SPECCHIO

Enciclopedia dell' Arte Antica (1997)

Vedi SPECCHIO dell'anno: 1966 - 1997

SPECCHIO (ν. vol. VII, p. 433)

S. M. Cecchini
G. Sassatelli
I. Iannaccone

Egitto. - I molti esemplari e l'abbondante documentazione figurata di s. metallici egiziani sono stati oggetto di numerosi studi. Sono pubblicate le collezioni dei musei del Cairo, di Berlino, del Louvre e dell'University College di Londra; sono inoltre descritte le rappresentazioni figurate e studiati i contenuti simbolici. Nell'esaustivo studio di Ch. Lilyquist sono passati in rassegna tutti gli esemplari di s. metallici e tutte le rappresentazioni figurate dal periodo arcaico al II periodo intermedio e di essi si danno accurata collocazione cronologica, caratteri fisici e tipologici, provenienza.

Gli s. egiziani sono stati rinvenuti quasi totalmente in sepolture, più numerosi in quelle femminili, ma anche in quelle maschili e infantili, appartenenti a tutte le classi sociali; solo raramente sono emersi da ambienti templari e domestici, ma lo stato di usura di molti esemplari ne dimostra l'impiego quotidiano; nei sarcofagi gli s. si trovavano disposti vicino al viso, presso il capo del defunto o nelle sue mani o tra le fasce; all'interno del sarcofago stesso lo s. era frequentemente dipinto vicino al viso. Nelle rappresentazioni figurate è posto in mano ai personaggi femminili, sotto i tavoli, su cassette da toilette. Le sole rappresentazioni di s. in scene di azione sono quelle della fine dell'Antico Regno, raffiguranti la manifattura e le danze degli s., probabilmente legate al culto di Ḥatḥor.

Quando gli esemplari da contesto ignoto non hanno il manico risulta difficile attribuire loro una datazione precisa (comunque il codolo in origine corto e largo tende a divenire più lungo e sottile dal Medio Regno in poi). Gli s. metallici sembrano apparire in Egitto all'epoca delle dinastie arcaiche (I-III), con sporadici esemplari trovati a Saqqāra, Abu Sir, Sedment, Helwan. In età coeva nell'area mesopotamica sono più diffusi, ma non è dimostrabile una loro influenza sui prodotti egiziani, che sono di tipologia particolare, cordiforme, cioè con restringimento progressivo della parte inferiore verso un codolo allungato. Tra la fine dell'Antico Regno e il I periodo intermedio gli esemplari datati all'epoca della VI dinastia assumono per lo più la forma a disco schiacciato, con corto codolo a lati paralleli, ma non mancano esemplari rotondi; di alcuni singolari s. lotiformi da Abido (invv. CGC 44051; BM 57900) è messa in dubbio la funzione; nelle rappresentazioni figurate coeve compaiono anche s. cordiformi.

Agli s. egiziani, in quanto riflettenti l'immagine della persona, per la loro forma associata con il sole e per i loro riferimenti alla Ḥatḥor rigeneratrice, è comunemente attribuito un valore simbolico. La forma schiacciata, che diverrà peculiare di tutta la produzione egiziana, è quella definita da G. Bénédite «solare» per la sua somiglianza con il disco solare all'alba e al tramonto, ma è associabile anche con il disco lunare; ai due astri infatti sembrano alludere le coppie di s. dipinti in sepolture del Medio Regno, in cui accanto a un esemplare con il disco colorato in giallo o arancio o rosso ne è raffigurato un altro con disco colorato in bianco. In età greco-romana venivano offerte in voto nei templi coppie di s. rappresentanti il sole e la luna.

I dischi, spesso a superficie curva, erano fusi in un solo pezzo con il codolo. Quelli sottoposti ad analisi chimica, datati al periodo precedente al Nuovo Regno, risultano fusi in una lega ad altissimo contenuto di rame con componente minoritaria di arsenico e rara presenza di stagno. Pochi esemplari erano in argento, mentre quelli d'oro esistettero probabilmente, a giudicare dai colori di alcune raffigurazioni, ma dovette essere consueto anche l'uso di dorare o argentare i dischi in bronzo; dalla fine dell'Antico Regno al I periodo intermedio fu comune l'uso di incidervi il nome del proprietario (invv. CGC 44074, 44075). La misura media variava tra i 9 e 15 cm con eccessi in un senso e nell'altro (lo s. di Amenemḥet II, XII dinastia, raggiunge i 40 cm e piccoli s. in miniatura non superano i 3 cm). Il codolo veniva infisso nel manico e fissato a esso con un mastice resinoso o con ribattini; quando il codolo stesso è fissato al disco con ribattini si tratta probabilmente di una riparazione.

Scarsi sono i resti di manici databili all'Antico Regno, tutti di legno, a colonna papiriforme, ma non è improbabile che si usassero anche s. senza manici. Pochi sono quelli conservati nella documentazione del I periodo intermedio; sono per lo più papiriformi con umbella compatta, spesso in legno, più raramente in avorio. Vi sono diversi esemplari di s. con manico in legno a forma di stendardo divino (inv. CGC 44048-44050), ma i molti modelli lignei dello stesso tipo di oggetto, trovati nelle sepolture insieme con s. normali, sembrano indicare una funzione essenzialmente cerimoniale-funeraria; in rappresentazioni figurate ad Asyūṭ e a Tebe il tipo è chiaramente in legno. A questo periodo sono attribuiti anche due manici di Abido e Tebe con testa hathorica. Durante il II periodo intermedio (XIII-XVII dinastia) la documentazione relativa ai manici è più abbondante: il tipo più diffuso è ancora il manico a colonna di papiro costituito comunemente da due pezzi, un fusto e un'umbella compatta o estesa con volute laterali. Molti di questi manici erano decorati variamente, con incisioni e/o rivestimenti in materiali diversi, a volte preziosi; occasionalmente i manici papiriformi vengono decorati in quest'epoca con volti di Ḥatḥor (Boston, inv. 201791) o di leonessa; proprio in questo periodo si aggiungono sull'umbella estesa coppie di falchi o di urei probabilmente fusi in un solo pezzo con il fusto, spesso decorato con un motivo a treccia semplice o complesso (Boston, invv. 201790-201793). Compare un nuovo tipo di manico a forma di mazza (o di geroglifico ḥm, il cui significato di «servitore» può ben alludere al manico «servitore» del disco: inv. CGC 44010). Fin dalla XII dinastia lo s. è rappresentato nei testi geroglifici come un disco con il manico a forma di mazza, quasi sempre accompagnato dal geroglifico 'ankh il cui significato può alludere al valore simbolico dell'oggetto.

Il numero di manici conservati databili al Nuovo Regno appare particolarmente grande a causa della diffusione di quelli in metallo, per lo più in bronzo, mentre manici in materiali deperibili, avorio o legno, delle età precedenti sono andati in gran parte perduti. Da quest'epoca si diffonde l'uso di manici a forma di figurine, soprattutto femminili, per lo più in bronzo, ma spesso anche in avorio, nude, alcune con braccia tese lungo il corpo, altre con un braccio piegato al petto, altre ancora con le braccia sollevate a toccare le estremità dall'umbella estesa (invv. CGC 44038, 44034, 44041, 44042, 44044, 4405; Berlino, invv. 13187, 2775). Continuano a essere frequenti le forme di manici a colonna di papiro con umbella estesa semplice o con coppie di falchi sulle estremità; sono diffusi anche i manici a forma di testa di Ḥatḥor (Berlino, inv. 2818) e a figurina di Bes (inv. CGC 44047; Berlino inv. 4671).

I soli s. dell'epoca saita sicuramente databili sono una serie di Mit Rahīna, con disco di tipo cordiforme schiacciato, decorato con una scena di offerta di uno s. alla dea Mut all'interno di un naòs, incisa sul rovescio; il manico di alcuni di essi è generalmente in bronzo, talvolta in avorio, a testa di Ḥatḥor, le cui corna a semicerchio circondano il disco metallico (inv. CGC 44076-44080). In Bassa Epoca a Dendera sono numerose le rappresentazioni del rito dell'offerta degli s. a Ḥatḥor «signora dello specchio». Alcuni esemplari trovati in tombe reali di Napata e di Meroe, in argento o in bronzo con impugnatura d'oro, hanno un manico complesso a colonna papiriforme intorno al quale sono collocate quattro statuette di divinità.

La fragilità e la necessità di proteggere il disco metallico dalle rigature resero comune l'uso di custodie e astucci entro i quali comunque gli s. dovevano essere inseriti avvolti in pezzi di stoffa di cui rimangono i resti impressi su dischi di tutte le epoche. Dalle raffigurazioni appare che il manico dello s. emergeva da un astuccio semicircolare dotato a volte di una cinghia di sospensione (Berlino, inv. 13), posto spesso sotto il trono del faraone, di quello della sua sposa, o appeso per la cinghia al trono stesso. Il tipo più corrente era realizzato in foglie di papiro o di palma intrecciate (inv. CGC 44099); venivano usate anche pelli di animale su un'intelaiatura di legno flessibile. Dal II periodo intermedio sono note scatole-contenitori che riproducono per lo più la forma dello s. e sono a volte accuratamente e riccamente decorate all'esterno (inv. CGC 44101, XXI dinastia), mentre l'interno è sempre piuttosto grezzo.

Vicino Oriente e Cipro. - Gli s. in metallo (rame, bronzo, più raramente argento) rinvenuti nel Vicino Oriente provengono quasi tutti da corredi tombali. Per conservarli non si faceva uso di astucci, come in Egitto, ma generalmente si avvolgevano in un pezzo di stoffa, i cui resti in alcuni casi si sono conservati aderenti al metallo. È raro il ritrovamento di s. che conservino la loro impugnatura, costituita per lo più da cilindri di legno, d'osso o di metallo, ma sono da riconoscere probabilmente come manici di s. alcune figurine d'avorio dei primi secoli del I millennio a.C. I più antichi, prodotti in una lega ad altissima percentuale di rame e scarsa o nulla presenza di stagno, sono sporadicamente noti nel Vicino Oriente da siti mesopotamici ed elamici del periodo di Uruk; la documentazione successiva proviene per la maggior parte da tombe del periodo di Ğemdet Naṣr finale e del periodo protodinastico.

