioni e mezzo sono dotate di trattori; i mezzi motorizzati (comprese le mungitrici meccaniche, ecc.) sono poco meno di 10 milioni.

Le colture cerealicole occupano nell'insieme più della metà dell'arativo. Per le quattro maggiori la tabella seguente dà le cifre della produzione per gli anni 1957 e 1958.

Tra le piante industriali continua ad avere la massima importanza il cotone (media 1954-57: 6.600.000 ha e 28.560.000 q), ma tanto l'area coltivata quanto la produzione tendono a diminuire, soprattutto per la minore richiesta dei mercati esteri. E la stessa tendenza, molto più accentuata, dimostra il tabacco (media 1954-57: 570.000 ha e 9.250.000 q; ma 675.000 ha e 10.178.000 q nel 1954; 436.000 ha e 7.875.000 q nel 1958). Delle piante produttrici di zucchero tende a diminuire la canna (5.250.000 q nel 1958) e ad aumentare, pure attraverso varie oscillazioni, la barbabietola (19.980.000 q).

L'ultimo decennio ha veduto negli S. U. A. un ulteriore sviluppo delle colture orticole e frutticole: per le prime si accentua la tendenza ad una specializzazione (spinaci nella Virginia, pomodori nel Maryland, nel Delaware, nella Florida, ecc.), tra le seconde - quelle della frutta - sono in grande slancio gli agrumi, sebbene siano limitati alla Florida e alla California: questa ha preso il sopravvento per i limoni e gli aranci (rispettivamente quattro quinti e due terzi della produzione totale); la Florida conserva il primato per i pompelmi.

La viticoltura mostra invece una tendenza alla riduzione.

Le foreste occupano oltre 259 milioni di ettari, cioè un terzo della superficie totale: il prezioso mantello è sempre meglio protetto per mezzo di Parchi nazionali e statali, di riserve, e con altri provvedimenti. Tuttavia l'erosione del suolo e i frequenti incendî costituiscono ancora pericoli preoccupanti.

L'Alasca e le regioni settentrionali volte al Pacifico conservano ancora le aree più intatte, vere riserve per il futuro: di qui vengono legni pregiati come il douglas e il redwood; dai paesi del Golfo del Messico invece il pitch pine. Varie qualità di legnami più teneri diffusi nelle foreste dell'Ovest, ma anche altrove, alimentano l'industria della cellulosa, della pasta da carta, ecc. in stabilimenti colossali.

Per quanto riguarda l'allevamento del bestiame, le cifre del 1958 sono: circa 94 milioni di bovini, quantitativo non superato che dall'India, 51 milioni di suini, 31 milioni di ovini, 2.800.000 caprini, 2 milioni e mezzo di cavalli.

L'equilibrio fortemente turbato dalla guerra mondiale si è ormai ricostituito: i bovini sono in netto aumento (85,5 milioni nel 1945); suini e ovini non hanno ancora raggiunto le cifre prebelliche, ma sono anch'essi in aumento; i cavalli sono al contrario in rapida diminuzione (8.840.000 nel 1945), come in tutti i paesi nei quali i mezzi di trasporto meccanici si vanno sempre più diffondendo. Per l'allevamento bovino è da rilevare il sempre più deciso orientamento, negli statî del NE e nella regione dei laghi, verso la selezione di vacche da latte per alimentare l'industria dei latticinî. Per gli ovini, si nota una sempre maggior riduzione degli spazî pascolativi disponibili nell'Est, compensata solo in parte da forme intensive razionali di allevamento.

Per la pesca, computando i ricchi distretti alascani, gli S. U. A. hanno ormai il secondo posto nel mondo dopo il Giappone: negli ultimi anni la produzione si è aggirata su 2.750.000-3.000.000 di t. Per quantità di prodotto i distretti del Pacifico (salmoni, sardine, scombri) e quelli dell'Atlantico (merluzzi, aringhe, scombri a nord; mugilidi, tonni, e ancora sardine e scombri a sud) si bilanciano, ma per valore la pesca atlantica viene ora in prima linea. Tuttavia, quando si fanno confronti col Giappone o anche con la Norvegia, non si deve dimenticare che negli S. U. A. le attività pescherecce hanno, nell'economia generale, una importanza di gran lunga minore; i pescatori veri e proprî superano di poco i 100.000.

Fonti di energia. - In relazione al nuovo slancio assunto, come vedremo tra poco, da molti rami delle attività industriali, gli S. U. A. vanno sempre meglio potenziando la utilizzazione delle fonti di energia. Nel settore dei carboni fossili, non si registra la scoperta di nuovi giacimenti, anzi si tende a limitare lo sfruttamento di quelli esistenti. Nel 1959 la produzione fu di circa 380 milioni di t, il che mantiene gli S. U. A. in posizione di primato (segue a non grande distanza l'URSS, mentre la produzione britannica è di appena la metà). Il petrolio rappresenta un altro primato statunitense: la produzione di greggio fu di 331 milioni di t nel 1958, di 346,5 milioni nel 1959. Vi sono oggi una dozzina di grandi giacimenti in piena efficienza; tra gli stati produttori in prima linea è sempre il Texas, ma il secondo posto non spetta più ora alla Luisiana, bensì alla California, la cui produzione cresce rapidamente. Al quarto posto è l'Oklahoma. Le scoperte più recenti sono quelle del Texas occidentale (regione di Midland), del Colorado (fra Denver e Julesburg), del Wyoming (Big Horn) e del Dakota (da Williston fino a Glendive nel vicino Montana); questo ultimo giacimento, molto esteso ma con falda produttiva a 3000 m di profondità, si continua nel Manitoba (Canada). Il petrolio viene oggi estratto anche dal sottosuolo del Golfo del Messico.

Circa 300.000 km di oleodotti (pipelines) trasportano il greggio dai campi di estrazione alle raffinerie o da queste ai porti di esportazione. Il cosidetto Big Inch, che va da Beaumont nel Texas a Newark, è lungo 2500 km; esso è stato ora raddoppiato da un'altra conduttura per i prodotti finiti. L'oleodotto da Wink nel Texas a Norwalk presso Los Angeles è lungo 1525 km. La capacità delle raffinerie (Cleveland, Toledo, Buffalo, Boston, New York, Jersey City e dintorni, Filadelfia, Baltimora, S. Francisco, Los Angeles, S. Pedro, ecc.) è tale che può raffinare greggi d'importazione (Venezuela, Messico e altri paesi del Mediterraneo americano).

In alcuni distretti petroliferi si producono quantità enormi di gas naturale (oltre 300 miliardi di m3 negli ultimi anni, per metà dal Texas) distribuito mediante gasdotti (420.000 km) ed utilizzato in molte industrie, oltre che per usi domestici. Il gas utilizzato nelle case di New York proviene per tubazioni dirette dal Texas.

Colossali progressi ha fatto l'utilizzazione dell'energia idrica: gli S. U. A. contano oggi circa 620 bacini artificiali di vario tipo e capacità; ma molti di essi sono polivalenti, servono cioè, oltre che per la produzione di energia idroelettrica (715-725 miliardi annui di kWh), anche per fornire acqua, per irrigazione soprattutto, come si è già detto, nell'Ovest, e secondariamente per provvista di acqua per usi domestici. Alcuni dei più grandi bacini servono poi anche per contenere le piene dei fiumi. La diga Hoover sul Colorado crea un bacino che è oggi il terzo del mondo per ampiezza (v. colorado, in questa App.); seguono il serbatoio del Glen Canyon, quelli di Oahe, Garrison e Fort Peck sul Missouri, quello del lago Roosevelt creato dallo sbarramento della Grand Coulee (v. columbia, in questa App.), quello di Fleming George sul Green River (Colorado), quello del lago Rainy nel Minnesota, ecc.

I programmi di utilizzazione dei maggiori bacini idrografici debbono essere coordinati, il che rende naturalmente necessarî accordi fra più stati. Attualmente l'attenzione si rivolge soprattutto a quattro bacini fluviali, quelli del Tennessee, del Missouri, della Columbia e del Colorado. Agli uffici statali si vanno sostituendo o affiancando organismi più vasti, quali la Tennessee Valley Authority (TVA), che abbraccia nel suo programma, non solo la costruzione di bacini artificiali, di dighe, con lo scopo anche di regolare i fiumi e favorirne la navigabilità, ma anche vasti provvedimenti contro l'erosione del suolo, ecc. (v. t.v.a. in questa App.). Con compiti analoghi o ancora più vasti, ha iniziato la sua attività nel 1946 la Missouri River Basin Authority che prevede lavori della durata di almeno un trentennio. Sono in corso di attuazione programmi per la utilizzazione delle cascate del Niagara e del San Lorenzo (v. in questa App.).

Economia mineraria. - La seguente tabella fornisce i dati della produzione dei principali minerali (e loro derivati) per gli anni 1957-1958.

Tra i progressi compiuti negli ultimi anni sono da segnalare in primissima linea quelli relativi alla ricerca di uranio, che è in grande incremento soprattutto nel Colorado (Naturita, Uravan), nel Nuovo Messico e nell'Utah, alla produzione del molibdeno (Klimax nel Colorado e Questa nel Nuovo Messico) e di altri minerali rari, utilizzati soprattutto nella fabbricazione di ferroleghe. Modesti progressi ha fatto la produzione dei non molti minerali mancanti nel paese (stagno, nichel, manganese, cromite, ecc.) per i quali, nelle condizioni attuali del traffico, supplisce in modo economicamente conveniente l'importazione.

Attività industriali. - Le tendenze generali dell'industria statunitense - produzione in serie di tipi ben selezionati, concentrazione in stabilimenti di proporzioni colossali controllati da un ristretto numero di grandi aziende che dispongono di capitali ingentissimi (trust) - si vanno in complesso sempre più accentuando dopo il riassetto delle attività industriali tanto perturbate dalla guerra mondiale; concorre anche l'incremento straordinario dei laboratorî scientifici, annessi o collegati ai grandi complessi industriali, nei quali studiosi specializzati lavorano a creare prodotti nuovi, a perfezionare i tipi, a sperimentare nuove tecniche, ecc.

Il censimento del 1950 annoverò oltre 4 milioni e mezzo di persone occupate nel complesso delle industrie metallurgiche in senso lato. Il più vivace slancio è dimostrato dal ramo dei trasporti: costruzione di automezzi, di mezzi aerei, di navi di ogni tipo.

Seguono le industrie tessili e connesse che occupavano circa 2.250.000 persone. Al primo posto è sempre l'industria cotoniera (22 milioni di fusi, e mezzo milione di telai meccanici, compresi quelli impiegati per il raion e prodotti consimili), ma se guardiamo ai settori di più vivace sviluppo nel periodo attuale, l'attenzione è richiamata soprattutto dai tessili artificiali e prodotti affini, di cui il mercato sempre più si arricchisce: al raion, al fiocco, al nailon si aggiungono dacron, orlon, fibre di vetro, ecc.

Le industrie alimentari occupano assai più di un milione di persone, quelle chimiche (compresa quella del caucciù e derivati: kerosal, buna, ecc.) 650.000 persone, quella del legname e derivati 700.000 persone, quella della carta 400.000, il mobilificio 300.000. Le più spiccate tendenze alla concentrazione dimostrano le industrie dei latticinî (ad es. il Wisconsin fornisce da solo la metà del prodotto), l'industria molitoria (Minneapolis), quella del legname (Tacoma), quella del caucciù sintetico (Akron), la fabbricazione di prodotti farmaceutici, del DDT (Houston), delle materie plastiche, ecc.

Comunicazioni. - Per quanto riguarda le ferrovie (circa 350.000 km compresa l'Alasca, di cui solo 4500 a trazione elettrica) non si registra la costruzione, negli ultimi anni, di nuove linee importanti. La formidabile concorrenza del mezzo aereo e dell'automobile riduce il numero dei viaggiatori (430-440 milioni l'anno), ma il traffico delle merci registra invece cifre gigantesche (intorno a due miliardi e tre quarti di t annue). La concorrenza cui si accennava per i viaggiatori induce a cercare di aumentare la celerità dei treni: questo anzi può segnalarsi come uno dei maggiori obiettivi attuali. La seguente tabella indica, a titolo di esempio, la durata minima di taluni percorsi.

Per quanto riguarda la navigazione interna, è da ricordare che i grandi lavori eseguiti sul f. San Lorenzo (v. in questa App.) per farne un'arteria accessibile a navi oceaniche (inaugurati nel 1959) avvantaggiano anche gli S. U. A. e in particolare i porti di Duluth in fondo al Lago Superiore, di Chicago e satelliti sul lago Michigan e anche quelli di Saginaw e Bay City sull'Huron, di Detroit sul fiume omonimo che immette nel lago Erie, di Toledo, Cleveland e Buffalo sullo stesso Erie, di Rochester sull'Ontario.

La rete delle strade accessibili ad automezzi supera oggi i cinque milioni e mezzo di km; di esse quelle sotto controllo statale si avvicinano a un milione (oltre 515.000 km di strade urbane). Le grandi strade interstatali sono numerate: la più importante di esse corre da Key West nella Florida al confine canadese, dove si allaccia alla rete del Canada; essa traversa una striscia di territorio nelle cui immediate vicinanze vivono oltre 30 milioni di persone.

Sono in continuo e grandioso sviluppo le strade automobilistiche per le comunicazioni rapide a largo raggio (Parkways, Thruways), che evitano l'attraversamento dei grandi centri cui sono allacciate da tronchi di raccordo, e non hanno incroci; tra le più recenti la Merrit Parkway, la Pennsylvania New Jersey Turnpike, la Ohio Turnpike, ecc.

Una ventina di strade collegano gli S. U. A. al Canada, sette al Messico: tra queste la Pan-American Highway che ha inizio a Laredo sul Rio Grande del Norte. Alla fine del 1959 circolavano negli S. U. A. circa 70 milioni di autoveicoli, cioè circa uno ogni 2 ab.

Navigazione marittima e porti. - La marina mercantile degli S. U. A. contava nel 1959 circa 3765 navi a propulsione meccanica (di stazza superiore a 100 t) per una stazza complessiva di circa 23 milioni di t, equivalente al 18,5% del totale mondiale (Regno Unito 17,1%). Si aggiunge la rilevante flotta in servizio sui Grandi Laghi: 430 navi per oltre 2 milioni e mezzo di t.

Per tonnellaggio di navi entrate ed uscite il primo posto spetta sempre al sistema portuale di New York (oltre 150 milioni di t). Tra i porti dell'Atlantico seguono Filadelfia e il complesso portuale del Delaware, Hampton Roads e i suoi satelliti sul Chesapeake, Baltimora, Boston. Sul Golfo del Messico Houston ha superato New Orleans. Per quanto riguarda i porti del Pacifico si deve segnalare la colossale ascesa di Los Angeles e dei suoi satelliti (Long Beach, ecc.), il cui movimento, dovuto essenzialmente all'enorme sviluppo del traffico petroliero, supera ormai quello del complesso portuale di San Francisco. In notevole incremento sono anche Seattle e Portland. Chicago e Duluth si contendono il primato del traffico sui Grandi Laghi (oltre 15.000.000 di t ciascuno).

I servizî aerei hanno fatto e fanno tuttora progressi continui e rapidissimi, sia per quanto riguarda il moltiplicarsi delle linee e l'infittirsi della rete, sia per il numero di apparecchi e frequenza di voli, sia per l'incremento della rapidità, specie nelle linee transoceaniche, sia per l'attrezzatura sempre più complessa degli aeroporti.

All'interno degli S. U. A. l'aeroplano come mezzo di trasporto è diventato così abituale che fra alcune maggiori città vi sono servizî di linea ogni 10-15 minuti: l'aeroplano è difatti ormai il mezzo di gran lunga preferito dai viaggiatori per superare grandi distanze. Dal 1957 sono entrati in servizio gli aeroplani a reazione (aviogetti), dei quali tutte le grandi compagnie mondiali sono ormai fornite: essi consentono di compiere la trasvolata da New York a San Francisco o Los Angeles in 4 ore, quella da New York a Londra in sei, quella da New York a Roma in otto o nove. Le linee di più intenso movimento sono quelle transcontinentali dai centri dello Atlantico a quelli del Pacifico, quelle transatlantiche con l'Europa; ma importanza crescente hanno anche tutti i collegamenti con il Centro e il Sudamerica, e quelli transpacifici.

