Stati Uniti

Libro dell'anno 2000

Vittorio Zucconi

Stati Uniti

"Giuro solennemente che adempirò con lealtà ai doveri di presidente degli Stati Uniti…"

Il presidente degli anni Novanta

di Vittorio Zucconi

7 novembre

I cittadini degli Stati Uniti d'America si recano alle urne per eleggere il loro nuovo presidente. È una sfida all'ultimo voto fra il candidato repubblicano George Walker Bush e quello democratico Al Gore. Al termine dello spoglio risulta determinante l'esito delle votazioni in Florida: fra incertezze e colpi di scena la conta dei voti va avanti fino al 12 dicembre, quando viene annunciata la vittoria di strettissima misura di Bush. Il nuovo presidente giurerà il 20 gennaio 2001, quando riceverà le consegne dal presidente uscente, Bill Clinton.

Un'infanzia tormentata

Si è capito soltanto alla fine, dopo otto anni di controversie e di passioni, quale sia stata la verità segreta della presidenza di William Jefferson Clinton: tra lui e la nazione che lo ha eletto e rieletto non c'è stata una storia politica, ma una storia d'amore che, come tutte le vere storie di passione, non è mai stata facile. Chi lo conosceva bene, chi lo aveva accompagnato nel suo viaggio dalle campagne più misere dell'America profonda in Arkansas fino al massimo trono del potere a Washington, aveva cercato di spiegare quale fosse la molla che muoveva quest'uomo. Per esempio Betsy Wright, una delle sue assistenti, amiche e consigliere fin dalle prime campagne elettorali, aveva detto con grande sensibilità femminile: "Bill è un eterno adolescente che vuole disperatamente bene alla gente, dietro il suo broncio, e che impazzisce se non si sente amato dagli altri". Molte cose, molti errori, molti successi della sua presidenza, la quarantaduesima nella storia americana, e l'ultima del 20° secolo, sarebbero stati più comprensibili, se avessimo tenuto conto di questa frase.

È una tentazione diffusa e ormai quasi inevitabile, per gli storici e i biografi contemporanei, quella di cercare nella psicologia, o addirittura nella psicoanalisi, la chiave soggettiva per interpretare i comportamenti e le decisioni delle maggiori personalità. E se, come tutte le mode culturali, anche questa della psico-storia può essere spinta troppo avanti e pretendere di spiegare il nazismo attraverso i rapporti di Adolf Hitler con la madre o lo stalinismo con i traumi del giovane Josif Dzugasvili nel seminario ortodosso di Tbilisi, la presidenza di Clinton ci riporta con prepotenza, pagina dopo pagina, successo dopo successo e disastro dopo disastro, al suo percorso formativo di uomo, agli anni tremendi della sua infanzia, al bisogno divorante di avere successo, per scampare al proprio destino, e di piacere a tutti, per scampare alle proprie paure.

Bill Clinton era nato orfano. Anzi, non era nato neppure Clinton, ma William Jefferson Blythe III, figlio di un piazzista di autoricambi che si era schiantato in auto contro un palo quando la moglie Virginia era incinta di sei mesi. Nel povero paesino rurale di Hope, Arkansas, dove Clinton venne al mondo il 19 agosto 1946, sotto il segno del Leone e del 'grande cocomero' che quel paesetto, come sua gloria, si vanta di avere prodotto, correva addirittura la voce che neppure il commesso viaggiatore morto in auto fosse il padre naturale. Si mormorava che il figlio di Virginia fosse stato concepito durante una licenza a casa di un soldato poi rimasto ucciso in guerra e dunque fosse, secondo il linguaggio disumano e brutale di quel tempo e di quella provincia, un 'bastardo'.

Pettegolezzi, calunnie, dicerie turbinavano attorno alla madre come le trombe d'aria che tanto spesso si scatenano in queste zone degli Stati Uniti. Virginia era una giovane donna spregiudicata, per quei tempi e quei climi, un'accanita giocatrice d'azzardo, una frequentatrice di saloons sempre con la sigaretta tra le labbra, una donna che lavorava - era infermiera - e dunque, nella semantica dell'epoca, 'chiacchierata'. In villaggi come Hope le chiacchiere contano, tagliano crudeli, indifferenti alla verità, vivendo di vita propria nella ripetizione di bocca in bocca, tra le taverne e i banchi delle chiese battiste del Sud. Per questo, per ritrovare un minimo di rispettabilità piccolo borghese per sé stessa e per quel bambino senza padre,

Virginia si affrettò a risposarsi, senza guardare troppo per il sottile. Il nuovo marito era Roger Clinton, che faceva il commerciante di automobili Buick ed era un alcolizzato violento.

L'infanzia del futuro presidente degli Stati Uniti sarebbe, oggi, materia per denunce alla magistratura. Roger Clinton trasferì la moglie e Bill in un'altra città dell'Arkansas, una stazione termale chiamata Hot Springs che negli anni Quaranta e Cinquanta era una piccola Sodoma e Gomorra di provincia. Con le acque solforose dei bagni termali, a Hot Springs era sgorgata una florida industria del vizio, del gioco d'azzardo, della prostituzione, della droga, della corruzione, che i politicanti dell'epoca proteggevano e sfruttavano. La mano del governo federale, dell'FBI e di Washington, era lontanissima e il Sud, in quegli anni, viveva tranquillo nel suo apartheid razziale e morale.

In questa città, Bill Clinton crebbe, aggrappato alla madre. Come tanti suoi coetanei, avrebbe facilmente potuto accomodarsi nel flusso languido della vita del Sud, aspirare anche lui, come il padre e come il patrigno, a un lavoro di salesman, di commesso viaggiatore, senz'altra ambizione che un'auto nuova ogni due anni, una casetta con il porch, il porticato di legno davanti, e una lattina di birra fredda in mano nelle sere soffocanti. Ma la casa, e dunque l'immagine della propria futura vita, nella quale Bill, 'Bubba' come lo chiamavano gli amici, tornava, era il migliore antidoto alla tentazione. Spesso, molto spesso, negli anni dell'adolescenza, Bubba era costretto a rincasare di corsa, chiamato disperatamente dal fratellastro Roger, per strappare la madre Virginia dalle mani del marito che la picchiava in modo selvaggio. "Se tocchi ancora mia madre ti ammazzo" gli gridava, mentre il fratellastro, che da adulto avrebbe dovuto combattere e vincere una pesante dipendenza dalla cocaina, singhiozzava. "Avevo già quarant'anni quando ne compii sedici" dirà poi lo stesso Bill.

Nel buio di questa adolescenza da "furore" faulkneriano, si accese improvvisa una luce. Il liceo di Hot Springs organizzò nel 1963 una gita a Washington, per visitare i monumenti sacri della storia americana. Bill Clinton si era iscritto a un'organizzazione di ragazzi creata da politicanti dello stesso partito del presidente in carica, John Fitzgerald Kennedy, il Partito democratico e, come spesso fanno i leader politici americani per ingraziarsi 'boss' locali, la Casa Bianca invitò quei ragazzi di provincia a incontrare il presidente. Il figlio di Virginia Clinton la 'chiacchierata' e la 'abusata', si trovò così, in una mattina memorabile, in piedi davanti a Kennedy, la sua mano nella mano di un presidente che neppure aveva idea di chi lui fosse, tra le centinaia di mani che doveva stringere. Ma quell'incontro cambiò la storia della sua vita e la storia dell'America. Il ragazzo Bubba decise - e soltanto in America una frase del genere può essere detta e scritta senza sembrare folle - che un giorno sarebbe stato lui a prendere il posto di quell'uomo che gli aveva stretto la mano nel giardino della Casa Bianca.

L'inizio della carriera politica

Fra tutte le università possibili, Clinton scelse la Georgetown University di Washington, l'antico e autorevole college dei gesuiti che domina sul quartiere dove Kennedy aveva vissuto con Jacqueline agli inizi della carriera politica e che dista pochi minuti a piedi dalla Casa Bianca. "Volevo stare il più vicino possibile ai luoghi del governo e della politica - spiegherà - respirare quell'aria". Fu ottimo studente, ricevendo prima la borsa di studio Rhodes per frequentare Oxford e poi, presa la laurea a Georgetown, acquisendo il dottorato in legge a Yale. Ma gli occhi erano sempre fissi sul premio finale, la Casa Bianca, la politica, la mano di Kennedy. Quando venne la chiamata per il Vietnam, usò ogni mezzo, ogni raccomandazione per evitare la guerra, ma nella sua lettera implorante a un colonnello del distretto militare, per chiedergli il congedo da studente, Bill Clinton si fece sfuggire una frase eloquente. Scrisse che non voleva disertare, scappare, fare nulla di illegale per sottrarsi al Vietnam, in modo da "non compromettere le mie future opzioni politiche".