Lo studio recente di F. Talion sulla metallurgia di Susa ha individuato due tipologie fondamentali: A) s. circolari; B) s. con codolo o impugnatura che a loro volta possono distinguersi in due sottotipi: B1) a disco sottile, codolo corto e stretto a bordi convergenti; B2) a disco spesso, codolo largo a bordi paralleli.

A Tellō, potrebbero essere stati in uso già all'epoca di Uruk, s. del tipo A, costituiti da dischi di metallo semplici, poi da dischi con bordi ribattuti. Anche nelle tombe del livello IV, 1 di Siyalk si sono rinvenuti due s. di questo tipo, mentre non sono noti esemplari coevi da Susa. Qui la necropoli del periodo I (‘Ubayd finale) ha restituito alcuni s. di tipo A, dischi semplici con spessore tra 1,5 e 2,5 cm e diametro tra 9,2 e 17,2 cm.

Il sottotipo B1, conosciuto a Susa solo in tre esemplari, è diffuso in Mesopotamia soprattutto a partire dalla fine del periodo di Ğemdet Naṣr e per tutto il periodo protodinastico; esso è documentato da esemplari provenienti da Khafāğa (tra i quali uno con manico conico di metallo), dalla necropoli Y di Kiš, da Aḥmad al-Ḥattu (con manico di legno rivestito di lamina di rame) e dalla tomba 300 di Mari (inv. M. 1479). Questo tipo continuò a essere in uso anche in epoca posteriore, almeno fino agli inizî del II millennio, come documentano un esemplare dell'epoca di Ur III a Uruk e due di Susa databili al tempo della I dinastia babilonese. Forme anomale, assenza di manici e condizioni di ritrovamento rendono a volte difficile l'interpretazione degli oggetti di metallo come s.: è dubbia tale funzione per gran parte degli esemplari di Ur (invv. U. 17840,19494,12697, 11453, 11484, 8332 d'argento, 14248).

Il sottotipo B2, prevalente a Susa nel Protodinastico III, è documentato anche da alcuni esemplari rinvenuti in Iran e in Asia centrale. Si caratterizza per lo spessore da 3 a 6 mm del disco, spesso leggermente bombato, mentre il codolo, piuttosto corto e largo a bordi paralleli o un po' convergenti o a coda di rondine, è di spessore minore. Secondo F. Talion la forma a coda di rondine avrebbe influenzato tra la fine del III e l'inizio del II millennio i metallurgisti della Battriana che, aggiungendo due volute, avrebbero dato al codolo un aspetto antropomorfo (inv. AO 28539). Anche s. dello stesso tipo a manico antropomorfo dell'Afghanistan nord-orientale sono considerati ispirati ai tipi della Battriana. In Mesopotamia il sottotipo B2 sembra documentato in modo dubbio e sporadico forse dall'esemplare di Ur, inv. U. 15164; uno s. con corto e largo codolo a bordi paralleli della tomba 135 della necropoli A di Kiš, uno simile trovato a Biblo nella c.d. giara Montet, potrebbe essere un'importazione egiziana poiché mostra strette analogie con gli s. della VI e VII dinastia.

La documentazione del II millennio, alquanto scarsa, non mostra cambiamenti in queste tipologie fondamentali. Risulta difficile inoltre, in mancanza dei manici, distinguere la produzione locale dalle importazioni, identificate a volte come egiziane sulla base della forma schiacciata dei dischi; gli s. in metallo, spesso prezioso, erano infatti tra gli oggetti preferiti nei doni fra sovrani (p.es. due s. d'argento con manico raffigurante una donna, rispettivamente in avorio e in ebano, erano nella lista dei doni che Tušratta re di Mitanni inviò ad Amenophis IV quando questi ne sposò la figlia Tadukhepa: E A 14 II 75-79; EA 25 II 56-59). Verosimilmente importato dall'Egitto è lo s. d'argento della tomba II di Biblo (prima metà del II millennio), che conserva il manico papiriforme di legno parzialmente rivestito d'oro; in mancanza dell'impugnatura si può solo definire la tipologia di un altro esemplare d'argento di Biblo, dalla tomba I, con codolo corto a bordi leggermente convergenti. Un codolo piuttosto lungo presenta lo s. di bronzo trovato in una tomba medio-assira di Mari (inv. AO 19081). Di importazione egiziana è probabilmente lo s. d'argento a forma leggermente schiacciata con codolo lungo e sottile, trovato in una sepoltura del XIII sec. a Deir el-Balaḥ in Palestina, come anche lo s. con manico, a figurina femminile, e resti di tessuto sul disco, trovato in una tomba di ‘Akko del XIV sec. e gli s. di Tell el-‘Ağğul attribuiti alla XVIII e XIX dinastia. Di origine egiziana sono stati considerati anche altri due s. rinvenuti nello stesso sito e datati sulla base dei contesti all'epoca della XVIII dinastia: la forma circolare dei dischi e l'assenza di manici rende tuttavia dubbia tale affermazione. Le stesse riserve riguardano anche l'attribuzione dei due esemplari di bronzo della tomba 57 di Dhaḥrat el-Ḥumraya.

A Cipro le tombe del Tardo Bronzo testimoniano della popolarità dei modelli egiziani, anche se la mancanza dei manici rende sempre difficile l'attribuzione; accanto a s. a disco rotondo e codolo vi sono esemplari, verosimilmente importati dall'Egitto, con disco leggermente schiacciato e codolo alquanto lungo, trovati in tombe di Kition, di Enkomi e di Kouklia, i cui corredi sono datati al Cipriota Tardo II e III, senza il foro di ribattino, che caratterizza invece alcuni degli esemplari a disco rotondo degli stessi siti. H. W. Catling ricorda per Cipro un solo esemplare di disco senza codolo e con fori di rivettatura, trovato a Enkomi, che ritiene quasi certamente un'importazione egea.

Un problema a parte è rappresentato dai tre manici d'avorio, con fusto decorato a treccia e targhetta decorata a rilievo sulle due facce con motivi di lotta tra eroe e leone, tra eroe e grifone, tra leone e toro, trovati in tombe di Enkomi (da qui proviene anche un frammento di targhetta con lotta tra eroe e grifone) e di Kouklia del XIII e XII sec.; nonostante la somiglianza esteriore con gli esemplari micenei, ne differiscono per il punto di attacco che appare tipicamente cipriota (hanno fori di infissione per il codolo sulla faccia superiore della targhetta, mentre i dischi degli s. micenei venivano inseriti in una fessura della targhetta e fìssati con ribattini), tanto che è stato messo in dubbio il loro stesso ruolo di manici di s. a favore di una funzione come manici di ventagli. Sono considerati per tipologia e per caratteri stilistici e iconografici prodotto di una stessa bottega cipriota.

Un esemplare tipologicamente simile ai precedenti, privo del fusto e decorato con il motivo della vacca che allatta, proviene da Qaw el-Kebir nell'Alto Egitto, ove potrebbe essere stato importato dall'Oriente all'epoca della XIX dinastia. Un manico dello stesso tipo nella collezione già Borowski, decorato sommariamente a incisione con grifoni ai lati di una pianta sacra su un lato e con motivi antropomorfi e un'iscrizione in caratteri fenici sull'altro, è ritenuto piuttosto un'impugnatura di ventaglio databile al I millennio; altri due o tre esemplari simili, con decorazione incisa assai semplice e scarsamente leggibile per il pessimo stato di conservazione, sono stati trovati in tombe di Kition del Cipriota Tardo.

Dalla documentazione iconografica neo-ittita degli inizî del I millennio appare evidente che lo s. è un attributo della divinità femminile (verosimilmente Kubaba), ma anche della donna in genere; gli s. sono in mano alla dea (come già nel II millennio su un rilievo ittita di Alaca Hüyük) nei rilievi di Birecik, Karkemiš, Malatya e Zincirli; a personaggi femminili sui rilievi di Karkemiš e su stele di Maraş; su questi monumenti lo s. si trova di frequente associato al fuso come attributo divino e ancora in età romana i due oggetti appaiono in mano alla dea Syria su un'ara dei Musei Capitolini (v. vol. III, fig. 17). Nelle riproduzioni figurate gli s. hanno un manico che spesso si congiunge al disco con una doppia voluta singola o sovrapposta. L'unica raffigurazione assira di s. è quella che appare sulla tavola di bronzo (inv. AO 20185) in cui è raffigurata la regina Naqi'a, madre di Asarhaddon, che reca in mano uno s. con un manico a targhetta di passaggio quadrangolare; è un tipo che trova un preciso confronto con un esemplare della residenza di Khorsābād, databile alla fine dell'VIII sec. a.C., uno tra i rarissimi trovati in un contesto non funerario, come quello dello strato IV di Ḥazor all'incirca coevo.

Gli esemplari di s. databili ai primi secoli del I millennio sono assai rari, mentre la documentazione torna a essere abbondante in area siro-palestinese nelle tombe di età persiana, con alcuni esemplari di Deve Höyük II, Til Barsip, Neirab, Gezer, Lakiš e Meqabelin, caratterizzati tutti da un codolo lungo e più o meno sottile; tra i numerosi s. di 'Atlit vi è uno dei rari esemplari che conserva il manico originario, un cilindro d'osso fissato conn ribattini di bronzo al codolo decorato con motivi circolari incisi; un altro esemplare di ‘Atlit riproduce il tipo raffigurato sui rilievi neo-ittiti, con un codolo che si allarga in due volute nel punto di congiunzione. Anche a Cipro la documentazione torna a essere abbondante in età persiana; i numerosi esemplari di Amatunte provengono da tombe, spesso riusate, i cui corredi sono databili a partire dal periodo Cipriota Classico I e II. Vi sono state individuate due tipologie fondamentali di s., sempre privi di manici, a codolo semplice e con targhetta di passaggio che può essere un semplice trapezio o assumere la forma di un capitello a volute, del tipo di quello di 'Atlit.