Commercio estero. - Le condizioni e le caratteristiche del commercio estero hanno subíto profonde modificazioni come conseguenza della seconda guerra mondiale. Rimangono, come caratteristiche essenziali, la universalità del raggio di traffico, la elevata superiorità delle esportazioni sulle importazioni (computate in valore), nonché la prevalenza, nelle importazioni, della categoria delle materie prime e dei prodotti alimentari, nelle esportazioni di quella dei prodotti manifatturati e semifatturati.

Le esportazioni superano almeno di un terzo le importazioni. I totali per il quinquennio 1955-59 sono indicati nella seguente tabella (in milioni di dollari esclusi oro, argento e valori monetali).

Nel 1958 il 60% delle esportazioni era rappresentato da prodotti manifatturati (macchinario e veicoli, manufatti di cotone, fibre sintetiche, specialità chimico-farmaceutiche), il 12% da prodotti semifatturati, il 12% da materie prime, il resto da generi alimentari naturali o elaborati. Delle importazioni il 27% era rappresentato da prodotti manifatturati, il 47% da materie prime o prodotti semilavorati, il resto da generi alimentari.

Bibl.: G. M. Beltramini de Casati, Conoscere gli Stati Uniti. Cronologia economica degli Stati Uniti, Torino 1949; M. Biel, Die Vereinigten Staaten als Wirtschaftsmacht, Stoccarda 1949; J. R. Whitaker, American resources; their menagement and conservation, New York 1951; H. L. Keenleyside, Canada and the United States, New York 1952; R. P. Stebbins (e altri), The United States in the World Affaires, New York 1952; J. W. Thompson, Population and its distribution, 7ª ed., New York 1952; G. J. Miller, A. E. Parkins, B. Hudgins, Geography of North America, 3ª ed., New York 1954; A. Siegfried, Tableau des États Unis, Parigi 1954; R. L. Mighell, American agriculture, its structure and place in the economy, New York 1955; H. Boesch, U. S. A. Die Erschliessung eines Kontinentes, Berna 1955; D. C. Coyle, The United States political system and how it works, Londra 1957; C. W. Green, American cities in the growth of the nation, New York 1958; L. Haystead e G. Fite, The agricultural regions of the United States, Norman (Okla.), 2ª ed., 1958; I. G. Glover (edit.), The development of american industries, 4ª ed., New York 1959; E. B. Shaw, Anglo-America. A regional geography, New York 1959; W. W. Rostow, The United States in the World Arena: an essay in recent history, New York 1960.

Economia e finanze.

Il prodotto nazionale lordo degli S. U. A. ha superato i 500 miliardi di dollari durante il 1960, cifra che rappresenta quasi il doppio di quella registrata nell'anno 1949 preso come punto di partenza (Tab. 1). Fra i due anni estremi sopra specificati la progressione media geometrica del prodotto nazionale lordo ai prezzi correnti è stata del 6,3% all'anno. Eliminando l'effetto di espansione dovuto al contemporaneo aumento dei prezzi, rimane un incremento in termini reali superiore al 50% fra il 1949 e il 1960, corrispondente ad un tasso medio di sviluppo uguale all'incirca al 3,8% all'anno. Il reddito nazionale ai prezzi correnti è cresciuto nello stesso intervallo di tempo da 216 a 418 miliardi, cioè in misura inferiore a quella del prodotto lordo, a causa della maggiore incidenza degli ooneri fiscali indiretti e dell'accresciuto volume degli ammortamenti (elementi questi che differenziano il reddito dal prodotto nazionale lordo).

Sebbene tutte le componenti del prodotto abbiano segnato un costante progresso nel lungo periodo, le spese statali sono aumentate in proporzione relativamente maggiore per effetto sia di maggiori consumi sia di accresciuti interventi nel campo degli investimenti da parte del settore pubblico (governo federale, autorità locali, enti pubblici di assicurazione, di previdenza e imprese statali). La quota del prodotto lordo destinata al consumo privato è cresciuta di continuo da un anno all'altro per tutto il periodo, ma la sua progressione non è stata affatto costante alternando pause più o meno marcate a vigorosi sviluppi. Anche in relazione a ciò gli investimenti, che comprendono le scorte di materie prime e di prodotti, hanno registrato fluttuazioni sensibili, segnando regressi e progressi in modo alterno.

L'evoluzione rispettiva dei consumi e degli investimenti hanno separatamente e congiuntamente contribuito alla formazione di cicli ricorrenti di espansione e di depressione economica che hanno caratterizzato la congiuntura degli S. U. A. dal 1949 in poi. Durante questo periodo si possono distinguere almeno tre fasi depressive, negli anni 1953-54, 1957-58 e 1960-61, oltre a quella originaria iniziatasi nel 1948 e protrattasi fino al 1949. Alle fasi di regresso dell'attività economica si sono alternate fasi espansive negli anni intermedî, durante i quali l'andamento della produzione industriale ha registrato aumenti più o meno sensibili. Il ritmo di tali aumenti è però notevolmente calato negli ultimi anni e lo slancio produttivo si è rapidamente affievolito fino a sfociare in una nuova recessione che, per quanto non abbia ancora assunto proporzioni allarmanti, interessa tuttora l'economia americana.

Lo scadimento del ritmo di sviluppo dell'economia americana è apparso evidente nella seconda metà del periodo in esame, quando il processo di sviluppo economico si è accompagnato, dal 1955 in poi, a spinte inflazionistiche di maggior momento. In realtà, se si eccettua il rialzo sensibile dei prezzi occasionato dal ciclo coreano, è proprio negli anni a noi più vicini che l'aumento dei prezzi si è fatto più marcato, consolidandosi attraverso le fasi alterne che nel frattempo hanno distinto l'attività economica.

La lievitazione dei prezzi è stata specialmente ampia nel 1956 e nel 1957, anche se la sua spiegazione va ricercata nella forte ripresa intervenuta nell'anno immediatamente precedente. Nel 1955, infatti, l'espansione produttiva, sostenuta dal rapido aumento del credito al consumo, portò ad un'elevata accumulazione di profitti in alcuni settori industriali, che a sua volta dette luogo ad aumenti salariali concordati per lunghi periodi di tempo. L'ondata espansionistica del 1955 investì anche il settore dei beni strumentali provocando un eccesso di domanda nei confronti delle imprese produttrici e quindi un incremento dei prezzi di quei beni, nonché delle costruzioni edilizie tributarie degli stessi beni o derivati.

Da tali premesse dovevano scaturire gli aumenti dei costi dei beni prodotti e quindi dei prezzi che intervennero successivamente, allorché le prospettive specialmente rosee formulate nel 1955 vennero a mancare alla prova dei fatti. D'altra parte, le pause produttive o di regresso in seguito verificatesi non hanno avuto effetti rilevanti sul livello dei prezzi, nel senso che questo rimase stabile o meglio non manifestò alcuna tendenza all'assorbimento degli eccessi già registrati. I prezzi, anzi, sono continuati ad aumentare anche quando la produzione è rimasta stagnante o è diminuita e la mano d'opera disoccupata è andata crescendo.

Le ragioni del comportamento anomalo o anelastico in presenza di uno stato di sottoccupazione delle risorse di lavoro e delle capacità produttive sono da ricollegarsi alla concentrazione dei focolai inflazionistici in alcuni settori strategici (servizî, acciaio e macchinarî, costruzioni edilizie e settore pubblico) e alla diffusione da questi verso altri settori per vie e modi che si sono mostrati incoercibili all'azione di freno esercitata dalle autorità monetarie. Inoltre, la posizione dominante che alcune grosse industrie occupano nei rispettivi settori operativi ha spesso consentito modificazioni di prezzo indipendenti dall'andamento della domanda di mercato.

Gli impulsi inflazionistici che ne sono derivati non possono dunque essere spiegati né in termini di una domanda monetaria globale eccessiva rispetto all'offerta di beni e servizî, né di una spinta autonoma dei salarî, cioè dei costi di produzione. Essi trassero origine piuttosto dall'eccesso di domanda in alcuni settori e dalla diffusione al resto dell'economia attraverso il meccanismo dei costi. Ed è proprio nella molteplicità delle confluenze causali, che ha radici profonde che riguardano anche atteggiamenti psicologici ed istituzionali proprî di quel paese, che deve essere ricercato il fattore determinante della insensibilità dei prezzi e dei salarî alla domanda di beni e servizî; fatto questo che si pone come un aspetto caratteristico del sistema industriale moderno americano e che si manifesta più nel senso della diminuzione che dell'aumento. Quando la composizione della domanda muta rapidamente (e il peso di tali modificazioni è già per sè rilevante in una economia di consumo di massa come quella americana) il prezzo dei prodotti tende in media ad aumentare, dato che gli sbalzi di prezzo per i materiali più largamente domandatî non sono bilanciati dalla riduzione di quelli che sono offerti in eccesso al fabbisogno. Lo stesso avviene per i salarî: la remunerazione nella gran parte delle industrie tende ad essere uguale a quella pagata dalle industrie in rapida espansione. Con la conseguenza che la generalità delle industrie esperimenta un aumento dei costi. Questo, a sua volta, non fa che rafforzare l'aumento generale dei prezzi, dato che una parte almeno dei maggiori costi viene traslata sui prezzi.

L'instabilità palesata dall'economia americana è stata dunque il fattore di maggior peso dei ricorsi inflazionistici e del rallentamento dello sviluppo produttivo, e ha tratto alimento ora dalle fluttuazioni della domanda di beni di consumo durevoli (comprese le case di abitazione) in risposta alle preferenze dei consumatori e alle disponibilità di credito per questi scopi; ora dalle oscillazioni nella spesa statale e nell'ammontare degli ordinativi passati alle industrie private; e infine nell'instabilità della spesa d'investimento in relazione alle circostanze in precedenza accennate e alle influenze psicologiche che quelle stesse circostanze hanno esercitato sulle iniziative degli imprenditori.

L'influenza negativa dei fattori in precedenza notati sull'evoluzione congiunturale degli S. U. A. negli ultimi anni appare tanto più notevole se questa viene paragonata con le vicende che hanno distinto la congiuntura economica dei paesi europei e di quelli del Mercato Comune in particolare. Mentre in passato lo svolgimento del ciclo americano ebbe ripercussioni pressoché automatiche per l'economia europea imponendo una relativa uniformità di situazioni e di tendenze, è un fatto che la diversificazione della congiuntura negli S. U. A. e in Europa è andata accentuandosi nel corso degli ultimi anni fino a segnare orientamenti diametralmente opposti. Finché l'attività economica in Europa è rimasta legata all'aiuto americano elargito sotto varie forme e alla forte dipendenza dalle importazioni dagli S. U. A., allora praticamente l'unico paese fornitore, l'analogia dei movimenti poteva ritenersi come un fenomeno logicamente conseguente; in realtà l'effetto del ciclo americano tendeva a riflettersi in Europa in oscillazioni della congiuntura della stessa direzione, ma di maggior mole. Tale duplice legame si è però evidentemente allentato non appena le condizioni produttive dei paesi industrializzati europei hanno potuto essere ripristinate e migliorate, e l'orientamento dei fondi per aiuti all'estero da parte americana ha trovato la via dei paesi sottosviluppati. Da questo punto di vista il 1960 rappresenta l'anno critico in cui le accennate divergenze si sono fatte più acute, essendo state complicate da fenomeni finanziarî di indubbio rilievo. Mentre gli S. U. A., dopo la rapida ripresa all'inizio dell'anno - ripresa che trovava il suo motivo dominante nell'atteggiamento di reazione e di favorevole prospettiva succeduto alla composizione del lungo sciopero delle industrie pesanti -, scivolavano gradatamente in un rallentamento congiunturale dovuto, almeno originariamente, alle troppo ottimistiche previsioni circa la ripresa della domanda di consumo, l'Europa contava il suo anno di boom più accentuato di questo dopoguerra.

L'irrigidimento dei costi e dei prezzi americani ha indotto a pensare ad uno scadimento della capacità concorrenziale degli S. U. A. in confronto ai paesi industrializzati dell'Europa. In realtà una diagnosi siffatta, derivata dall'osservazione del deterioramento della bilancia dei pagamenti in questi ultimi anni, non trova conferma in un esame più ravvicinato dei fatti. E anche se nel 1958-59 gli S. U. A. avvertirono forse per la prima volta gli effetti della maggiore potenzialità economica raggiunta dai paesi europei (specie in certi settori, come materiali e impianti elettrici, macchine agricole e particolarmente automobili), non si può dire che tali condizioni pongano il più grosso paese industriale in condizione di permanente inferiorità nei confronti del resto del mondo.

Se si osservano i dati relativi ai pagamenti con l'estero dell'intero periodo dal 1949 al 1960 (Tab. 1), si rileva una costante eccedenza delle esportazioni sulle importazioni americane di merci e servizî privati. Considerando però i pagamenti nel complesso, alcuni anni presentano un saldo negativo che oscilla da un minimo di 0,8 miliardi di dollari nel triennio 1952-1954 ad un massimo di 2,5 miliardi nel 1959, cifra questa di poco superiore a quella dell'anno di guerra 1950. La posizione debitoria del paese nei confronti dell'estero è dunque dovuta unicamente alle considerevoli spese che gli S. U. A. sostengono all'estero per il mantenimento delle truppei per la difesa del mondo occidentale e per gli aiuti economici ai paesi sottosviluppati. Se a queste si aggiungono i larghi investimenti esteri che i cittadini e le imprese americane, all'infuori dei movimenti dovuti al settore pubblico, hanno compiuto annualmente, si ha un quadro completo dei fattori che insieme hanno contribuito a determinare l'evoluzione nei rapporti con l'estero e la posizione internazionale del dollaro.

Nel 1950 gli S. U. A. registrarono un declino importante nelle esportazioni di merci unitamente ad un'espansione delle importazioni. In conseguenza il saldo delle merci e servizî diminuì da 6,2 a 1,9 miliardi. Fra le altre cose, la combinazione aumento delle importazioni e diminuzione delle esportazioni, durante il 1950, derivò principalmente dallo scoppio delle ostilità in Corea e dal parallelo movimento speculativo che accelerò il ritmo di provvista delle industrie americane all'estero. In compenso, le esportazioni americane, sebbene soggette all'ascensione congiunturale in tutto il mondo, si mantennero basse a causa dei diffusi controlli commerciali e valutarî sugli acquisti in dollari. D'altra parte, la svalutazione generale delle monete avvenuta sul finire del 1949 ebbe effetti depressivi sulle esportazioni americane, mentre rese più convenienti gli acquisti all'estero.

La situazione complessiva dei pagamenti con l'estero continuò ad essere negativa negli anni seguenti fino al 1956. Il saldo delle merci e servizî, malgrado si mantenesse positivo e al di sopra del livello del 1950, fu alquanto più basso che negli anni dell'immediato dopoguerra. Durante tutto il periodo l'aumento notevole delle importazioni di servizî costituì evidentemente un fattore di limitazione. Infatti, le spese militari all'estero salirono da una media di 0,5 miliardi negli anni postbellici ad oltre z miliardi, crescendo continuamente. E vero che le spese statali all'estero diminuirono in quegli anni, ma gli investimenti privati in altri paesi si mantennero attorno al livello iniziale. Come risultato finale, il flusso di oro in uscita fu relativamente modesto in confronto al deficit netto dei pagamenti (1,5 miliardi), dato che i paesi creditori preferirono accumulare dollari presso il sistema delle banche americane. Nel 1957, la bilancia dei pagamenti complessiva (esclusi i soli movimenti monetarî che rappresentano la posta finale con cui l'avanzo o il disavanzo dei pagamenti totali - merci, servizî e capitali - viene ad essere saldato) registrò l'unica eccedenza di tutto il periodo per effetto di un livello eccezionalmente alto di esportazioni. Il flusso elevato dei beni e servizî esportati in quell'anno (concentrato nella prima metà) fu motivato dal boom degli investimenti che interessò l'economia dei maggiori paesi occidentali, e dalla crisi di Suez, che costrinse i paesi europei a ricorrere agli S. U. A. per le forniture di petrolio grezzo e di derivati nonché di altre materie prime fondamentali. Nel periodo successivo dal 1958 al 1960 la bilancia complessiva ritornò in deficit, registrando una serie continua di disavanzi che per le loro dimensioni unitarie non hanno riscontro negli anni precedenti fino al 1947. La posizione deficitaria derivò da un peggioramento sensibile delle partite correnti, che si chiusero con un avanzo di 5,5 miliardi nel 1957, in pareggio l'anno successivo, e, infine, con un disavanzo di 2,5 miliardi nel 1959, sia in conseguenza di una riduzione delle eccedenze esportate (da 6,1 a 3,3 e a 0,9 nell'ordine) sia di un disavanzo della bilancia servizî (passato da 0,3 nel 1958 a 1,0 nei due anni successivi). E ciò in presenza di un flusso sostenuto e sempre elevato di pagamenti all'estero per prestiti statali ed investimenti privati. In effetti questi, essendo stati mantenuti anche nella fase espansiva del 1959, che comportò un crescendo notevole delle importazioni, determinarono per la prima volta in questo dopoguerra un deficit nel conto merci e servizî, e uno squilibrio nei pagamenti complessivi con l'estero dell'ordine di 3,8 miliardi.

