CISSÉ, Souleymane

Enciclopedia del Cinema (2003)

Cissé, Souleymane

Grazia Paganelli

Regista e fotografo malieno, nato a Bamako (Mali) il 21 aprile 1940. Nei suoi film C. ha elaborato una poetica fortemente legata alla terra e alla storia del suo popolo, sullo sfondo della lotta per la democrazia e la modernizzazione del suo Paese. Concepito dapprima come strumento di militanza e di intervento politico, il suo cinema ha acquistato nel tempo leggerezza di forma e densità di contenuto, nel segno di una più approfondita riflessione filosofica, e, soprattutto, di una maggiore attenzione rivolta all'aspetto linguistico. La sua cinematografia risulta caratterizzata da temi quali la denuncia sociale, il conflitto generazionale e il contrasto tra tradizione e rinnovamento. La rilevanza della sua opera all'interno del panorama africano è stata sancita dalla conquista dei due principali riconoscimenti continentali: il Tanit di bronzo conferitogli nel 1972 in occasione delle JCC (Journées Cinématographiques de Carthage) per Cinq jours d'une vie (1971) e il Primo premio assegnatogli al FESPACO (Festival Panafricain du Cinéma de Ougadougou) nel 1979 per Baara (1977; Il lavoro). La definitiva consacrazione internazionale è giunta nel 1987 con il premio della giuria al Festival di Cannes attribuito a C. per Yeelen (1987; Yeelen ‒ La luce).

Come molti cineasti africani, C. compì gli studi di cinema a Mosca, frequentando fra il 1963 e il 1969 i corsi di sceneggiatura e regia al VGIK, dove girò i primi tre cortometraggi (film di studio e saggi di diploma) nei quali compaiono già alcuni dei temi caratteristici del suo cinema. Tornato in Mali, lavorò per il Centre national de production cinématographique del Ministero dell'informazione realizzando cinque documentari e una trentina di reportage. Nei cortometraggi d'esordio L'homme et les idoles (1965) e L'aspirant (1968) si racconta della difficile convivenza tra arti magiche e medicina convenzionale, mentre Sources d'inspiration (1968) è il ritratto del pittore malieno Mamadou Soma Coulibaly. Sono seguiti i documentari Degal à Dialloubé (1970), sull'attraversamento annuale del Niger da parte delle mandrie di bufali dirette verso i pascoli, e Fête du Sanké (1971) dedicato al festoso raduno dei pescatori della regione del Sanké. La vita di un ragazzo che abbandona la scuola coranica è al centro del mediometraggio Cinq jours d'une vie, nel quale il regista si immerge nelle strade di una città con sguardo attento a cogliere il carattere quotidiano di esperienze che lasceranno un segno nella vita del protagonista.Il contrasto sociale è alla base del primo lungometraggio, Den Muso (1975, La ragazza; primo film del Mali in lingua bambara, vietato dalla censura), opera coraggiosa che sfiora continuamente argomenti scottanti per il cinema africano, raccontando la vicenda di Ténin, figlia muta di un ricco industriale, che, innamorata dell'operaio Sékou, rimane incinta, ma viene abbandonata dall'uomo e rinnegata dalla famiglia. Il dramma, osservato con sguardo fortemente realistico, scivola progressivamente verso il cinema di genere, e le scene che ne segnano la tragica conclusione (la vendetta e il suicidio della giovane), sembrano percorrere, nell'uso dei primi piani e della luce, i futuri esiti del regista. In Baara, altro film di denuncia sociale ambientato nei luoghi della classe operaia (fabbriche, strade e case), C. alterna l'artificio di scelte stilistiche quasi oniriche a un realismo che sconfina nel documentario in una continua tensione tra l'astratto e il concreto. Al centro del racconto vi sono due uomini, uniti dallo stesso nome ma divisi dal ruolo che ricoprono nella società (l'uno operaio, l'altro un ingegnere che vorrebbe modernizzare l'azienda), i quali si trovano accomunati in una lotta condotta in nome di principi democratici, che mette a nudo la rigida stratificazione sociale del Mali.

Nei tre film successivi lo sguardo di C. si fa più ampio e il set sembra voler abbracciare l'orizzonte per coinvolgere gli elementi della natura e del cosmo: il vento, la luce, il tempo. Il titolo in lingua bambara di Finyé (1982, Il vento) non fa infatti riferimento soltanto al vento come forza naturale (che pure attraversa ininterrottamente tutto il film), ma soprattutto alla sua capacità di risvegliare il pensiero degli uomini; il film racconta la vicenda di due adolescenti che si incontrano in una grande città africana, uniti dal desiderio di sovvertire il potere, sia quello tramandato da una tradizione millenaria, sia quello incarnato dal regime militare. Analogamente in Yeelen, protagonista è la luce, rappresentata non solo come elemento naturale, ma come forza che risolve lo scontro generazionale tra il giovane Nyanankoro e il padre Soma, maestri di un sapere magico che è potere e dominio sulla natura. Il film è un viaggio iniziatico, sospeso in una dimensione atemporale attraverso un paesaggio accecante. La tempestosa lavorazione del film ha tenuto impegnato C. per oltre sei anni, tre per la ricerca dei finanziamenti e circa tre e mezzo per le riprese, più volte interrotte per le tempeste di sabbia, gli incidenti sul set, le minacce di maledizione dei capi tribali, la morte dell'attore principale Ismaïla Sarr. Il passo successivo in questa esplorazione degli elementi si è compiuto con il viaggio nel tempo di Waati (1995, Il tempo). Ancora un film di vagabondaggio e di ricerca che dal Sudafrica dell'apartheid si sposta in altri luoghi e attraversa il deserto, per ritornare, e finire, al punto di partenza. In questo grande affresco il tempo indirizza lo sguardo e domina ogni sentimento e ogni gesto; il suo scorrere, diseguale e imprevedibile, eleva il film verso la purezza dell'immagine cinematografica.

Bibliografia

Il cinema dell'Africa nera 1963-1987, a cura di S. Toffetti, Milano 1987, pp. 98-100.

A. Gardies, P. Haffner, Regards sur le cinéma négro-africain, Paris 1989, pp. 93-106.

G. Gariazzo, Poetiche del cinema africano, Torino 1998, pp. 51-65 e 197-98.

F. Colais, Il cinema africano dalla parola all'immagine, Roma 1999, pp. 79-80 e 179-81.

G. Gariazzo, Breve storia del cinema africano, Torino 2001, pp. 90-93.

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