In Iran nella necropoli Β di Siyalk quasi tutte le tombe femminili contenevano s. bronzei del tipo a semplice disco con lungo codolo, destinato a essere infisso in un manico d'osso o di legno. La maggior parte degli s. del Luristan rientrano in questa tipologia, comune a tutto il Vicino Oriente; altri esemplari sono a disco con anello di sospensione fissato con ribattini; più raro il tipo dal manico a forma di figura femminile nuda con le braccia alzate che reggono il disco; sono considerati non originarî del Luristan gli s. formati da dischi sul cui rovescio è fissato un manico di bronzo terminante alle estremità con teste di leoni. Non è certa la funzione come s. di oggetti di bronzo che compaiono in tombe della regione di Amlaš databili tra il VI e il IV sec. a.C.: formati da un disco con una larga appendice rettangolare o quadrangolare, a volte espansa a coda di rondine o terminante con due globi, decorati per lo più a motivi geometrici con file di punti a sbalzo, sono comunemente descritti come specchi. Tre s. dell'Ashmolean Museum, formati da dischi di bronzo con codolo e decorati da una protuberanza centrale circondata da linee concentriche, sono attribuiti al tardo periodo partico o sasanide.

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(S. M. Cecchini)

Grecia. - Negli ultimi decennî lo studio degli s. greci ha tratto vantaggio da nuovi rinvenimenti e dall'analisi tipologica e stilistica di alcune categorie di manufatti. Accanto a singoli esemplari di s. in metalli preziosi (oro e argento), ve ne sono di più ordinari in bronzo ad alto tenore di stagno, che per malleabilità, resistenza e possibilità di impiego, è il materiale più idoneo alla loro fabbricazione. La suddivisione tipologica degli s. in bronzo ha inevitabilmente portato a una classificazione molto schematica, all'interno della quale è difficile collocare con precisione alcune forme miste. Numerosi sono gli esemplari che, completamente privi di decorazione, possono essere valutati soltanto da un punto di vista funzionale. Solo una limitata percentuale di s. è suscettibile, sulla base dei diversi elementi decorativi, di un'analisi storico-artistica e storico-culturale. La tendenza più promettente è pertanto quella che considera lo s. in primo luogo come strumento di uso comune, la cui funzione viene determinata mediante l'analisi delle innovazioni in rapporto al livello tecnico della coeva metallurgia del bronzo. Tale approccio consente inoltre una migliore comprensione della scelta delle diverse forme decorative.

La questione concernente l'origine degli s. greci è stata riportata in primo piano da nuovi rinvenimenti. Si tratta, in particolare, di due s. in bronzo stagnifero comparsi sul mercato antiquario. Entrambi, lavorati presumibilmente nella medesima officina, appartengono a una categoria di s. in cui il disco circolare è fuso in un solo pezzo insieme al manico piatto. Una figura maschile che conduce a mano due cavalli, rappresentata in bassorilievo sulla piastra del manico, suggerisce per i due pezzi una datazione nella seconda metà dell'VIII sec. a.C. Sotto il profilo tecnico si osservano analogie con la fusione dei tripodi geometrici. Sfortunatamente i luoghi di rinvenimento dei due s. non sono noti, tuttavia questi antichi esemplari dimostrano che gli artigiani del periodo geometrico non avevano ancora elaborato una precisa tipologia dello s. e che seguivano influssi diversi. Non è possibile stabilire alcun legame storico-evolutivo con gli s. minoici e micenei, nei quali il disco metallico era fissato a un manico lavorato in materiali diversi (p.es. avorio, osso, legno).

Gli s. metallici dovevano avere una superficie accuratamente levigata. L'uso continuato ne comprometteva la capacità riflettente. Entrambi gli esemplari tardo-geometrici testimoniano l'esigenza di proteggere il disco dal contatto diretto delle mani, e quindi dalla possibilità di sporcarlo, mediante l'applicazione di un manico. Dalla disposizione degli aurighi si desume che il manico non era inteso come elemento verticale, ma piuttosto come una piastra orizzontale, in una maniera quindi che troverebbe confronti negli s. arcaici di Amlaš. Nella Grecia arcaica incontrò particolare successo un tipo di s. dalla superficie piana, con un manico alla cui estremità si trovava probabilmente un foro circolare, grazie al quale, come testimonia la pittura vascolare, lo s. veniva appeso nella stanza delle donne. Se gli esemplari citati gettano luce sulle caratteristiche funzionali di questi oggetti, un grande s. con manico risalente al 560 a.C. circa dimostra che la decorazione rivestiva un ruolo non meno importante. Questa si concentrava principalmente nel punto di passaggio tra il disco e il manico. L'esemplare citato reca una lamina di rame, lavorata a sbalzo per mezzo di una matrice, con la scena della restituzione della salma di Ettore da parte di Achille. Questo rilievo non era stato creato per uno s., ma per un'impugnatura di scudo; dunque, già nel periodo arcaico è attestata l'intercambiabilità di tali elementi decorativi in manufatti di diverso genere.

Tra gli s. piatti arcaici se ne contano numerosi di piccole dimensioni, almeno in parte da ¡interpretare come offerte votive. Per quanto concerne gli esemplari funzionali sussiste il problema della loro relativa grandezza e corrispondente pesantezza, necessaria per consentire la visione dell'intero viso. Nel V sec. a.C. i toreuti cominciarono a fondere separatamente dischi talvolta leggermente convessi e a livellarli e levigarli al tornio, operazione che determinava un sensibile miglioramento della capacità riflettente. Il disco era unito al manico di forma conica mediante una lega per saldatura dolce. Per ottenere una adeguata superficie d'appoggio e una solida giuntura tra le due parti dell'utensile, l'elemento che li collegava doveva essere di dimensioni relativamente grandi: ciò fornì ai toreuti la possibilità di arricchire la decorazione. Motivo particolarmente amato nel corso del V sec. a.C. fu la sirena, le cui ali aperte offrivano al disco un sostegno ideale. Le sirene erano considerate simbolo di forza e di seduzione, e pertanto la popolarità di questo motivo e la sua ampia diffusione trovano una spiegazione nella felice unione tra funzione e messaggio. La qualità artistica delle decorazioni consente di tracciare una sequenza cronologica dei singoli tipi, sebbene i diversi livelli di lavorazione artigianale pongano alcuni problemi. Trattandosi di oggetto di uso comune, accanto a opere di elevata qualità vi erano esemplari senza pretese che in una certa misura rispondevano alle loro finalità pratiche, ma che nella loro lavorazione rivelano una mescolanza di influssi diversi. A questa categoria appartengono tutti gli s. con manico fuso insieme al disco. Di certo questi esemplari non possedevano una capacità riflettente paragonabile a quella degli s. lavorati al tornio.

Un'altra tipologia è costituita dagli s. con manico a forma di colonna con capitello ionico su cui siede una sfinge con le ali dispiegate a forma di collo di cigno, in un'elegante fusione di motivi la cui origine va presumibilmente attribuita all'ambiente artistico della Magna Grecia. Con la sua solida base, questo s. occupa, da un punto di vista tipologico, una posizione intermedia tra gli s. manuali propriamente detti e la forma di s. affermatasi nel periodo arcaico e agli inizî del periodo classico, il c.d. s. con piede. In quest'ultimo tipo il disco circolare poggia di regola su un elemento intermedio lavorato artisticamente, sostenuto a sua volta da una figura femminile. Basi foggiate in maniera diversa assicurano a questo s. una maggiore stabilità. Tra il 600 c.a e la fine del V sec. a.C. se ne può seguire l'evoluzione senza difficoltà. Inizialmente il disco era spesso e pesante; nel V sec. i toreuti riuscirono a ottenere dischi più sottili e convessi levigati al tornio. La maestria e la precisione di questa tecnica si può apprezzare negli ornamenti a cerchio della faccia posteriore, resi possibili soltanto dall'impiego del tornio. Le numerose riparazioni riscontrabili dimostrano che gli s. con piede erano destinati nella maggioranza dei casi a un impiego duraturo ed erano considerati oggetti di valore.

Il gruppo più antico di s. a cariatide proviene dalla Laconia, ed è caratterizzato da figure femminili snelle e di aspetto giovanile, che si possono confrontare senza difficoltà con i prodotti della coroplastica laconica. Quasi tutti gli esemplari risalgono al VI sec. a.C., ma non è chiaro il significato di queste figure, da identificare probabilmente come divinità o come danzatrici sacre.

Contrariamente al gruppo laconico, i rimanenti s. con piede non possono essere assegnati con sicurezza ad aree artistiche determinate. È tuttavia possibile individuare un centro di produzione nella regione di Corinto e Sicione, nel Peloponneso settentrionale, da cui non sembra si possano separare gli esemplari provenienti da Argo. L'assenza di dati certi circa i luoghi di rinvenimento non consente attribuzioni sicure, ostacolate anche dal fatto che nel periodo classico le differenziazioni regionali tendono a scomparire. La maggior parte degli s. può essere datata tra il 500 e il 450 a.C. Come nella statuaria, l'immagine dominante è la kòre in veste cerimoniale. In conformità con i dettami della moda, a partire dal 550 a.C. le figure femminili indossano il chitone ionico; il pèplos dorico è attestato a partire dal 490 a.C. e dal 480 rimane l'unico tipo di veste raffigurata fino alla fase di decadenza di questo tipo di s. nel terzo quarto del V sec. a.C.

La questione concernente il significato delle figure è in gran parte legata al contesto di rinvenimento, ed è pertanto di difficile soluzione. Le donne con chitone e mantello, ma anche quelle con pèplos, rispondono pienamente all'ideale di bellezza della società tardo-arcaica e della prima età classica. Le donne erano abbigliate in tal guisa soprattutto in occasione di eventi festivi, che in epoca tardo-arcaica e classica equivale a dire soprattutto manifestazioni cultuali. Non vi è dunque motivo di identificarle come sacerdotesse, sebbene alcuni s. siano stati rinvenuti all'interno di templi. Al contrario, i due eroti che in una serie di s. sono raffigurati al di sopra delle spalle delle giovani donne intendono sottolineare il fascino di queste. In questo modo, ammirandosi allo s., oltre al proprio volto riflesso nel disco, la donna aveva dinanzi a sé quello che, secondo il canone riconosciuto dalla società, rappresentava il modello di fanciulla elegante e attraente. Anche altri attributi, quali i fiori spesso presenti come decorazione del disco, alludono ai tali valori sociali.