All'opposto di quanto si verificò nel 1958 e nel 1959, il disavanzo registrato nel 1960 si spiega essenzialmente con un deflusso notevole di capitali americani verso l'estero, provocato dal rialzo relativo dei tassi d'interesse in Europa e dai timori di una rivalutazione del dollaro e di una rivalutazione del marco. In effetti, il saldo delle partite correnti registrate nella bilancia americana è migliorato sensibilmente durante il 1960, passando da un importo di −96 milioni a 3,8 miliardi.

Un aspetto delle vicende della bilancia dei pagamenti merita anche qui di essere ricordato. E cioè che essendo il dollaro una valuta riserva, cioè una valuta detenuta da altri paesi come mezzo di pagamento internazionale, la sua offerta dipende esclusivamente dalla situazione e dall'evoluzione dei pagamenti complessivi da e per l'estero da parte americana. L'adeguatezza di tale offerta si misura tuttavia in relazione alle esigenze commerciali e finanziarie degli scambî internazionali. Mentre fino al 1958 il problema dei pagamenti internazionali si è manifestato unicamente nel senso di una scarsezza relativa del dollaro, a partire da quell'anno il crescente sbilancio negativo nei pagamenti netti degli S. U. A., in una con l'allargamento della sfera di convertibilità delle maggiori valute europee, ha portato ad un'inflazione del dollaro che ha squilibrato progressivamente il cambio di tale valuta fino ai margini inferiori che le autorità monetarie europee sono impegnate a difendere. Peraltro, l'accumulazione progressiva dei dollari nelle riserve ufficiali dei paesi europei ha determinato la preferenza a detenere una parte di tali riserve direttamente in oro anziché in dollari (nel timore anche che il rapporto fisso esistente, pari a 34,8 dollari per oncia troy potesse venire alterato). La domanda addizionale di oro si è riversata dunque sugli S. U. A. provocando un deflusso di metallo aureo che nel solo 1960 ha toccato 1,7 miliardi di dollari, dopo che era stato di 2,8 nel 1958 e 1,0 nel 1959 (escluse le transazioni speciali con il Fondo monetario internazionale). Ciò ha influito in senso deflazionistico sull'economia americana in una fase in cui l'effetto contrario sarebbe stato preferibile.

L'antinomia fra esigenze di carattere esterno, collegate ad una riduzione del flusso dei capitali verso l'estero attraverso un aumento dei tassi d'interesse, e esigenze di carattere interno, postulanti un basso livello di tassi d'interesse e condizioni di facilità creditizia per favorire la ripresa produttiva e il processo d'investimento produttivo, ha reso più difficile la manovra monetaria, già di per sé non efficace a causa delle dimensioni notevoli di quel mercato e della sezione relativamente ristretta del mercato in cui tale manovra si esplica. Malgrado che dal 1951 in poi, in seguito a precisi accordi presi con il Tesoro, il sistema della Riserva Federale non sia più obbligato a sostenere il corso dei titoli di stato, le possibilità operative sono rimaste comunque limitate in mancanza di un opportuno coordinamento fra politica fiscale e politica monetaria. Tuttavia, non si può dire che la politica monetaria, incentrata sulle variazioni del tasso ufficiale di sconto, sulle riserve obbligatorie delle banche e sulla condotta di operazioni sul mercato aperto, non abbia sortito gli effetti sperati, specialmente nel senso restrittivo e moderatore delle fasi di alta congiuntura. In particolare nei settori dei finanziamenti ipotecarî e delle operazioni di borsa, per i quali esistono controlli selettivi dei crediti, gli effetti sono stati certamente notevoli, anche se i provvedimenti relativi non sono apparsi sempre tempestivi.

Sul piano operativo l'area d'intervento delle autorità monetarie sul mercato dei titoli è stata di recente estesa alle zone intermedie del mercato, mentre in passato aveva prevalso la tesi dei "bills only", che comportava una limitazione delle operazioni di acquisto e vendita condotte solo sui buoni del tesoro a 3 mesi.

Con l'avvento della nuova amministrazione democratica i problemi dei pagamenti con l'estero e della difesa del dollaro sono stati posti in una scala elevata di priorità. Le direttive che la nuova amministrazione intende seguire, e che risultano dai discorsi programmatici del presidente e dai documenti fin qui pubblicati, mirano a salvaguardare la parità del dollaro favorendone la convertibilità al prezzo stabilito almeno alle autorità monetarie detentrici; ad isolare il mercato monetario americano concedendo tassi d'interesse maggiorati ai depositanti esteri nonché esenzioni fiscali ai detentori di titoli statali; ad alleviare l'onere degli aiuti americani ai paesi sottosviluppati distribuendone il carico sui paesi europei in misura adeguata alle rispettive capacità contributive; infine, a rimuovere le condizioni che alterano in modo strutturale la bilancia dei pagamenti, e a eliminare le discriminazioni ancora esistenti da parte di alcuni paesi nei confronti delle merci d'importazione americana. Sotto il profilo della strumentazione politica, l'accento maggiore sembra sarà posto nei prossimi anni sulla manovra fiscale che più da vicino, sebbene meno flessibilmente, incide sulla consistenza dei redditi privati e sugli incentivi all'investimento delle imprese.

Nella tab. 2 sono riportate le principali categorie di istituzioni che formano il sistema finanziario americano. Dalla tabella sono peraltro escluse le 12 banche della Riserva Federale operanti in altrettanti distretti in cui è diviso il territorio americano e i sistemi di istituti speciali che fanno capo all'amministrazione statale (istituti di credito agricolo e fondiario, nonché quelli di assicurazione e garanzia crediti).

Alla fine del 1959 le banche commerciali erano 13.474, essendo diminuite dal 1950 in poi per fusioni o incorporazioni di vecchi in nuovi istituti. Il gran numero di istituzioni bancarie trova la sua ragione nelle remore che vincolano l'estensione dell'attività bancaria, la quale, di regola, in tutti gli stati dell'Unione, è limitata alla provincia e, al massimo, allo stato in cui le banche hanno le proprie sedi principali. Da qui deriva anche il particolare dinamismo che distingue le istituzioni bancarie degli S. U. A. L'esame comparato dei dati riprodotti nella tab. 2 consente di rilevare lo scadimento d'importanza registrato dalle banche commerciali nel periodo in esame. In termini di attività possedute, il volume dei crediti e degli investimenti bancarî è passato da 169 a 253 miliardi dalla fine del 1950 alla fine del 1959. In corrispondenza, la proporzione degli attivi bancarî rispetto al totale è scesa dal 63 al 55%. Nel contempo, tutte le altre categorie di istituzioni, che vanno sotto il nome di investitori istituzionali, hanno visto accrescere la loro influenza finanziaria: in particolare le imprese di assicurazione sulla vita con un complesso di attività investite dell'ordine di 114 miliardi, contro i 60 posseduti alla fine del 1950. In senso relativo, gli istituti di credito edilizio (saving and loan associations) hanno registrato l'incremento più notevole. A questa diversa evoluzione delle istituzioni finanziarie americane non sono estranee le manovre restrittive di tempo in tempo introdotte dalla Riserva Federale per frenare lo sviluppo eccessivo del credito da parte delle istituzioni bancarie. Lo sviluppo dell'offerta monetaria in effetti è stato relativamente contenuto dal 1950 al 1960. Il volume dei mezzi di pagamento, costituito dai biglietti di banca e di stato e dai depositi a vista, è salito da 117 a 143 miliardi nei dieci anni sopra indicati, cioè in misura minore dell'incremento registrato nel reddito e nel prodotto nazionale. Ciò significa che in termini di reddito la velocità di circolazione di tali mezzi è cresciuta, in parte come reazione alle limitazioni imposte, in parte come manifestazione di preferenze dei risparmiatori al possesso monetario. Sotto questo profilo, appare sintomatico lo sviluppo ben maggiore segnato dal risparmio bancario, che insieme alla crescente raccolta degli istituti al di fuori delle banche cui in precedenza si è fatto cenno, costituisce il segno inequivocabile di uno spostamento delle preferenze del pubblico. Dal canto loro le banche hanno provveduto alla richiesta crescente di credito, pur in presenza di provvedimenti restrittivi della banca centrale, mediante la mobilitazione dei proprî portafogli di titoli di stato, il cui ammontare è variato spesso da un anno all'altro alternando fasi di accumulo a fasi di liquidazione. In conseguenza il volume degli investimenti bancarî in essere a favore delle autorità pubbliche è cresciuto solo del 16%, essendo passato da 97 a 113 miliardi, in gran parte rappresentato da crediti nei confronti di autorità locali. All'opposto, i crediti all'economia sono più che raddoppiati nello stesso intervallo di tempo, avendo segnato una progressione pressoché costante nel senso dell'aumento ad eccezione del 1957. L'evoluzione del credito bancario nel quadro del finanziamento complessivo degli investimenti delle società private appare nella tab. 3. Dato l'alto livello dei profitti non distribuiti e degli ammortamenti, che insieme coprono il 63% degli investimenti complessivi, effettuati negli anni dal 1949 al 1960, il contributo delle fonti esterne appare relativamente inferiore, e fra queste i crediti consentiti dalle banche costituiscono una parte alquanto ridotta. Il loro andamento, tuttavia, appare correlato alle fluttuazioni cicliche degli investimenti in scorte, presentando entrambi variazioni almeno nello stesso senso seppure di ampiezza diversa. La provvista di fondi sul mercato dei capitali ha costituito la fonte singolarmente più rilevante della raccolta delle società americane lungo tutto il periodo in esame (all'incirca un quinto del totale). Essa è avvenuta specialmeme sotto forma di emissioni obbligazionarie in conseguenza del maggiore peso che le imprese di trasporto ed elettriche, ed in genere quelle di pubblica utilità, hanno avuto nel complesso delle emissioni. Inoltre, l'emissione di titoli a reddito fisso è stata favorita dai vantaggi fiscali che essa comporta per gli enti emittenti in confronto ai titoli azionarî. Tenuto conto del rialzo dei prezzi e dei tassi d'interesse, tale forma di finanziamento è risultata, a lungo andare, la più conveniente. L'offerta relativamente contenuta di azioni, in presenza di sviluppi a sfondo inflazionistico, ha determinato una concentrazione della domanda dei risparmiatori privati e istituzionali sui titoli già esistenti, sollecitando cospicui aumenti delle quotazioni di borsa. Se si eguaglia a 100 la quotazione media del 1953, l'indice delle azioni era 63 nel 1949. Nel 1954 esso risultava più che raddoppiato e agli inizî del 1956 era già triplicato. Nel 1957, anno di recessione, le quotazioni azionarie segnarono un lieve regresso, ma ripresero ancora a salire nei due anni successivi, in particolare nel 1959. Nel 1960 si ebbe un ulteriore leggero ripiegamento dell'indice, che si stabilizzò ad un livello di 239, pari a 3,8 volte quello medio del 1949.

Le condizioni di relativa scarsezza di credito che sono prevalse lungo tutto il periodo hanno riportato verso l'alto l'intera struttura dei tassi d'interesse, in particolare di quelli a lungo e medio termine che meno risentono delle fluttuazioni inerenti all'andamento ciclico e agli interventi delle autorità monetarie. In corrispondenza al rialzo dei tassi di mercato il saggio ufficiale di sconto si è mosso da un livello dell'1,50% al 4,0 e al 3,0 nella media degli ultimi due anni. Le oscillazioni di maggior ampiezza da un periodo all'altro si sono verificate però nel comparto dei valori a breve termine e in particolare dei buoni del tesoro a tre mesi. A causa della remora legale, che inibisce al Tesoro americano di collocare titoli con scadenza inferiore a 5 anni ad un tasso superiore al 4,25% (limite che è stato stabilito nel 1917 e che tuttora rimane, malgrado le iniziative presidenziali volte a rimuoverlo), la situazione del mercato monetario si è tesa più volte, con sensibili sbalzi nei tassi d'interesse, il Tesoro essendo stato costretto ad emettere titoli a breve per fronteggiare il rimborso dei titoli in scadenza e le proprie necessità di tesoreria. In conseguenza la scadenza media del debito pubblico risulta alquanto ridotta, essendo scesa da 5 anni e 4 mesi nel 1953 a 4 anni e 7 mesi alla fine del 1960. Nel complesso il debito pubblico è cresciuto meno degli altri parametri con cui si è soliti confrontarlo (reddito nazionale, espansione dei crediti bancarî): da 257,2 miliardi a fine 1949 a 290,6 al dicembre 1960. Ma la sua distribuzione per categorie di possessori è notevolmente mutata, avendo il sistema bancario ridotto fortemente la propria quota (da 78,2 a 68,3 miliardi), mentre è aumentata quella posseduta dalle banche della Riserva Federale (da 18,9 a 27,4 miliardi), dalle autorità pubbliche e dai relativi fondi pensioni (da 47,5 a 72,3), nonché dalle società private (da 16,8 a 20,1).

Bibl.: Le opere e le riviste che trattano degli sviluppi economici e finanziarî degli S. U. A. in questi ultimi dieci anni sono specialmente numerose. La loro citazione sarebbe lunga e ricca di contributi sia da parte americana, sia da parte di altri paesi. Per quanto essa possa essere interessante non può essere qui riprodotta per esteso, dovendo necessariamente limitarci alle pubblicazioni che per l'ampiezza e la generalità dei temi e dei problemi discussi possono richiamare l'attenzione del lettore.

Oltre che nelle opere di studiosi e di istituzioni private fra cui si ricordano: J. P. Crockett, The Federal tax system of the U. S., New York 1955; H. G. Guthmann-N. E. Dougall, Corporate financial policy, New York 1955; M. Nadler e altri, The money market and its institutions, New York 1955; W. Y. Elliot, The political economy of American foreign policy, New York 1955; E. W. Bohlmer, Financial institutions, New York 1956; R. V. Roosa, Federal reserve operations in the money and government securities markets, New York 1956; J. I. Bogen, Financial handbook, New York 1957; J. K. Galbraith, The affluent society, trad. it. Economia e benessere, Milano 1959; R. E. Freeman, Postwar economic trends in the United States, New York 1960; S. H. Slichter, Potentials of the American economy, New York 1961-, un contributo decisivo alla conoscenza dei fatti più salienti e dei problemi di maggior momento del periodo si ritrova nelle numerose pubblicazioni e nei rapporti annuali dei diversi ministeri, commissioni parlamentari e istituti statali, la cui edizione è curata di regola dal Government Printing Office di Washington. Fra questi potranno essere proficuamente consultati i seguenti:

Joint Economic Committee, Comparisons of the United States and Soviet Economies (Parti I, II, III); id., Federal expenditure policy for economic growth and stability, 1958; id., Employment, growth and price level. Reports, hearings and study papers (da 1 a 23), 1959-1960; id., The relationship of prices to economic stability and growth (compendium of papers submitted by panelist); Treasury Department, Treasury Federal Reserve study of the Government securities market agencies, 1953; id., Stock market study. Report and hearings, 1955; id., Institutional investors and the stock market 1935-55, 1956; id., Federal reserve policy and economic stability 1951-1957, Report and Hearings, 1958.

Committee on finance, Investigation of the financial condition of the U. S. Report and hearings, 1958; nonché i seguenti rapporti annuali: Economic report of the president; del Comptroller of the Currency, del Secretary of the Treasury; del Treasury Department-Internal Revenue; della Farm Credit Administration; del Federal Home Loan Bank Board; del Federal Reserve Board (Washington e Federal Reserve Bank of New York); delle Federal Deposit Insurance Corporation.

Sotto il profilo delle informazioni statistiche, la serie annuale dello Statistical Abstract of U. S. contiene numerosi dati e notizie ripresi in gran parte dalle fonti di consultazione corrente che sono costituite dal Federal Reserve Bulletin (per la parte prevalentemente bancaria e finanziaria), pubblicato dal Board of Governors del Sistema Federale in Washington e dal Survey of current business, edito dal Department of Commerce. Entrambe le pubblicazioni includono articoli periodici di commento sugli andamenti congiunturali e sull'evoluzione finanziaria e del credito.

Storia.

