SOPRAVVIVENZA DELLʼANTICO

Enciclopedia dell' Arte Antica (1973)

SOPRAVVIVENZA DELL'ANTICO

N. Dacos

I problemi concernenti le sopravvivenze e le riprese dell'arte antica nella civiltà occidentale sono molto numerosi e molto varî, sicchè le ricerche estremamente abbondanti che sono state ad essi consacrate non hanno ancora permesso di chiarirne tutti gli aspetti.

L'atteggiamento nei confronti dell'antico può essere di natura molto diversa. 1) Può esser passivo, quando l'artista trae ispirazione da elementi antichi che trova generalmente sul posto, senza avere la cosciente volontà di farne rivivere lo stile; l'antico è per lui una fonte fra le altre, che gli fornisce un repertorio nuovo di motivi, ma spesso niente di più. 2) Può essere attivo e rivelare allora due tipi di preoccupazioni, politiche o artistiche. Generalmente, dopo il Medioevo fino al XIX secolo, la costituzione di un potere forte, centrale, si accompagna alla volontà di far rivivere la cultura dell'impero romano nelle sue manifestazioni di grandezza. Si assiste allora ad un classicismo di tipo aulico, accademico. Gli artisti son tenuti a costituire un repertorio figurativo di carattere imperiale e spesso il problema strettamente stilistico passa in secondo piano. Oppure, può accadere che il ritorno a modelli antichi corrisponda ad una problematica personale dell'artista, nel quadro della cultura della sua epoca e spesso in rapporto con i dotti. L'artista sceglie allora le opere antiche nelle quali vede la soluzione dei problemi che vuol affrontare. In questo caso, è evidentemente erroneo parlare di ritorno all'antico in maniera generale. L'antichità classica, greco-romana, coprendo una diecina di secoli, e un arte che si è sviluppata e ha variato costantemente. Perciò, se si vuol evitare una semplice enumerazione di modelli, il cui interesse sarebbe molto ristretto, e chiarire attraverso la loro scelta i problemi che essi ponevano, bisogna distinguere nelle riprese quale corrente dell'arte antica abbia interessato particolarmente gli artisti e per quali ragioni. Non è, beninteso, sempre possibile distinguere in maniera drastica e definitiva se, quando s'ispira ad un aspetto dell'antico, l'artista risponda esattamente ad uno dei tre orientamenti suindicati. La funzione che esercitano i modelli può esser più o meno stimolante e non è sempre possibile separare l'assimilazione dalla copia o anche dal pasticcio, con tutti i gradi che questi comportano. Ugualmente, l'intenzione politica ed erudita può apparire in misura più o meno grande. In via generale, agli atteggiamenti che sono stati definiti, si possono far spesso corrispondere maniere diverse di utilizzare direttamente le opere antiche. Quando si assiste al reimpiego puro e semplice, come accade spesso nell'architettura romanica, nella quale frammenti di costruzioni romane sono integrati nell'edificio, l'artista, in genere non attribuisce alcun preciso valore ai pezzi che recupera. Il suo atteggiamento è allora tipicamente passivo. L'indifferenza che manifesta si nota particolarmente nel fatto che ricorre a resti di stile e di epoca molto distanti gli uni dagli altri, come sono spesso i capitelli e le colonne antiche reimpiegate nelle navate e nei chiostri. Invece quando dimostra un grande interesse per i modelli ma resta incapace di riviverne nettamente lo stile, l'artista cerca talvolta di rilavorarli, come per appropriarsi delle loro qualità e per esercitarsi in questo modo a migliorare il suo mestiere. È il caso in particolare degli scultori di avorî dell'epoca carolingia, che riprendono spesso placche paleocristiane e le adattano alle proprie esigenze. È anche il caso di alcuni artisti del Rinascimento italiano, come, pare, Nanni di Banco, quando modifica una testa di Antinoo (v. vol. iii, s. v. falsificazione, fig. 697). Il fenomeno si riscontra episodicamente attraverso i secoli e dà luogo generalmente ad opere ibride, che restano a mezza strada tra l'originale di partenza e lo stile personale dell'artista. In queste condizioni, non si può ancora parlare in verità di influenza attiva delle fonti, poiché l'artista rimane, pur proponendone una interpretazione, ad esse sottomesso. Si verifica un fenomeno molto simile quando l'artista prova un'ammirazione appassionata per il suo modello e si limita a restaurarlo. Anche allora, il restauro corrisponde tuttavia ad una interpretazione, come l'esempio illustre del Laocoonte, restaurato all'inizio del XVI secolo secondo una visione meramente manieristica dove lo stile dell'opera rodia è stato tradito. Questo amore smisurato che rasenta il culto può portare anche alla contraffazione. L'artista si sforza allora di produrre opere che rispondano il meglio possibile alle richieste dei suoi committenti, e una volta di più rivela in genere il gusto della sua epoca. Per questo con il passare del tempo non si hanno di solito difficoltà a riconoscere i "falsi", anche quando hanno già ingannato gli specialisti più esercitati. Invece, quando i modelli esercitano una vera azione e aiutano l'artista a risolvere i proprî problemi, egli li traspone spontaneamente e la fonte diventa difficilmente identificabile.

Tra le ricerche dedicate allo studio delle S. dell'arte antica, bisogna ricordare in modo particolare quelle condotte fin dagli inizî del secolo dall'istituto fondato da Aby Warburg. Lo studioso di Amburgo aveva fondato una biblioteca dedicata appunto allo studio delle sopravvivenze della cultura antica, in particolare nel Rinascimento. Egli non si limitò ai problemi artistici ma, come appare dai suoi lavori, fu aperto a tutti gli aspetti della Kulturgeschichte. Con il Warburg aveva collaborato nella sua giovinezza lo storico dell'arte Erwin Panofsky, che si orientò ben presto verso lo studio del significato dell'opera d'arte, non soltanto iconografico, ma anche come manifestazione della cultura di un'epoca: ricerca che chiamò iconologia. Benché gli studî del Panofsky non siano limitati a questo settore, in esso tuttavia rientrano le sue opere più originali, o piuttosto quelle che suscitarono l'eco più vasta. Nello stesso ordine di idee furono realizzati lavori da parte di Fritz Saxl, allievo del Warburg e collaboratore del Panofsky. L'etichetta di iconologia, che si applica generalmente al Warburg Institute, ha perduto tuttavia una parte della sua attualità. L'attuale direttore, E. H. Gombrich, ha denunciato i pericoli che comporta questo metodo e ha voluto ritornare al problema strettamente stilistico delle opere d'arte, che lascia indifferenti gli iconologi, affrontando lo studio nella direzione della psicologia. Sia che si adotti il metodo interdisciplinare proposto dal Gombrich, sia che ci si attenga a mezzi d'investigazione più tradizionali, uno dei meriti dello studioso viennese consiste nell'avere affrontato il campo meno studiato delle s. dell'antico, relativo al processo strettamente stilistico.