A motivo della loro elevata qualità artigianale, gli s. con piede restarono, fino al V sec. a.C. circa, la forma più importante e rappresentativa di specchio. Essi offrivano ai toreuti l'opportunità di mettere alla prova la loro maestria nelle diverse tecniche in costante progresso (fusione, lavorazione a sbalzo, saldatura) e nell'esecuzione delle rifiniture.

Sia lo s. con piede sia quello con manico furono sostituiti intorno alla fine del V sec. da una nuova forma di s., alla cui nascita concorsero diversi fattori, il tipo c.d. a scatola. Esso consiste in un disco circolare con pareti ottenute per fusione, relativamente sottili, con il margine ricurvo all'indietro. La sua superficie è leggermente convessa, cosicché, anche se di diametro ridotto, essa poteva riflettere l'intero viso della persona che si specchiava. Tramite una cerniera il disco era unito a un coperchio che, se chiuso, proteggeva la superficie riflettente accuratamente polita da eventuali danni e dall'ossidazione. Nello stesso tempo, le superfici anteriore e posteriore del coperchio consentivano di impreziosire l'oggetto con decorazioni e quindi di utilizzarlo per scopi di rappresentanza. Una distinzione tipologica degli s. a scatola tra esemplari più antichi, con coperchio ricoprente soltanto il disco, e più tardi, in cui il coperchio si sovrappone al disco, pone in evidenza un ulteriore progresso nella tecnica di lavorazione che consentiva di fabbricare pezzi di forme sempre più precise. Comune a entrambi i tipi è un manico fissato alla cerniera, grazie al quale lo s., quando era chiuso, poteva essere trasportato o appeso alla parete; la faccia esterna del coperchio era decorata a sbalzo. La popolarità dello s. a scatola si spiega sicuramente anche con il crescente favore incontrato dai prodotti di toreutica già a partire dal V sec. a.C., ma destinato a culminare in epoca ellenistica. In tal modo gli s. entrarono in concorrenza con il vasellame suntuario d'argento e d'oro, assai apprezzato soprattutto nelle corti ellenistiche, ma che esaudiva anche le esigenze di rappresentanza in ambito privato. In alcuni casi riscontriamo nei coperchi degli s. a scatola decorazioni a sbalzo di qualità superiore, che è tuttavia più ragionevole considerare risultato del recupero di opere perdute di maestri dell'età tardo-classica ed ellenistica. Ciò non di meno recenti approfonditi studi sull'attività delle officine toreutiche hanno portato a riconoscere in numerosi rilievi le caratteristiche di una produzione su vasta scala, nella quale si creavano nuove immagini introducendo modifiche e varianti in parti della composizione (Reinsberg, Schwarzmaier). Le officine non si facevano scrupolo di combinare parti di composizioni tematicamente diverse o di epoche differenti, apportandovi qualche modifica. È inoltre evidente che per molti dei motivi, p.es. le Nìkai e le scene di battaglia, la relazione con il mondo femminile è assai debole o del tutto assente. Se ciò sia da imputare a una carenza di modelli resta una questione aperta e da valutare da caso a caso. D'altro canto, la scelta dei motivi è talvolta molto ponderata, come, p.es., nel caso di uno s. con rappresentazione a rilievo di Pan insieme a una ninfa sulla faccia esterna del coperchio, mentre su quella interna ritroviamo la ninfa che si bagna in una grotta, dalla cui entrata Pan fa capolino, e la guarda bramoso.

È evidente che in alcuni casi i coperchi degli s. furono decorati da rilievi riadattati da altri manufatti, operazione spesso effettuata con tecnica piuttosto sommaria, in contrasto con l'elevata precisione con cui erano fabbricati i dischi degli stessi specchi. Non di rado parti delle figure venivano semplicemente ritagliate, con un procedimento attestato anche negli elmi da parata o nel vasellame da tavola. Ciò testimonia in generale l'apprezzamento di cui erano oggetto i rilievi a sbalzo, come pure l'elevata domanda degli s. a scatola.

Negli s. di particolare pregio anche la parte interna del coperchio poteva essere supporto di una decorazione. In tali casi i toreuti ricorrevano all'incisione, eseguita con gli affilati bulini prodotti nel IV sec. a.C. Un particolare effetto cromatico era ottenuto anche con un rivestimento di stagno o con intarsi di rame.

Lo sviluppo cronologico dello s. a scatola può essere tracciato solo con approssimazione. Le riparazioni e il prolungato periodo di utilizzazione, come pure l'usanza di tramandare questi preziosi manufatti per diverse generazioni, rendono incerta una classificazione cronologica basata sui dati di scavo (Schwarzmaier). Nondimeno è possibile, grazie alla sequenza stilistica fornita dalle lamine lavorate a rilievo, distribuire gli s. a scatola nell'arco di tempo compreso tra il 400 e il 200 a.C. circa, mentre, contrariamente a quanto si credeva in precedenza, l'apice della produzione è da collocare negli anni tra il 330 e il 270 a.C. circa. Il gran numero di oggetti rinvenuti risalenti a quest'epoca consente anche di determinare centri di produzione e officine. Il gruppo numericamente più cospicuo, databile tra il 380 e il 270 a.C., proviene con grande verisimiglianza da officine corinzie. Ciò è indicato non tanto dal luogo di rinvenimento degli oggetti, quanto dalle copie in argilla e dalle matrici riportate alla luce dagli scavi di Corinto, con le quali il suddetto gruppo di s. presenta strette analogie. Si pone in evidenza anche un più esiguo gruppo che è verosimilmente da considerare di produzione ateniese (Schwarzmaier). In effetti, il rinvenimento di copie in argilla nell'agorà e nel Ceramico di Atene testimonia dell'esistenza in loco di botteghe per la lavorazione di rilievi decorativi di elevata qualità, tuttavia finora non era stato supposto che la città fosse anche un centro di produzione di s. a scatola.

Per quel che si può giudicare dagli esemplari più semplici, gli s. a scatola sostituirono completamente quelli con manico e con piede. Un'eccezione è rappresentata dall'Italia meridionale e dalla Sicilia, dove il disco con un elemento intermedio riportato e con un manico o con un elemento a forma di manico, continua a esistere fino al IV sec. a.C. Ciò è forse da porre in relazione non solo con la tradizione locale, ma anche con il fatto che la targhetta di passaggio tra disco e manico offriva una superficie adatta a ricevere più estese composizioni decorative paragonabili a quelle degli s. a scatola, preferiti in quel periodo. Tuttavia, questo tipo di struttura tende a far aumentare forse in modo eccessivo la lunghezza dell'utensile, spesso oltre i 50 cm, rendendolo assai meno maneggevole. Per quanto concerne il luogo di produzione di questi s. non si dispone di dati certi. È convincente la tesi, avanzata in tempi recenti, che individua in Taranto il principale centro artistico e produttivo, il cui influsso, tuttavia, raggiunse anche altri luoghi di produzione, quali Locri e Medma (Caruso). All'artigianato dell'Italia meridionale è inoltre da attribuire uno s. a scatola a due valve con manico, finora unico nel suo genere, comparso sul mercato antiquario (Thiemme). Questo pezzo ha riportato all'attenzione degli studiosi la questione se questi utensili scarsamente maneggevoli non fossero piuttosto stati realizzati per corredi funerarî.

Roma. - Nelle forme evolute gli s. con manico e a scatola erano già così perfezionati che in epoca romana non furono sostituiti da tipi nuovi. Innovazioni si riscontrano nel campo dei materiali impiegati, come ha testimoniato, p.es., il rinvenimento di uno s. con vetro.

La crescente predilezione nei confronti dei beni di lusso, tipica dell'età imperiale, si manifesta anche in questa categoria di manufatti. Degli s. d'oro decorati con pietre preziose, su cui ci informa Seneca, non ci sono pervenuti esemplari; solo s. di fattura assai più modesta sono riusciti a superare le avversità del tempo.

Nell'ambito degli s. con manico, i Romani rimasero fedeli alla tecnica consistente nel fondere il disco separatamente dal manico, per poi rifinirlo al tornio così da ottenere una superficie liscia. Solo successivamente veniva attaccato il manico, mediante una lega per saldatura dolce. Nel I e nel II sec. d.C. era particolarmente richiesto un tipo di s. con una serie di fori al margine del disco, che nel II sec. si spostano verso il suo interno (Roth-Rubi). I manici di tali s. presentano una forma «tornita». Soprattutto nel I sec. d.C. erano apprezzati gli s. «dentellati», spesso provvisti di manico a cappio simile a quello delle patere. Alcuni esemplari presentano sulla faccia posteriore rilievi decorativi saldati. Nelle città campane questo tipo di s. era realizzato anche in argento; sempre nelle officine campane, nei primi secoli d.C. fu creato uno s. con manico a forma di clava di Eracle. I più pregiati s. d'argento potevano presentare anche dorature nella zona dell'orlo.

La tradizione dello s. a scatola si prolunga nella forma molto più semplificata dello s. a rilievo nel II sec., con attestazioni fino alla metà del III. Anche in questo caso il disco circolare è protetto da un coperchio, il cui lato superiore funge da supporto all'immagine. Tutti i motivi - le Tre Grazie, Venere Genetrix, gli amori di Giove - alludono alla bellezza femminile. Le figure delle composizioni sono in parte riconducibili a una lunga tradizione iconografica che risale all'ellenismo, tuttavia la comparsa degli s. a rilievo è da porre in relazione con l'orientamento classicistico dell'arte in età adrianea (Zahlhaas). La presenza di determinati motivi, quali la Venere Genetrix, trova spiegazione nella diffusa popolarità nell'ambito della propaganda adrianea. Gli s. erano diffusi in tutte le regioni dell'impero romano, e disponiamo di prove certe sull'esistenza di officine in Asia Minore. Creazione dell'età neroniana sono probabilmente da considerare i piccoli s. a scatola (Dosenspiegel), di cui due esemplari, conservatisi in buono stato, si trovano nell'Antikensammlung a Berlino. Consistono di due valve convesse, l'una sovrapposta all'altra a mo' di coperchio; ciascuna di esse contiene uno s. convesso, di dimensioni variabili, in bronzo bianco. Negli esemplari di più grande formato questi misurano 6 o 4 cm di diametro, dunque sono piuttosto piccoli; tuttavia ciò non impediva loro di riflettere l'intero viso della persona. I dischi sono saldati nella scatola con un anello decorato da perle. I lati esterni sono ornati da due monete bronzee di Nerone provenienti dalla zecca di Lugdunum, applicate nella parte centrale delle due valve, l'una al dritto, l'altra al rovescio; i conî si datano tra il 64 e il 66 d.C. Negli esemplari più grandi la moneta utilizzata era il sesterzio, in quelli di formato ridotto, il dupondius. L'incremento della produzione degli s. a scatola di questa foggia durante il regno di Nerone e l'utilizzo dell'effigie dell'imperatore come decorazione inducono a pensare che essi fossero oggetto di dono nell'ambito della corte. In linea generale erano favoriti piccoli s. a disco protetti da contenitori. Una cassetta rettangolare con coperchio scorrevole, proveniente da una tomba di Phoebiana, contiene un disco quasi quadrato e fortemente convesso.