Nel 1949, il democratico H. S. Truman iniziava il secondo periodo della sua presidenza degli S. U. A., lanciando la formula del "Fair Deal", cioè di una ripresa della politica riformatrice rooseveltiana. Essa portò all'attuazione di larghe misure a favore dell'edilizia popolare e degli agricoltori, specie mercé interventi federali per mantenere i prezzi agricoli a livelli remunerativi. Malgrado la combattiva energia del presidente, invece, fallirono altri progetti, come l'introduzione di un sistema di assicurazioni obbligatorie sulle malattie, la concessione di aiuti federali all'istruzione pubblica o l'abrogazione del Taft-Hartley Act ed il ripristino del Wagner Act in materia sindacale. Nelle Camere, invero, i repubblicani, ostili ad aumenti di imposte e interventi federali in materia economico-sociale, trovarono spesso appoggio nei democratici conservatori del Sud, allarmati dal favore dell'amministrazione verso l'ascesa dei Negri a condizioni di effettiva parità con i Bianchi.

In politica estera, invece, esisteva un'analoga scissione dei repubblicani, fra la "vecchia guardia" isolazionista, o comunque avversa ad estesi impegni all'estero, e gli elementi più moderati. Benché il gen. G. C. Marshall fosse sostituito (genn. 1949) nello State Department con Dean Acheson, restarono però intatte le precedenti direttive, caratterizzate dall'assunzione di gigantesche responsabilità mondiali e dalla "guerra fredda" con l'URSS, divenuta lotta anch'essa mondiale contro il comunismo e la sua ideologia. Entrarono in vigore il Piano Marshall per la ricostruzione ed il coordinamento delle economie dei paesi dell'Europa Occidentale, ed il Patto Atlantico, con l'apparato della NATO (North Atlantic Treaty Organization), per la loro associazione sul piano militare con gli S. U. A. ed il Canada. Continuarono gli aiuti ai governi della Grecia e della Turchia, nonché a quello nazionalista del gen. Chiang Kai-shek in Cina, in lotta contro i comunisti. Il presidente Truman, inoltre, propugnò, nel suo discorso inaugurale del 20 genn. 1949, un programma in "Quattro punti" (Point Four program) "per la pace e la libertà", estendendo gli aiuti americani ai paesi sottosviluppati, per la trasformazione delle loro economie, quale mezzo di lotta anticomunista.

Nel 1949, si spegnevano focolai di tensione internazionale, come il blocco posto attorno a Berlino dall'URSS e fronteggiato dagli occidentali con un "ponte aereo", o la guerriglia in Grecia, estintasi specialmente dopo la rottura intervenuta tra l'URSS e la Iugoslavia. D'altra parte, i comunisti cinesi sconfiggevano il governo di Chiang Kai-shek, costringendolo a rifugiarsi nell'isola di Formosa. Né attenuavano questo rovescio le dichiarazioni dell'Acheson che l'imputava alla corruzione del regime nazionalista, o il rifiuto americano di riconoscere il governo comunista, per cui quello di Formosa conservava il seggio spettante alla Cina nel Consiglio di Sicurezza delle N. U. Cosa ancora più grave, l'URSS si rivelava ormai in possesso di armi atomiche ponendo fine all'esclusività sinora goduta dagli S. U. A. in questo campo.

Ciò provocava un'ondata di allarme e di esasperazione nella opinione americana, che si rivolse in primo luogo contro i non molti seguaci del partito comunista negli S. U. A. e contro i loro simpatizzanti o "compagni di viaggio". Si ebbero ripetute condanne di esponenti comunisti, come rei di istigazione alla sovversione violenta della Costituzione, ed una serie di clamorosi processi per spionaggio: si diffuse la voce che gli S. U. A. fossero minacciati da una pericolosa cospirazione. L'amministrazione stessa e l'Acheson in particolare divennero oggetto di violente accuse, che imputavano loro una colpevole debolezza verso il nemico interno. Si trattava di accuse infondate o esagerate ad arte, in cui traspariva a volte il proposito di screditare così l'intera tradizione "liberale" rooseveltiana. Ma bastarono a creare un penoso clima di sospetti, che si aggravò ulteriormente con il complicarsi della situazione internazionale.

Il 27 giugno 1950, le truppe del governo comunista della Corea settentrionale invasero il territorio della Corea meridionale, di recente evacuato dagli Americani, che l'avevano occupato durante la seconda guerra mondiale. Il Truman reagì con fermezza, ordinando l'immediato intervento delle forze degli S. U. A., mentre le N. U. condannavano l'aggressione nord-coreana. Si iniziava così una guerra combattuta in nome delle N. U. e con la partecipazione di contingenti di varie nazioni, ma gravante principalmente sugli S. U. A., il cui gen. D. MacArthur assunse il comando delle operazioni. I nord-coreani, benché avanzassero sino quasi all'estremità meridionale della penisola, furono respinti e contrattaccati nel loro territorio (settembre-ottobre 1950). Seguì però un massiccio intervento di "volontarî" della Cina comunista, che portò ad un nuovo ripiegamento alleato e la situazione fu ristabilita solo con duri sforzi, nei primi mesi del 1951, su una linea poco a settentrione dell'antico confine.

Malgrado l'altissimo tenore di vita e lo stupefacente progresso tecnico raggiunto dagli S. U. A., si era avuta nel 1949 un'incipiente regressione economica, che aveva portato a 3,5 milioni i disoccupati, mentre il costo della vita saliva a causa di una crescente inflazione. La guerra fece sparire recessione e disoccupazione e portò, in contrasto con le vedute dei repubblicani, ad un forte aumento dei poteri del presidente in materia economica, nonché delle imposte e della coscrizione obbligatoria. Ma portò altresì ad una ripresa delle correnti conservatrici e nazionaliste, che non celarono i loro propositi di rivincita su quelle "liberali" ed internazionaliste. Contro il veto presidenziale, fu approvato lo Internal Security Act del sen. P. A. McCarran (settembre 1950), che metteva virtualmente fuori legge i comunisti americani e interdiceva l'accesso negli S. U. A. a quanti fossero stati membri di organizzazioni totalitarie. La "vecchia guardia", capeggiata dall'ex-presidente Hoover e dal senatore Robert A. Taft, sollevò accesi dibattiti in Congresso contro la politica estera del Truman. Lo stesso gen. MacArthur assunse un aperto atteggiamento di sfida, allorché il presidente ne osteggiò i progetti per mettere fine alla guerra di Corea, giunta ormai ad un punto morto, mercé misure contro la Cina comunista, compresa un'offensiva dei nazionalisti, tali da provocare un'aperta conflagrazione.

Il presidente Truman sostituì il MacArthur nel comando con il gen. M. B. Ridgway e quando il primo, al suo rientro negli S. U. A., tentò di suscitare un movimento di destra, fronteggiò con abilità la crisi, la quale infatti sfumò presto in nulla. Pur evitando lo scoppio di una nuova guerra mondiale, tenne fermo anche in Corea, ove nel luglio 1951 si erano iniziati negoziati di tregua, che da parte avversaria venivano artificiosamente prolungati all'infinito, contando di stancare gli Americani. Rafforzò intanto il sistema politico-militare attorniante l'URSS, mercé varî atti, con la firma della pace col Giappone (settembre 1951), gli accordi con l'Australia e la Nuova Zelanda preludenti alla formazione di un sistema difensivo rispetto all'Asia sud-orientale, o quello che poneva fine allo stato di guerra con la Germania Occidentale (agosto 1952), aprendo la via all'ingresso di quest'ultima nella NATO. Promosse infine la costruzione di un'ancora più terribile arma con la "bomba H".

Altra fonte di preoccupazioni era la situazione di Portorico, in preda alla miseria e travagliata da agitazioni, a volte sanguinose, fra cui un attentato (a Washington) allo stesso presidente Truman (1950). La situazione fu però assai migliorata dalla concessione di un'ampia autonomia, per cui l'isola diventava un governo autonomo associato agli S. U. A. (1952).

Nel 1951, era stato votato il 22° emendamento alla costituzione, il quale vietava la rielezione d'uno stesso presidente per più di due periodi, come era accaduto per F. D. Roosevelt. L'anno seguente, si avvicinavano le elezioni presidenziali e l'opposizione raddoppiava i proprî attacchi, sfruttando anche l'impazienza del paese per la mancata conclusione della tregua in Corea, dopo tanto spargimento di sangue (circa 400.000 perdite alleate, di cui 137.000 americane, comprendenti 25.000 caduti). L'eccitazione anticomunista consentiva l'ascesa a temibile potenza d'un demagogo, il senatore J. R. McCarthy (repubblicano, ma favorito altresì da ambienti dell'opposto partito), che si valeva di pubbliche inchieste, da lui condotte con metodi restati tristemente famosi, per una vasta opera di diffamazione e d'intimidazione. Contro al veto del presidente, era votato il Mac Carran-Walter Act (giugno 1952) sull'immigrazione, che ne fissava in 150.000 individui la quota annua, assoggettandola a rigide norme, pur eliminando talune discriminaz10ni razziali. Intanto un'inchiesta del sen. E. Kefauver (democratico) portava a sconcertanti rivelazioni intorno alla delinquenza organizzata ed accuse di corruzione e sperperi piovevano sull'amministrazione, esagerate bensì a fini elettoralistici, ma giustificate almeno nel caso del Dipartimento di Giustizia, il cui titolare dovette essere rimosso dal presidente. Quest'ultimo manteneava del resto l'usata combattività, come apparve in occasione di un grande sciopero nell'industria dell'acciaio, di cui egli fece requisire le fabbriche per indurre il padronato a scendere ad accordi. Benché la Corte Suprema dichiarasse incostituzionale tale requisizione, si giunse ad una composizione della vertenza, con la mediazione del presidente, per cui gli operai guadagnavano notevoli vantaggi.

Caratteristico di questo periodo era altresì l'incremento della influenza cattolica negli S. U. A. In genere, nel dopoguerra, si notava una forte ripresa del sentimento religioso e quindi dell'influenza delle organizzazioni ecclesiastiche. Ma a vantaggio particolare della Chiesa cattolica operavano sia l'ascesa sociale dell'elemento cattolico di origine irlandese, italiana, polacca, ecc., sino a ieri in condizioni d'inferiorità rispetto a quello protestante, sia il clima della lotta anticomunista, che le consentiva di presentarsi come forza anticomunista per eccellenza. Esito negativo ebbero tuttavia richieste di sovvenzioni pubbliche per le scuole confessionali cattoliche, e una proposta, accolta dallo stesso Truman, d'inviare un ambasciatore americano presso la Santa Sede.

Nelle elezioni presidenziali del 1952, il prestigio personale del gen. Dwight D. Eisenhower, presentato come candidato alla presidenza dai repubblicani, trionfò, con una imponente maggioranza, sul "liberale" Adlai E. Stevenson candidato dei democratici. Benché sconfitto, lo Stevenson, riportò però più voti ancora di quelli raccolti dal Truman nel 1948, grazie ad un'eccezionale affluenza alle urne. Nelle Camere, inoltre, i repubblicani riportarono solo una debole maggioranza, che poi perdettero addirittura nelle successive elezioni politiche del 1954.

Il nuovo presidente annunziò di volere riparare agli errori democratici in politica estera, ripulire il paese dalla corruzione e dal tradimento, dargli un governo meno dispendioso e più efficiente. Di fatto, tuttavia, seguì una linea meno distante dal suo predecessore di quella vagheggiata dalla "vecchia guardia" repubblicana: quest'ultima, del resto, perse nel 1953 il suo maggiore esponente, con la morte del sen. R. A. Taft. Le accuse di corruzione furono lasciate cadere, una volta spentosi il clima elettorale. La burocrazia federale fu soggetta a uno scrutinio, che portò a circa 2.000 licenziamenti: ma i democratici poterono obbiettare che si trattava di provvedimenti già predisposti dall'amministrazione Truman oppure di casi che non avevano nulla a che fare con il tradimento. Si ebbero ancora processi per spionaggio, fra cui particolarmente grave fu quello concluso con l'esecuzione capitale dei coniugi Ethel e Julius Rosenberg (1953), nonché misure di legge, come lo Espionnage Act, che introduceva la pena di morte anche per lo spionaggio in tempo di pace, ed il Communist Control Act (1954). Lo stesso Eisenhower, però, dichiarò di voler combattere lo spionaggio vero ma non quello immaginario e mostrò disgusto per il "maccartismo", pure evitando uno scontro diretto col potente senatore. Costui infine si liquidò da solo, con le sue intemperanze, suscitando l'ostilità degli stessi colleghi più conservatori, più allarmati ormai per la sorte delle tradizionali libertà civili che per il pericolo di congiure sovversive. Messo sotto inchiesta dal Senato, finì schiacciato da un severo verdetto di condanna (dicembre 1954).

Modesta altresì fu la riduzione delle spese federali, in quanto l'amministrazione mantenne i vasti impegni internazionali contratti dagli S. U. A. Il nuovo segretario di Stato, John F. Dulles, annunziò una politica più risoluta verso l'URSS, volta non solo a contenere l'espansione comunista ("containment"), ma addirittura a farla retrocedere ("rolling back"). I fatti, tuttavia, furono spesso meno aggressivi delle parole, anche per i mutamenti prodotti nell'atmosfera internazionale dalla scomparsa di Stalin. Si giunse così alla firma della tregua in Corea (luglio 1954), la quale contribuì ad aumentare la popolarità del presidente Eisenhower, ancorché fosse criticata dai democratici come una sorta di capitolazione. Si ebbe un'attenuazione del clima della "guerra fredda", per cui s'incominciò a parlare di distensione internazionale, di pacifica coesistenza fra regimi comunisti e capitalisti o di disarmo. Per la prima volta dopo tanti anni, i rappresentanti delle grandi potenze, riuniti nella Conferenza di Ginevra (luglio 1954), giunsero a conclusioni positive, come una tregua nel Vietnam, da tempo insanguinato dalla lotta tra le forze comuniste e quelle francesi.

Davanti alle profferte distensive sovietiche, il Dulles manteneva un'estrema rigidezza, dichiarando di diffidare della loro lealtà ed insistendo sulla minaccia di massicce rappresaglie atomiche, come "deterrent" per evitare crisi analoghe a quella della Corea, nonché sulla necessità di negoziare solo da posizioni di forza, spingendosi magari sino all'orlo della guerra. Alla tregua nel Vietnam, oppose perciò la creazione della SEATO (South East Asia Treaty Organisation), col patto di Manila (settembre 1954). Di fatto, però, non si addivenne alla creazione di un esercito comune, come quello della NATO, né si andò oltre la conservazione dello statu quo. Si continuò bensì a negare il riconoscimento del governo comunista in Cina e si opposero minacciosi avvertimenti alle velleità di quest'ultimo rispetto a Formosa. Si ebbe cura tuttavia di evitare una ripresa di ostilità anche da parte dei nazionalisti. Anche in Europa, furono attuati il riarmo e l'ingresso nella NATO della Germania occidentale, nonché una particolare collaborazione con il governo spagnolo del generale Franco in sede militare. Tuttavia si ebbe un'evidente consacrazione del nuovo corso distensivo degli affiri internazionali con la Conferenza di Ginevra (luglio 1955), cui parteciparono i capi di stato delle grandi potenze (É. Faure e A. Pinay per la Francia; D. Eisenhower e J. F. Dulles per gli S. U. A.; A. Eden e H. Mac Millan per il Regno Unito; N. Chruščëv, N. Bulganin e V. Molotov per l'URSS). Ivi il presidente Eisenhower propugnò l'adozione di un graduale disarmo reciproco, subordinato all'istituzione di efficienti controlli, atti ad impedire un'improvvisa aggressione. Su questo punto, furono sollevate gravi difficoltà da parte sovietica e fu impossibile arrivare ad un accordo concreto. Si poté però parlare ugualmente di uno "spirito di Ginevra", cioè di una nuova volontà di pacifica coesistenza da parte dei due grandi blocchi mondiali. Continuò bensì la gara tra S. U. A. ed URSS, specie nel campo nuovissimo dei missili, ma sembrò allontanarsi l'incubo di una guerra.