Medioevo: - A) Bisanzio. - Ad Occidente come ad Oriente tra la tarda Antichità e il Medioevo non esiste una vera frattura. Ma la continuità è certamente più palese nell'arte bizantina che, durante tutto il suo sviluppo, è nutrita soprattutto dalla cultura di Alessandria, e anche di Antiochia, di Efeso e di altri centri ellenistici. Tuttavia, dopo una fase transitoria, nella quale le tradizioni antiche sopravvivono indebolendosi a poco a poco, si assiste ad una rottura radicale con il passato nel corso del VI e del VII secolo. Ciò non impedisce che l'arte bizantina conservi sempre elementi ellenistici, tanto nella trasmissione di motivi figurati quanto nella cultura letteraria. Episodi della mitologia antica appaiono in tutte le fasi della sua storia (si vedano le miniature illustranti lo Pseudo-Nonno e lo Pseudo-Oppiano) e d'altronde composizioni che illustravano temi mitologici sono spesso riprese per rappresentare episodî cristiani. In opposizione a queste sopravvivenze passive, con la dinastia macedone (867-1056) si assiste all'elaborazione di uno stile basato consciamente sullo studio della tematica e dello stile ellenistici. Detenendo un potere forte e centralizzato (a Costantinopoli), che s'appoggia su una aristocrazia militare e sviluppa la cultura di élite a livello universitario, la dinastia orienta gli artisti verso un ritorno cristallizzato ai vecchi modelli, che essi copiano servilmente per illustrare i dogmi e i riti della chiesa. È l'esempio tipico di quel fenomeno reazionario che suggerisce il ritorno all'antico, provocato da considerazioni politiche. Nel XIV e nel XV sec. si manifesta, all'epoca del "Rinascimento" dei Paleologhi, un'influenza dell'antico di carattere molto diverso. Le fonti ellenistiche e soprattutto i codici miniati portano gli artisti a intraprendere ricerche personali sullo stile, che diviene meno stereotipo. I modelli antichi li aiutano a rinnovare la loro maniera.

B) Età carolingia. - In Occidente, dopo il III e il IV sec., le tradizioni barbariche avevano avuto ragione della cultura antica. Questa situazione perdura fino all'epoca merovingia, poi una rottura totale avviene alla corte di Carlomagno. Anche in questo caso l'arte è legata ad una classe dominante molto potente, cui appartengono anche uomini di cultura, ed è limitata alla capitale e ai grandi centri religiosi e politici dell'Impero, mentre le province restano dapprima estranee alle novità. In tutti i campi si assiste ad un ritorno cosciente ai modelli antichi. Ma ai modelli della Tarda Antichità vengono ad aggiungersi prototipi bizantini e anche siriaci. Così la cappella palatina di Aix-la-Chapelle è ispirata in gran parte al San Vitale di Ravenna. Sulle porte di bronzo i motivi ornamentali e le teste di leone dei battenti rivelano un classicismo e un livello di esecuzione così elevato che è stata fatta l'ipotesi di un'esecuzione da parte di artisti venuti d'Italia o forse dalla stessa Costantinopoli. Il problema è ancora aperto ed è lo stesso che si pone per le miniature, che costituiscono la manifestazione artistica più importante dell'epoca, e per gli avorî, che ritornano in gran favore. Alla scuola palatina si ricollega specialmente la Bibbia di Vienna, capolavoro impregnato di cultura ellenistica fin nella resa dei colori e in cui il San Matteo, per esempio, è improntato ad una forza plastica che richiama più un atleta antico che un evangelista. Un secolo più tardi questa tradizione è ripresa a Reims. Ma gli artisti vi adatteranno l'illusionismo ellenistico con una intenzione molto differente, dove si potrà misurare la distanza che li separa questa volta dai modelli. L'influenza dei prototipi paleocristiani sulle placchette di avorio come quelle del Salterio di Dagulfo e della Bibbia di Lorsch, pone ancora il problema della eventuale partecipazione di artisti stranieri. Accade talvolta che siano utilizzati e rilavorati perfino esemplari paleocristiani.

Per analogia con il periodo carolingio si parla generalmente di "Rinascimento" ottoniano per caratterizzare l'arte della seconda metà del X e degli inizî dell'XI sec. in Germania. Sotto i tre imperatori che portano il nome di Ottone, l'arte viene espressa esclusivamente nell'ambiente della corte. L'influenza dei modelli romani imperiali è evidente specialmente nella colonna bronzea di Hildesheim ispirata a quelle di Traiano e di Marco Aurelio. Ma il più delle volte l'azione delle fonti antiche, soprattutto paleocristiane e bizantine, si esercita attraverso lo studio dell'arte carolingia (soprattutto negli avorî e nei pezzi di oreficeria) senza che si abbia un ritorno diretto ai modelli. Parlare di Rinascimento dell'antico non è appropriato.

C) L'arte romanica. - Le riprese dell'arte antica sono molto più numerose nell'arte romanica, di cui costituiscono una componente tutt'altro che trascurabile. Non c'è tuttavia una volontà erudita di ritornare alle opere antiche. L'arte romanica è un fenomeno essenzialmente popolare, paragonabile allo sviluppo contemporaneo delle lingue volgari. Gli artisti trovano i loro modelli sul posto, interrogando le vestigia locali senza preoccuparsi oltre misura della loro origine. In generale l'influenza è notevole soprattutto in architettura, come dimostrano in particolare le strutture classicheggianti di Saint-Trophime ad Arles o della Badia a Fiesole. Villard de Honnecourt, il cui Livre de pourtraicture attesta un interesse estremamente vivo per l'antico e costituisce un caso unico nel Medioevo, era del resto architetto anche lui. La curiosità per le opere romane impronta fortemente anche la scultura, mentre la pittura ne resta più indipendente. Poichè nella maggioranza dei casi la componente antica è funzione di vestigia locali, essa è particolarmente forte nelle regioni che ne sono ricche. In Francia è il caso dell'Alvernia, dove le chiese abbondano di centauri, di sirene, di vittorie, di genî affrontati ripresi dai monumenti gallo-romani, e del Sud-Ovest, ma soprattutto della Provenza, dove i monumenti come Saint-Gilles du Gard e Saint-Trophinie ad Arles hanno un carattere più nettamente classicizzante, dovuto allo stile differente dei modelli che derivano di più dall'arte romana vera e propria.

È in questa regione che l'azione delle antichità è più forte e porta soprattutto alla formazione di uno stile nettamente plastico nel quale il corpo umano, non più assorbito in composizioni ornamentali, conserva una sua autonomia ed ha anche una tendenza cromatica, pittorica, particolarmente evidente a Saint-Trophime. Talvolta gli scultori romanici spagnoli sono ugualmente influenzati da rilievi romani, specialmente alla cattedrale di León.

In Italia, il contatto con l'arte antica non è mai del tutto assente e se ne possono seguire le tracce in tutte le scuole ragionali. Tuttavia, se gli artisti hanno conosciuto direttamente le opere romane, nella maggior parte dei casi le interpretano attraverso la visione degli artisti provenzali, la cui influenza in Italia è stata enorme. È il caso, nel Nord, delle maestranze campionesi, con la scuola di Piacenza e anche con l'Antelami (si veda a Parma il rilievo della Deposizione). È il caso, in Toscana, dapprima a Pisa con Rainaldo, poi con Maestro Guglielmo, poi a Lucca con Biduino e Roberto. È il caso infine in Campania, nelle Puglie e fino in Sicilia (si vedano per esempio i telamoni della Tomba di Ruggero II). Il fenomeno è diverso a Modena. Il grande Wiligelmo, seguìto più tardi dai suoi discepoli, scruta anche lui le vestigia archeologiche; ma quelle che poteva conoscere sul posto, di epoca tarda, non potevano permettergli ritrodi vare per tal via forme plastiche comparabili con quelle dell'arte classica. Le fonti dell'arte di Wiligelmo sono da cercare altrove nelle scuole francesi di Aquitania e di Borgogna. Infine, a Roma, dove la gamma di modelli romani è la più ricca, i marmorarî non oltrepassano in genere un livello artigianale.