L'invenzione dello s. di vetro si colloca in età imperiale. Da un punto di vista tipologico esso appartiene alla categoria degli s. con manico. Il materiale utilizzato per la lavorazione di questi s. era il piombo, di facile fusione e disponibile nella tarda antichità. Un esemplare dell'Antikensammlung di Berlino presenta un disco di vetro (diam. 3,3 cm) applicato nella parte centrale e fortemente convesso, tale da rimpicciolire notevolmente l'immagine riflessa. Esso era stato ricavato da un segmento di sfera di vetro soffiato, di cui furono levigati i bordi. L'effetto riflettente era prodotto da un sottile strato di piombo applicato alla parte interna del vetro, probabilmente con l'ausilio di un legante resinoso. Non è tuttavia da escludere che il piombo fosse agitato all'interno della sfera di vetro appena soffiata, in modo da formare un fine rivestimento riflettente.

Gli s. in vetro e piombo pervenutici sono di fattura molto semplice, destinati a un uso di massa. Ciò nonostante essi sono da considerare antesignani di importanti sviluppi futuri, in quanto rappresentano il primo passo di una nuova tecnologia che emergerà nella tarda antichità, decretando la definitiva scomparsa degli s. metallici.

Gli s. in metallo sono testimoniati nell'iconografia a partire dal VI sec. a.C., in scene ambientate nelle stanze femminili. Nella pittura vascolare lo s. diviene ben presto il simbolo della bellezza femminile, valenza che esso conserva anche nelle stele funerarie tardo-classiche ed ellenistiche. Lo stesso significato gli viene assegnato nella scultura funeraria, dove tuttavia il suo ambito simbolico è limitato alla bellezza curata, in contrasto con quella naturale. In linea generale le rappresentazioni di s. testimoniano le tipologie in uso in una data epoca e arricchiscono le nostre conoscenze sulla diffusione dell'utensile e sullo status di chi ne faceva uso. Dal punto di vista dell'evoluzione tipologica esse rivestono invece interesse più limitato, poiché nell'iconografia le forme erano di solito riprodotte in modo semplificato.

L'evoluzione dei primi s. greci dimostra in modo inequivocabile che, oltre alla ricerca di nuove forme, un ruolo determinante fu svolto nelle diverse epoche dai progressi tecnici, stimolati da fattori diversi: in età geometrica vi era carenza di materiale idoneo, mentre in età tardo-arcaica si fa sentire la necessità di migliorare la qualità dei dischi. D'altra parte il successo degli s. a scatola si spiega soprattutto per la loro maneggevolezza e per il mutamento del gusto del pubblico, ora indirizzato verso gli oggetti decorati a sbalzo.

Tutto sembra indicare che lo sviluppo tecnologico tendeva a sfruttare appieno le possibilità esistenti e a perfezionare i procedimenti noti: inevitabilmente da ciò derivava l'opportunità di creare nuove forme. Soltanto la produzione di un disco più leggero e una evoluta tecnica di saldatura consentirono, negli s. con piede, il libero sviluppo della cornice di sostegno, quale si osserva in età classica. E solo l'ulteriore perfezionamento del disco rese possibile la nascita dello s. a scatola, che non va attribuita all'idea fortuita di un artigiano, ma al livello ormai raggiunto dall'evoluzione della tecnica che, con una piccola spinta creativa, poté consentire la nascita di una forma del tutto nuova. La causa più profonda di questo fenomeno risiede nel fatto che gli s. decorati, in quanto utensili di carattere suntuario, erano da un punto di vista formale e tecnico costantemente ai livelli più alti dell'evoluzione artistica. Ciò è vero tanto per la decorazione a rilievo dei manici degli s. geometrici quanto per le cariatidi del VI e V sec. a.C. e per le decorazioni metalliche a sbalzo degli s. a scatola.

Bibl.: P. Oberländer, Griechische Handspiegel (diss.), Amburgo 1967; E. D. Reeder, Clay Impressions from Attic Metalwork, Ann Arbor 1974; K. Roth-Rubi, Zur Typologie römischer Griffspiegel, in Bulletin des Musée royaux d'art et d'histoire, Bruxelles, XLVI, 1974, pp. 31-41; G. Zahlhaas, Römische Reliefspiegel, Kallmünz 1975; F. Cameron, Greek Bronze Hand-Mirrors in South Italy, Oxford 1979; C. Reinsberg, Studien zur hellenistischen Toreutik, Hildesheim 1980; L. O. Keene Congdon, Caryatid Mirrors of Ancient Greece, Magonza 1981; G. Lloyd-Morgan, Description of the Collections in the Rijks-Museum G. M. Kam at Nijmegen, IX. The Mirrors, Nimega 1981; I. Caruso, Bronzetti di produzione magnogreca dal VI al IV sec. a.C.: la classe degli specchi, in RM, LXXXVIII, 1981, pp. 13-106; G. Zimmer, Spiegel im Antikenmuseum, Berlino 1987; J. Thimme, Ein großgriechischer Klappspiegel aus klassischer Zeit, in Kanon. Festschrift für Ernst Berger (AntK, Suppl. XV), Basilea 1988, pp. 192-199; G. Zimmer, Frühgriechische Spiegel (BWPr, 132), Berlino 1991; Α. Schwarzmaier, Griechische Klappspiegel. Untersuchung zu Typologie und Stil (AM, Suppl. XVIII), in corso di stampa.

(G. Zimmer)

Etruria. - Negli ultimi trent'anni si sono fatti molti progressi nello studio e nella conoscenza degli s. in bronzo con decorazione incisa sul rovescio, una produzione artigianale peculiarmente etrusca, per certi versi paragonabile a quella del bucchero, anche se con una diffusione assai più limitata che interessa soltanto le aree etruschizzate, configurandosi di fatto come una sorta di manifattura «nazionale», strettamente ancorata alla cultura e all'ideologia della società che la produceva. Contrariamente a quanto si è verificato per altri settori della civiltà etrusca, le nuove acquisizioni sugli s. non sono dovute a scoperte archeologiche (gli esemplari venuti alla luce in scavi recenti sono pochi e non hanno modificato il quadro delle nostre conoscenze), ma soltanto al progresso degli studi in questo particolare settore della bronzistica etrusca. Tra l'altro ha contribuito al generale risveglio degli studi e delle ricerche l'iniziativa, patrocinata dall'Istituto Nazionale di Studi Etruschi e Italici, di un Corpus Speculorum Etruscorum (CSE) varato nel 1973 e ormai avviato a una rapida realizzazione, di cui sono stati pubblicati diciannove fascicoli.

Forse anche a seguito di tale iniziativa si sono moltiplicati in questi ultimi decenni gli interventi su questo importante settore della produzione artigianale in Etruria, e in particolare sul problema dei raggruppamenti stilistici secondo un metodo che ricorda quello applicato dal Beazley alla ceramica attica e che può ora contare su una documentazione completa e aggiornata; su quello dei centri di produzione per i quali, una volta chiariti i limiti della semplice indagine stilistica, si sta portando l'attenzione su tutta una serie di elementi obiettivi, fino a ora trascurati, come la morfologia, il peso, la decorazione accessoria e soprattutto la documentazione epigrafica, essendo il tipo di grafia utilizzato nelle «didascalie» delle figure un sicuro indizio per l'attribuzione degli s. a determinate aree produttive; sul problema della cronologia, particolarmente difficoltosa per le decorazioni molto semplificate e di routine, come quelle dei Dioscuri e delle Lase, che si affermano nella produzione più tarda. Gli studi recenti hanno consentito di riproporre in modo nuovo tutti i principali problemi relativi a questi manufatti in bronzo, alle loro caratteristiche tipologiche e al loro significato storico e artistico. Si tratta di una produzione che occupa un arco cronologico che va dalla fine del VI alla fine del III o al più tardi agli inizî del II sec. a.C. Lo s. è costituito da un disco inizialmente piatto e poi via via sempre più convesso, munito inferiormente di codolo da inserire in un manico lavorato a parte e di altro materiale (legno od osso). Dalla metà del IV sec. il manico viene fuso insieme al disco con un procedimento assai più rapido ed economico che prelude a una produzione ormai standardizzata. Questo tipo di s., liscio nel lato convesso con funzione riflettente e riccamente decorato sul rovescio con scene figurate, viene sostituito dagli s. a cerniera e da quelli entro scatola, assai bene rappresentati su sarcofagi e urne, ma ancora poco studiati.