Tra i due blocchi stessi, del resto, stava inserendosi un vasto schieramento neutralistico internazionale, ad opera specialmente dell'India e della Iugoslavia, di cui sembrò consacrazione la Conferenza di Bandung (aprile 1955). Nuovi problemi di politica internazionale si profilavano così per gli S. U. A., a cominciare da quello assai delicato dell'estensione o meno degli aiuti finanziarî ai paesi "neutralisti". E ciò riguardava in specie i popoli afro-asiatici, ansiosi di demolire l'antico sistema coloniale e procurare la propria elevazione economico-sociale, per cui alla gara puramente militare tra S. U. A. ed URSS si sostituiva una competizione nel cattivarsi le simpatie di queste nuove nazioni. Nel 1956, infine, una doppia crisi internazionale veniva ad aprirsi: da un lato, in Ungheria, scoppiava una rivoluzione, sanguinosamente repressa dalle forze sovietiche; dall'altro, in Egitto, si aveva la crisi di Suez con l'attacco franco-anglo-israeliano nella penisola del Sinai e nella zona del canale. Il governo americano, mentre si limitava a deplorare la repressione sovietica in Ungheria, interveniva diplomaticamente con molta energia, per imporre la cessazione delle ostilità e il ritiro degli anglo-francesi. Ma la situazione del Medio Oriente restò assai torbida: anche in Iraq si insediò un governo rivoluzionario, a carattere anti-occidentale e pertanto favorito più o meno larvatamente dall'URSS: i governi vicini del Libano e della Giordania se ne sentirono minacciati tanto da richiedere l'invio di forze americane l'uno e britanniche l'altro a tutela della loro indipendenza (1957). Sia le forze americane sia quelle britanniche furono tosto ritirate, del resto, appena cessò il pericolo immediato di nuovi conflitti.

Anche all'interno degli S. U. A. si stavano delineando problemi nuovi. L'Eisenhower si era attenuto, in materia economico-sociale, a un moderato conservatorismo, favorevole in genere alle imprese private, ma aperto anche a misure popolari, come la creazione di un nuovo Dipartimento per la Sanità, l'Istruzione, il Benessere sociale (1953) o l'estensione dei servizî di sicurezza sociale a nuove categorie (1954), per un complesso di oltre 10 milioni di cittadini, ulteriormente accresciuto da successive disposizioni. La fine della guerra di Corea aveva posto termine altresì al regime di controlli economici e la coalizione tra repubblicani e democratici conservatori aveva riportato un'altra vittoria, sulla questione delle sorgenti sottomarine di petrolio: mentre il Truman ne aveva riservato il controllo al governo federale, la nuova amministrazione ne aveva ottenuto l'assegnazione ai singoli stati rivieraschi, contro il voto dei "liberali" (1953). Il paese infine stava attraversando daccapo una fase di accentuata prosperità, da cui traeva accrescimento la sua fiducia nell'Eisenhower. Ma lo stesso incalzante progresso dell'America poneva ai suoi governanti ardui interrogativi.

L'agricoltura otteneva ormai raccolti talmente copiosi da porre il problema di misure atte a sottrarre parte del suolo ("Banca del Suolo") alla coltivazione, per frenare la crescente accumulazione del "surplus". L'energia atomica veniva impiegata anche a scopi pacifici e quindi imponeva il problema di una maggiore collaborazione con i paesi amici per il suo sviluppo. Le grandi organizzazioni sindacali dell'AFL e del CIO si avviavano alla fusione e cominciavano a prospettarsi, oltre al vecchio problema dell'abrogazione del Taft-Hartley Act, i nuovi problemi derivanti dall'automazione delle industrie. Il rapidissimo sviluppo degli stati dell'Ovest, specie della California, aumentava con pari velocità il loro peso economico e politico, rispetto ai più antichi stati dell'Est o del Sud. Il problema dei negri si faceva incalzante, sia per la loro crescente maturità civile, sia per lo spostamento di masse di colore dal Sud verso i centri industriali. La collaborazione tra repubblicani e democratici meridionali cedeva perciò il luogo ad un rinnovato conflitto tra Nord e Sud.

I "liberali" muovevano all'amministrazione l'accusa di essere fiacca e priva di idee, di fronte ai nuovi problemi interni ed internazionali. Lo Stevenson, pertanto, si ripresentò candidato alle elezioni presidenziali del 1956, lanciando la parola d'ordine di una "Nuova America". In realtà, la parola d'ordine dominante in quell'atmosfera di prosperità era quella della moderazione, cui gli stessi democratici rendevano omaggio di fatto. Quindi l'Eisenhower trionfò daccapo, benché si parlasse assai del declino delle sue energie fisiche: quest'ultimo non ebbe altro effetto che un aumento dell'importanza del vicepresidente Richard M. Nixon. Paradossalmente, però, i repubblicani perdettero altro terreno nelle Camere, a vantaggio dei democratici.

Negli anni successivi, la popolarità del presidente subì qualche diminuzione. L'URSS vantò uno spettacolare successo col lancio del primo satellite artificiale ("Sputnik") attorno alla terra (1957) e mantenne un certo vantaggio nella gara per la conquista degli spazî interplanetarî anche in seguito, benché gli S. U. A. potessero a loro volta lanciare i satelliti "Explorer" e "Vanguard" nel 1958 o vantare le imprese dei sottomarini atomici, come il Nautilus, che compì la prima traversata in immersione della calotta artica. L'economia americana subì una nuova recessione, per cui i disoccupati salirono ad oltre 5 milioni nel 1958. Essa scomparve bensì rapidamente, restituendo il paese all'usata prosperità, ma le misure adottate dall'amministrazione, come nuovi incrementi dell'edilizia popolare o lavori pubblici, furono criticate come inadeguate al pericolo: criticata altresì come insufficiente fu la politica nei confronti dell'agricoltura e del sempre più grave problema del "surplus". Si levarono voci a lamentare i danni prodotti all'Americai nella gara tecnico-scientifica con l'URSS, dai sospetti contro gli intellettuali aizzati a suo tempo dal maccarthismo o dall'opaco conformismo da esso fomentato nel paese.

Proprio in questi anni, d'altro canto, trovavano soluzione antichi problemi, come l'ammissione dell'Alaska e delle Hawaii in qualità di 49° e 50° stato dell'Unione (1959), o si attuavano progetti grandiosi come il canale del S. Lorenzo, per mettere Chicago e i Grandi Laghi in comunicazione con l'Atlantico, o come la creazione, mercé contributi federali, di una gigantesca rete di autostrade, per oltre 60.000 km. Si facevano passi avanti sostanziali nell'eguaglianza di condizioni tra bianchi e negri (v. oltre), e si avviava a soluzione il problema dell'intervento federale nel campo dell'istruzione, mentre feconde critiche investivano i tradizionali sistemi educativi. Una inchiesta del sen. J. McClelland rivelava la corruzione di taluni sindacati o i loro legami con la malavita, portando al Landsum-Griffith Bill (1959), per garantire la democrazia interna delle organizzazioni del lavoro.

Anche nella politica estera si avevano delle novità, specie dopo la morte del Dulles (1959), cui succedette Christian Herter nello State Department. Il presidente assunse iniziative personali per migliorare i rapporti con l'Unione Sovietica, tornati difficili per la questione di Berlino, e creare maggiori simpatie agli S. U. A. nel mondo, compresi i paesi di orientamento "neutralista". Nel 1959 si ebbero pertanto incontri diretti con esponenti dell'URSS, tra cui risonante in particolare quello con il capo dello stato sovietico, N. Chruščëv, in occasione di un suo viaggio negli S. U. A.: dal canto suo, anche l'Eisenhower effettuò lunghi viaggi in varî paesi europei ed asiatici e poi dell'America Latina. Nel 1960 doveva seguire un "incontro al vertice" a Parigi, fra i capi di stato delle grandi potenze mondiali, per giungere ad accordi concreti sulla Germania e sul disarmo. La riunione, però, si sciolse avanti di cominciare, in seguito alle violente proteste sovietiche per la scoperta di voli di osservazione, effettuati da aerei americani sull'URSS. È vero d'altra parte che, sia dagli Americani sia dai Sovietici, si è esternato il proposito di non rompere per questo le trattative per il disarmo. Si è accennato altresì alla possibilità che il progresso tecnico porti di fatto a soluzione il problema stesso del controllo reciproco, su cui sinora si sono arenati i negoziati di disarmo. Sembra invero sempre più difficile che l'una o l'altra delle due grandi potenze possano celare la propria attività ai mezzi di rilevamento, di cui i grandi missili spaziali vengono dotati.

Il problema dei negri. - L'ascesa dei negri alla parità di diritti con i bianchi si è imposta negli ultimi anni come uno dei problemi fondamentali degli S. U. A. Grande importanza ebbero pertanto le decisioni della Corte Suprema, in cui fu dichiarata incostituzionale la segregazione delle due razze nelle scuole pubbliche (1954), contrariamente alla prassi seguita dagli stati del Sud. Questi ultimi reagirono con esasperazione alle decisioni stesse, benché la Corte Suprema raccomandasse solo un'attuazione graduale della desegregazione: una riunione di governatori di varî stati meridionali dette anzi occasione ad un "Southern Manifesto", che mostrava aspri propositi di resistenza. L'amministrazione Eisenhower, però, pur seguendo in genere una linea di cauta moderazione, mostrò chiaramente il suo favore alla desegregazione, abolendo tra l'altro le residue discriminazioni razziali nelle forze armate. L'agitazione dei negri, dal canto proprio, si intensificò, sotto la guida di organizzazioni quali la NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) e con il favore dei "liberali" come lo Stevenson ed altri. Una nobile figura di umanitario, il pastore battista negro Martin L. King, importò nel Sud la tattica della non-violenza di Gandhi, organizzando un pacifico boicottaggio degli autobus a Montgomery (Alabama) per ottenere l'abolizione della segregazione razziale sui mezzi pubblici di trasporto. Al successo della manifestazione, nonostante le brutali violenze dei razzisti estremi, seguì un'altra sentenza della Corte Suprema che dichiarò incostituzionale anche tale forma di segregazione (novembre 1956).

Ormai il problema era posto davanti alla coscienza politica e morale della nazione. Nel Sud stesso, la maggioranza delle Chiese protestanti e l'arcivescovo cattolico di New Orleans esortavano i concittadini ad accettare la desegregazione. Da parte conservatrice si rispondeva facendo appello alle autonomie degli stati, rispetto al potere federale, o trascendendo ad atti di violenza. Questi ultimi assunsero particolare gravità nella cittadina di Little Rock (Arkansas) per impedire l'accesso di scolari negri alla locale scuola media. Ma il presidente rispose energicamente con l'invio di truppe federali per sedare i disordini (1958). In taluni casi, si è cercato di evadere l'ordine di desegregazione con l'espediente di chiudere le scuole pubbliche e riaprirle come scuole private. Altrove però l'iniziale resistenza ha finito con il disgregarsi gradualmente: particolare importanza ha rivestito in questo senso il caso della Virginia.

I negri, negli ultimi due anni, hanno impiegato la tattica della non-violenza anche per ottenere la fine della segregazione nei pubblici esercizî, sfidando l'arresto da parte delle polizie locali o eventuali maltrattamenti. Il maggior problema resta però nell'esercizio del voto, da cui i negri venivano tenuti lontani in varî stati meridionali, mercé disposizioni artificiose, come quelle richiedenti un determinato grado d'istruzione o il pagamento di una imposta per essere elettori. Ma anche questo problema è stato affrontato dal Congresso e risolto, malgrado l'impiego della tattica dell'ostruzionismo da parte di qualche estremista, con l'abolizione delle pratiche discriminatorie (1960). Perché entri in vigore tale abolizione occorrerà ancora qualche anno, in quanto dovrà essere ratificata dalle legislature degli stati. Non sembra dubbio però che essa porterà conseguenze politiche di grande importanza, specie negli stati in cui i negri costituiscono la maggioranza o almeno una importante minoranza della popolazione. Non sono mancati, anche negli ultimi mesi del 1960, episodî clamorosi, quali l'arresto e la condanna dello stesso King o la sporadica comparsa di elementi neo-nazisti addirittura, da una parte, e dall'altra l'apertura a studenti negri di scuole in New Orleans, cioè nel cuore stesso del "profondo Sud".

Le elezioni presidenziali del 1960. - Nel corso del 1960 insorgevano nuove difficoltà internazionali, stavolta nell'emisfero americano stesso e anzi nelle prossimità immediate degli Stati Uniti. Nell'isola di Cuba, ove una rivoluzione capeggiata da Fidel Castro aveva abbattuto la dittatura reazionaria di F. Batista, il nuovo governo avanzava propositi quanto mai radicali per fronteggiare le gravi condizioni economico-sociali del paese, uniti a una violenta ostilità nei confronti degli S. U. A. accusati dal Castro di asservire l'America Latina agli interessi del capitalismo nord-americano. Aspre misure di confisca colpivano così le ingenti proprietà immobiliari o commerciali americane esistenti nell'isola, mentre il Castro ostentava la propria volontà di appoggiarsi sull'URSS contro gli S. U. A. e di estendere ad altri paesi vicini il suo movimento rivoluzionario.

Imponenti problemi creava altresì la rapida emancipazione dell'Africa dal dominio coloniale europeo. Alla guerriglia da anni imperversante in Algeria contro i Francesi, si aggiungevano torbidi sanguinosi nel Congo ex-belga (v. congo, in questa App.). Si offriva così la possibilità all'URSS di nuove iniziative, dirette a mettere in difficoltà gli S. U. A. e i loro alleati, mentre cresceva il peso internazionale dei paesi afro-asiatici. Particolare rilevanza, nel clima della crisi congolese, assunse un'assemblea delle N. U., nel settembre-ottobre 1960, con l'intervento personale del Chruščëv e di una quantità di statisti d'ogni paese del mondo, in cui l'URSS manifestò la sua volontà di giungere a una riforma delle N. U. stesse, in senso più favorevole ai suoi interessi, nonché di attrarre a sé i paesi dell'Asia, Africa e America Latina. In complesso, l'iniziativa sovietica non giunse a risultati decisivi, ma valse ad accrescere le difficoltà e le preoccupazioni degli Stati Uniti.

Tale clima internazionale influenzò notevolmente le stesse elezioni presidenziali del novembre 1960. Nel partito repubblicano si era già profilata un'istanza innovatrice, impersonata dal governatore dello stato di New York, Nelson Rockefeller, di antica e ricchissima famiglia, ma di idee "liberali". Questi però si astenne dal gareggiare per la candidatura, che pertanto toccò al vicepresidente Nixon, caldeggiato dallo stesso Eisenhower. Vi fu bensì uno sforzo del Nixon di guadagnare anche i "liberali", mostrandosi disposto ad accettare molte delle vedute del Rockefeller. In complesso, però, la sua campagna insistette sulla necessità di continuare la politica precedente, fronteggiando l'URSS principalmente sul terreno della potenza militare; esaltò inoltre il prestigio e il benessere raggiunti dagli Stati Uniti, tacciando di disfattismo ogni dubbio in proposito.

Fu candidato democratico il senatore John F. Kennedy, esponente "liberale" e appoggiato da un gruppo d'intellettuali progressisti, arieggiante quello che un giorno aveva affiancato il Roosevelt. Candidato alla vicepresidenza fu invece un esponente moderato dei democratici conservatori del Sud, il senatore Lyndon B. Johnson. Il Kennedy propugnò con energia la necessità d'una svolta politica, asserendo che il prestigio internazionale degli S. U. A. era in declino e che il paese doveva prepararsi a un periodo di sacrifici e difficoltà per riguadagnare il terreno perduto. Dichiarò inoltre che l'URSS doveva essere fronteggiata sul terreno economico-sociale, più che su quello puramente militare, mercé una gigantesca offensiva mondiale contro la miseria, auspicando inoltre che gli S. U. A., pure non deflettendo da misure difensive, cogliessero ogni occasione per negoziati diretti a procurare al mondo una stabile pace e porre fine alla "guerra fredda". In politica interna, ove già tornava a farsi serio il problema della disoccupazione, propugnò un ardito programma di riforme sociali in favore dei meno abbienti, nonché d'interventi federali nel campo scolastico.

L'alternativa politica così presentata all'elettorato era sottolineata dal fatto che ambedue i candidati erano relativamente giovani e di recente notorietà politica. Non v'era dunque un fattore personale paragonabile all'immenso prestigio, con cui lo Eisenhower aveva dominato le elezioni precedenti. Un fattore personale si affacciò comunque nel corso della campagna, essendo il Kennedy cattolico, mentre non v'era mai stato un presidente degli S. U. A. appartenente alla minoranza cattolica anziché alla maggioranza protestante.