Dopo avere sposato nel 1975 una compagna di studi a Yale, una giovane donna di Chicago chiamata Hillary Rodham, che lo aveva avvicinato nella biblioteca dell'università dicendogli: "visto che continui a fissarmi, almeno dimmi come ti chiami", e dopo avere per un breve periodo insegnato legge alla Arkansas University, Clinton cominciò la carriera politica. Fu eletto general attorney, avvocato dello Stato, in Arkansas e in seguito, nel 1978, governatore, a 32 anni: il più giovane governatore nella storia degli Stati Uniti. Divenne, istantaneamente, il golden boy, il ragazzo promessa di un Partito democratico che, in quegli anni, cercava proprio tra i governatori di Stati le forze nuove per il suo futuro politico. Nel 1976, due anni prima, un altro giovane governatore del Sud, come Clinton, era stato eletto presidente: Jimmy Carter.

Il tableau biografico del governatore Clinton era perfetto, quasi un apologo del 'sogno americano': ragazzo del Sud, nato povero in condizioni tremende, supera l'infanzia difficile e, con la forza del proprio ingegno e con il duro lavoro, s'incammina verso il successo. Nei circoli del Partito democratico, il suo nome era sussurrato e poi gridato. Clinton era perfetto: sudista ma progressista, dunque apprezzato dall'elettorato degli afroamericani che sono l'indispensabile base dei Democratici; progressista ma moderato, addirittura centrista, quanto mai adatto in una nazione dove l'asse politico si stava visibilmente spostando al centro. Giovane e piacevole d'aspetto, il che costituiva un elemento indispensabile nella politica-spettacolo fatta per la televisione, ben ammogliato con una donna brillante, padre di famiglia (nel frattempo era nata Chelsea, l'unica figlia), ottimamente finanziato dai miliardari del suo Stato - l'allevatore Tyson, il re dei polli americani, e il signor Walton, il re dei grandi magazzini a buon mercato -, vagamente kennedyano, almeno quel tanto che bastava per rimescolare negli elettori le mai sopite nostalgie per JFK. Il Clinton pubblico era perfetto. Ma dietro il volto sorridente e intelligente, c'era il Clinton privato, quello che avevamo lasciato nella casa di Hot Springs, davanti al patrigno che picchiava la madre, l'orfano cui il piccolo, gretto mondo della provincia aveva sempre guardato come a un 'bastardo', come al figlio di quella matta di Virginia. E mentre il Clinton pubblico già marciava verso il suo sogno, il Clinton privato lo accompagnava: nelle notti affannate del Sud correva da una donna all'altra, da un letto all'altro. Con la complicità di agenti di guardia e poliziotti, fidandosi incoscientemente della loro assoluta lealtà, visitava amiche di una notte, chiedeva ai portaborse di 'coprirlo' con la moglie Hillary, addirittura prendeva un'amante fissa e regolare, Jennifer Flowers, un'ex ballerina di night, conversando con lei al telefono, confidandosi, sera dopo sera, ignorando il rischio che la donna - come puntualmente avrebbe fatto - registrasse, a futura memoria e per propria garanzia, le telefonate d'amore con il governatore dello Stato. Il maturo, prudentissimo Clinton pubblico che misurava ogni gesto politico, soppesava ogni frase pensando al futuro con il bilancino del centrismo, diventava Clinton l'incosciente in privato, il giocatore d'azzardo che rischiava ogni sera il proprio futuro, la propria carriera politica, sulla roulette di avventure da liceale consumate e finite nel presente. "Non lo faccio per le donne, lo faccio per il gusto del rischio" spiegava a chi lo conosceva. Jennifer Flowers raccontò più volte, nel corso di varie deposizioni, che lui le aveva proposto di far l'amore persino nella cucina della residenza ufficiale del governatore, mentre nel salone accanto Hillary, la moglie, intratteneva gli ospiti. Agli amici che sapevano e inorridivano, Clinton rispondeva di non preoccuparsi, che se la sarebbe sempre cavata.

Gli anni della presidenza

Quando, il 20 gennaio 1992, William Jefferson Clinton entrò alla Casa Bianca, avendo battuto George Bush soltanto grazie a un colpo di fortuna politica, alla divisione del voto moderato e repubblicano tra il presidente in carica e la destra di Ross Perot, un miliardario deciso a spendere miliardi per soddisfare la propria ambizione, la storia sembrò confermare la vittoria definitiva del Clinton pubblico su quello privato. La nazione aveva saputo tutto delle sue avventure, durante la campagna elettorale e le primarie. Aveva toccato con mano le sue leggendarie bugie ("Ho fumato marijuana ma non ho mai aspirato" resta probabilmente la più straordinaria). Ma anche la nazione, al pari delle molte donne della vita di Clinton, si era lasciata convincere e sedurre.

Per qualche mese dopo l'elezione, nel 1992 e nel 1993, parve davvero che il Clinton bianco avesse ormai esorcizzato per sempre il suo alter ego nero, che l'uomo si fosse liberato definitivamente della sua ombra. La parabola dell'orfano aveva avuto il suo lieto fine, la massima dichiarazione d'amore che un popolo possa fare, la sua elezione a leader. Aveva appena 46 anni, era il secondo più giovane presidente nella storia, dopo il 'suo' Kennedy. Aveva un programma politico preciso: tenere fisso al centro il timone dell'America, ma varando finalmente quel programma nazionale di assicurazione sanitaria che il paese più ricco del mondo ancora non si è mai dato. Pochi neopresidenti erano entrati alla Casa Bianca portando più speranze di grandezza. A Hillary, che avrebbe voluto un portafoglio ministeriale ma non poté averlo per la legge sul 'nepotismo' che vieta di dare incarichi pubblici a parenti e affini, fu affidato il progetto di studiare il servizio sanitario nazionale, pur senza cariche formali. "È la mia copresidente" diceva il marito, semiserio. A sé stesso Clinton riservò il compito di smantellare, come diceva il suo slogan elettorale, "il welfare state, come lo abbiamo ereditato". Era un perfetto esempio dell'abilissima e piuttosto cinica 'strategia della triangolazione' clintoniana: un colpo alla sinistra, accontentata con l'assistenza sanitaria nazionale, un colpo al centro moderato, rassicurato con l'abolizione dell'odiato 'Stato mamma', già avviata da Ronald Reagan.

C'era, sulla via del Clinton pubblico e vincente, soltanto un ostacolo: il Congresso degli Stati Uniti, l'opposizione repubblicana. Ogni presidente americano, contrariamente a quanto creda spesso l'immaginazione internazionale che lo vede come una sorta di sovrano elettivo, deve scendere a patti, ogni giorno, con la Camera e il Senato, per promuovere leggi o iniziative, in una serie di estenuanti, miserabili 'do ut des', con quel Congresso che tiene ben stretti i cordoni della borsa pubblica. Il successo di una presidenza dipende dalla capacità di costruire maggioranze occasionali, legge per legge, sui banchi del Parlamento. Ma nel caso di Clinton, l'opposizione non si limitò alla tradizionale guerriglia politica. I Repubblicani videro quel presidente eletto con un voto di minoranza, sbarcato a Washington con un pesante bagaglio di scandali privati battendo il vincitore della Guerra nel Golfo, George Bush, esattamente come i paesani di Hope avevano visto il bambino di Virginia: come un 'bastardo', un usurpatore del trono. E la lotta contro di lui divenne rapidamente una jihad, una guerra santa.

La proposta di riforma del sistema sanitario fu stroncata, con una campagna di terrore pubblicitario finanziata dalle piccole e medie compagnie di assicurazione che temevano di perdere la loro clientela a favore delle grandi compagnie, che avrebbero tratto il massimo beneficio dal sistema misto pubblico-privato disegnato da Hillary Clinton. Di questa, che doveva essere la pietra d'angolo dell'amministrazione Clinton, non si parlerà mai più. Passò una parziale demolizione del sistema di assistenza sociale, che i Repubblicani avevano sempre chiesto e non potevano certamente rifiutare. Ma sullo sfondo della normale dialettica politica, in un fiume carsico e velenoso, scorreva, tra denunce alla magistratura, 'rivelazioni' pilotate nei mass media, libri e libelli, la campagna rivolta alla demolizione del Clinton pubblico usando il piccone offerto dal Clinton privato.