In parallelo con quella etrusca si sviluppa, a partire dalla metà del IV sec., una produzione di s. solitamente localizzata a Praeneste, ma che probabilmente interessa anche altre città del Lazio per cui sarebbe più corretto parlare di s. laziali anziché di s. prenestini. Vengono considerati come peculiari di questa manifattura il manico fuso (non esistono s. prenestini con il codolo) e soprattutto il disco piriforme, due caratteristiche che non vanno però intese in modo rigido e assoluto. Assai più significative in questo senso sono infatti le iscrizioni latine e alcune caratteristiche stilistiche molto vicine alla decorazione delle ciste. Anche se nella maggior parte dei casi gli s. prenestini o laziali difficilmente raggiungono il rigore compositivo della coeva produzione etrusca, a differenza di quanto accade in Etruria, questo tipo di artigianato sembra assumere nel Lazio una posizione di maggior prestigio all'interno delle singole comunità, come provano le firme di artisti incise sia su ciste sia su specchi. Molti sono i legami tra questi due ambiti produttivi e del resto, giustamente, nel CSE vengono compresi anche gli s. prenestini. Già tra la fine del VI e la metà del V sec., si registra a Praeneste una consistente importazione di s. etruschi (sono almeno una dozzina gli esemplari noti), generalmente di altissima qualità, in un momento storico che si ricollega alle imprese di Porsenna nel Lazio o comunque alla forte spinta espansionistica dell'intero comparto chiusino-volsiniese verso la Campania. Da questo rapporto molto stretto con le esperienze dell'artigianato etrusco di età tardoarcaica e protoclassica, forse anche attraverso l'attività di artigiani immigrati, trae origine una fiorente produzione locale che a Praeneste si specializza nel settore delle ciste, pur non disdegnando gli s., e tocca il suo periodo di massimo splendore nel IV secolo.

Se si prescinde da alcuni rarissimi casi di s. a rilievo di probabile produzione vulcente, nei quali sia il disco sia la decorazione figurata del rovescio (in un esemplare con Filottete e Macaone - CSE, Bologna, I, n. 14 - anche le iscrizioni) furono realizzati in un solo momento attraverso la fusione, la fabbricazione di uno s. si articolava normalmente in due fasi ben distinte: dapprima la fusione del disco e del codolo (o del manico), poi la decorazione del rovescio incisa con il bulino. All'eventuale successivo riscaldamento del disco, allo scopo di facilitare le operazioni finali di politura, sono dovute quelle modifiche dei cristalli di superficie sulla base delle quali riaffiora, di tanto in tanto, l'ipotesi del tutto arbitraria di un'unica fusione anche per la decorazione incisa. L'incavo largo e arrotondato posto esattamente al centro del rovescio non ha nulla a che vedere né con l'eventuale utilizzo del compasso per la decorazione figurata, essendo presente anche in s. non decorati, né con le operazioni di levigatura e lucidatura del lato riflettente per le quali non era sufficiente il solo movimento rotatorio. La sua funzione originaria era quella di costituire un solido punto di appoggio, che consentisse comunque la rotazione del disco, per tutte le operazioni di rifinitura e di sistemazione dell'orlo realizzate dopo la fusione e prima della decorazione incisa.

Se sono giuste le ipotesi di una correlazione molto stretta fra la tipologia di uno s. e la sua decorazione figurata, nel senso che su determinati tipi di s. si trovano solo certe decorazioni figurate, è evidente che non esisteva cesura tra queste due fasi della lavorazione e che fonditori e incisori operavano insieme all'interno della medesima officina. Il disco, una volta fuso e rifinito al bordo, poteva essere decorato sul rovescio. Sulla base di una presunta diversificazione nella qualità delle incisioni, più stereotipata nelle parti secondarie come la cornice e la targhetta, più curate nella decorazione figurata, è stata formulata l'ipotesi di un doppio intervento sullo stesso s. da parte di maestranze con cultura artigianale e abilità tecnica diversificate. In tutte queste operazioni si richiedeva all'artigiano una grande perizia nel disegnare le immagini perché, al contrario di quanto accadeva nella ceramica, il bulino non consentiva alcun ripensamento.

Il repertorio figurativo è naturalmente molto vario, pur mostrando una spiccata predilezione per temi legati all'èpos greco piuttosto che a saghe locali che non godono di molta fortuna. La funzione di questi manufatti destinati a un pubblico prettamente femminile, spesso come doni di nozze, ha sicuramente influenzato la scelta dei temi trattati, come prova la netta preponderanza di personaggi femminili su quelli maschili e, fra le divinità, la decisa prevalenza di Menrva e Turan su tutte le altre, ivi compreso Tinia, con una chiara predilezione da parte degli incisori per racconti e personaggi legati alla sfera dionisiaca e di Afrodite. Non mancano, soprattutto in età tardoarcaica e protoclassica, s. con complesse narrazioni mitologiche. Anche nel corso del IV sec. si segnalano alcuni esemplari particolarmente significativi per la complessità del tema figurato, spesso ricco di implicazioni sul piano storico e ideologico oltre che di complicate simbologie su quello familiare e muliebre. Fra tutti se ne ricordano alcuni. Si tratta in primo luogo dell'esemplare rinvenuto a Palestrina e conservato a Bologna (CSE, Bologna, I, n. 10) nel quale si ha un recupero colto del ratto di Arianna da parte di Artemide in presenza di Dioniso e di Atena, interpretato come riferimento mitico al ciclo vita-morte-rinascita dato che Arianna muore, ma per diventare immortale e vivere felice con il suo sposo (Colonna, 1985). Anche sul noto s. da Tuscania con scena di aruspicina si sono avuti diversi interventi. Si va da un'interpretazione molto semplice che propone di riconoscervi una gara tra due aruspici (Cristofani, 1985 e 1987), a una lettura assai più complessa di chi vi riconosce invece un discendente di Tarchon nell'atto di insegnare e trasmettere al proprio figlio il sapere aruspicale con una rivendicazione da parte di Tarquinia del proprio primato nella trasmissione della etrusca disciplina, forse in un momento in cui la guerra con Roma e conflitti interni di origine sociale stavano probabilmente mettendolo in crisi (Torelli, 1988). Gli s. con Faone, rappresentato dopo il suo incontro con Afrodite, quando egli diviene oggetto del desiderio femminile, sono stati ricondotti a una sfera di valori etici prevalentemente muliebri in coerenza con la destinazione femminile dell'utensile (Cristofani, 1985); e quelli con la testa di Orfeo vaticinante hanno consentito di riferire all'immaginario femminile anche la consultazione dell'oracolo, proiettata nell'ambiente mitico di Lesbo, ma forse non privo di connessioni con la città di Volsinii dove tali s. furono probabilmente prodotti (Cristofani, 1985).

Questa pregnanza di significati si allenta notevolmente nel corso del IV sec., quando gli intenti decorativi finiscono col prevalere su quelli narrativi, per cui le scelte iconografiche e soprattutto le libere combinazioni delle singole figure portano a un progressivo svuotamento del loro significato originario. Si assiste così alla mescolanza di personaggi che appartengono a racconti e a schemi iconografici diversi o anche alla ripetizione un po' meccanica di figure sempre uguali che finiscono con lo svolgere soltanto una funzione riempitiva. Questo svuotamento narrativo in favore di una spiccata tendenza decorativa è particolarmente evidente nella produzione più tarda degli s. con i Dioscuri e le Lase. Nonostante qualche incertezza al riguardo, si tende ormai concordemente a estendere il termine Lasa alle numerosissime figure femminili nude e alate che dalla fine del IV sec. compaiono frequentemente sugli s. etruschi. La sua funzione originaria era quella di dea ornatrix della cerchia di Turan, funzione alla quale rimandano l’alàbastron e il discerniculum talora raffigurati nelle sue mani anche negli s. tardi. Nonostante la progressiva semplificazione del tipo iconografico e la perdita del suo originario valore funzionale, cui fa seguito negli esemplari più tardi anche una certa dissoluzione dei valori formali, restano comunque evidenti i suoi legami con il mondo muliebre. Relativamente ai Dioscuri, non sono mancate le proposte di vedere in essi non solo i protagonisti «giovani» di miti e rituali spartani recuperati al mondo etrusco, ma anche il simbolo degli equites intesi come espressione di ascesa sociale e politica all'interno dei processi di trasformazione delle comunità etrusco-italiche e di espansione dello stato romano (Pairault-Massa, 1992).

Anche per quanto riguarda la classificazione stilistica, l'individuazione di gruppi omogenei da attribuire a singole personalità artistiche e la localizzazione delle botteghe, si sono fatti in questi ultimi anni notevoli passi avanti, sia pure con molte difficoltà e incongruenze. Il ricorso a elementi apparentemente oggettivi come la forma del disco e del manico (o del codolo), le caratteristiche metallurgiche della lega oppure il tipo delle cornici, assunti come distintivi di una produzione, non ha dato finora i risultati sperati. Soltanto l'ortografia delle iscrizioni sembra offrire garanzie di maggiore attendibilità, ma solo da poco si è cominciato a tenerne conto e per di più le indicazioni che essa fornisce individuano soltanto grandi aree produttive (Etruria meridionale/Etruria settentrionale), all'interno delle quali restano irrisolte molte incertezze e molte alternative. Soltanto le attribuzioni, analoghe a quelle utilizzate dal Beazley per le ceramiche attiche, indipendenti da ogni altra informazione esterna od oggettiva, possono aiutarci a identificare gruppi omogenei di s. su base stilistica e ad attribuirli a un medesimo artista o a una medesima officina (Szilágyi, 1994). È evidente che gli s. decorati dalla stessa mano sono stati eseguiti nella stessa bottega e nello stesso centro, indipendentemente dal luogo di rinvenimento al quale si è data troppa importanza come elemento risolutore per l'individuazione degli ambiti produttivi, se solo si tiene conto della facilità con cui si poteva trasportare uno specchio. Dati di rinvenimento e semplici «cifre» decorative sono insufficienti per individuare i centri di produzione.

Di grande importanza in questo tipo di valutazione qualitativa è il rapporto tra s. e ceramica figurata: tutte le recenti proposte di classificazione stilistica formulate per gli s. si caratterizzano infatti per un costante intreccio con la produzione delle diverse officine ceramiche attive in Etruria tra il V e il III secolo. Tra la fine del V e la prima metà del IV, forse per iniziativa di ceramografi attici, si affermano alcune importanti botteghe vulcenti alle quali si deve la diffusione dei loro prodotti (ma anche delle loro tecniche e della loro esperienza artistica) verso l'Etruria settentrionale interna, attraverso le valli del Fiora e del Tevere. Un ruolo di primissimo piano nella trasmissione verso Ν di queste esperienze vulcenti va attribuito a Orvieto, dove si affermano importanti botteghe vascolari alla cui formazione hanno certamente contribuito, oltre ai pittori di ambito vulcente, anche maestranze tarquiniesi, stando alle importanti tombe dipinte del contado orvietano. A questo complicato intreccio di relazioni e di influenze reciproche, e in modo particolare al contributo della ceramografia orvietana, si deve la formazione del Gruppo Clusium (v.) e di quello Volaterrae all'interno dei quali non stupiscono le corrispondenze con il più meridionale ambiente falisco, rispetto a cui ancora una volta Orvieto si caratterizza come centro di smistamento di prodotti e di tradizioni artistiche lungo la direttrice tiberina e verso il territorio di Chiusi.