È ancora all'arte romanica che si ricollega il movimento artistico promosso da Federico II (+1250) nell'Italia meridionale, quando in Francia lo stile gotico è già completamente costituito. Si è considerata spesso l'arte federiciana come un vero Rinascimento, dandone un'interpretazione semplicistica ed erronea sotto molti aspetti. Si è voluto vedere dapprima la volontà di rinnovamento classico nel capitello della cattedrale di Troia, nelle opere apparentate e anche nel busto di Federico II conservato a Barletta. Ma l'apparenza antica di queste opere deriva dalla scultura gotica dell'Ile-de-France. Il secondo gruppo di opere, dove si è visto spesso un ritorno intenzionale ai modelli romani, è costituito dalle sculture della Porta di Capua. I busti panneggiati all'antica, nei quali si sono volute ritrovare le effigi di Pier delle Vigne e di Taddeo da Sessa, e la famosa testa femminile che personifica probabilmente la Giustizia, rivelano invece una cultura molto diversa, che affonda le sue radici nell'arte romanica tarda del Sud della Francia. In rapporto alle opere della Capitanata, quelle di Capua rappresentano una corrente che non ha niente di innovatore ed è anzi decisamente arcaizzante. Ciò non esclude che l'arte di Federico II, come tutta la cultura che si sviluppa sotto l'egida del sovrano, comporti una componente antica. Questa muove soprattutto dalla politica imperiale svolta da Federico II ma non è affatto predominante, mescolandosi a filoni ancora tipicamente medievali e anche a elementi orientali e islamici.

Dalla cultura federiciana più viva, cioè da quella della Capitanata e non da Capua, deriva il giovane Nicola Pisano, che ne introduce i fermenti in Toscana. L'artista arricchisce allora questo bagaglio con una conoscenza profonda dei sarcofagi romani, specialmente nel pulpito del Battistero di Pisa. Lungi dall'essere erudito e superficiale, il suo atteggiamento corrisponde al bisogno imperioso di liberarsi delle strutture tradizionali e di ritrovare la via del naturalismo. Ma la ricerca di plasticità che persegue è annientata talvolta dalle fonti diverse alle quali egli attinge e che corrispondono forse più a quello che l'artista sa già rendere che a quello che vuole acquisire. Nel pulpito del Duomo di Siena, la Vergine della Natività è distesa in un atteggiamento che riecheggia le silhouettes ammassate e accartocciate delle urne etrusche, dalle quali potrebbe forse essere derivata. La composizione stessa dei pulpiti creati da Nicola Pisano e poi da suo figlio Giovanni è caratteristica del significato che alla fine del Medioevo si dava all'Antichità, considerata come la base di ogni conoscenza. Alla sommità il mondo cristiano è illustrato dagli episodî del Nuovo Testamento, scanditi dalle Virtù; al livello inferiore, nei pennacchi, Sibille e profeti rappresentano la cultura ebraica dell'Antico Testamento, mentre alla base i leoni alludono al mondo antico e la colonna centrale è sostenuta dalle Arti Liberali a Siena, dalle Virtù a Pisa.

D) Arte gotica. -Il Rinascimento più completo dell'arte antica nel Medioevo si manifesta soprattutto nell'arte gotica francese, che si sviluppa dalla metà del XII secolo. Uno dei focolari più fecondi è quello di Reims, dove gli artisti si liberano completamente dagli schemi ornamentali e ritrovano la plasticità del corpo umano. Il gruppo della Visitazione o gli apostoli del portale del Giudizio Finale sembrano testimoniare una conoscenza intima di modelli antichi ed estrarne soprattutto gli elementi ellenici. Ma, come succede frequentemente quando l'assimilazione è totale, - la testa di San Pietro, per esempio, è curiosamente vicina a quella di Antonino Pio - e quando gli artisti restano padroni delle proprie opere senza sottomettersi ai prototipi, non si riesce a distinguere le fonti specifiche di cui si son potuti servire, anche quando le rassomiglianze sono impressionanti. Questo movimento è tuttavia senza avvenire e, una generazione più tardi, una nuova ondata di bizantinismo domina l'arte francese.

In Italia, il figlio di Nicola, Giovanni Pisano, opera un'evoluzione più netta verso il gotico, e gli elementi antichi di cui sono impregnate le sue opere non contribuiscono a modificare radicalmente il suo stile. Al contrario presso Arnolfo di Cambio, vero erede del pensiero di Nicola, la conoscenza dell'antico determina uno stile spoglio, molto espressivo. La recente scoperta del nuovo Scriba della fontana di Perugia (1281) permette di cogliere uno dei momenti in cui la sua arte è quanto mai impregnata di cultura antica e contemporaneamente raggiunge una vetta. Questa volta si può precisare che l'artista opta soprattutto per i sarcofagi tardi, del III sec. d. C., la cui estetica, completamente trasformata rispetto all'ellenismo, non si differenzia sostanzialmente da quella della scultura paleocristiana.

Parallelamente a questo movimento artistico, si assiste, durante il periodo gotico, a un rinnovamento di studî sui testi antichi, che si sviluppa soprattutto nel Nord dell'Europa (Francia settentrionale, Germania occidentale, Paesi Bassi e Inghilterra, specialmente con Giovanni di Salisbury). La conoscenza più approfondita delle leggende antiche che ne deriva porta, in uno stile che non ha alcunché di archeologico, ma resta unicamente gotico, all'illustrazione nuova di temi antichi mentre, simultaneamente, i motivi figurati ispirati all'Antichità danno luogo ad interpretazioni cristiane. È ciò che Panofsky ha chiamato principio di "disgiunzione". Per assistere alla reintegrazione della forma e del significato antichi, bisognerà, egli pensa, attendere il vero Rinascimento e l'Umanesimo, quando il punto di vista sarà totalmente differente e il mondo classico non sarà più considerato come quel passato di cui gli uomini del Medioevo si sentivano ancora eredi legittimi. Visto, al contrario, con la distanza della storia, quel mondo chiederà di essere recuperato con una nostalgia appassionata.