E nel 1994, nelle elezioni per il rinnovo completo della Camera e parziale del Senato, dette 'di medio termine' perché cadono alla metà dei quadrienni presidenziali, l'opposizione trionfò. Prese il controllo delle due Camere, per la prima volta dagli anni Cinquanta, portando a Washington, sulla scia di un leader estremista e spregiudicato, Newt Gingrich, una 'leva' di giovani politicanti di estrema destra, decisi a sbarazzarsi una volta per tutte dell'usurpatore Clinton.

Nel 1995, la popolarità di Clinton crollò. Con il controllo delle due Camere in pugno, cominciò a Washington la caccia ai Clinton, Bill e Hillary, visti dai nemici come una sorta di idra a due teste. Le elezioni presidenziali del 1996 si avvicinavano e i Repubblicani assaporavano la vendetta. L'economia nazionale, liberata dal peso dei bilanci militari da guerra fredda e spinta dai primi segni di quella che si sarebbe poi chiamata la new economy di Internet, delle biotecnologie, della genetica, cominciava a volare ma era il Parlamento, non la presidenza, a incassarne i meriti. E la fine della tensione internazionale, dopo il collasso dell'Unione Sovietica, toglieva a Clinton la riserva classica di tutti i presidenti in difficoltà sul fronte della politica interna, le grandi iniziative strategiche sul palcoscenico del mondo. Il pubblico americano aveva perduto il gusto e la passione per la geopolitica, che peraltro non era mai stato il forte del giovane ex governatore dell'Arkansas. Alla gente importava poco della tragedia bosniaca, allora al culmine, o degli spasmi politici e finanziari della Russia di Boris Eltsin.

In questo stato febbrile, tra un'opposizione rampante sotto la guida di Gingrich e una Casa Bianca vacillante, nel tardo autunno del 1995 si arrivò al momento che più di ogni altro connoterà la presidenza Clinton: quello della definizione annuale del bilancio di spesa federale, della legge che in Italia si chiamerebbe 'la finanziaria'. I Repubblicani trionfanti avevano inserito nella legge riduzioni fiscali imponenti, per tenere fede alle loro promesse di sollievo tributario alle classi medie. Clinton si oppose, rifiutando di firmarla, perché quegli sconti fiscali, troppo drastici, avrebbero devastato il già smagrito 'Stato sociale' e riaperto voragini nel bilancio federale, a meno di draconiani tagli di spesa pubblica. Era lo scontro epocale, ideologico, che la destra cercava.

Scattò il braccio di ferro, che i Repubblicani erano certi di vincere, assestando il colpo di grazia a Clinton, in vista delle presidenziali dell'anno successivo. Ma il presidente non si arrese. Resistette al bluff dell'opposizione divenuta maggioranza, non firmò la finanziaria, l'opposizione non promulgò neppure i decreti legge d'emergenza necessari per finanziare l'attività corrente del governo in attesa della legge e nel novembre 1995 il governo federale americano dovette, letteralmente, chiudere i battenti. Per alcuni giorni, la macchina amministrativa nazionale, dalla zecca ai ministeri, dalle guardie forestali agli ispettori sanitari dei pollai, si fermò. Anche i consiglieri più stretti e fidati del presidente tremavano, raccomandavano un compromesso. I sondaggi di opinione oscillavano. Ma Clinton fu irremovibile. Il suo istinto politico gli diceva che, alla fine dello scontro, la nazione sarebbe stata con lui. Ebbe ragione. Quei giorni furono la resurrezione del Clinton pubblico.

E furono i giorni del ritorno del Clinton privato. Nelle ore vuote della Casa Bianca semichiusa per mancanza di fondi, nei giorni della tensione di un azzardo che avrebbe potuto stroncarlo politicamente, nelle stanze riservate del presidente, nello Studio ovale, nel suo salotto fece la sua comparsa una giovane donna, una segretaria volontaria e non pagata: Monica Lewinsky. Mentre il Clinton pubblico combatteva la sua storica partita con il Parlamento, il Clinton privato si trastullava con una ragazza quasi coetanea della figlia, in esercizi che neppure l'ammiratore meglio disposto potrebbe assolvere come una 'storia d'amore'. Allo zenith della propria straordinaria intelligenza pubblica, Clinton raggiunse il nadir della sua sbalorditiva stupidità privata.

Ma il pubblico in quei giorni vide soltanto il Clinton statista. Vinse, con una maggioranza molto più importante di quattro anni prima, la rielezione nel 1996 contro un modesto avversario, il senatore Bob Dole, che un Partito repubblicano demoralizzato dopo la débâcle della finanziaria, gli aveva schierato contro, quasi pro forma. L'opposizione in Parlamento perse voti, seggi e aggressività. Borsa, economia, occupazione crescevano, mentre i costi del danaro e l'inflazione scendevano. Finalmente, dissero anche i critici, Bill Clinton, rieletto per la seconda e ultima volta, avrebbe potuto mostrare di che cosa era capace.

Il mondo, dagli alleati europei agli ex nemici russi, salutò in lui finalmente il leader atteso quattro anni prima e mai materializzatosi. Niente poteva più opporsi al Clinton 'trionfante'. Niente, se non Clinton stesso. Arrivò l'ora di Monica. Dal ricco passato del Clinton privato, gli instancabili avversari, che non avevano mai rinunciato alla guerra santa contro l'usurpatore, ripescarono una disgraziata signora dell'Arkansas, destinata a diventare oggetto di scherno nazionale, Paula Jones. La signora raccontò una storia sordida: nel 1994 il governatore dell'Arkansas, già candidato alla Casa Bianca, la notò alla reception di un albergo, la fece accompagnare in camera sua e le chiese una performance sessuale. Nessuno, sulle prime, credette alla Jones ma i suoi avvocati avevano prove, elementi di conferma del suo racconto vietato ai minori, prove che alla fine indurrano Clinton a pagare 850.000 dollari, oltre un miliardo e mezzo di lire, per tacitare la querela.

Fu nel corso delle deposizioni della signora Jones nella causa contro Clinton, William Jefferson, professione presidente, indirizzo legale 1600 Pennsylvania Avenue, Washington ("Giura di dire tutta la verità, nient'altro che la verità?" "Lo giuro") che spuntò il nome di Monica Lewinsky. Investigatori, avvocati, reporter frugarono, indirizzati da mani sapienti e ben finanziate dai nemici dei Clinton, e la storia di Monica e dei suoi incontri con il presidente emerse. Il Clinton privato aveva acciuffato il Clinton pubblico. Davanti alla nazione e poi davanti al giudice, il presidente negò di avere mai avuto rapporti con quella ragazza. Era una menzogna sotto giuramento, probabilmente inutile, ma le conseguenze furono spaventose.

Per due anni, fino a tutto il 1998, la promessa della presidenza Clinton nel suo secondo mandato fu congelata nell'inverno di una lotta all'ultimo pettegolezzo, all'ultima deposizione, all'ultimo voto, per incriminare e destituire il presidente. Con le prove della sua falsa testimonianza davanti ai giudici del caso Paula Jones, la maggioranza repubblicana alla Camera ottenne l'incriminazione formale del Capo dello Stato, quell'impeachment, che soltanto un altro presidente nella storia dell'America aveva subito, nel 19° secolo, e che persino a Nixon, dimissionario prima dell'incriminazione ufficiale, era stato risparmiato. All'apice della sua popolarità e del suo successo, Clinton aveva offerto di nuovo ai nemici l'occasione per distruggerlo. Soltanto il voto del Senato, nella veste costituzionale di giuria per i processi ai presidenti incriminati, lo salvò dall'ignominia della destituzione, per dieci voti.