Nella seconda metà del IV sec. le maestranze chiusine di questa importante bottega si trasferiscono a Volterra, dove proseguono la loro attività senza alcuna cesura, avvalendosi probabilmente di officine ceramiche più organizzate ed efficienti e sfruttando la vasta rete di traffici attraverso la quale si poteva raggiungere sia la costa tirrenica sia la pianura padana. Questo quadro molto complesso di tradizioni artigianali diverse, anche se ravvicinate e con molti punti di contatto, si riflette costantemente nella decorazione incisa degli s. in bronzo. Sono del resto ben noti i rapporti tra queste due manifatture artistiche non solo per il fatto che le scene figurate degli s., racchiuse in una superficie circolare, presentano molte analogie di impianto con quelle inserite nei medaglioni interni delle kỳlikes, ma anche perché le esperienze disegnative di certa ceramografia attica ed etrusca del V sec. finiscono ovviamente con l'interessare anche la decorazione incisa degli s. lasciando di fatto intravedere l'esistenza di un patrimonio comune almeno sul piano disegnativo. Del resto la «linea funzionale» dell'arte di Parrasio e la possibilità di creare piani, prospettive e volumi con mezzi essenzialmente grafici e lineari anche nella decorazione figurata delle ceramiche, deve certamente aver agevolato questo rapporto fra incisori di s. e ceramografi, una connessione che tra l'altro stimola un importante processo di «ridefinizione etrusca» di prodotti per i quali si erano accentuati un po' troppo gli elementi di estrazione o di ispirazione attica.

Venendo ora alle principali proposte di identificazione dei varî ateliers e di riconoscimento delle singole fabbriche nella decorazione degli s., va ricordata in primo luogo la recente attribuzione a Cerveteri di alcuni s. tardoarcaici di pregevolissima fattura, tra i quali spicca l'esemplare rinvenuto a Palestrina con il ratto di Arianna da parte di Artemide, presenti Dioniso e Atena: se i caratteri paleografici dell'iscrizione rimandano a una manifattura ceretana, la composizione affollata dell'episodio, i panneggi e le iconografie di alcuni protagonisti ricordano l'altorilievo del Tempio A di Pyrgi (Colonna, 1985). Sempre relativamente all'età arcaica, è stato individuato un consistente gruppo di s. di produzione sicuramente tarquiniese sulla base non solo della loro provenienza, ma anche dei forti legami formali tra l'officina che li ha prodotti e il patrimonio figurativo della pittura parietale coeva (Bruni, 1990). Assai più complessa è la situazione di Vulci, ben nota per la straordinaria qualità della sua produzione bronzistica sia nel settore del vasellame sia in quello dell'instrumentum. Qui va sicuramente localizzata, nel corso del V sec., la produzione di alcuni s. a rilievo (Talos e i Boreadi a Berlino, Prometeo liberato a Cracovia, Filottete e Macaone a Bologna) di notevole pregio, anche se sostanzialmente isolati. Per il IV sec. non è facile delineare la fisionomia artistica di questo centro che svolse un importante ruolo di cerniera tra il Nord e il Sud dell'Etruria. È la sua stessa posizione geografica a favorire da un lato la recezione delle molte sollecitazioni che venivano dal Sud, ivi compresi gli stimoli di ambito italiota, e a consentire dall'altro l'irradiazione delle proprie esperienze artistiche verso l'Etruria interna e settentrionale, raggiungendo, per il tramite di Orvieto, sia Chiusi sia Volterra, con un rapporto paritetico e biunivoco tra tutti questi centri che rende ancora più intricata la situazione.

Il tentativo di U. Fischer-Graf di attribuire a manifattura vulcente un consistente numero di s. incisi con corona d'edera, intesa come elemento identificativo dell'officina, è stato vanificato dalla semplice constatazione che in alcuni di questi s. (Fischer-Graf, 1980, ν, 42 e ν, 70) la grafia delle iscrizioni è di tipo settentrionale (uno di questi infatti è stato attribuito al Maestro di Semele, dai raffinati toni meidiaci, forse di formazione vulcente, ma sicuramente attivo a Chiusi). Sono attivi a Vulci raffinati incisori sia di stile protoclassico (s. con Eracle e Atlante), sia classico (s. con Peleo e Atalanta e s. con Calcante che consulta il fegato). Per il IV sec. sono invece attribuibili a Vulci gli s. che continuano la tradizione dei gruppi a tre figure, il più delle volte in scene di genere e in posizione statica (Maestro di Telefo e Maestro di Usil). Lo s. molto grande e a due registri con Elena in trono e con la presentazione di Epiur a Tinia sembra assumere i caratteri di una vera e propria megalografia forse ispirata alla ceramica apula. Per altri s. ancora, le incertezze tra Vulci e altri centri produttivi relativamente vicini, in particolare Orvieto e Chiusi, vengono risolte - quando possibile - ricorrendo all'ortografia delle iscrizioni, a riprova ancora una volta della molteplice rete di rapporti e dei numerosi punti di contatto che nella complessa situazione artistica di quest'area coinvolgono sia i prodotti vascolari sia gli specchi.

Relativamente più chiara è la situazione di Volsinii alle cui officine si deve probabilmente l'invenzione di un tipo di s. con manico fuso, disco piccolo e molto convesso, con il quale si dà inizio alla produzione ormai standardizzata della fine del IV e del III secolo. L'innovazione è legata alla fortunata produzione della «Kranzspiegelgrup- pe» solitamente attribuita a botteghe settentrionali in virtù della sua distribuzione, ma che l'ortografia delle didascalie apposte alle figure costringe a collocare in ambito meridionale. Il dilemma tra Caere e Orvieto/Bolsena non ha ragione di essere sia perché molti s. del gruppo recano l'iscrizione suthina considerata tipica di Orvieto, sia perché la loro area di distribuzione è troppo ampia e troppo proiettata verso l'Etruria settentrionale per poter dipendere dalla lontana Caere. E anche i numerosi confronti stilistici che si possono proporre per gli s. del gruppo con vasi vulcenti da un lato e con vasi chiusino-volterrani dall'altro non intaccano la validità di questa ipotesi, ma vanno semmai ricondotti alle strette relazioni intercorse tra tutti questi centri sul piano delle diverse produzioni artigianali. Per il pieno IV sec. vanno attribuiti a Orvieto gli s. con doppio esergo, spesso senza cornice, con scene mitologiche o narrazioni di argomento storico-mitico complesse e affollate come lo s. da Volterra con Eracle allattato da Hera, il c.d. s. di Tarconte con scena di extispicium da Tuscania o quella con il giudizio di Paride da Todi. L'invenzione del tipo viene solitamente riferita al Maestro di Menelao, una figura molto complessa da intendersi più come filone artigianale che come reale esecutore di tutti i pezzi che gli vengono attribuiti. Da lui deriva il Maestro di Cacu, forse l'inventore della «Kranzspiegelgruppe», in una sequenza di maestri e officine che conferma la solidità e l'importanza di questa attività manifatturiera a Orvieto tra il IV e il III sec. a.C.

Per quanto riguarda infine l'Etruria settentrionale, e in particolare Chiusi e Volterra, le relazioni molto strette tra incisori di s. e ceramografi del Gruppo Clusium sono ben note. Esse non si limitano a scelte iconografiche o compositive, ma toccano anche aspetti squisitamente formali, con particolare riguardo ai dettagli anatomici e ai girali delle cornici. Il centro mediatore di questi temi, oltre che della decorazione accessoria, forse ispirati a modelli della grande pittura greca, potrebbe essere Orvieto del cui ruolo attivo nella formazione del Gruppo di Clusium già si è detto. Tra gli s. più significativi, con cornici a girali che richiamano le ceramiche del gruppo (in particolare il Pittore di Montebradoni), vanno ricordati lo s. di Perugia con i Dioscuri, Elena e Laomedonte e la «patera cospiana» da Arezzo con la nascita di Atena (CSE, Bologna, I, 10), la cui attribuzione a un ambito settentrionale è garantita dalla grafia delle iscrizioni che didascalizzano i personaggi. Per l'età precedente (fine del V sec.) si possono invece ricordare lo s. con Achille e Aiace a Basilea, e quello con Eracle e Atena da Perugia, entrambi con iscrizioni di tipo settentrionale. In una recente rassegna delle fabbriche dell'Etruria settentrionale (Mangani,1985) si arriva alla conclusione che molti gruppi, tradizionalmente assegnati a questo ambito, sono in realtà da riferire a officine dell'Etruria centrale interna, e in particolare a Orvieto.

Per quanto riguarda infine la più tarda produzione di s. con le Lase o i Dioscuri, dislocata lungo l'intero arco del III sec. (vedi infra), è probabile che essa derivi, per progressive semplificazioni, da quella precedente a più figure la cui standardizzazione sempre più marcata facilitò probabilmente il proliferare delle officine sia in Etruria centrale sia in Etruria settentrionale. La loro maggiore diffusione proprio nell'Etruria settentrionale lascia intuire che questa produzione più tarda, inizialmente attiva in ambedue le aree, finì con il sopravvivere solo a N, nei centri di Chiusi e di Volterra, dove probabilmente erano state impiantate nuove officine. Anche in questo caso è probabile che il primo impulso sia venuto da Orvieto-Bolsena, così come accade per altre manifatture, p.es. quella della ceramica argentata, inventata e prodotta inizialmente solo a Orvieto, ma più tardi esportata e realizzata anche nelle fornaci di Volterra.