Il Kennedy si era già mostrato avverso alla concessione di sussidî alle scuole cattoliche o all'invio di un ambasciatore presso la Santa Sede. Affermò inoltre con energia la sua indipendenza da pressioni confessionali e la sua decisione a mantenere la separazione fra Chiesa e Stato, sancita dalla costituzione. Infine, mentre la gerarchia cattolica si manteneva neutrale tra i due candidati, autorevoli esponenti protestanti condannavano un'eventuale discriminazione a danno del Kennedy per motivi confessionali e lo appoggiavano apertamente. Tuttavia il problema fu largamente sollevato contro il candidato democratico, specie per rompere la compattezza del Sud, tradizionale roccaforte sia del partito democratico sia dei protestanti più conservatori. Ciò portò d'altronde, per reazione, il forte elettorato cattolico dell'Est a schierarsi per il correligionario. La campagna ebbe momenti altamente drammatici e restò incerta nell'esito sino all'ultimo: si ebbe inoltre la più alta affluenza alle urne mai verificatasi in America. Vinse infine il Kennedy con 338 voti elettorali, contro 191 al suo avversario. Votarono per il primo, oltre al Sud mantenutosi in genere fedele ai democratici, i grandi centri industriali con forti masse operaie e notevoli aliquote di cattolici, ebrei o negri. Votarono per il secondo il Middle West e le aree rurali centro-settentrionali ad eccezione dell'Illinois. Le dure resistenze incontrate dal Kennedy si rivelarono altresì nel minimo scarto con cui il Nixon restò sconfitto nel voto popolare su scala nazionale (33.593.374 contro 33.304.645).

I democratici confermarono inoltre la loro maggioranza nelle camere: cessò così la situazione paradossale esistente durante la presidenza dell'Eisenhower, per cui il presidente era fronteggiato da una maggioranza parlamentare appartenente all'opposto partito. Nelle elezioni per il Senato, la Camera dei rappresentanti e i varî posti di governatore, inoltre, si notò un'ascesa significativa dei "liberali" non solo in seno al partito democratico, ma altresì in quello repubblicano.

Bibl.: H. A. Millis e E. C. Brown, From the Wagner Act to Taft-Hartley, Chicago 1950; F. L. Allen, The big change, America transforms itself: 1900-1950, New York 1952; T. H. White, Fire in the ashes, New York 1953; A. A. Berle, 20th Century capitalist revolution, New York 1954; O. Handlin, American people in the twentieth century, Cambridge, Mass., 1954; H. S. Truman, Memoirs, 2 voll., New York 1955 e 1956; L. M. Loodrich, Korea: a study of U. S. policy in the U. N., New York 1956; O. Handlin, Race and nationality in American life, Boston 1957; Council on Foreign Relations, United States in world affairs, New York 1958; M. W. Childs, Eisenhower: captive hero, New York 1958.

Arti figurative.

Architettura. - Dalla fine della seconda guerra mondiale si sono determinate negli S. U. A. le condizioni ideali per lo sviluppo di una architettura moderna: prosperità economica, accettazione delle idee più moderne da parte del gran pubblico - educato anche da musei di avanguardia come il Museum of Modern Art di New York -, forte e rapido movimento al rialzo della proprietà fondiaria. La crescita vertiginosa e non pianificata delle città con le consuete caratteristiche di sovraffollamento, mancanza di verde, ecc., induce gli Americani a trasferirsi, appena le condizioni economiche lo permettano, in zone residenziali, a case unifamiliari con giardino, che circondano per decine di chilometri i vecchi centri. Mentre nasce così alla periferia una nuova città in estensione, servita da centri commerciali, il vecchio centro, abbandonato alla classe meno abbiente, decade sempre più economicamente ed anche esteticamente. Ne conseguono due movimenti di reazione: da una parte gli architetti, i sociologi, gli economisti, cercano di risvegliare l'interesse per la scena urbana, di rimodellare le città sulla base della società attuale, e per questo non si limitano al vecchio centro, ma si dedicano anche alla periferia che sempre condiziona il centro; dall'altra parte intervengono interessi privati a porre un freno alla decadenza del centro. Anche le vicende dell'urbanistica dimostrano quanto sia sempre determinante, negli S. U. A., la funzione dell'iniziativa privata.

A Filadelfia, per esempio, l'amministrazione cittadina tenne nel 1947 una mostra, animata dall'arch. Oskar Stonorov, per lanciare il piano regolatore che prevedeva lo sviluppo della città fino al 1982, articolato in piani sessennali; alla mostra i privati collaborarono attivamente e sostanzialmente per la propaganda e per rispondere al referendum segreto tra i visitatori (400.000) della mostra: il 60% dei cittadini si dichiarava disposto a pagare più tasse per migliorare lo sviluppo della città. Nel 1949 lo stato della Pennsylvania otteneva, con la legge per il risanamento delle città, che il governo federale corrispondesse due dollari per ogni dollaro speso dalle municipalità in acquisto, demolizione e ricostruzione a edilizia popolare, o vendita a privati a prezzo inferiore al costo, delle zone precedentemente occupate da abitazioni malsane (si noti qui, e questo vale anche e soprattutto per New York, che contemporaneamente al movimento di evasione dalla città nasce un movimento inverso per i nuovi nuclei di abitazione costruiti con aiuti federali nelle zone risanate del centro). Altri esempî di piani regolatori totali o parziali richiesti dalle amministrazionl cittadine sono: il Lafayette Park di Detroit per il quale Mies van der Rohe ha progettato (1956) la ricostruzione di un'intera sezione del centro cittadino tenendo conto delle inderogabili necessità di verde per una moderna città industriale; il Golden triangle di Pittsburgh progettato nel 1950; il centro di Fort Worth, Texas, arch. v. Gruen, 1956; il Lincoln Center for the performing arts, a New York, che dovrà essere completato nel 1961 e riunire i più importanti centri musicali della città. Bisogna ricordare anche il Boston Bay commercial and community center per il quale W. Gropius aveva fatto un importante progetto (1953), non accettato, di complesso commerciale, culturale e ricreativo riservato ai pedoni, con parcheggi sotterranei e edifici disposti funzionalmente. Tra gli esempî di centri commerciali intermedî ricordiamo il Southdale shopping center presso Minneapolis (Minn.) del 1956, arch. Victor Gruen, e il J. L. Hudson Company center presso Detroit (1950), arch. Gruen e Hummeck.

Nelle città le case di abitazione vengono spesso sostituite da edifici per uffici: enormi costruzioni che occupano tutto lo spazio disponibile, magari con una accentuata rastremazione dei piani superiori (i cosiddetti wedding cakes) secondo i regolamenti edilizî; queste costruzioni, specialmente negli ultimi anni, sono anche diventate modello di architettura moderna in quanto le grandi aziende hanno avvertito l'importanza agli effetti pubblicitarî di edifici artisticamente validi.

Si ricordano in particolare: Lever House, arch. Gordon Bunshaft della Skidmore, Owings and Merrill, New York 1952; Alcoa Building, arch. Harrison e Abramowitz, Pittsburgh, 1952; il palazzo per uffici per la Mellon National Bank e l'U. S. Steel a Pittsburgh, 1952, arch. Harrison e Abramowitz. che si slancia senza interruzioni per 41 piani e appare come l'ultimo risultato del modulo proposto dal Rockefeller Center a New York, di grande interesse inoltre per l'impiego di varî tipi di acciaio non solo esternamente ma anche a fini costruttivi; Manufactures Trust Company, arch. G. Bunshaft della Skidmore, Owings and Merrill, 1954, New York, il primo esempio di banca fuori dello schema tradizionale, tutta di vetro con la cassaforte visibile vicino alla porta principale; Republic National Bank, arch. Harrison e Abramowitz e G. F. Harrell, Dallas 1954, tutta rivestita di acciaio come l'Alcoa Building; gli edifici dell'Equitable Life, arch. Irwin Clavan e D. P. Higgins, ecc., nel cosiddetto Golden Triangle di Pittsburgh (1954), costituiti da tre torri cruciformi rivestite di metallo; il Mile High Center, arch. I. M. Pei, 1956, Denver, Col., il cui rivestimento di vetro è sorretto da una rete di alluminio e porcellana; Seagram Building, arch. Mies van der Rohe e Ph. Johnson, 1958, New York, ecc.

Per rendersi conto della vitalità dell'architettura moderna negli S. U. A. basti pensare all'eccezionale attività svoltavi dagli architetti che più hanno influenzato l'architettura moderna, come Wright e Mies van der Rohe; solo Le Corbusier non ha mai lavorato negli S. U. A. (salvo la sua collaborazione al palazzo del segretariato delle N.U. a New York), mentre occorre tener presente anche l'attività di numerosi altri architetti europei tra i quali ricordiamo E. Mendelsohn, Eliel Saarinen, A. Aalto, R. Neutra, Pietro Belluschi, W. Lescaze e W. Gropius. Quest'ultimo, chiamato nel 1937 dalla Harvard University a dirigere la sua Graduate school of design, vi ha organizzato, coadiuvato da M. Breuer, l'unica vera scuola teorica di architettura degli S. U. A., notevole per l'eccezionale numero di architetti di alto livello che è riuscita a produrre in breve tempo. Da questa scuola è uscito Paul Rudolph, dal 1958 direttore della scuola di architettura dell'università di Yale, considerato l'esponente più qualificato dei giovani architetti americani. Dal 1953 il Gropius esercita la professione libera con il TAC (The Architects Collaborative).

Come del resto in tutto il mondo, anche negli S. U. A. non vi sono state negli ultimi anni rivoluzioni estetiche paragonabili a quella degli anni 1920-30; si è avuto uno sviluppo soprattutto di carattere tecnico legato, per es., ai perfezionamenti nell'applicazione delle pareti di vetro, degli ascensori, degli impianti per l'aria condizionata, ecc.; sviluppo che naturalmente ha avuto i suoi riflessi anche nell'espressione di nuove forme architettoniche: si pensi al grande successo delle torri di vetro; una delle prime è il palazzo del segretariato delle Nazioni Unite a New York (1950), che è anche stato tra i primi esempî, questa volta su scala internazionale - sotto la presidenza di W. K. Harrison - del sistema di progettazione coordinata nel quale architetti, ingegneri, decoratori, architetti del paesaggio, collaborano strettamente (sistema esperimentato durante la seconda guerra mondiale e ora molto diffuso negli S. U. A.).

Queste torri di vetro possono considerarsi il modulo architettonico più seguito negli S. U. A.; Mies van der Rohe ne ha dato gli esempî più validi (case di appartamenti all'800, Lake Shore Drive, Chicago 1951; Seagram Building, New York, 1958, con Ph. Johnson). Tra le opere più importanti, dal 1948 in poi, di F. L. Wright, fondatore dell'architettura organica e rappresentante - almeno sino a quando si è avuta nell'architettura americana una distinzione regionale (considerando l'architettura delle regioni orientali sotto l'influenza dell'Europa e quella delle regioni occidentali dell'Estremo Oriente, distinzione peraltro ormai scomparsa) - la corrente "americana" per eccellenza, del Middle West, ricordiamo: il negozio V. C. Morris a San Francisco, Cal., 1948, dove appare per la prima volta la spirale attorno a uno spazio circolare; la torre per H. C. Price a Bartlesville, Okla., 1953-56; l'Illinois, cioè il progetto (1956) per Chicago di un grattacielo alto un miglio che avrebbe dovuto contenere 130.000 persone offrendo la possibilità di abbattere l'intero centro cittadino e convertirlo in parco; e infine il Guggenheim Museum a New York, 1956-59, più un divertimento (è una spirale di cemento condizionata da luce e spazio) che non un museo funzionale.

Il basso costo dell'acciaio, le grandi possibilità offerte dall'uso dei materiali plastici e dallo sviluppo stesso delle applicazioni tecniche, l'impulso di ingegneri esperti nel calcolo delle più ardite strutture e di architetti di avanguardia, danno luogo a quella che potremmo definire una architettura "sperimentale".

Si è potuta realizzare una casa composta da un unico ambiente tutto in vetro e acciaio e da un altro in mattoni per i servizî (di Ph. Johnson a New Canaan, Conn., 1949), più pittorica e agile della casa per E. Farnsworth di L. Mies van der Rohe a Plano, Ill., (1950), costituita essenzialmente da pareti di vetro tra due piani orizzontali sostenuti da otto colonne di acciaio (con i servizî rinchiusi da pareti di legno in uno spazio a lato dell'ambiente principale). Le ricerche di Buckminster Fuller, iniziate nel 1917, per racchiudere il maggior spazio possibile entro un involucro continuo, sono sfociate nelle cupole geodetiche (1952 e segg.), uno degli esempî più cospicui di quei divertimenti architettonici che solo in questi ultimi anni sono accettati dal gran pubblico anche per le loro applicazioni funzionali: si pensi agli hangar di K. Wachsmann, alla casa a forma di cupola realizzata (1953) da P. Soleri e Mark Mills a Cave Creek, nel deserto dell'Arizona, alla casa per David Wright, Phoenix, Arizona, di F. L. Wright (1952). Sempre nel campo dell'architettura sperimentale va considerata quella che possiamo chiamare "architettura plastica": il già citato museo Guggenheim a New York, di F. L. Wright, l'arena a Raleigh, Carolina del Nord, arch. M. Nowicki e F. Severud con W. H. Deitrick (1953-54), dove due archi parabolici si incontrano e sostengono i cavi di acciaio sui quali poggia la leggera copertura; la casa dell'arch. E. F. Catalano a Raleigh, Carolina del Nord (1955), col tetto a parabola iperbolica; l'edificio delle assemblee costruito (1957) per la mostra internazionale di Berlino, arch. H. A. Stubbins e associati con il contributo dell'ing. Fred Severud, dal soffitto concavo; il Kresge auditorium del Massachusetts Institute of Technology, Cambridge, Mass., di Eero Saarinen (1955).

Concludendo, si può quindi affermare che negli S. U. A. non possiamo individuare un orientamento unitario ma contemporaneamente si sviluppano l'architettura organica di Wright, il razionalismo di Gropius e Saarinen, la ricerca di nuove forme attraverso nuove tecniche di B. Fuller, l'architettura perfettamente lineare (ispirata alle teorie pittoriche di Mondrian) di Mies van der Rohe, e un'architettura che, quasi ispirandosi alle case curvilinee dei primi uomini, sembra esprimere un tentativo di evasione da quella struttura a parallelepipedo che da tempo immemorabile definisce gli edifici eretti dall'uomo per sua abitazione.

Negli S. U. A. è stato anche raggiunto un alto grado di qualità da edifici di pubblica utilità, quali, per es., le scuole dell'arch. Maynard Lyndon, i shopping centers (centri commerciali) di V. Gruen, gli impianti industriali della gigantesca impresa di Alberth Kahn il cui primo esempio era stato il Dodge truck plant a Detroit, Mich. (1938), l'impianto caldaie dell'Illinois Institute of Technology, arch. L. Mies van der Rohe, Chicago (1950); il centro tecnico per la General Motors, arch. Eliel e Eero Saarinen, a Warren, Mich. (1946-55); l'aeroporto Lambert-St. Louis in St. Louis, Missouri 1953-55, arch. G. F. Hellmuth, M. Yamasaky e J. W. Leinweber, e l'aeroporto internaz. di Idlewild, Queens, N. Y., ai cui numerosi edifici hanno lavorato Eero Saarinen e associati per la TWA, Raymond e Rado per la KLM, Skidmore, Owings e Merrill per il palazzo degli arrivi, ecc.

Pittura. - Negli S. U. A. tutte le correnti pittoriche hanno il loro pubblico. La pittura non figurativa, la più vitale intorno alla metà del secolo, sta ritornando in questi ultimissimi anni verso motivi vagamente figurativi, eccezion fatta per la pittura calligrafica di ispirazione orientale che ha i massimi esponenti in M. Tobey, B. W. Tomlin (m. 1953), M. Graves. Se identifichiamo in un certo gusto surrealistico la componente più costante dell'arte americana da Albert P. Ryder in poi (esempî se ne trovano anche in certe manifestazioni pubblicitarie nonché in alcune vignette nelle quali talvolta è anche presente il gusto per l'orrido, come, per es., in Chas. Addams), si deve notare come il surrealismo abbia dato i suoi frutti anche nell'opera di quei pittori espressionisti-astratti che si possono collegare alla precedente generazione attraverso John Marin (morto nel 1953). Importantissimo per l'influsso sulle nuove generazioni è stato Hans Hofmann che portò a New York da Monaco e Parigi le nuove concezioni di articolazione dello spazio attraverso un trattamento espressivo del colore. Capostipite degli espressionisti astratti è Arshile Gorky (m. suicida nel 1948); dopo la fine prematura di J. Pollock i rappresentanti più affermati di questo gruppo sono W. de Kooning, R. Motherwell e Philip e Guston, che, con immagini astratte, piene di suggestioni evocative, spesso oscure e per lo più violente, hanno cercato di dissuadere lo spettatore da ogni tentazione di guardare all'arte come a un mondo di evasione. La loro pittura è stata definita "pittura d'azione" (action painting). Artisti della generazione precedente, quali il romantico interprete della natura del Middle West, Charles Burchfield, o Peter Blume (del quale non si vuole dimenticare la polemica e simbolista Città eterna del 1932), o E. Hopper poeta della solitudine, della desolata disperazione delle città, sono permeati di un surrealismo simbolista che è ancora più riconoscibile, oggi, nelle astrazioni visionarie di Morris Graves e Loren Maclver, e nelle statiche forme primordiali di W. Baziotes o di Th. Stamos.