Rinascimento. - Il vero Rinascimento ha luogo nel XV secolo in Italia, quando gli artisti lavorano in collaborazione con gli umanisti e cominciano ad essere impregnati della loro cultura. A poco a poco essi abbandoneranno il loro stato di artigiani e accederanno a una classe superiore, identica a quella degli umanisti. Si assiste dunque spesso ad una specie di simbiosi, più o meno accentuata, fra gli uomini di lettere e gli artisti, in modo che questi ultimi prendono coscienza dei problemi teorici posti dall'arte e difendono posizioni personali, che del resto, non sempre sono d'accordo con la loro produzione pratica. Si concepisce allora l'Antichità come il periodo che nasconde il segreto di ogni specie di conoscenza e per conseguenza detiene anche le chiavi della competenza artistica. È per questo che ogni creazione è legata ad essa in un certo modo. Nel Rinascimento si forma la convinzione che l'arte debba avere come scopo l'imitazione della natura. Ma questa può essere concepita in due maniere diverse. Talvolta designa la natura creata, quale è percettibile dai sensi (natura naturata), talaltra, al contrario, designa la natura in azione, con i principî che vi sono alla base (natura naturans). L'imitazione della natura può dunque essere immediata (nella prima accezione) o portare alla ricerca della sua struttura organica. Nel primo caso, le opere d'arte possono essere anche superiori alla natura quale essa ci appare. A poco a poco gli artisti e gli umanisti acquisteranno la convinzione che l'antico rappresenta la natura ideale, quale è stata imitata al momento in cui si possedeva la più grande competenza per rappresentare la natura naturata e che bisogna dunque studiare l'arte antica più della natura. Questa concezione, fondamentale per la comprensione di tutto il periodo, avrà del resto un seguito fino al XIX secolo (con Ingres, per esempio). L'arte antica appare come una seconda natura e doveva essere studiata con lo stesso impegno.

L'interesse per l'antico si manifesta in tutte le arti. In architettura, al principio del XV secolo, Brunelleschi è la personalità più rappresentativa. Nella sua opera, l'analisi delle vestigia romane è condotta con un rigore scientifico che mira, al di là dello studio dei monumenti, alla scoperta delle leggi matematiche e razionali che li sottindendono. Il risultato più pieno di queste ricerche sarà la cupola di Santa Maria del Fiore. Il caso dell'Alberti è molto diverso. Egli rappresenta un tipo d'uomo più dotto, ma che non è tuttavia più profondamente novatore. Esponente dell'arte ufficiale fuori di Firenze, (dove non ha mai ricevuto un'accoglienza entusiasta) egli è preoccupato soprattutto della risonanza sociale della sua opera, in realtà più vicina a quella degli umanisti, dei quali condivide la passione per i testi. Da lui l'arte è considerata come una scienza e la bellezza consiste in "un certo accordo e armonia delle parti in una unità, secondo un numero, una proporzione e un ordine stabiliti, come esige la concinnitas, cioè la legge suprema e assoluta della natura". Una simile teoria poggia molto, se non soprattutto, sullo studio letterario degli Antichi, quanto su quello dei loro monumenti. Il Tempio Malatestiano ne è una delle applicazioni più caratteristiche. L'Alberti vi dà una versione libera dell'arco di trionfo, ed esprime una tensione spaziale estranea all'arco romano.

È in scultura che si può meglio seguire l'attitudine degli artisti verso l'antico e valutare nel modo più chiaro i risultati che ne possono trarre. All'inizio del XV secolo, nei cantieri in piena effervescenza degli scultori che lavorano a Firenze, uno dei primi che si sforza d'assimilare l'antico è Nanni di Banco, i cui Quattro Santi Coronati (verso il 1410), a Orsammichele, nel loro solenne drappeggio e nella loro grave espressione, sono ispirati ai togati e ai ritratti di cui l'artista ha voluto far rivivere il tono eroico, la maestà e l'auctoritas imperiale. La febbre che lo porta a questa evocazione affanna tuttavia un poco l'artista, le cui radici affondano sempre nelle stilizzazioni gotiche. Al punto che, quando un modello gli fa difetto e non può servir d'appoggio alla sua creazione, egli è incapace di rimanere alla stessa altezza. L'Assunzione sopra la Porta della Mandorla tradisce un ritorno agli arabeschi sapienti del gotico tradizionale. La stessa ambivalenza caratterizza il Ghiberti che, già nella Porta della Mandorla, rivela i suoi interessi di antiquario. Collezionista lui stesso, possiede una vasta conoscenza delle sculture romane, che riprende spesso tali e quali, senza modificarne l'iconografia e come se volesse restare il più fedele possibile alle sue fonti. B la nascita dello stile "all'antica", che si diffonderà attraverso tutto il Rinascimento. Il Ghiberti rappresenta anche il primo tentativo di stabilire una storia dell'arte nella quale egli stesso e i suoi contemporanei si trovassero allacciati alla tradizione antica: nei suoi Commentari, scritti fra il 1448 e il 1455, egli travasa una prima volgarizzazione dei libri della Historia Naturalis di Plinio il Vecchio relativi alle opere d'arte, proseguendo poi il discorso sino ai suoi tempi. L'artista aveva studiato attentamente sarcofagi e rilievi storici in occasione dei suoi soggiorni a Roma e a Pisa. Ma, portato all'armonia, non rompe completamente con l'epoca gotica e ne prolunga anche la tradizione. Il repertorio estremamente vasto che maneggia tradisce per la prima volta una preferenza innata per l'arte ellenistica, che si rivelerà fondamentale per la storia dell'arte italiana. Questa scelta è particolarmente impressionante nella Porta del Paradiso, dove numerose figure sono riprese da rilievi di epoca romana. Ma al di là di questi modelli, l'artista sembra ritrovare spontaneamente le inflessioni e la grazia dell'arte ellenistica e anche di quella fase particolare che costituisce l'arte neoattica.

Tutt'altro è l'atteggiamento di Donatello che, fin dall'inizio della sua carriera, sceglie una via più ardua, rompendo definitivamente con il mondo gotico. Questa presa di posizione si riflette nelle opzioni antiche dell'artista che, dal 1411, di ritorno da Roma, padroneggia una straordinaria cultura del mondo figurato dell'Antichità. Lungi dal ridurla ad un campo ben preciso e delimitato, l'estende senza discriminazione ai dominî più larghi. Oltre ai rilievi ellenistici e romani, che formano ormai una costante del repertorio, egli conosce ritratti romani a forma di busto, la scultura a tutto tondo, le statue e i rilievi bizantini e anche gli oggetti d'arte minore, gemme, monete, vasi, terrecotte, che i suoi predecessori avevano talvolta collezionato, ma di cui non avevano riconosciuto tutte le possibilità di rilievo sottile ed atmosferico, da cui Donatello trarrà lo "schiacciato". Nelle sue opere, i modelli da cui parte sono raramente riconoscibili. Ma è innegabile che, senza il riferimento all'arte antica, Donatello avrebbe potuto creare meno facilmente il David o la Giuditta, primi bronzi isolati della scultura moderna. Ugualmente i precedenti romani devono aver avuto una parte importante nella concezione dei ritratti a busto. Il più antico esemplare noto è il Piero de' Medici eseguito da Mino da Fiesole nel 1453, ma il principio stesso risale probabilmente ad un'idea di Donatello. Infine, l'azione del Marco Aurelio e dei Cavalli di San Marco deve essere stata determinante per la concezione del Gattamelata e per l'apparizione del monumento equestre. Ma, per innovazioni di questa ampiezza, come sempre, l'antichità non fa che accelerare la soluzione d'un problema già posto.

Durante tutta la seconda metà del secolo, gli scultori fiorentini sono imbevuti di cultura antica sulla via che Donatello aveva loro tracciato. Da lui deriva ancora l'arte minore di Bertoldo, che si specializza nei piccoli bronzi destinati a far rivivere i bibelots antichi. L'artista, che era conservatore delle collezioni di Lorenzo de' Medici, elabora uno stile in cui i modelli, facilmente riconoscibili, sono appena trasposti. Così, il rilievo di battaglia al Bargello è carico di una tensione che lo differenzia in certa misura dal sarcofago di Pisa, di cui riprende fedelmente l'iconografia.