Ma se furono i senatori del Partito democratico a fare quadrato attorno a lui e a bloccare finalmente l'assalto, il voto che realmente lo salvò fu quello dell'opinione pubblica. Nell'ultimo e straordinario paradosso di questa vita politica straordinaria, fu dunque la ricomposizione definitiva dei 'due Clinton', quello privato e quello pubblico, a sigillare l'alleanza tra il popolo americano e il suo presidente. Proprio quando le due immagini, le due metà tenute accuratamente, disperatamente separate per tutta la sua vita, si sovrapposero e si ricomposero in una persona intera, la nazione scoprì il vero Clinton e lo abbracciò. Certamente, lo aiutarono il senso di pace e di prosperità diffusa, anche se non universale, che aveva avvolto la nazione. Certamente, lo puntellò il successo di un'economia che aveva preso a macinare ritmi sensazionali di crescita del prodotto interno lordo del 5% l'anno, che creava due milioni di nuovi posti di lavoro anno dopo anno, che assorbiva diplomati e laureati con i loro titoli di studio ancora freschi, che aveva spinto la Borsa ad altezze vertiginose, dimezzando l'incidenza statistica - e quindi la percezione - dei crimini maggiori. Se lo scandalo fosse scoppiato in una fase economica recessiva, o in un'America sconvolta dalla morte di soldati su fronti lontani, è ragionevole pensare che Clinton avrebbe potuto soccombere alla condanna per falsa testimonianza e arrivare a essere destituito.

Ma i 'se' rimarranno per sempre 'se'. I fatti ci dicono che, all'apice dello scandalo, nel momento della ricomposizione definitiva dei 'due Clinton', il termometro del favore popolare misurato dai sondaggi raggiunse temperature mai viste dagli anni dei trionfi reaganiani. I politologi, che avevano dato Clinton per spacciato, furono smentiti. Gli osservatori del costume e della cultura popolare, più attenti alla realtà corrente, intuirono la ragione profonda di questa inattesa solidarietà popolare attorno a un presidente che non era stato, al momento delle votazioni ufficiali, particolarmente amato: l'identificazione tra Clinton e la sua generazione. In quell'uomo drasticamente umanizzato, in quel capo dello Stato zigzagante tra moralità pubblica e privata, la generazione dei suoi coetanei, i cosiddetti baby boomers nati nel primo dopoguerra e divenuti la spina dorsale della società americana degli anni Novanta, riconobbero sé stessi.

Non esiste mai, nella storia di democrazia diretta che caratterizza il sistema politico americano, un presidente che abbia successo senza che egli si identifichi con il suo tempo e senza che il suo tempo si identifichi in lui. Come le generazioni precedenti si erano ritrovate nel Roosevelt del New deal, del patto sociale con le classi devastate dalla depressione, poi nel Kennedy quarantenne del 1960, o nel Reagan che aveva portato alla Casa Bianca l'ultimo 'hurrà' degli americani che avevano vinto la guerra mondiale e la guerra fredda, così Clinton fu l'immagine esatta dell'America uscita dagli anni Sessanta. Fu il prodotto delle ambiguità sulla guerra in Vietnam, della rivoluzione sessuale e delle 'sperimentazioni' care al sessantotto.

Il Presidente era imperfetto, ambiguo, bugiardo, come lo erano milioni di uomini e donne in una nazione dove gli stereotipi sul 'puritanesimo' avevano nascosto gli immensi mutamenti di costume e la forza

che il 'privato' aveva saputo conquistarsi, dall'aborto alla liberazione gay. Nell'assalto a Clinton, queste generazioni cresciute nel rispetto della privacy videro un assalto alle proprie scelte di vita. Non fu un caso se nel suo discorso di confessione pubblica, davanti alle telecamere, Clinton usò per diciotto volte l'aggettivo 'privato'. Quella era la corda che vibrava nel cuore di tanti americani. Nel resto del mondo, che guarda l'immagine dei presidenti americani proiettata sugli schermi della comunicazione globale senza avvertirne la sostanza umana, Clinton appariva come un capo di Stato ingiustamente torturato dagli inquisitori come il magistrato speciale Kenneth Starr, incomprensibilmente umiliato da un popolo di bacchettoni indignati per una misera storia di tradimenti coniugali. La macchina strategica americana lanciava i suoi strali nel mondo, indifferente alla difficoltà del suo comandante in capo. Aerei continuavano a colpire periodicamente l'Iraq, per mantenere un embargo sempre meno accettato dall'opinione pubblica internazionale. Missili da crociera, i cruise, raggiungevano valli remote dell'Afghanistan, nell'illusione di distruggere i covi dei terroristi fondamentalisti di Osama Bin Laden, e alcuni colpivano una fabbrica di medicinali a Kartoum, la capitale del Sudan, con il pretesto, mai confermato, che in essa si producessero armi chimiche illegali. E all'interno della NATO si elaborava quella discussa dottrina dell''intervento militare umanitario' che, con tutte le sue ovvie contraddizioni implicite, sarebbe poi divenuto il bombardamento della Serbia per proteggere il Kosovo. Ma il solo, vero conflitto che avrebbe definito per sempre la presidenza Clinton si combatteva e si concludeva sul campo della storia della società americana e del suo costume. Per la gioia di alcuni e la disperazione di altri, nei giorni del 1998, sospesi tra la crisi costituzionale e l'assoluzione, crollò la membrana di ipocrisia che aveva sempre separato i politici dalla loro vita. Finì, in quelle ore, l'omertà che aveva circondato i loro comportamenti. Cadde la fatica di vivere due vite, una per il consumo pubblico e un'altra per il proprio privato. Una nazione che aveva condannato alla morte civile legioni di leader politici scoperti a tradire il coniuge, che aveva cacciato nell'ignominia un candidato (Eagleton) soltanto perché era stato brevemente in cura da uno psichiatra per depressione, aveva finalmente guardato in faccia i propri tabù. E si preparava a scegliere alla fine del 2000, tra un candidato che avrebbe ammesso pubblicamente di essere stato per lunghi anni vittima dell'alcol (Bush) e un altro che non avrebbe nascosto di avere fatto uso di marijuana da giovane (Gore).

I segreti più intimi, spesso più imbarazzanti, erano divenuti pubblici e la nazione aveva frugato, capito e perdonato. Aveva scoperto di amare tutti e due i Clinton, nella completezza di una personalità contorta e difficile, dunque assolutamente normale. Nei suoi otto anni memorabili, il figlio dell'Arkansas aveva alzato uno specchio davanti agli occhi dell'America che, credendo di vedere lui, aveva visto semplicemente sé stessa. E si era, alla fine dei conti, piaciuta.

Il presidente nella Costituzione degli Stati Uniti

"Il potere esecutivo sarà conferito a un presidente degli Stati Uniti d'America. Egli rimarrà in carica per un periodo di quattro anni" (art. II, sez. I, c. 1).

"Non sarà eleggibile alla carica di presidente chi non sia cittadino degli Stati Uniti per nascita o cittadino nel momento in cui questa Costituzione sarà adottata, né potrà essere eleggibile a tale carica chi non abbia raggiunto l'età di trentacinque anni e non sia residente negli Stati Uniti da quattordici anni" (art. II, sez. I, c. 5).

"In caso di destituzione del presidente, o in caso di decesso, o di dimissioni, o di impedimento ad adempiere alle funzioni e ai doveri inerenti alla sua carica, questa sarà affidata al vicepresidente; in caso di destituzione, di decesso, di dimissioni o di impedimento sia del presidente sia del vicepresidente, il Congresso provvederà per legge a dichiarare quale pubblico ufficiale debba svolgere le funzioni di presidente, e questi di conseguenza assumerà l'incarico fino a quando venga meno la causa di impedimento o venga eletto un nuovo presidente" (art. II, sez. I, c. 6).

"A epoche fisse il presidente riceverà, per i suoi servigi, un'indennità che non potrà essere aumentata né diminuita durante il periodo per il quale egli è stato eletto; e non percepirà, in tale periodo, alcun altro emolumento dagli Stati Uniti o da uno qualsiasi degli Stati" (art. II, sez. I, c. 7).

"Prima di entrare in carica, il presidente dovrà fare il seguente giuramento o dichiarazione solenne: "Giuro (o dichiaro) solennemente che adempirò con lealtà ai doveri di presidente degli Stati Uniti e col massimo dell'impegno preserverò, proteggerò e difenderò la Costituzione degli Stati Uniti"" (art. II, sez. I, c. 8).

"Il presidente sarà comandante in capo dell'Esercito, della Marina degli Stati Uniti e della Milizia dei diversi Stati, quando questa sarà chiamata al servizio effettivo degli Stati Uniti; egli potrà richiedere il parere scritto dei titolari di ciascuno dei Dicasteri dell'esecutivo su ogni argomento inerente i compiti dei loro rispettivi uffici, e avrà anche la facoltà di concedere commutazioni di pena e la grazia per tutte le infrazioni di legge commesse contro gli Stati Uniti, salvo nei casi di impeachment" (art. II, sez. II., c.1).