Nelle correnti realistiche, ovviamente, troviamo gli unici riecheggiamenti di regionalismo nella pittura americana, regionalismo che peraltro oggi come oggi può essere considerato come definitivamente scomparso.

Jack Levine, che con mezzi espressionisti denuncia le ambizioni umane, può essere annoverato, con Ph. Evergood, tra i realisti più propriamente sociali che hanno dato le loro opere più valide negli anni tra il 1929 e la fine della seconda guerra mondiale e il cui rappresentante più significativo, Ben Shahn, in questi ultimi anni si è lasciato tentare da una sorta di astrattismo che ha tolto molto all'aggressività della sua arte. L'ultimo prodotto della pittura realistica è una pittura alquanto manierata, con effetti di tromp-l'oeil, ma, come si può notare nel suo più illustre rappresentante A. Wyeth, piena di simbolismi sentimentali e sempre ispirata alla scena americana; pittura che tanto nello spirito quanto nella tecnica trova il suo precedente nello stile regionale, permeato di satira, di Grant Wood (1892-1942) oltre che nella fotografia, arte che negli S. U. A. ha raggiunto livelli altissimi.

Un discorso a parte bisogna fare per Franz Kline le cui grandi astrazioni in bianco e nero sono collegate alla pittura calligrafica di Tomlin da una parte e dall'altra agli espressionismi astratti di de Kooning, Clifford Still e Mark Rothko infine, con quel loro ridurre la pittura a puri rapporti di colore e superficie, nel senso più letterale, sembra rappresentino l'aspetto più rivoluzionario e più americano della pittura negli S. U. A., in quanto il loro modo di dipingere non ha alcuna relazione con i moduli pittorici tradizionali.

Altissimo livello hanno raggiunto negli S. U. A. le arti grafiche. L'Atelier 17, che da Parigi si era trasferito a New York prima della seconda guerra mondiale, fu al centro dei contatti tra artisti stranieri e statunitensi e della diffusione delle nuove tecniche sotto la guida di S. W. Hayter. Maestro importantissimo per la diffusione della silografia a colori è stato L. Schanker, e oggi sono centri importanti dell'arte grafica il Graphic department della univ. di Iowa sotto la guida di Mauricio Lasansky (n. a Buenos Aires nel 1914, trasferitosi negli S. U. A. nel 1943) o quello dell'università di Yale sotto la guida di Gabor Peterdi (nato a Budapest, 1915). Si distinguono nel campo delle arti grafiche, oltre che personalità già affermate in altri campi come lo scultore Leonard Baskin o il pittore Ben Shahn, numerosi altri artisti tra cui ricordiamo: Adja Yunkers, Will Barnet, Max Kaim, Richard Zoellner, Karl Schrag, Misch John, Arthur Deshaiss, Seong Moy, ecc.

Scultura. - Per la scultura valgono in parte le considerazioni generali fatte per le altre arti pur tenendo in dovuto conto, per questione di proporzioni, la minore accessibilità delle sculture alle case private. La difficoltà è in parte ovviata negli ultimi anni dagli architetti che si valgono di opere scultorie non solo a fini decorativi, ma anche architettonici: v. per es. la bassa costruzione in acciaio a forma di albero davanti al Graduate Center della Harvard University di R. Lippold o, dello stesso, la costruzione (1958) per l'entrata dell'Inland Steel building di Chicago (arch. L. Skidmore, N. A. Owings e J. O. Merrill); la grande scultura (1951) di H. Ferber, Il roveto ardente per la facciata della sinagoga della Congregazione B'nai Israel a Millburn, N. J. (nel cui interno è un affresco di R. Motherwell); l'enorme mobile di A. Calder (1957) per l'entrata del palazzo degli arrivi all'aeroporto di Idlewild.

Tipici degli scultori americani sono il particolare interesse al materiale e la maestria nella saldatura dei metalli derivata da Picasso e González: tali fattori; insieme a quella componente surrealistica, che ci pare caratteristica dell'artista americano, hanno fatto sì che sia sorto in America un artista come A. Calder le cui fantastiche costruzioni mobili e stabili ci sembra si rifacciano con una buona dose di humour yankee alle esperienze pittoriche di Miró. La tendenze più valide nella scultura americana oggi sono quelle dei seguaci della tradizione astratta di Arp, Brancusi e Moore, i quali si possono distinguere a grandi linee in due gruppi: quello dei costruttivisti (Gabo, Lippold, Lassaw, che cercano di trattenere lo spazio in una rete leggera e calcolata al massimo, estrinsecazione del loro distacco programmatico dalla vita che li circonda); e quello degli espressionisti-astratti che forse sono soprattutto debitori ai simbolismi di Giacometti e González e che sono nell'espressione e negli scopi proposti l'esatto equivalente degli espressionisti-astratti in pittura. È questa la corrente che offre oggi maggior numero di artisti di talento; nella durezza stessa del materiale che cercano di piegare ai loro fini, essi manifestano una continua esplorazione di nuovi campi; ricordiamo tra i più affermati: Th. J. Roszak, David Smith, Seymour Lipton, H. Ferber.

Bibl.: Architettura: S. Giedion, A decade of new architecture, Zurigo 1951; H. R. Hitchcock e A. Drexler, Built in U. S. A.: post-war architecture, New York 1952; The future of cities and urban redevelopment, a cura di C. Woodbury, Chicago (testi di autori varî); B. Zevi, Storia dell'architettura moderna, Torino 1955; Ch. Tunnard e H. Hope Reed, American skyline, Boston 1955; John Peters, Masters of modern architecture, New York 1958; D. H. Webster, Urban planning and municipal public policy, New York 1958; Jan McCallum, Architecture U. S. A., New York 1959; Zodiac, 8, 1961 (numero interamente dedicato agli Stati Uniti); Architectural Forum, rivista mensile pubblicata a Boston. - Pittura: J. I. H. Baur, Revolution and tradition in modern American art, Cambridge, Mass., 1951 (trad. it.: Le arti figurative in America, 1900-1950, Roma 1954); J. J. Sweeney, Younger American painters, New York 1954; J. I. H. Baur e altri, New art in America: fifty painters of the 20th century, Greenwich, Conn., 1957; J. I. H. Baur, Nature in abstraction, New York 1958; Art since 1945, Londra s.d. (ma 1959) (trad. it., L'arte dopo il 1945, Milano 1959). - Scultura: A. C. Ritchie, Sculpture of the 20th century, New York 1952; C. Giedion-Welcker, Contemporary sculpture, ivi 1955; John Lynch, Metal sculpture, Londra 1957.

Letteratura.

Con la fine della seconda guerra mondiale ha inizio, grosso modo, un periodo che può dirsi di riordinamento e ripensamento. La letteratura americana si diffonde in questi anni in maniera spettacolosa non solo all'estero (in Italia i saggi critici relativi alla letteratura americana si quadruplicano rispetto a quelli apparsi nel ventennio 1928-48), ma negli stessi Stati Uniti. I raffinati e agguerriti centri di critica letteraria e di studî americani sono, anche per l'America, creazione recentissima, mentre, sempre in questi anni, si rafforzano i cenacoli sorti intorno alle riviste letterarie, e talune delle glorie di un passato ancora recente ricevono gli allori di un riconoscimento internazionale: è del 1949 il conferimento del premio Nobel per la letteratura a W. Faulkner, mentre nel 1954 lo stesso premio veniva aggiudicato a E. Hemingway.

Ragguardevole è la mole della produzione letteraria di questi anni: accanto ai prodotti delle nuove e nuovissime leve, le pubblicazioni d'importanti raccolte o di nuove opere degli esponenti della generazione precedente costituiscono importanti avvenimenti e talora importano nuove scoperte letterarie. E tuttavia chi, anche in virtù di un ovvio parallelismo esterno, ha cercato di ritrovare in questo periodo i segni della straordinaria vitalità creativa degli S. U. A. del primo dopoguerra, ha finito per notarvi piuttosto l'impronta di una civiltà più sofisticata e consapevole ma anche meno aggressivamente assertiva, di uno stile tanto più scavato e sensibile ai valori più riposti della tradizione quanto meno propenso all'esasperato ma generoso sperimentalismo formale degli anni tra il 1920 e il 1930, di una protesta sociale circoscritta a determinati temi e motivi ambientali o razziali, ovvero adombrata, sfumata e distorta nell'ambiguità più squisita del simbolo poetico anziché francamente puntata alle fondamenta stesse della vita dell'individuo e della società. In sostanza una letteratura spesso paga di sé stessa, o di sé stessa soltanto sofferente, cui la raggiunta consapevolezza storico-psicologica o addirittura un eccesso di tale consapevolezza sembrerebbe impedire libertà e sincerità d'espressione.

Queste ed altre spiegazioni d'ordine parasociologico e parapsicologico s'incontrano in tutte le trattazioni sistematiche della più recente letteratura americana e si riallacciano certamente all'immagine mitica ma insopprimibile di un'America letteraria che avrebbe trovato solo nella propria ingenuità e nel proprio candore incontaminato l'impulso, oggi irripetibile, di una grande stagione creativa. Ma anche a prescindere da questa valutazione più impressionistica che storica, varrà rilevare che la letteratura prodotta in questo decennio, pur copiosa e di alto livello, ha senza dubbio alcuno attraversato una fase che qualcuno ha giustamente definito "reazionaria", e che tale prevalente atteggiamento, in sostanza estraneo alla breve storia letteraria americana, ha necessariamente sconcertato il lettore ed il critico.

La critica. - L'età di cui ci occupiamo è stata anche definita più volte come "l'età della critica". E certo, come si accennava poco sopra, gli umori culturali e intellettuali già preparati dagli anni tra il '20 e il '40 si convogliano in questi anni in vere e proprie scuole critiche. È stato notato, ed è comunque sempre interessante sottolineare, come tutti o quasi tutti gli scrittori più notevoli e produttivi di questi anni abbiano anche svolto opera di critica militante, come molti di essi abbiano insegnato in università e in scuole specializzate, come le riviste letterarie, una volta prevalentemente riservate alla letteratura creativa, abbiano dedicato alla critica un posto che va ormai divenendo anche troppo invadente.

La più nota delle scuole critiche americane, anche perché essa ha avuto la più larga diffusione nelle università e attraverso le riviste letterarie, è il cosiddetto "New Criticism" che in questi anni appunto ha avuto la sua massima fioritura e che soltanto negli ultimi tempi va avvertendo di aver forse esaurito il meglio del proprio compito culturale e storico.' Il New Criticism, che taluno ha ben ravvicinato alla critica ermetica italiana (pur non condividendo di questa tutte le posizioni), prende l'avvio da quel movimento di critica estetica o "critica pura" iniziata da E. Pound e filtrata nei decennî successivi attraverso la straordinaria mediazione degli scritti di T. S. Eliot. Un influsso, quello dell'Eliot, che può solo venir paragonato, anche se limitatamente al campo della letteratura, a quello di Croce in Italia.

Il New Criticism nasceva, come denominazione, dal titolo di un libro di John Crowe Ransom (v.) del 1941, che tuttavia sotto questa etichetta non voleva indicare una scuola dai limiti ben precisi ma includeva, ad esempio, nella raccolta, un critico come I. A. Richards, che si distacca alquanto dalla critica rigorosamente basata sulla pagina e sulla parola scritta, da cui risultino assolutamente escluse il maggior numero possibile di considerazioni non intrinseche alla forma dell'opera d'arte. Teorici principali della corrente furono, oltre al Ransom che ne diresse le fila dalle pagine di due riviste letterarie, The fugitive dal 1922 al 1925, e Kenyon Review dal 1939 ad oggi, Allen Tate (v.) e Cleanth Brooks (anche se quest'ultimo in una introduzione ad una antologia della critica americana del 1949 (v. bibl.) ha tentato di ampliare il concetto e la definizione di New Criticism, abbracciando in un nuovo ed ancor più vago termine di "Modern Critics" altre diverse ed eterogee posizioni. Altri importanti esponenti della scuola furono Y. Winters, A. Warren. R. P. Blackmur; e ancora, più recentemente, R. P. Warren e R. Lowell.

Al New Criticism e alla sua dittatura letteraria si oppone in maniera programmatica e unitaria il gruppo della scuola di Chicago che, rifacendosi ad Aristotele e S. Tommaso, ha tentato una sistemazione filosofica e filosofico-morale dell'opera e dell'attività critica (Richard McKeon, The philosophic bases of art and criticism, in Modern Philology, novembre 1943 e febbraio 1944). La presa di posizione ufficiale del gruppo nei confronti dei New Critics è del 1948 (N. F. McLean. Cleanth Brooks: critical monism, in Modern Philology, maggio 1948).

Ancora ad Aristotele, ma su un livello più nomenclativo che filosofico, si rifà un singolare critico, Kenneth Burke, il cui eclettismo asistematico è peraltro riscattato da una sottilissima sensibilità e vivacità di lettura critica. L'opera del Burke si è recentemente arricchita di due volumi (A grammar of motives, 1945; A rhetoric of motives, 1950) che hanno continuato e completato l'esposizione delle sue teorie estetiche iniziata con Counter-statement (1931) e Tbe philosophy of literary form (1941). Nonostante l'imponenza di questa quadrilogia, il Burke critico resta tuttavia pregevole piuttosto per l'acutezza di alcune analisi di singole opere, in ispecie della narrativa di Joyce e di alcuni drammi shakespeariani, che non per il rigore del sistema. Benché per sua dichiarazione autodidatta che non si ricollega ad alcuna scuola specifica e non ne forma alcuna che possa esser detta propriamente tale, il Burke ha in un più giovane critico, Edgar S. Hyman, un ammiratore e continuatore sulla strada di una critica sensibilissima ai valori semantici ma anche direttamente influenzata dalla critica marxista e freudiana degli anni tra il 1930 e il 1940. Il suo The armed vision: a study in the methods of modern literary criticism, del 1948, è oggi arrivato alla sua decima edizione.

Ma nell'attuale panorama della critica americana due figure si ergono incontestabilmente al di fuori ma anche al di sopra delle scuole e dei gruppi: F. O. Matthiessen e Edmund Wilson. Il primo (1902-1950) ebbe come insegnante (professò ad Harvard dal 1942) forte efficacia formativa. Alle sue opere più antiche (Sarah Orne Jewett, 1929; The achievement of T. S. Eliot, 1935, ediz. riveduta, 1947; American Renaissance: art and depression in the age of Emerson and Whitman, 1941; Henry James: the major phase, 1944; The James family, 1947; The notebooks of Henry James, 1947, editi in collaboraz. con K. Murdock; From the heart of Europe, 1948) si sono aggiunti tre volumi: The Oxford book of American verse (1950), Theodore Dreiser (lasciato compiuto e pubbl. postumo, 1951), The responsibilities of the critic (1952, raccolta postuma di saggi critici, a cura di J. Rackliffe) i quali, sebbene più modesti per impostazione e per intenti, confermano la sintesi critica operata dal Matthiessen, in cui la critica biografica storica e psicologica e soprattutto sociale si allinea a una critica formale e anche puramente estetica. Quanto al secondo, che è stata una delle voci più vive ed autorevoli dell'America letteraria per almeno un ventennio, le sue ultime pubblicazioni sono Classics and commercials: a literary chronicle of the Forties, del 1950, e The shores of light: a literary chronicle of the 20s and 30s, del 1952. Nello Wilson l'immediatezza della percezione critica si accoppia a straordinaria lucidità espressiva: sicché la sua opera, pur nell'eterogeneità dei temi, degli interessi, delle fonti culturali, riesce, attraverso oltre trent'anni, a mantenere intatto il proprio alto livello, e la propria intima unitarietà e coerenza.