Mentre per gli s. di età arcaica e classica non ci sono sostanziali novità relativamente al problema della cronologia, per la produzione più recente, e in special modo per la sua fase finale, è tuttora aperto tra gli studiosi un acceso dibattito con posizioni molto diversificate anche in ragione di alcune difficoltà obiettive. La svolta che verso la fine del IV sec. si verifica nella produzione degli s. etruschi (manico fuso, disco piccolo, standardizzazione della decorazione figurata) provoca da un lato un aumento straordinario degli esemplari e dall'altro un abbassamento considerevole della loro qualità artistica, complicando enormemente tutti i tentativi di classificazione stilistica e di datazione. Anche per questo, relativamente alla cronologia degli s. con Lase e Dioscuri che rappresentano senza dubbio la fase finale della produzione, si è fatto spesso ricorso a elementi esterni come i corredi delle tombe. Ciò nonostante le proposte restano difformi e per quanto riguarda il termine della produzione si va dalla prima metà del III sec. (Rebuffat-Emmanuel, 1973), alla seconda metà dello stesso secolo (CSE, Bologna, I), alla prima metà del II (Mangani, 1985 e CSE, Volterra, I), a tutto il II sec. con qualche sconfinamento nel I (Salskov Roberts, 1983) fino ad arrivare al I sec. a.C. (Höckmann, 1987 e 1989) analogamente a quanto aveva già proposto l'Herbig. Quest'ultima datazione, ritenuta inaccettabile dai più, si basa soprattutto su considerazioni di ordine stilistico che la stessa Höckmann reputa più attendibili dei dati desunti dai corredi tombali, facendone un uso non sempre appropriato.

All'interno delle tombe il valore cronologico degli s. è diverso da quello degli oggetti di destinazione esclusivamente funeraria, come, p.es., le urne cinerarie, appartenendo a quella categoria di materiali che potevano essere conservati a lungo prima di essere deposti nella tomba ed essere quindi notevolmente più antichi. È vero che si è fatta strada recentemente l'ipotesi che anche gli s. avessero, specie in età più tarda, una destinazione esclusivamente funeraria, ma si tratta di una proposta basata su elementi molto fragili. Del resto quando si voleva sottolineare la destinazione funeraria degli s. si incideva sul loro lato riflettente, interrompendone di fatto la funzione, il termine «suthina», cioè «funerario». Tale iscrizione era sicuramente apposta al momento della sepoltura, se non altro per il fatto che, occupando l'intero lato riflettente, rendeva lo s. inservibile e come tale suscettibile di essere deposto nella tomba. L'ipotesi che rispetto agli altri materiali del corredo lo s. possa essere legittimamente considerato più antico pare accettabile. In conclusione, per quanto riguarda la cronologia, si può ipotizzare che la produzione degli s. con Lase e Dioscuri termini alla fine del III secolo. Per i pochi esemplari che si trovano in contesti della prima metà del II sec. si dovrà pensare a un lungo periodo di uso prima della deposizione nella tomba per cui si può affermare che la produzione degli s. termina in Etruria con il III sec., mentre la loro utilizzazione può sconfinare anche nella prima metà del secolo successivo.

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(G. Sassatelli)

Cina . - Gli s. cinesi d'uso sociale e ornamentale rappresentano un settore del tutto particolare nell'arte della lavorazione del bronzo e, a differenza dei vasi o dei c.d. s. ustori ad alto contenuto di stagno (usati nei sacrifici solari e nella divinazione), non raggiungono mai dimensioni eccessive e sono, quindi, molto maneggevoli. Le raffigurazioni pittoriche cinesi ci restituiscono l'immagine dello s. sempre in mano a cortigiane o concubine; così la letteratura e anche le cronache storiche, le quali ne descrivono l'uso pure come pregiato oggetto di dono o di scambio tra classi nobili o in diplomazia.

La tipologia dello s. cinese in bronzo rimane inalterata nel tempo: in prevalenza di forma circolare (il diametro va, generalmente, dai 12 ai 25 cm), una delle facce è levigata o ricoperta da uno strato argenteo per consentire il riflesso, mentre l'altra presenta decorazioni a rilievo con motivi che variano a seconda dei periodi storici; al centro della superficie istoriata si nota una sporgenza a forma di bottone calottiforme, traforata, attraverso la quale si poteva inserire un cordoncino. In alcuni degli s. più antichi al posto del bottone calottiforme c'è un anello sporgente circolare (del diametro di c.a 1 cm) che fungeva da vero e proprio manico. Per quanto riguarda le forme, in linea generale, dall'epoca Shang (sec. XVII-1121 a.C.) ai Tang (secc. VII-X) predomina lo s. circolare, anche se in quest'ultimo periodo si verifica un arricchimento delle sagome (diversi sono gli s. plurilobati) e si assiste a un'esplosione di motivi ornamentali che investono il campo delle religioni buddhista e taoista.

Sull'origine degli s. in Cina si è molto discusso. L'ipotesi che ne voleva l'introduzione attraverso le vie commerciali durante l'epoca achemenide (VI-IV sec. a.C.) è stata smentita dalle evidenze archeologiche; difatti, s. cinesi in bronzo decorati sul rovescio sono emersi dai siti Shang, e i più antichi si datano tra il XIII e l'XI sec. a.C. Quanto alla coesione delle due facce, quella polita e riflettente con l'altra lavorata, esse erano in antico saldate fra loro; alcuni modelli presentano decorazioni a bugnette che fanno ipotizzare che fossero fra loro inchiodate; gli s. più fini (epoca Tang) sono invece costituiti da un solo disco levigato su una faccia e decorato sull'altra.

Se l'aspetto tecnologico degli s. riflette l'insieme di sofisticate tecniche relative alla metallurgia del bronzo che resero l'antica Cina insuperabile, anche l'aspetto artistico presenta particolarità di rilievo. Le decorazioni dalla faccia opposta a quella riflettente, infatti, sono sempre di squisita fattura e gli stilemi ornamentali scandiscono il succedersi dei regimi politici adottandone quei motivi e quelle forme iconografiche diventate poi tradizionali di ogni periodo.

Il bordo periferico degli s. è configurato come una cornice circolare a una o più bande concentriche istoriate; all'interno della cornice, nella zona centrale dello s. attorno al bottone calottiforme, vengono poi sviluppati i temi da rappresentare. La cornice era originariamente lavorata a sbalzo; nei più antichi esemplari Shang il motivo di queste fasce decorative è generalmente costituito da segmenti disposti a raggiera; nelle epoche successive fino ai Tang questo caratteristico motivo rimane, tutt'al più, soltanto in una delle bande più interne mentre le altre contengono decorazioni quali nuvole, iscrizioni, dentelli, piante, animali (in genere i dodici segni zodiacali), draghi, fenici. In alcuni s. di epoca Tang, la cornice addirittura scompare per dare più spazio alla scena centrale.

Quanto alla rappresentazione principale, essa si sviluppa, come già detto, all'interno della cornice circolare e occupa la maggior parte della superficie del disco. Negli s. più antichi, quelli Shang, prevalgono decorazioni geometriche (a volte il motivo della cornice è ripetuto in fasce concentriche fino al centro) anche se cominciano ad apparire alcune rappresentazioni zoomorfe che si accentuano durante le epoche successive; nel periodo degli Stati Combattenti (403-222 a.C.), le immagini degli animali vengono proposte in una composizione molto movimentata che gli stessi Cinesi, in epoca contemporanea, chiamano «fuga che dà la vertigine». Questa caratteristica di vorticoso movimento cesserà in epoca Han (206 a.C.-220 d.C.) e gli animali saranno rappresentati in positura statica, a simboleggiare concezioni cosmologiche, emblemi imperiali o del funzionariato civile, aneddoti mitologici: l'obiettivo di questa iconografia è l'instaurazione dell'ideologia confuciana in cui i ruoli sociali e le categorie fenomeniche vengono propagandati come necessariamente immutabili. Fra gli animali più rappresentati: il drago (l'imperatore), la fenice (l'imperatrice), la gru (longevità), i quattro animali simboleggianti un settore del cielo e una stagione come l'uccello (Sud, estate), la tigre (Ovest, autunno), la tartaruga (Nord, inverno), il drago (Est, primavera), nonché altri animali (cervo, pesci, ecc.); inoltre, non sono rari personaggi mitologici con tutto il loro seguito, come il Duca Signore dell'Oriente, la Regina Madre dell'Occidente e figure di demoni e altre fantastiche creature. Una particolare decorazione di alcuni s. Han è costituita dalla ripetizione di disegni a forma delle nostre lettere maiuscole T, L e V; questi segni si trovano anche sui quadranti solari della stessa epoca che avevano uno gnomone proprio a forma di T; questa «lettera», dunque, sarebbe in relazione con misurazioni astronomiche, la L rappresenterebbe una forma contratta dello svastika buddhista (la ruota della vita) e le V, in genere disposte in posizioni delimitanti angoli, indicherebbero le direzioni dei venti. Naturalmente si tratta di ipotesi non verificabili giacché non v'è traccia di spiegazioni nelle fonti letterarie; per la presenza di tali motivi ornamentali, questi s. vengono definiti cosmici.

Nel V sec. d.C. compaiono i c.d. s. magici o s. trasparenti, raffinati oggetti che tuttora destano curiosità e interesse: si tratta di sottili dischi di bronzo finemente politi sulla faccia specchiante, i quali riflettono, assieme all'immagine di chi si specchia, anche il disegno di ciò che è raffigurato sul verso opposto; la spiegazione di questo fenomeno risiede nella convessità del piatto e in un gioco di spessori differenti tra le zone più o meno cesellate.

L'epoca più importante per gli s. è quella Tang (618- 907 d.C.); compaiono le forme plurilobate, a foglie, con la faccia istoriata laminata, sovente in oro o argento e, non di rado, con l'inserimento di pietre preziose; i motivi decorativi invadono le tematiche religiose: ed ecco che appaiono trigrammi e oggetti sacri al buddhismo o al taoismo; fiori e animali sono stilizzati e composti ad arabesco, si notano motivi di probabile provenienza iranica come i grappoli d'uva e arabeschi a cuore nei quali sono inserite figure d'animali.

Bibl.: A. J. Koop, Ancient Chinese Bronzes, Londra 1924, pp. 31-35, 65-70; M. Rupert, O. J. Todd, Chinese Bronze Mirrors, New York 1966.

(I. Iannaccone)