"Al presidente sarà attribuito il potere di concludere trattati, sentito il parere e con il consenso del Senato, purché vi sia l'approvazione di due terzi dei senatori presenti; egli proporrà e, sentito il parere e con il consenso del Senato, nominerà gli ambasciatori, altri diplomatici e consoli, i giudici della Corte suprema e tutti gli altri titolari di cariche pubbliche degli Stati Uniti la cui procedura di nomina non sia altrimenti prevista in questa Costituzione e che sarà stabilita da apposita legge; ma per le cariche di grado inferiore il Congresso, se lo riterrà opportuno, attribuirà il potere di nomina al solo presidente, alle corti giudiziarie, o ai titolari dei ministeri" (art. II, sez. II, c.2).

"Al presidente sarà attribuito anche il potere di assegnare cariche che si rendessero vacanti nell'intervallo tra una sessione e l'altra del Senato, con mandati che avranno termine alla fine della sessione successiva" (art. II, sez. II, c. 3).

"Il presidente informerà di tanto in tanto i membri del Congresso sullo stato dell'Unione e raccomanderà alla loro attenzione quelle misure che egli riterrà necessarie e opportune; potrà, in casi straordinari, convocare entrambe le Camere, oppure una di esse, e, in caso di dissenso tra le Camere circa i tempi d'aggiornamento, deciderà egli stesso a quando rinviare la seduta; riceverà gli ambasciatori e gli altri diplomatici; avrà cura che le leggi siano fedelmente applicate e conferirà la nomina ufficiale a tutti i titolari di cariche pubbliche degli Stati Uniti" (art. II, sez. III).

"Il presidente, il vicepresidente e tutti i titolari di cariche pubbliche degli Stati Uniti saranno destituiti dai loro uffici qualora risultino dalla procedura di impeachment colpevoli di tradimento, di corruzione o altri gravi reati o illeciti" (art. II, sez. IV).

I presidenti degli Stati Uniti

1. 1789-97: George Washington (Contea di Westmoreland, Virginia, 1732-1799); Partito federalista

2. 1797-1801: John Adams (Braintree, Massachusetts, 1735-1826); Partito federalista

3. 1801-09: Thomas Jefferson (Shadwell, Virginia, 1734-1826); Partito repubblicano democratico

4. 1809-17: James Madison (Port Conway, Virginia, 1751-1836); Partito repubblicano democratico

5. 1817-25: James Monroe (Contea di Westmoreland, Virginia, 1758-1831); Partito repubblicano democratico

6. 1825-29: John Quincy Adams (Braintree, Massachusetts, 1767-1848); Partito repubblicano nazionale

7. 1829-37: Andrew Jackson (Waxhaw, Carolina del Sud, 1767-1845); Partito democratico

8. 1837-41: Martin Van Buren (Kinder Look, New York, 1782-1862); Partito democratico

9. marzo-aprile 1841: William Henry Harrison (Berkeley, Virginia, 1773-1841); Partito whig

10. 1841-45: John Tyler (Greenway, Virginia, 1790-1862); Partito whig

11. 1845-49: James Knox Polk (Contea di Mecklenburg, Carolina del Nord, 1795-1849); Partito democratico

12. 1849-luglio 1850: Zachary Taylor (Montebello, Virginia, 1784-1850); Partito whig

13. 1850-53: Millard Fillmore (Summer Hill, New York, 1800-1874); Partito whig

14. 1853-57: Franklin Pierce (Hillsborough, New Hampshire, 1804-1874); Partito democratico

15. 1857-61: James Buchanan (Stony Batter, Pennsylvania, 1791-1868); Partito democratico

16. 1861-aprile 1865: Abraham Lincoln (Hodgensville, Kentucky, 1809-1865); Partito repubblicano

17. 1865-69: Andrew Johnson (Raleigh, Carolina del Nord, 1808-1875); Partito repubblicano

18. 1869-77: Ulysses Simpson Grant (Point Pleasant, Ohio, 1822-1885); Partito repubblicano

19. 1877-81: Rutheford Birchard Hayes (Delaware, Ohio, 1822-1893); Partito repubblicano

20. marzo-settembre 1881: James Abraham Garfield (Contea di Cuyahoga, Ohio, 1831-1881); Partito repubblicano

21. 1881-85: Chester Alan Arthur (Fairfield, Vermont, 1830-1886); Partito repubblicano

22. 1885-89: Stephen Grover Cleveland (Caldwell, New Jersey, 1837-1908); Partito democratico

23. 1889-93: Benjamin Harrison (Cincinnati, Ohio, 1833-1901); Partito repubblicano

24. 1893-97: Stephen Grover Cleveland (Caldwell, New Jersey, 1837-1908); Partito democratico

25. 1897-settembre 1901: William McKinley (Niles, Ohio, 1843-1901); Partito repubblicano

26. 1901-09: Theodore Roosevelt (New York, 1858-1919); Partito repubblicano

27. 1909-13: William Howard Taft (Cincinnati, Ohio, 1857-1940); Partito repubblicano

28. 1913-21: Thomas Woodrow Wilson (Staunton, Virginia, 1856-1924); Partito democratico

29. 1921-agosto 1923: Warren Gamaliel Harding (Blooming Grove, Ohio, 1865-1923); Partito repubblicano

30. 1923-29: Calvin Coolidge (Plimouth Notch, Vermont, 1872-1933); Partito repubblicano

31. 1929-33: Herbert Clark Hoover (West Branch, Iowa, 1874-1964); Partito repubblicano

32. 1933-aprile 1945: Franklin Delano Roosevelt (Hyde Park, New York, 1882-1945); Partito democratico (unico presidente eletto tre volte)

33. 1945-53: Harry Spencer Truman (Lamar, Missouri, 1884-1972); Partito democratico

34. 1953-61: Dwight David Eisenhower (Denison, Texas, 1890-1969); Partito repubblicano

35. 1961-novembre 1963: John Fitzgerald Kennedy (Brookline, Massachusetts, 1917-1963); Partito democratico

36. 1963-69: Lyndon Baines Johnson (Contea di Gillespie, Texas, 1908-1973); Partito democratico

37. 1969-agosto 1974: Richard Milhous Nixon (Yorba Linda, California, 1913); Partito repubblicano

38. 1974-77: Gerald Rudolph Ford (Omaha, Nebraska, 1913); Partito repubblicano

39. 1977-81: James Earl Carter (Plains, Georgia, 1924); Partito democratico

40. 1981-89: Ronald Wilson Reagan (Tampico, Illinois, 1911); Partito repubblicano

41. 1989-93: George Herbert Walker Bush (Milton, Massachusetts, 1924); Partito repubblicano

42. 1993-2001: William Jefferson Clinton (Hope, Arkansas, 1946); Partito democratico

43. 2001-: George Walker Bush (New Haven, Connecticut, 1946); Partito repubblicano

I fatti salienti delle presidenze Clinton

Clinton, che era stato general attorney dell'Arkansas nel 1977-78, e governatore dello Stato per cinque mandati (nei periodi 1978-80 e 1982-92), fu eletto per la prima volta presidente degli Stati Uniti nel 1992. In quell'occasione riportò il 43% dei voti popolari (rispetto al 38% ottenuto da George Bush e al 19% di Ross Perot) e 370 voti elettorali su 538.

Nei primi anni del suo mandato incontrò ostacoli e difficoltà che ne indebolirono fortemente il prestigio. Le sconfitte più gravi furono quelle riguardanti la realizzazione degli obiettivi politici che aveva sostenuto fin dalla campagna elettorale, a cominciare dalle riforme più tradizionalmente in sintonia con la linea dei Democratici. Nell'autunno del 1994 il Congresso bocciò la riforma sanitaria - osteggiata dalle compagnie di assicurazione, da un lato, e, dall'altro, dai datori di lavoro che avrebbero dovuto sostenere buona parte dei costi -, e l'anno successivo la legge sull'assistenza agli immigrati. Ottennero invece l'approvazione parlamentare la legge anticrimine, nell'agosto 1994, e la legislazione antiterrorismo, che venne varata nel 1996 per far fronte all'esplosione del terrorismo, per la prima volta presente con azioni sanguinose sul territorio nazionale.