Il ritorno cosciente e sistematico all'antico presuppone sempre l'esistenza d'un centro di alta cultura e la possibilità d'una conoscenza estesa di monumenti antichi. Durante tutto il XV secolo queste due condizioni si ebbero soprattutto a Firenze, dove nessun artista è sfuggito totalmente alla presa dell'arte degli Antichi. Ma il fenomeno è unico. Si verifica anche brevemente a Rimini (con Matteo de' Pasti e Agostino di Duccio) e a Siena, dove il filone "classicheggiante" non ha tuttavia una continuità. Anche in altre province il classicismo è inesistente. Il solo centro che tenta di ricreare il mondo antico come a Firenze è Venezia. Il centro padovano era stato fecondato dalla presenza di Donatello, che ispira l'arte del Mantegna e anche quella del bronzista Andrea Riccio. La sua produzione di bibelots corrisponde a quella di Bertoldo, ma il Riccio dà una versione più ricca e più vibrante degli oggetti ellenistici, dei quali accentua gli aspetti strettamente naturalistici. Il suo capolavoro, il candelabro pasquale del Santo, attesta anche una profonda cultura umanistica, che sottomette tutti i dettagli dell'ornamentazione ad un sistema filosofico coerente. Uno dei tratti caratteristici dell'arte veneta è infatti la profonda cultura umanistica, dovuta ai rapporti che gli artisti hanno intrattenuto con i dotti, che spesso erano anche collezionisti. Alla corte dei Gonzaga, a Mantova, dove si era stabilito, il Mantegna suscita la personalità del bronzista orefice e medaglista Pier Jacopo Bonacolsi, che la viva passione per le opere degli Antichi fece soprannominare l'Antico. Le statuette che di questo artista si sono conservate testimoniano una ripresa diretta e immediata delle antichità più celebri dell'epoca: la Venus Felix, l'Apollo del Belvedere, l'Ercole e Anteo, che egli riproduce con una fredda stilizzazione, perfetta nella rifinitura e nel gusto un po' pesante dell'ornamentazione erudita. Proprio alla fine del secolo, nel clima raffinato dei cenacoli degli umanisti e dei pittori, un ultimo saggio di classicismo è tentato a Venezia da Pietro Lombardo, poi dal figlio Tullio che, nelle loro opere migliori, riescono ad evitare le ricostruzioni archeologiche sforzate dando delle sculture e dei sarcofagi romani una versione placata, aureolata di una poesia che prelude talvolta all'universo del Giorgione.

Dopo il Medioevo, le vestigia antiche sono state studiate molto più dagli scultori che dai pittori. Per i primi, il rapporto con i modelli era effettivamente più immediato. In Giotto e poi in Masaccio l'azione dell'antico è limitata e sembra che non abbia contribuito molto alla soluzione di problemi. Tuttavia è in seno all'arte gotica che si può seguire per la prima volta come i pittori tentino di emanciparsi dalla loro visione tradizionale attraverso lo studio dei sarcofagi romani. Si è conservato il fondo di bottega di Gentile da Fabriano nel momento in cui lavorava a Roma agli affreschi ora perduti di San Giovanni in Laterano insieme al discepolo Pisanello (1429-31). Entrambi dovettero subire subito il fascino dei rilievi antichi, perché i loro disegni illustrano numerose figure tratte dai sarcofagi romani, che gli permettevano di studiare il nudo e di conoscerne i movimenti. I sarcofagi offrono all'artista un riflesso della natura per tutto ciò di cui manca loro la possibilità di un modello diretto. Per Pisanello lo studio dell'antico ha la stessa funzione formativa e fecondatrice di quello degli animali o delle piante ed egli si dedica a questi esercizi con la stessa distanza e la stessa astrazione, indipendentemente dalla materia che tratta. Nella seconda metà del XV secolo, a Venezia il gusto dell'antico guadagna anche i pittori e soprattutto il Mantegna, che fu preso tutta la vita dal desiderio di far rivivere il mondo pagano, dal punto di vista formale, come da quello storico. Egli stesso era del resto in contatto stretto con gli umanisti. Dell'arte romana le sue opere conservano soprattutto il tono di solennità e anche il gusto di grandi composizioni a chiaroscuro. Ma non si può limitare la sua pittura alla visione archeologica e restrittiva, come riteneva ancora il Berenson. La conoscenza del mondo degli Antichi che il Mantegna aveva acquisito era d'altronde fondata tanto sui testi, che alimentavano la sua immaginazione, quanto sui monumenti figurati. Il famoso Trionfo di Cesare, ispirato essenzialmente al trionfo di Scipione descritto da Appiano, è una larga evocazione poetica la cui componente antica dà il tono, ma che sfugge ad ogni minuziosa analisi dei modelli.

In Italia centrale, l'interesse per il mondo figurato degli Antichi conosce un rinnovamento con l'ultima generazione del secolo, forse in seguito alla diffusione in Firenze degli studî neoplatonici o delle collezioni e delle riproduzioni di antichità create per Lorenzo dal Bertoldo. La circostanza decisiva sembra fornita dal soggiorno a Roma dei Fiorentini e degli Umbri chiamati da Sisto IV (1479-80). Ghirlandaio, Botticelli, Filippino Lippi, Perugino, Pinturicchio, Signorelli, riuniti a Roma, studiano tutti sarcofagi, bassorilievi, frammenti architettonici. La crisi che coglie questa generazione è illustrata in modo caratteristico dall'interesse che suscitano le pitture romane che si andavano scoprendo nella Domus Aurea di Nerone e altrove a Roma e nei dintorni. Gli artisti si appassionano subito alle possibilità d'ibridazione e di metamorfosi che esse offrono. Essi dipingono allora le prime "grottesche", che tradiscono la disintegrazione dello stile tradizionale e la tendenza a sviluppare le spinte antinaturalistiche e anticlassiche dell'arte antica. Un esempio significativo di questa tendenza erudita è fornito dal Codex Escurialensis, che deve essere copia di un quaderno che il Ghirlandaio si era costituito durante il suo soggiorno a Roma nel 1480. Gli ornati del XV secolo stanno accanto ai rilievi antichi e alle pitture della Domus Aurea. Questi taccuini erano allora molto diffusi. Senza che si ponesse il problema del plagio, circolavano negli studî e permettevano agli artisti meno dotati o meno informati di arricchire il proprio vocabolario. Del XVI secolo se ne sono conservati un gran numero, e documentano sia problemi strettamente archeologici, sia preoccupazioni più artistiche, con tutta la gamma di possibilità nei rapporti tra i due campi.