Al genere di critica personificata da Wilson e da Matthiessen, una critica che potremo definire liberale nel senso più ampio e comprensivo del termine e a cui non è peraltro estranea qualche eco di crocianesimo giunto in America nel 1910 attraverso la mediazione dello Spingarn. si ricollegano altri critici della "generazione di mezzo", fra i quali si ricordano: Renee Wellek, Alfred Kazin, Lionel Trilling, Harry Levin e Morton D. Zabel.

Poesia. - Direttamente collegata all'eccezionale fioritura critica è l'altrettanto notevole fioritura della poesia americana di questi anni. Tra l'altro, come si accennava, non pochi degli esponenti principali della prima sono anche figure di particolare rilievo nella seconda. Le scuole e le riviste letterarie hanno, anche nella formazione dei giovani poeti, importanza e rilievo decisivi, sicché attraverso di esse principalmente si estrinseca, direttamente o mediatamente, quella dittatura eliottiana e poundiana di cui si è detto. A questa più recentemente doveva aggiungersi il peso della presenza fisica, poetica ed editoriale di W. H. Auden negli Stati Uniti. Il valore, e i limiti, di questi influssi sono stati variamente interpretati e valutati, ma comunque da essi non può prescindersi se si voglia tracciare un valido panorama della poesia americana del secondo dopoguerra.

Giungono, intanto, al pieno sviluppo in questi anni taluni dei germi proprî degli anni intorno alla prima guerra mondiale, e anche anteriori. Sicché la pubblicazione di libri come la completa edizione critica dell'opera di Emily Dickinson, a cura di T. H. Johnson (The poems of E. D., Cambridge, Mass., 1955) o come gli ultimi volumi di Ezra Pound (The Pisan cantos, 74-84, 1948; The cantos of E. P., 1-84, 1948; Section: Rock-Drill, 85-95, de los Cantares, 1956) o la riedizione di Personae: the collected poems (New York 1950) o, ancora, Paterson Book II (1948), Book III (1949), Book IV (1949), Book V (1958) di William Carlos Williams, sono avvenimenti letterarî che caratterizzano e definiscono l'ultimo decennio quanto e forse meglio delle voci nuove e nuovissime, tanto il clima poetico e culturale attuale è ancora strettamente legato all'humus sentimentale e intellettuale che li ha inizialmente espressi. Accanto ai nomi citati, molti i poeti della generazione anziana che pubblicano in questi anni libri o ristampe di notevole rilievo. Da Marianne Moore (Predilections, 1955; Like a bulwark, 1956) a E. E. Cummings (χαῖρε, 1950; 95 poems, 1948), da Robert Frost (A masque of mercy, 1947; Complete poems of R. F., 1949) a Wallace Stevens (Collected poems, 1954; Transport to summer, 1947; The auroras of autumn, 1950), da Allen Tate (Poems, 1920-1945, 1947) a John Crowe Ransom (Poems and essays, 1955).

Quanto alla generazione di "mezzo", la cui opera poetica appare quasi per intero in questo periodo, essa, benché sentimentalmente e contenutisticamente condizionata dall'esperienza della guerra, giunta a dare diversa colorazione e direzioni agli interrogativi della "Waste land" e al suo puritanesimo intriso di fremiti classici, si esprime pur sempre in forme e maniere che le derivano dalla poesia immediatamente precedente. Abbiamo così che anche il richiamo a una più immediata e diretta effusione lirica, espresso in modi diversi da un Peter Viereck (vedi soprattutto il suo Terror and decoration del 1948, che gli frutta nello stesso anno il premio Pulitzer) e da un Karl Shapiro (v. in Mid-Century American poets, New York 1950, a cura di J. Ciardi, le sue dichiarazioni in questo senso) si risolvono, in sostanza, in espressioni poetiche di estremo controllo formale, in cui anche la sensualità più calda e scoperta, o il sentimento più accurato e cocente (vedi per esempio alcune delle poesie di guerra) o il più desolato senso d'isolamento si compongono nell'esercizio di una maestria che talora purtroppo attenua le linee fondamentali del disegno fino a soffocarle affatto. Abilità formale e tecnicismo puro, uniti a una sottile attitudine a captare gli echi dei proprî tenui momenti sentimentali nelle voci dei poeti della tradizione americana, sono anche, e anzi in forma precipua, le caratteristiche della poesia di un poeta più giovane, Richard Wilbur, in cui, appunto, è maggiormente evidente quella ricerca di "comporsi nella composizione" cui aveva alluso Robert Frost e cui sembrano partecipare tutti i suoi contemporanei.

La poesia di Robert Lowell, invece, pur essa stessa estremamente polita ed elaborata formalmente, e pur arricchita da tutti gli apporti culturali cui si è alluso, oltre che chiaramente consapevole del peso, non solamente culturale, della tradizione, sembra vibrare di più profonda e costante vena sentimentale, e nutrirsi di più solida e umanamente viva materia poetica. Buona, se non altissima poesia, è comunque tutta quella di questa generazione. Da Elizabeth Bishop (North and South, 1946; A cold spring, 1955) a John Ciardi (As if, 1955a, da Randall Jarrell (v.) a Richard Eberhart (v.). Tra tutti spicca la nervosa intensità della poesia di Theodore Roethke (The lost son, 1949; Praise to end, 1951; The waking, 1953), piena di genuino, umano fervore.

Quanto alla generazione più recente, che taluno, con riferimento ad analoghe situazioni europee, ha definito la "quarta generazione", essa non sembra ancora aver trovato modi e tono che la caratterizzino sostanzialmente. Eppure diversa avrebbe dovuto essere la sua dalla problematica precedente, come profondamente diverso era l'ambiente materiale e spirituale dell'America in cui essa si trovava a sopravvivere e a tentare di riconoscersi; e diversamente avrebbe dovuto porsi ad essa il problema formale dell'espressione poetica, ormai radicalmente trasformato e sconvolto da quarant'anni di sperimentalismo. E tuttavia, vuoi che questa poesia di giovani e giovanissimi uscisse dalle aule delle grandi università (da Hecht a Horan, da Hoffman a Howes) ed essi esasperassero fino alla sofferenza propria e del lettore il gioco di equilibrismo formale iniziato dai proprî maestri, vuoi che incontratisi a Harvard, come John Ashberg, Kenneth Koch, Frank O'Hara, si dirigessero poi alla conquista di New York e del teatro sperimentale, vuoi, ancora, che muovendo invece dalle caves newyorkesi come Allen Ginsberg, Jack Kerouac o Gregory Corso finissero per godere con il gruppo di San Francisco (da Lawrence Ferlinghetti a Charles Olson, a Marcia Landi) di un'improvvisa popolarità che si è straordinariamente riverberata in Italia, non sembra comunque che essi ci stiano dicendo cose nuove, né che le dicano in modo nuovo. Cosi l'elegante arabesco verbale degli uni come la calcolata intemperanza vocale degli altri, destano echi ben noti che lo stesso apparente avanguardismo finisce ironicamente per retrodatare. Vero è che la maggior parte di questa ultimissima produzione poetica americana è uscita finora in sparse pubblicazioni universitarie o d'avanguardia, e ne manca quindi ovviamente una visione panoramica e d'insieme, ma vale pur sempre per il momento annotare che in tanto fiorire di versi non si dà, per ora, la gioia magari effimera di una lettura fresca e promettente, o di una scoperta viva anche se eventualmente destinata a venire in seguito delusa.

Narrativa. - È questo il campo su cui maggiori si appuntano le critiche e che maggiormente sembra subire e dimostrare il processo involutivo cui si accennava prima. Mentre i ribelli di ieri divengono in questi anni glorie acquisite e all'Hemingway di Across the river and into the trees (1950) e di The old man and the sea (1952) si dànno premî e si dedicano monografie, mentre un autore difficile e controverso come Faulkner conquista per la prima volta il favore del pubblico dei lettori e la sua moralità riposta e tormentata si fa più scoperta e palese; mentre gli stessi romanzi postumi di Dreiser (The bulwark, 1946, e The stoic, 1948) sembrano indicare un'ispirazione mistica; mentre si attenua il naturalismo di Farrell e di Dos Passos e lo stile dell'ultimo Sinclair Lewis (The God seeker, 1949; World so wide, 1951) si fa più sobrio e contenuto, l'America di tanto in tanto acclama una nuova scoperta troppo spesso destinata ad essere smentita dai fatti successivi o a rimanere isolata (è il caso di From here to eternity di James Jones e di The man with the golden arm di Nelson Algren).

L'impeto di ribellione e di rivolta che aveva sostenuto le generazioni precedenti, così spesso coincidente, nella sua espressione artistica, con la scoperta crudele ma salutare della violenza, ha probabilmente esaurito la sua forza vitale, sicché taluno può oggi osservare che non resterebbe ai giovani che "ribellarsi allo stesso spirito di ribellione", e altri che il nuovo realismo si fa spesso "mera brutalità o fotografia".

Nello stesso tempo, più acuta diviene presso i giovani narratori, e non dissimilmente da quanto si è osservato per la poesia, la consapevolezza del problema formale e la tendenza a intessere nel proprio tessuto narrativo innumeri e sottili trame simboliche. C'è, in sostanza, un'esasperazione di tutti i valori già presenti nella letteratura degli anni tra il 1920 e il 1940, con una decisa tendenza dell'ultima leva a scavalcare l'esperienza sentimentale, oltre che letteraria e politica, del decennio tra il '30 e il '40 per rifarsi direttamente al clima della "generazione perduta" del '20.

Anche Faulkner fa scuola, e alla presenza della sua opera, cui peraltro si aggiungono apporti diversi e compositi dell'esperienza e della sensibilità moderna (da Kafka a Proust, da Joyce a Henry James ed Hawthorne), si deve il sorgere della cosiddetta "Mississippi Delta School" che raduna scrittori intelligenti e preziosi come Eudora Welty (The ponder heart, 1950), Carson McCullers (The member of the wedding, 1946; The ballad of the sad cafe, 1951) o lo stesso Truman Capote (v.) che pure si ribella all'etichetta regionalistica. Un caso a sé è quello di Robert Penn Warren (v.), le cui massicce rievocazioni storiche sembrano mostrare una più salda struttura narrativa, la cui tematica, pur risentendo in egual misura degli altri contemporanei e conterranei del fitto e ricco terreno culturale che la produce, non sembra rifuggire al pari di essi dai grandi conflitti drammatici, e la cui immaginazione ha spesso intensità e potenza sì da ben riscattarne il latente intellettualismo.

Nella narrativa, più ancora che nella poesia, si è avuto negli ultimissimi anni l'esplosione del fenomeno (nella sua realtà modesto) della "Beat Generation"; una letteratura, e più ancora, un costume di un esistenzialismo post-litteram nutrito di filosofia Zen, di jazz e di espressionismo astratto. Nel campo del romanzo i beats hanno trovato in Jack Kerouac (v.) il loro interprete e, successivamente, il loro corifeo in Norman Mailer (v.), uno scrittore di più sicuro temperamento e di più certa vocazione. Nonostante questo contributo, il movimento non appare veramente centrale alla storia della cultura americana; più che allinearsi col "ribellismo" che ha in America autorevoli precedenti, esso appare inserito in quella più marginale corrente di protesta rappresentata da circa settant'anni di bohème americana, in ispecie newyorkese, i cui limiti di azione e reazione appaiono irrimediabilmente tracciati dalla confusione ideologico-culturale e da una fondamentale, anche se sotterranea, mancanza di coerenza umana ed artistica.

Il vigore della protesta, tanto più profonda quanto meno clamorosamente proclamata, sembra invece rifugiarsi in un particolare settore della narrativa americana contemporanea, quella degli scrittori di "minoranza", che appunto nel dramma di tale condizione umana e sociale sembrano saper identificare il più vasto dramma dell'individuo e della società. Il maggiore di questi scrittori è, senza alcun dubbio, Saul Bellow (v.), autore di romanzi a vasto respiro, di coraggiosa e complessa costruzione, in cui sembrano confluire tutti i momenti del romanzo anglosassone degli ultimi settant'anni, inquadrati e sorretti da una matura e sicura arte espressiva. Meno ambizioso, ma anch'esso umanamente e artisticamente vivo, il romanzo di Bernard Malamud (v.) che tende a stemperare il dramma nell'ironia e a comporre elegiacamente la tragedia. Quanto al giovane Ralph Ellison (v.), egli dopo il suo primo romanzo che rappresentò anche il suo immediato e risolutivo successo, sembra oggi raccogliere le forze per il lavoro futuro. Se esso saprà eliminare le disparità ed acerbità di tono di The invisible man raccogliendone invece le notevoli promesse, potremo veramente dire che la sua è una presenza viva dell'odierno romanzo americano. Come l'Ellison anche J. D. Salinger (v.) affida ad una sola opera la propria reputazione: The catcher in the rye, pubblicato nel 1952, rimane opera di estrema lucidità e finezza, che si stacca dal paesaggio complessivamente piatto che abbiamo tentato di delineare.

Teatro. - Il teatro americano, che non ha peraltro illustri tradizioni, perde in questi anni con Eugene O'Neill (m. 1953) una voce importante ed autorevole. Di O'Neill vede la luce, postumo, nel 1956, Long day's journey into night, che non arreca mutamenti sostanziali alla direzione e al tono della produzione che lo ha preceduto.

Accanto all'ultimo O'Neill vanno ricordati due nomi di scrittori teatrali non grandi ma dotati di notevoli qualità tecniche e drammatiche. Essi hanno conquistato, in questo secondo dopoguerra, un posto di prestigio in campo teatrale e non solo americano. Si tratta di Arthur Miller (v.) e Tennessee Williams (v.), autori di drammi che ricalcano i motivi già noti alla letteratura americana tra le due guerre, del sesso e della frustrazione, imprimendo ad essi, specialmente lo Williams, una certa intensità psicologica e drammatica. Dei due, Tennessee Williams appare il più agguerrito e scaltro, ma il più ingenuo Miller riesce talora a centrare temi di maggiore e più vasta drammaticità (si vedano soprattutto The death of a salesman del 1947 e The crucible del 1953). Nel complesso, tuttavia, nemmeno la loro presenza vale a riscattare il grigiore dell'odierna scena teatrale d'oltre oceano. Vedi tav. f. t.

Bibl.: Cfr. l'antologia di R. W. Stallmann, Critiques and essays in criticism, New York 1949; Mid century American poets, a c. di J. Ciardi, ivi 1950; Focus five: modern American poets, a c. di R. Rajan, Dobson 1950; J. Aldridge, After the lost generation, New York 1951; L. Bogan, Achievement in American poetry, ivi 1951; Fr. J. Hoffman, The modern novel in America, Chicago 1951; Literary opinion in America, a c. di M. D. Zabel, New York 1951; F. L. Allen, The big change, ivi 1952; M. Bewley, The complex fate, Londra 1952; R. P. Blackmur, Language as gesture, New York 1952; Ph. O'Connor, An age of criticism, 1900-1950, Chicago 1952; A. Russi, La critica letteraria in America, in Paragone, 1952; R. Jarrell, Poetry and thee age, New York 1953; C. Izzo, Nuovissima poesia americana, Parma 1953; L. D. Rubin, R. D. Jacobs, Southern renascence, Baltimora 1953; R. E. Spiller, W. THorp, Th. H. Johnson, H. S. Canby, Literary history of the United States, New York 1953 (supplemento bibliografico a cura di R. M. Ludwig, New York 1960); M. Cowley, The literary situation, New York 1954; The Penguin Book of modern American verse, a c. di G. Moore, Harmondworth, Middlesex, 1954; L. Trilling, The opposing self, New York 1955; J. W. Aldridge, In search of heresy, ivi 1956; E. F. Godman, The crucial decade, ivi 1956; C. Izzo, Storia della letteratura nord-americana, Milano 1956; W. B. Rideout, The radical novel in the United States, Cambridge, Mass., 1956; S. Rosati, Storia della letteratura americana, Torino 1956; A. Lombardo, Realismo e simbolismo. Saggi di letteratura americana contemporanea, Roma 1957; H. Straumann, American literature in the 20th century, New York 1957; R. A. Bone, The negro novel in America, New Haven, Conn., 1958; G. Feldman, M. Gartenberg, The beat generation and the angry young men, New York 1958; G. Cambon, Tematica e sviluppo della poesia americana, Roma 1958; M. Geismar, American moderns, New York 1958; A. Rizzardi, Poesia americana del dopoguerra, Milano 1958; L. Lipton, The holy barbarians, New York 1959; A. Rizzardi, La condizione americana, Bologna 1959; M. Bulgheroni, Il nuovo romanzo americano: 1945-1959, Milano 1960; A. Lombardo, La ricerca del vero, Roma 1961.

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