In ambito internazionale furono numerose le iniziative intraprese da Clinton durante il primo mandato: l'attività diplomatica per una soluzione negoziale del conflitto mediorientale, culminata nell'incontro a Washington, nel settembre 1993, tra Isaac Rabin e Yasser Arafat; le pressioni sulla Repubblica Democratica Popolare di Corea perché, in cambio di assistenza allo sviluppo del nucleare a scopi civili, consentisse controlli internazionali sui programmi di armamento nucleare (1993-94); l'intervento a sostegno del presidente di Haiti, Jean-Bertrand Aristide, che era stato destituito da un golpe militare (settembre 1994); il coinvolgimento nella questione della ex Iugoslavia fino alla firma degli accordi di Dayton (1995), con cui si concluse la guerra serbo-bosniaca. In ambito economico, particolare rilievo ebbe il North American Free Trade Agreement (NAFTA), ratificato dal Congresso nel 1993, con il quale veniva istituita un'area di libero scambio fra Stati Uniti, Canada e Messico. Nonostante l'ombra degli scandali sia privati sia amministrativi (affare Whitewater, su presunti illeciti finanziari commessi da Clinton e da sua moglie Hillary ai tempi del mandato di governatore dell'Arkansas), il riposizionamento al centro in politica interna, la straordinaria ripresa dell'economia e, insieme, la debolezza del suo avversario Robert Dole, consentirono a Clinton la rielezione nel novembre 1996 (con il 49% dei voti popolari contro il 41% di Dole e l'8% di Perot; 379 voti elettorali contro i 159 di Dole). Primo presidente democratico a essere rieletto, dal 1936, per un secondo quadriennio, rafforzato dalla maggiore autonomia di scelta che gli veniva dal fatto di esercitare il suo ultimo mandato, Clinton ribadì una linea di compromesso fra le istanze tradizionalmente democratiche e le richieste dei Repubblicani maggioritari al Congresso. Su tale linea arrivò, nel maggio 1997, a un accordo con il Congresso che fissava al 2002 il raggiungimento del pareggio di bilancio, attraverso un programma che stabiliva una progressiva diminuzione della spesa sanitaria per gli anziani (Medicare), tagli al programma di assistenza sanitaria per i poveri (Medicaid), una riduzione delle imposte sulle attività imprenditoriali e sulle spese per l'istruzione nei bilanci familiari, accanto allo stanziamento di nuovi fondi per l'assistenza sanitaria agli immigrati.

I costi della linea centrista adottata da Clinton sembrarono comunque non pesare sul consenso che il presidente era riuscito nel frattempo a ottenere, grazie ai brillanti successi dell'economia statunitense e alla funzione svolta nella lotta al terrorismo internazionale, in nome del ruolo di custodi della sicurezza internazionale che gli Stati Uniti sembravano doversi assumere dopo la fine del bipolarismo. Ma nel gennaio 1998, con le prime indiscrezioni pubblicate da numerosi organi di stampa, prese l'avvio il cosiddetto Sexgate, uno scandalo relativo alla vita privata di Clinton che lo portò a sostenere una procedura di impeachment e minacciò di demolirne il credito morale e la forza politica.

Tuttavia, in una situazione economica positiva e quindi favorevole a una diffusa richiesta di stabilità, e dopo il successo internazionale conseguito nell'ottobre 1998 con la firma del trattato fra OLP e Israele, frutto di un impegno personale di Clinton durante i negoziati svoltisi a Wye Plantation (Maryland), i risultati delle elezioni di medio termine del novembre 1998 premiarono il presidente e il suo partito, indebolendo peraltro il fronte dei fautori dell'impeachment.

Alla vigilia dell'assoluzione da parte del Congresso (febbraio 1999), Clinton decise di riprendere i bombardamenti aerei contro l'Iraq con il sostegno della Gran Bretagna, senza consultare il Consiglio di sicurezza dell'ONU. Tale linea rifletteva il crescente ruolo egemonico degli Stati Uniti, che trovò larga conferma in occasione dell'intervento aereo della NATO contro la Iugoslavia (marzo-giugno 1999) per porre fine alla pulizia etnica operata in Kosovo dai serbi ai danni degli albanesi.

Nella stessa direzione di affermazione del ruolo americano si è volta la politica estera seguita da Clinton nel 2000, ultimo anno del suo mandato, che lo ha visto impegnato in diverse delicate visite di Stato, in Africa, nel subcontinente indiano, in Russia, in Colombia, in Vietnam. Ma soprattutto centrale è stato lo sforzo di negoziazione per il Medio Oriente, di cui sono stati momenti salienti in agosto il summit a Camp David, nel Maryland, fra Ehud Barak e Yasser Arafat, e in ottobre il tentativo di mediazione condotto a Sharm el Sheik in Egitto, dopo la ripresa delle ostilità fra Israele e Palestina.

Conferma indiretta del totale recupero della popolarità di Clinton negli Stati Uniti è stata la vittoria di larga misura ottenuta, il 7 novembre 2000, dalla moglie Hillary nelle elezioni per il seggio di senatore dello Stato di New York.

I partiti politici americani

Il sistema statunitense basato su due partiti ha le sue origini nell'opposizione tra federalisti e antifederalisti nei primi anni successivi all'indipendenza, ma solo a partire dalla seconda metà del 19° secolo la vita politica americana si è polarizzata nel confronto tra Democratici e Repubblicani quale oggi conosciamo. Nel corso del tempo i tentativi di allargare il sistema a un terzo partito non sono mancati, ma si sono rivelati ogni volta fallimentari. Nell'evoluzione verso il bipartitismo sembra abbia giocato un ruolo determinante proprio il meccanismo delle elezioni presidenziali, che richiede la presenza su un territorio così vasto di grandi organizzazioni in grado di concentrare e indirizzare le scelte degli elettori.

Nel sistema democratico americano la formazione dei partiti fu legata inizialmente all'esigenza di rendere effettiva l'organizzazione politica dell'opposizione, assicurando il meccanismo principale su cui si basa il corretto funzionamento del sistema stesso. Come ha scritto lo storico W.E. Binkley, ciascuno dei principali partiti politici americani "cominciò in effetti come un partito di anti-qualcosa".

Il primo partito politico a organizzarsi su scala nazionale, all'indomani del varo della nuova Costituzione, fu il Partito federalista, fautore di un forte governo centrale, espressione del carattere federale dell'Unione. Il Partito federalista si mantenne al potere dal 1789 al 1801, quando divisioni interne e difficoltà a organizzarsi allo scopo di vincere le elezioni favorirono l'affermazione delle forze di opposizione, coalizzatesi per iniziativa di Thomas Jefferson e James Madison.

Il nuovo partito, per enfatizzare l'ispirazione antimonarchica, assunse il nome di Partito repubblicano democratico e i suoi seguaci furono conosciuti anche come Repubblicani jeffersoniani. Organizzatosi a partire dagli anni Novanta del 18° secolo, il Partito repubblicano democratico, antecedente diretto dell'attuale Partito democratico, si caratterizzò per l'atteggiamento critico nei confronti delle tendenze aristocratiche dei federalisti e della politica economica delle due prime presidenze, che era stata indirizzata a favore dei ceti più elevati.

Dopo aver espresso tre presidenti (Jefferson, Madison e James Monroe), il Partito repubblicano democratico si divise, nel corso degli anni Venti del 19° secolo, in due tronconi: la corrente organizzata da Martin Van Buren, che, durante la presidenza di Andrew Jackson, adottò definitivamente il nome di Partito democratico, e i seguaci di John Quincy Adams, che assunsero il nome di Partito repubblicano nazionale. Da quest'ultima formazione, coalizzatasi con altri gruppi uniti dal dissenso nei confronti della politica di progressivo ampliamento della democrazia promossa dal presidente Jackson, nacque il Partito whig, che fu il principale protagonista della scena politica americana negli anni 1834-54. Il nome fu preso a prestito dalla tradizione politica britannica - dove i Whigs rappresentarono storicamente l'opposizione alla prerogativa regia - per esprimere l'ostilità nei confronti dell'indirizzo volto al rafforzamento del potere esecutivo che era perseguito da Jackson, per questo motivo polemicamente soprannominato 'King Andrew'.