Con l'arrivo di Raffaello a Roma, nel 1508, lo studio dell'arte antica torna ad essere di attualità e i problemi sono posti in modo più profondo e più complesso. L'approccio questa volta è moderno. Per il maestro la copia non è un fine a se stessa; quando disegna la Venere Genitrice che ornava il cortile di Casa Sassi, la trasforma subito in una Giuditta che brandisce la testa di Oloferne, eliminando di colpo la fase preliminare del disegno archeologico. Quando, nella stessa collezione, disegna un torso muscoloso, l'articola e ne varia la posizione per trarne la figura d'un prigioniero barbaro, come se si trattasse d'un modello vivente che si potesse osservare sotto tutti gli angoli. Ma, come sempre nei grandi maestri, le antichità essenziali alla realizzazione delle opere di Raffaello sono difficilmente identificabili nel processo di maturazione e di profonda trasformazione che l'artista fa loro subire. Sono molto più evidenti negli allievi o nei pittori meno originali che subiscono il suo ascendente. Durante tutto il suo soggiorno romano, Raffaello aveva riunito sull'arte antica una documentazione unica al suo tempo e nel 1515 la sua competenza d'antiquario fu riconosciuta ufficialmente quando il papa lo nominò soprintendente alle antichità. In questo momento, per la prima volta nel Rinascimento, è formulata una visione critica dell'arte romana. Nella famosa lettera a Leone X, che si tende ora ad attribuire a B. Castiglione, ma che fu certamente concepita da Raffaello, il maestro distingue i "buoni antichi" da quelli che li hanno seguiti: "Perché di tre maniere di edifici solamente si ritrovano in Roma, delle quali la una è di que' buoni antichi, che durarono dalli primi imperatori sino al tempo che Roma fu ruinata e guastata dalli gotti e da altri barbari; l'altra durò tanto che Roma fu dominata da' gotti e ancora cento anni di poi; l'altra, da quel tempo sino alli tempi nostri.... e fu questa, tra le altre arti, (l'architettura) l'ultima che si perse, e questo cognoscer si può da molte cose e, tra l'altre, da l'arco di Costantino, il componimento del quale è bello e ben fatto in tutto quel che appartiene all'architettura, ma le sculture del medesimo arco sono sciocchissime, senza arte o disegno alcuno buono. Quelle che vi sono delle spoglie di Traiano e di Antonino Pio sono excellentissime e di perfetta maniera. Il simile si vede nelle terme diocleziane, ché le sculture del tempo suo sono di malissima maniera e mal facte, e le reliquie di pictura che si veggono non hanno che fare con quelle del tempo di Traiano e di Tito". Il testo è fondamentale per l'apparizione di una coscienza storica che si unisce a un'analisi puramente stilistica. Nello stesso tempo, la concezione di cui Raffaello è il portavoce significa la vittoria di un ideale classicheggiante che trionferà fino a Winckelmann e di cui il sistema organicistico, quasi vegetale, lascerà ultime tracce negli scritti del Berenson. Ma in Raffaello una tale visione non è ancora fermata da alcuna tradizione prestabilita e conserva tutta la forza della conquista. Colpisce il non trovarvi alcuna allusione all'arte greca. Il maestro sembra ragionare esclusivamente in termini romani. E tuttavia, anche se è restato allo stato incosciente, l'ideale al quale Raffaello tendeva era l'arte della Grecia ellenistica nei suoi aspetti più classicheggianti. Da questa visione ciascun allievo deriverà in seguito una concezione dell'antico più limitata. Giulio Romano si concentra sui rilievi monumentali, Perin del Vaga ne subisce l'influsso in maniera meno impegnata, Polidoro da Caravaggio sviluppa sulle facciate uno stile solenne che trae ugualmente le sue fonti dai grandi rilievi storici, ma deve molto anche alla tecnica "impressionistica" della pittura antica, mentre Giovanni da Udine opta soprattutto per la decorazione e le grottesche, ispirate dalla pittura e dalle arti minori. Nel XVI secolo, non c'è per così dire alcun artista che sfugga alla presa dell'antico. Michelangelo l'ha studiato forse quanto Raffaello; ma la sua scelta cade soprattutto sugli aspetti meno classici dell'arte ellenistica, rappresentati specialmente dal Torso del Belvedere o dal gruppo del Laocoonte, che non hanno interessato affatto Raffaello e hanno portato Michelangelo a gettare anche le basi dell'arte manieristica. Nella terza decade del secolo, accanto alla Sistina, il grande modello dei pittori resta l'antico, non affrontato, però, con lo stesso fervore di prima. Qualche elemento nuovo vi è attinto dagli scultori. Il giovane Montorsoli aveva restaurato al Belvedere i marmi più celebri, l'Apollo, l'Ercole e il gruppo del Laocoonte: più tardi, per le fontane monumentali d'Orione e di Nettuno, a Messina, s'ispira alle terme romane per il gioco dei marmi policromi. Leone Leoni, che diventa lo scultore ufficiale degli Asburgo, imprime ai suoi ritratti una gravità ripresa da quella dei ritratti imperiali romani. L'interesse che suscitano le opere romane sa di un gusto archeologico un po' decadente. Si tratta ancora, in una certa misura, di un classicismo, ma spesso disseccato e ridotto a cultura erudita.

Al principio del XVI secolo, un centro classicheggiante si sviluppa anche a Venezia. Ma nell'arte del Giorgione, si scopre soprattutto l'eco di una cultura umanistica nutrita di leggende e di miti antichi, più che quella delle opere stesse, sebbene queste abbiano ugualmente lasciato alcune tracce nella produzione dell'artista, come lasceranno più tardi un segno importante in quelle di Tiziano e del Tintoretto. Nella seconda metà del secolo il culto dell'Antichità si manifesta soprattutto nell'architettura del Palladio che, nella scia dell'Alberti e del Bramante, vi trova una delle fonti principali della propria arte. Chiese, palazzi e ville sono concepiti il più delle volte attraverso la combinazione della facciata d'un tempio romano applicata alla pianta di una casa romana, in un'ottica classicheggiante che eserciterà un'azione fondamentale fino all'epoca neoclassica.

Anche se il fenomeno della profonda conoscenza della cultura romana è essenzialmente italiano, non mancano in altri paesi centri in cui si manifesta lo stesso gusto. Negli anni intorno al 1515, furono fusi ad Augusta, probabilmente sotto la direzione dell'umanista C. Peutinger, una serie di trentaquattro busti d'imperatori romani, di cui venti si conservano al museo di Vienna, e uno in quello di Monaco. Ispirati, come pare, da profili di monete romane, sono straordinariamente vicini ai prototipi antichi e sono stati a lungo considerati come tali. Erano destinati a completare la decorazione della tomba di Massimiliano a Innsbruck e ad illustrare i legami che univano Massimiliano all'Impero Romano. In Germania fu senza dubbio A. Dürer (1471-1528) l'artista che acquistò la più vasta conoscenza dell'arte romana, che egli dovette in parte ai contatti avuti con l'umanista Pirckheimer, ma che gli fu trasmessa essenzialmente attraverso la mediazione dell'arte italiana. Durante il corso del secolo, Roma attira gli artisti stranieri che, in gran numero, affluiscono in special modo dai Paesi Bassi. Accanto ai grandi maestri contemporanei, essi studiano le rovine antiche che riproducono nei loro taccuini di schizzi, poi nelle loro opere, senza penetrarne sempre gli insegnamenti classici e riducendoli spesso ad una decorazione erudita e pittoresca.