Tra l'uscita di scena di Jackson (1837) e lo scoppio della Guerra civile (1861-65), il Partito democratico espresse quattro presidenti (Van Buren, James Knox Polk, Franklin Pierce e James Buchanan), ma sulla questione della schiavitù si verificò al suo interno una spaccatura tra nordisti e sudisti, che nelle elezioni del 1861 favorì la vittoria del nuovo Partito repubblicano. Nato nel 1854 dalla fusione di gruppi uniti dal comune rifiuto della schiavitù e dalla contrarietà alla sua estensione nei nuovi territori, il Partito repubblicano, oggi noto come Grand Old Party, si caratterizzò all'origine per l'accento posto sulla preminenza dell'interesse nazionale rispetto a quello dei singoli Stati e per il richiamo alla tradizione fortemente unionista del vecchio repubblicanesimo. Subentrati al Partito whig nell'opposizione ai Democratici, i Repubblicani, presentandosi come i difensori dell'unità della nazione e interpretando le esigenze della nuova economia in espansione, dominarono a lungo la vita politica americana a partire dai decenni che seguirono la fine della Guerra civile, conquistando spesso la presidenza in concorrenza con i Democratici e dando così vita alla dialettica politica che tuttora caratterizza le competizioni elettorali americane.

Il funzionamento dei partiti politici è ora in notevole parte regolato giuridicamente. Il sistema dei due partiti che si alternano al potere interferisce nell'amministrazione dello Stato attraverso quanto rimane ancora del sistema di sostituire i funzionari ogni volta che un partito succede all'altro nel potere (spoils system). Soppresso in gran parte questo sistema, sono enormemente aumentate le spese elettorali, con le elezioni, a livello locale, statale e confederale, che hanno tanta importanza per la vita americana e che debbono essere accuratamente organizzate, e con le convenzioni dei partiti per la scelta dei candidati alla presidenza. Così la legge è dovuta intervenire in modo da garantire a tutti i cittadini il diritto di prendere parte alle adunanze per la nomina dei candidati: tutti indistintamente alle primarie aperte, tutti i membri dei rispettivi partiti alle primarie chiuse. Grazie a questo complesso sistema non è più possibile che sia una cerchia ristretta di capipartito a controllare, attraverso la nomina dei candidati, l'intera macchina elettorale.

Glossario delle istituzioni politiche statunitensi

caucus (voce di origine algonchina) - Il termine prende origine a Boston nel Settecento dal nome di un club politico in cui si discutevano gli affari locali, si sceglieva il personale per gli uffici pubblici e si preparavano le elezioni. In seguito è passato a indicare le riunioni che i dirigenti di un partito tengono allo scopo di indicare candidati, stabilire programmi o fissare l'ordine dei lavori per le assemblee generali. Dal 1796 al 1824 il caucus dei membri repubblicani del Congresso ebbe grandissima influenza nel nominare il presidente e il vicepresidente della Repubblica, funzione che a partire dal 1882 fu assunta dal sistema delle convenzioni (v.).

collegio elettorale (electoral college) - Nel sistema politico americano indica il gruppo di elettori scelti all'interno di ogni Stato allo scopo di eleggere il presidente e il vicepresidente; ogni Stato ha tanti elettori presidenziali quanti rappresentanti nelle due Camere del Congresso. Il meccanismo della doppia elezione fu adottato dai costituenti per garantire la più ampia rappresentanza possibile del presidente, in un periodo in cui l'elezione popolare diretta, per la difficoltà delle comunicazioni e l'assenza di organizzazioni partitiche nazionali, rischiava di disperdere il voto tra una miriade di candidati regionali. Questo tipo di elezione a doppio grado avrebbe assicurato la nomina degli uomini migliori di ogni Stato, i quali a loro volta avrebbero scelto i più adatti a svolgere le funzioni di presidente e vicepresidente. Il fatto che un candidato dovesse ottenere la maggioranza dei voti del collegio elettorale veniva considerato il modo migliore di garantire al presidente un consenso su scala nazionale. Tuttora il presidente è eletto dal collegio degli elettori presidenziali (v.), ma la funzione di questi ultimi è nel frattempo notevolmente cambiata, essendo essi di fatto vincolati ormai alle scelte dei partiti, nonostante la Costituzione garantisca loro la discrezionalità. Prima del voto popolare, i partiti hanno già scelto i loro candidati alle due più alte cariche e il compito degli elettori presidenziali si riduce pertanto a quello di rendere effettiva una scelta già fatta dal partito di appartenenza.

Congresso - È l'organo del potere legislativo ed è composto da due Camere: il Senato e la Camera dei rappresentanti. La Camera dei rappresentanti è scelta a scrutinio diretto dall'elettorato di ogni Stato; il numero dei rappresentanti varia a seconda della popolazione dei singoli Stati e non può superare complessivamente la quota di quattrocentotrentacinque. Per diventare rappresentante occorre avere almeno venticinque anni di età, risiedere nello Stato dal quale si è eletti ed essere cittadini statunitensi da almeno sette anni. Il mandato di rappresentante ha la durata di due anni. Tra i poteri più importanti della Camera dei rappresentanti c'è il diritto di dare inizio al procedimento di impeachment (v.). I senatori sono eletti in numero di due per ogni Stato a prescindere dall'entità della popolazione, con voto popolare diretto, a partire dal 1913 (XVII emendamento; prima di allora l'elezione dei senatori avveniva per via indiretta da parte delle assemblee legislative dei singoli Stati). Per diventare senatore occorre avere almeno trenta anni di età, risiedere nello Stato ed essere cittadino statunitense da almeno nove anni. Il mandato senatoriale dura sei anni e la scadenza dei mandati è ordinata in modo che un terzo dei membri sia eletto ogni due anni. Il Senato è chiamato a giudicare dei procedimenti di impeachment avviati dalla Camera dei rappresentanti: per la condanna è richiesta una maggioranza dei due terzi dei senatori.

convenzione (convention) - Con il nome di constitutional conventions si indicavano nei primi anni della Rivoluzione americana (1774-76) gli organi sostitutivi delle assemblee legislative delle colonie. Formate per elaborare le Costituzioni, ebbero carattere permanente anche nel corso del conflitto con la madre patria; spesso erano elette dal popolo e al voto popolare fu quasi sempre sottoposta per l'approvazione la Costituzione da esse proposta. National convention è chiamata oggi negli USA ciascuna delle assemblee che i partiti politici organizzano ogni quattro anni per nominare i candidati alla presidenza e alla vicepresidenza. Oltre a scegliere i candidati del partito, la convenzione ha anche il compito di formulare la piattaforma elettorale, ossia il programma politico con cui il partito affronta la campagna per le elezioni. I delegati alla convenzione nazionale sono scelti attraverso elezioni dette primarie (v.).

Costituzione - La Costituzione federale degli Stati Uniti d'America, elaborata nel 1787, approvata nel 1788, entrò in vigore il 4 marzo 1789. Da allora essa è stata ritoccata con 27 emendamenti, la maggior parte dei quali è volta a renderla più democratica (elezione popolare dei senatori, suffragio femminile ecc.); i primi dieci (del 15 dicembre 1791) si possono considerare parte integrante della Costituzione stessa e formano il cosiddetto Bill of Rights; gli emendamenti XIII, XV e XIX furono introdotti per abolire la schiavitù e dare piena cittadinanza, con diritto di voto, agli ex schiavi; l'ultimo emendamento introdotto (del 1992) riguarda il compenso dei membri del Congresso. La proposta di emendamenti alla Costituzione deve essere avanzata da due terzi del Congresso o da una Convenzione nazionale, e deve essere ratificata da tre quarti delle assemblee legislative degli Stati o delle Convenzioni degli Stati. elettori presidenziali (Presidential electors) - Sono i Grandi elettori componenti il collegio elettorale (v.) che ha la funzione di eleggere il presidente e il vicepresidente. Gli elettori presidenziali sono definiti 'funzionari degli Stati', ma non ne hanno lo status giuridico, né lo stipendio, dal momento che la loro unica funzione, quella di eleggere il presidente, è federale, conferita loro non dai singoli Stati ma direttamente dalla Costituzione. Fino al 1832, nella maggioranza degli Stati, gli elettori presidenziali erano eletti dalle assemblee legislative degli Stati stessi; solo in seguito cominciarono a essere eletti direttamente dal popolo. Oggi sono eletti con voto popolare diretto basato sullo scrutinio di lista, che attribuisce alla lista che ottiene la maggioranza la totalità dei voti assegnati allo Stato. Ognuno dei cinquanta Stati, e il distretto della capitale Washington, nominano un numero di elettori uguale al numero dei senatori (due per ogni Stato) e dei rappresentanti che esso può mandare al Congresso (in numero proporzionato alla popolazione dello Stato). Gli elettori presidenziali di ciascuno Stato votano in blocco per il candidato alla presidenza che in quello Stato ha ottenuto il maggior numero di voti popolari diretti. Questo sistema fa sì che obiettivo principale dei partiti diventi quello di accaparrarsi gli elettori presidenziali dei grandi Stati, che dispongono di un numero maggiore di voti elettorali. Ne consegue che un presidente può essere eletto con una maggioranza di voti elettorali superiore a quella dei voti popolari, o addirittura che possano essere eletti i cosiddetti 'presidenti di minoranza', ovvero presidenti che hanno riportato la maggioranza dei voti elettorali ma non quella dei voti popolari (tale circostanza, che si era verificata con l'elezione di R.B. Hayes nel 1876 e con quella di B. Harrison nel 1888, si è ripetuta nelle elezioni del 2000, in cui Al Gore ha ottenuto più voti popolari di G.W. Bush). Il primo lunedì successivo al secondo mercoledì di dicembre, in ogni Stato, i grandi elettori che rappresentano i voti elettorali si riuniscono e votano separatamente per il presidente e il vicepresidente. Entro la fine del mese i risultati vengono trasmessi all'ufficio federale del registro, che li sottopone alla verifica del Congresso. La Costituzione americana così si esprime sui Presidential electors: "Ogni Stato nominerà [...] un numero di Elettori pari al numero complessivo dei senatori e dei rappresentanti che lo Stato ha diritto di mandare al Congresso; ma né senatori, né rappresentanti, né altri che abbiano incarichi fiduciari o retribuiti alle dipendenze degli Stati Uniti, potranno essere nominati elettori" (art. II, sez. I, c. 2).

impeachment (dal francese empêchement, "ostacolo, impedimento") - È l'incriminazione, la messa in stato d'accusa di un pubblico ufficiale o di un membro del governo. Originatosi in Inghilterra come strumento per colpire gli abusi e le malversazioni di ministri e alti funzionari non punibili dalla magistratura ordinaria, l'istituto dell'impeachment è tuttora in vigore negli Stati Uniti. La Costituzione stabilisce che il presidente, il vicepresidente e ogni alto funzionario devono essere destituiti se, in seguito ad accusa mossa dalla Camera dei rappresentanti, siano stati dal Senato giudicati colpevoli di tradimento, corruzione o altri gravi reati o violazioni dei loro doveri. L'impeachment non determina sanzioni di natura penale ma politica e non può avere altro effetto se non la rimozione dalla carica o l'interdizione dai pubblici uffici; il funzionario colpito potrà peraltro essere giudicato separatamente secondo la legge ordinaria. A. Johnson, succeduto nella carica in seguito all'uccisione di Lincoln, fu il primo presidente degli Stati Uniti sottoposto alla procedura di impeachment: giudicato dal Congresso il 16 maggio 1868, fu assolto per la mancanza di un solo voto alla maggioranza di due terzi prevista dalla Costituzione. Contro R. Nixon, nel 1974, la Camera dei rappresentanti votò tre articoli di impeachment, ma il presidente si dimise prima della fine del procedimento.

presidente - Eletto per quattro anni da un collegio elettorale (v.) composto di rappresentanti di ogni Stato, il presidente è il detentore del potere esecutivo. Non è responsabile verso nessuno, e può essere deposto solo su accusa della Camera dei rappresentanti, e per deliberazione del Senato a maggioranza di due terzi (v. impeachment). Il presidente nomina il suo gabinetto con assoluta libertà, fra uomini di fiducia del suo partito (non c'è controfirma dei ministri o segretari di Stato). Ha il diritto di veto sulle leggi votate dal Congresso (v.), entro dieci giorni dalla votazione, e il suo veto può essere invalidato solo se la legge in questione viene di nuovo approvata a maggioranza di due terzi. Il presidente può convocare il Congresso in sessioni straordinarie, aggiornarlo o prorogarlo solo in caso di disaccordo tra le Camere; non ha diritto d'iniziativa. È il comandante in capo delle Forze armate, può stipulare trattati con potenze estere (soggetti però all'approvazione del Senato, con maggioranza di due terzi dei presenti; e, se legati a operazioni finanziarie, anche della Camera dei rappresentanti); nomina e dimette i funzionari federali, compresi quelli del servizio diplomatico e consolare. Per i funzionari superiori, diplomatici, specialmente giuridici, occorre l'approvazione del Senato. In caso di perturbamenti dell'ordine interno, il presidente esercita una dittatura limitata. I rapporti del presidente con il Congresso si svolgono attraverso 'messaggi', nei quali egli espone il proprio parere su leggi da proporsi ed elaborarsi su iniziativa del Congresso stesso. Il presidente è eleggibile fra i cittadini statunitensi, tali per nascita, di trentacinque anni compiuti, residenti negli Stati Uniti da almeno quattordici anni. È rieleggibile soltanto per un secondo mandato (XXII emendamento della Costituzione, del 1951). Se il presidente muore mentre è in carica, il vicepresidente, che viene eletto contemporaneamente, ma con elezione separata (XII emendamento, 25 settembre 1804), gli succede automaticamente. Il vicepresidente è presidente del Senato, ma non esercita alcuna funzione politica, come neppure i membri del gabinetto, che non fanno parte del Congresso e sono semplici consiglieri del presidente e amministratori dei rispettivi dicasteri, cioè: Segreteria di Stato (Esteri), del Tesoro, della Guerra, della Giustizia, delle Poste, della Marina, degli Interni, dell'Agricoltura, del Commercio, del Lavoro. In caso di deposizione, di morte, dimissioni o incapacità del presidente e del vicepresidente, le funzioni presidenziali sono assunte dai ministri, nell'ordine sopra riportato.

primarie - Sono elezioni, organizzate e disciplinate dai singoli Stati, che si svolgono allo scopo di nominare i candidati di un partito alle elezioni vere e proprie. Si dicono chiuse le primarie in cui possono votare solo gli iscritti al partito; aperte quelle cui possono votare tutti gli elettori senza dover dichiarare la propria appartenenza a un partito. Le primarie chiuse possono essere a loro volta dirette, quando gli elettori scelgono direttamente i candidati; indirette, quando gli elettori votano i delegati che hanno il compito di scegliere i candidati a una convenzione. Le primarie presidenziali sono in molti Stati primarie indirette e hanno lo scopo di inviare delegati alla convenzione (v.) del partito. Introdotto all'inizio del secolo 20°, quello delle primarie si andò affermando come il sistema in grado di fornire più ampie garanzie democratiche all'interno dei partiti, riducendo notevolmente l'influenza dei notabili, predominante nel tradizionale sistema dei caucus (v.). Buona parte dei delegati eletti alle primarie è vincolata a votare in modo da rispettare la scelta dei suoi elettori. Il candidato che abbia dalla sua parte sufficienti voti di delegati scelti alle primarie non incontra difficoltà a ottenere la nomina da parte della convenzione: benché la nomina dei candidati spetti ai lavori della convenzione nel suo complesso, il peso delle primarie si è andato facendo sempre più determinante a spese degli apparati dei partiti.

spoils system ("sistema delle spoglie") - È la pratica per la quale il partito politico che vince un'elezione ricompensa i propri sostenitori affidando loro posti nella pubblica amministrazione. Questo sistema implica da una parte l'impegno dei pubblici impiegati a sostegno del proprio partito, dall'altra la rimozione degli stessi nel caso in cui il partito d'appartenenza perda le elezioni. Il sistema delle spoglie estende fino ai gradi inferiori della pubblica amministrazione quel cambio di personale politico che, alle sfere più elevate, si verifica in ogni altro sistema in caso di avvicendamento dei partiti al governo. In continua espansione a partire dagli anni Venti dell'Ottocento fino al periodo successivo alla guerra civile, negli ultimi decenni del 19° secolo questo sistema di reclutamento del personale amministrativo, a causa degli abusi cui dava luogo, è stato a poco a poco sostituito da un sistema basato sul merito. Alla fine del 20° secolo il reclutamento per merito ha quasi totalmente soppiantato il sistema delle spoglie, almeno per quanto riguarda il governo federale, quello degli Stati e delle grandi città.

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