1600-1750. - Nel XVII secolo, sia che faccian parte dei classici che dei barocchi, gli artisti hanno tutti una venerazione per l'arte antica, e l'influenza è riscontrabile sempre in qualche modo nelle loro opere. Tutt'al più si può cogliere un orientamento diverso nella scelta dei modelli, sebbene questa scelta non sia mai determinante ed essi per lo più fanno parte di un patrimonio culturale comune. Il metodo d'interpretazione dell'architettura appare soprattutto nei classici francesi, di cui sono portavoce i teorici Fréart de Chambray, Claude Perrault e François Blondel. Per essi il problema essenziale consiste nell'impiego degli ordini, e le fonti sulle quali si basano sono i monumenti più noti dell'Antichità nonchè i libri di Vitruvio, da cui attingono buona parte delle loro dottrine e da cui si sforzano di realizzare i principî. I barocchi, al contrario, fanno un uso più disinvolto degli ordini e lasciano da parte i testi per ispirarsi soprattutto alle piante e alle forme generali degli edifici antichi, fra i quali prediligono particolarmente i teatri e le loro scaenae frontes. Più che verso i monumenti classici, tendono ad orientarsi verso uno stile che, all'epoca romana troviamo a Baalbek o a Petra, che corrisponde meglio alle loro aspirazioni o, per esempio, a monumenti come la Piazza d'oro di Villa Adriana, che attrae soprattutto l'attenzione del Borromini.

In pittura, all'inizio del secolo, Annibale e Agostino Caracci, per reazione ai manieristi e al tempo stesso a Caravaggio, pongono sullo stesso piano di quella dello Antico l'imitazione di Raffaello, sforzandosi di ravvivare l'insieme con lo studio diretto della natura. Sul piano teorico, questa posizione è difesa dal bolognese Agucchi, contro il Caravaggio. Poco dopo il 1600, lo stesso atteggiamento è adottato a Roma da Guido Reni, da Francesco Albani poi dal Domenichino, che negli affreschi di San Luigi de' Francesi (1615-17) unisce perfettamente la conoscenza profonda di Raffaello a quella delle sculture romane, e dal Guercino, che si orienta verso il classicismo dopo aver subito l'influenza del Caravaggio. Sotto il pontificato del bolognese Gregorio XV (1621-23), questi artisti dominano la scena a Roma.

La seconda generazione classicista è dominata dalla personalità di Poussin, alleato con Andrea Sacchi nella polemica che l'oppone a Pietro da Cortona (1634-38), difensore del barocco. Allo stesso gruppo si riallacciano lo scultore di Bruxelles François Duquesnoy e l'Algardi che, sebbene influenzato spesso dal Bernini, ne rappresenta in qualche modo l'antitesi. La cultura di questi artisti è alimentata anche dagli antiquari, e in particolare da Cassiano dal Pozzo, che aveva intrapreso la costituzione di una enorme enciclopedia illustrata del mondo antico, di cui si è conservata una parte del materiale preparatorio, dovuta a tutta una squadra di disegnatori. Ancora una volta, sarebbe pertanto erroneo credere che soltanto i classici s'ispirassero all'arte antica. Uomini così opposti come il Bernini e il Poussin avevano in realtà molto in comune. Tutti e due condividevano la convinzione che l'artista dev'essere istruito, che la decorazione deve essere appropriata al soggetto, che i temi storici sono i più degni di essere rappresentati, che l'arte deve tendere ad esprimere l'azione e l'emozione e che infine, più che nella natura, la bellezza ideale è realizzata nell'arte antica, come in quella di Raffaello. Tutt'al più si può precisare che Poussin aveva una conoscenza più estesa dell'antico, soprattutto dal punto di vista letterario, ma questa distinzione tra classici e barocchi non è sempre valida, come prova l'esempio di Rubens, la cui cultura era estremamente vasta. Certamente i classici preferivano in generale i rilievi romani, di derivazione ellenistica, e i barocchi le opere di Pergamo o di Rodi, come il Laocoonte. Ma questa distinzione resta molto approssimativa e non è affatto sufficiente a spiegare la distanza che separa i risultati finali. Il metodo migliore per valutarla consiste nel seguire il processo di creazione in Poussin e in Bernini. Del primo, prendiamo ad esempio la Strage degli Innocenti, conservata a Chantilly. Il disegno preparatorio, conservato a Lilla, mostra come l'artista è partito dall'incisione di Marcantonio Raimondi illustrante lo stesso soggetto secondo un disegno di Raffaello, ma ne ha fatto una composizione barocca, costruita sulle diagonali che forano lo spazio. Al contrario, sulla tela, Poussin ha disciplinato molto i gruppi, ha ridotto il numero delle figure e s'è ispirato più fortemente ai modelli antichi (specialmente una figura di sarcofago e una maschera di teatro), che gli permettono di caratterizzare meglio le figure come individui espressivi. Per Poussin, l'antico agisce come una katharsis che si precisa a poco a poco dal lavoro preparatorio alla versione finale, dove la sua azione è sempre più costruttiva. Tutt'altro è il processo seguito dal Bernini. Da giovane, nella scia del padre, l'artista attinge largamente al repertorio ellenistico. La Capra Amaltea, conservata a Villa Borghese, era ritenuta un pezzo antico finché il Longhi vi riconobbe una delle prime opere del maestro (1615). L'Apollo del gruppo di Apollo e Dafne è ispirato direttamente alla statua del Belvedere, e il David è creato sul modello del Guerriero Borghese. Anche nelle opere più tarde l'antico resta il punto di partenza. Il caso del Daniele di Santa Maria del Popolo (1655) è caratteristico a questo riguardo. Dei cinque disegni preparatori che si conservano, il primo (a Lipsia), che non fu forse creato dapprima in relazione diretta con la statua, è un esercizio sul torso del Laocoonte. I disegni successivi mostrano come l'artista se ne allontani progressivamente modificando la posizione delle membra e allungandone le proporzioni, per arrivare finalmente ad una soluzione barocca che sembra esserne completamente indipendente. Al contrario di Poussin, per il quale l'antico è un punto d'arrivo verso cui tende razionalmente, per il Bernini non si tratta che di un punto di partenza, da cui si allontana subito.

L'antico resta una componente dell'arte rococò ma, salvo occasionalmente, non è determinante.

Neoclassicismo. - Nella seconda metà del XVIII secolo, si diffonde attraverso tutta l'Europa una nuova ondata di entusiasmo per l'arte antica, che si manifesta con l'arte neoclassica. Fra le cause, multiple, della sua formazione, si può citare, per tenersi entro i limiti dell'Antichità, il grande ampliamento delle conoscenze archeologiche. L'avvenimento più importante è senza dubbio la scoperta di Ercolano (dal 1711) e di Pompei (dal 1733), i cui scavi son pubblicati poco dopo dall'Accademia Ercolanense (1757-1792). Il gran numero di affreschi messi in luce determina soprattutto il rinnovamento della pittura ornamentale. Inoltre, i due luoghi restituiscono in abbondanza oggetti d'arte minore, che influenzano profondamente la suppellettile e la decorazione interna. Fra questi oggetti figurano una quantità di vasi antichi, che rivelano un aspetto nuovo della pittura greca e romana. Precedentemente, non si era prestata molta attenzione a questa forma d'arte, che non corrispondeva alla visione del Rinascimento e del Barocco. I vasi vengono allora raccolti in grandi collezioni, come quella di William Hamilton, che esercita un'azione fondamentale soprattutto sull'arte neoclassica inglese. Josiah Wedgwood fonda la sua industria di ceramica, nella quale s'ispira largamente ai prototipi provenienti dalla Campania, e anche dall'Etruria, e per la quale ingaggia i migliori artisti del suo paese, fra cui lo scultore Flaxman. Questi sviluppa uno stile essenzialmente lineare, che deve molto allo studio della pittura vascolare. In Campania, si pubblicano ugualmente i templi di Paestum e per la prima volta le antichità di Atene sono diffuse tra il pubblico grazie ai volumi di Stuart e Revett (a partire dal 1762). La conoscenza dell'archeologia è favorita anche da tutta una serie di pubblicazioni, fra le quali L'antiquité expliquée del Montfaucon (1719-24) e soprattutto il Recueil d'antiquités égyptiennes, étrusques, grecques, romaines et gauloises del Conte di Caylus (1752-67), caratteristica dell'epoca specialmente per l'importanza data ai piccoli oggetti, dei quali l'autore era un conoscitore senza pari. Nel 1755, ispirandosi alle teorie allora non pubblicate di Mengs, il Winckelmann fa uscire i suoi Gedanken über die Nachahmung griechischer Werke, seguiti poco dopo dalla sua Storia dell'arte antica (1763), nella quale sostiene l'idea che un artista moderno deve imitare le opere della Grecia classica per essere grande. Tuttavia egli non le conosceva che attraverso le copie romane, né visitò mai la Grecia. I fregi del Partenone non arrivarono a Londra che più tardi (1808), provocando allora una violenta polemica tra partigiani dell'arte greca e partigiani dell'arte romana, e suscitando soprattutto l'entusiasmo del Canova.

Questi è senza dubbio il più grande scultore neoclassico. Le sue opere, estremamente numerose, attestano una conoscenza molto vasta dei modelli antichi di diversi periodi, che egli fonde spesso con una freddezza libera da ogni passione. Il Perseo, posto ancor oggi nel Belvedere (1799-1801), è ispirato direttamente all'Apollo del Belvedere, mentre la testa di Medusa che tiene in mano deriva da un modello della Collezione Rondinini. Ma in questa sua derivazione, l'opera assumeva un significato politico, perché era destinata a ricordare ai Romani che Napoleone li aveva spogliati dei loro capolavori più famosi. Canova si prodigherà poi nel recupero delle opere trasportate a Parigi. In alcuni dei suoi monumenti funerarî, come quello di Giovanni Volpato (1808), attesta anche la conoscenza dell'arte greca e in particolare delle stele attiche. Sulla sua scia, l'arte neoclassica è prolungata fino in piena epoca romantica dallo scultore danese Thorvaldsen (1770-1844) che si attiene ancor più direttamente ai modelli antichi.

In certa misura, il gusto neoclassico corrisponde all'inizio all'ascesa di una nuova classe media, la borghesia, la cui ideologia è basata sulla democrazia e il patriottismo (Antal). Così si spiegano in parte l'interesse per la storia antica e l'ideale austero degli artisti. Nel 1784, David espone a Roma il Giuramento degli Orazi e dei Curiazi, esempio tipico di libertà, che appare una specie di manifesto rivoluzionario. Quindici anni più tardi, esalta l'amore coniugale e materno nelle Sabine. Il contenuto politico e morale è per lui essenziale. A proposito delle Sabine, scrive: "En un mot, mon intention, en faisant ce tableau, était de peindre les moeurs antiques avec une telle exactitude que les Grecs et les Romains, en voyant mon ouvrage, ne m'eussent pas trouvé étranger à leurs coutumes". Ingres raccoglie la lezione di David e coltiva a sua volta la tradizione neoclassica e il gusto dell'antico fino alla metà del secolo.

In confronto ai movimenti precedenti, lo stile neoclassico ha conosciuto una diffusione internazionale molto più estesa e più rapida. Un focolare importante si formò a Pietroburgo sotto Caterina II. Ma bisogna ricordare prima di tutto l'Inghilterra, dove il gusto entusiastico per l'antico fu particolarmente vivo, sia in architettura, con Robert Adam, sia nelle altre arti. Il pittore Gavin Hamilton, che era anche archeologo e mercante, spedisce numerosi pezzi antichi in Inghilterra e vi stabilisce il "buon gusto" delle pitture storiche, mentre lo scultore Flaxman collabora con Wedgwood e s'ingegna a ricreare uno scudo d'Achille, sulla base della descrizione precisa dell'Iliade. Illustra anche i racconti omerici in una serie di incisioni, dove può esprimere nel modo migliore il suo disegno lineare, razionale. Allo stesso tempo, il pittore svizzero Fuseli, che professò ugualmente sempre un'ammirazione appassionata per l'Antichità, ne dà un'interpretazione profondamente differente, centrata sugli aspetti grandiosi e mitici, che corrisponde al suo gusto, allora rivoluzionario, per Michelangelo e per i pittori italiani manieristi. Il suo disegno, fatto forse al momento di lasciare Roma (1770-78), in cui è raffigurato l'artista che medita, seduto presso un piede e una mano della statua colossale di Costantino, è caratteristico di questa visione. Essa lascia già intravvedere le tendenze romantiche che non tarderanno ad imporsi. Si assisterà allora al recupero dell'arte del Medioevo, a spese dell'antico, che perderà definitivamente il suo ruolo di componente fondamentale della cultura.

È significativo notare che in occasione della grande esposizione artistica organizzata a Manchester nel 1857 (Art Treasures Exhibition), non fu presentato alcun pezzo antetiore al Medioevo. Ora, in risposta alla Great Exhibition che si tenne a Londra nel 1851 e che era destinata soprattutto ad illustrare la produzione contemporanea nel mondo, l'esposizione di Manchester mirava a far conoscere i tesori del passato: ormai, nel momento in cui si affermava la rivoluzione industriale dell'età moderna, l'antico non era più considerato un modello di bellezza assoluta.

Bibl.: La bibliografia sulle sopravvivenze dell'antico è immensa e non può esser limitata evidentemente ai lavori che trattano queste questioni in particolare. Il Warburg Institute ne aveva già intrapreso lo spoglio sistematico, ma solo due volumi sono stati pubblicati: Kulturwissenschaftliche Bibliographie zum Nachleben der Antike, I, 1931, H. Meier, R. Newald e E. Wind, Lipsia-Berlino 1934 e A bibliography on the survival of the classics, II, 1932-33, H. Buchthal, Londra 1938. In generale si possono consultare le liste di H. Ladendorf, Antikenstudium und Antikenkopien, 2 ed., Berlino 1958, ma sono incomplete e di consultazione poco pratica. Saranno citati qui soltanto alcuni lavori per questo periodo, ma ci si sforzerà invece di dare riferimenti i più numerosi possibili per gli anni 1958 e seguenti.

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Per il periodo contemporaneo, si citerà: G. H. Harris, Postage stamps and Greek mythology, Londra 1933; K. Schefold, Griechisches und modernes Bauen, in Universitas (Stoccarda), 16, 1961, pp. 243-256; A. Blunt, Picasso's classical period (1917-25), in Burlington Magazine, 90, 1968, pp. 187-191.