Solidarietà

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Solidarietà

Rainer Zoll

La nozione di solidarietà ha assunto oggi una tale varietà di significati e di usi che si rende necessario operare una distinzione tra un'accezione ristretta e una ampliata del concetto. Alla prima fa riferimento, per es., la definizione proposta da L. Gallino nel Dizionario di sociologia (1978), che alla voce Solidarietà scrive: "Termine [...] per designare la capacità dei membri di una collettività di agire nei confronti di altri come un soggetto unitario". Anche la definizione fornita da I. von Reitzenstein (1961, p. 11) mette in rilievo l'aspetto dell'azione collettiva nonché quello dell'eguaglianza della posizione sociale e degli scopi dell'azione. Analogamente, A. Pizzorno (1966, p. 254), a proposito dei sistemi di s., afferma che essi mirano "a rendere eguale per tutti l'appartenenza a una determinata collettività". G.P. Cella (1993), dal canto suo, mette l'accento sull'interesse dell'individuo all'agire solidale.

Già da queste definizioni emergono gli elementi essenziali della definizione 'classica' del concetto di s.: eguaglianza di posizione sociale, comunione dell'agire, anzi comunanza sotto vari aspetti. Su un punto tuttavia, ossia il riferimento negativo a una 'controparte sociale', le opinioni sono discordi. Già nel 1914 R. Michels osservava che "per la formazione di un gruppo di solidarietà è necessaria a priori l'esistenza di una netta contrapposizione; si è solidali solo contro qualcuno" (Michels 1914, p. 55); una "solidarietà universale della società - la solidarietà nella sua forma più pura", a suo avviso, "esiste solo di fronte a certi eventi naturali elementari", ma anche in questo caso avrebbe il "carattere della difesa". Una s. universale del genere umano, secondo Michels, non è che una irraggiungibile utopia.

Sin dall'inizio, peraltro, compaiono definizioni del concetto di s. che evitano ogni riferimento a una controparte antagonista. L. Bourgeois (1896, p. 15), per es., afferma che "tra ogni individuo e tutti gli altri esiste un legame necessario di solidarietà". Ch. Gide (Gide, Rist 1909, 1920³, p. 697), dal canto suo, osserva che "la solidarietà, ovvero la dipendenza reciproca di tutte le parti di un medesimo corpo, è la caratteristica della vita". Questa definizione si incontra per la prima volta nel Discours sur l'esprit positif (1844) di A. Comte, che usa il concetto nel senso di vincolo sociale senza ulteriori specificazioni, come sinonimo di coesione o integrazione sociale.

Negli ultimi anni vi è stata una vera e propria inflazione del concetto di s.: a esso fanno riferimento non solo i sindacati e altre organizzazioni dei lavoratori, non solo le Chiese cristiane, ma anche una pluralità di associazioni, partiti politici e governi. In questa sede ci si limiterà a considerare il concetto nella sua accezione ristretta, analizzando l'uso che ne viene fatto dal movimento operaio, dalla dottrina sociale cristiana, dalla politica sociale e dalla sociologia.

Origini e definizione del concetto

Il concetto di s. è attestato in Francia già nel 17° secolo, ma assume il suo significato moderno solo negli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento. Il terminus technicus del diritto romano, in solidum obligari, diventa in francese solidarité, senza peraltro perdere il suo originario significato giuridico. Nella Encyclopédie di Diderot e d'Alembert si legge la seguente definizione: "[...] la qualità di un'obbligazione per cui diversi debitori si impegnano a pagare una somma presa in prestito o dovuta ad altro titolo". In quest'accezione giuridica di responsabilità in solido il concetto è già registrato nel Dictionnaire de l'Académie française del 1694; ancora nel 1835, nella stessa opera si legge la seguente definizione: "Impegno in virtù del quale due o più persone si obbligano le une per le altre, e ognuna per tutte, se si rende necessario. Questo contratto, questa obbligazione comporta solidarietà". Tuttavia, proprio negli stessi anni sembra essersi compiuto il passaggio dalla vecchia alla nuova accezione del vocabolo, perché sempre nell'edizione del 1835 del Dictionnaire si legge: "Dicesi talvolta, nel linguaggio comune, della responsabilità reciproca che si stabilisce tra due o più persone".

Nella sua opera De l'humanité (1840), il filosofo francese P. Leroux parla della "mutua solidarietà degli uomini" come espressione più autentica della carità, dopo aver aspramente criticato la "triplice imperfezione della carità cristiana", concepita in termini di dovere, nel senso attuale anche di condiscendenza.

La sintesi delle teorie di Ch. Fourier pubblicata nel 1842 a Parigi da H. Renaud era intitolata Solidarité. Une vue synthétique de la doctrine de Charles Fourier. Nel 1848, in occasione delle elezioni politiche, il Partito democratico fondò un comitato cui diede il nome di Solidarité républicaine, il che dimostra come il termine fosse già divenuto talmente popolare da prestarsi a un uso del genere. Un'ulteriore conferma proviene dal fatto che negli stessi anni esso venne importato in Inghilterra, dove fu adottato nell'accezione più recente.

In queste prime occorrenze del concetto emergono chiaramente due accezioni nettamente distinte, che si ritrovano anche nelle definizioni contemporanee: nella prima, più schiettamente sociologica, si fa riferimento ai vincoli sociali e/o alla coesione della società; nella seconda la s. viene intesa come unione di determinati gruppi sociali contro un antagonista.

L'importanza di Durkheim

La scelta di considerare le teorie di É. Durkheim come punto di partenza e come riferimento centrale per la discussione sul tema della s. è giustificata non solo dall'importanza della scuola fondata da questo autore, ma anche dalla duplice determinazione del concetto di s. da lui introdotto, che da un lato conserva l'antico significato sociologico, dall'altro lo differenzia contenutisticamente in modo tuttora valido, anche se la scelta terminologica durkheimiana ci risulta ormai estranea.

Nella dissertazione De la division du travail social (1893), Durkheim affronta il problema dell'ordine sociale, del lien social. La s. a suo avviso era aproblematica solo in un passato molto remoto, in quelle società semplici che egli definisce "inferiori" o "segmentarie". Il tipo di s. che qui si sviluppava legava direttamente il singolo alla società, e scaturiva dalle affinità. Durkheim definisce "meccanica" questa forma di s., in quanto scaturisce dalla situazione sociale comune, ossia eguale o simile, e dalla coscienza collettiva che ne deriva. La s. meccanica è "un insieme più o meno organizzato di credenze e di sentimenti comuni a tutti i membri del gruppo: si tratta cioè del tipo collettivo" (Durkheim 1893; trad. it. 1989, p. 144).

Il processo di differenziazione sociale consiste, secondo Durkheim, in una divisione del lavoro sociale, di cui egli coglie soprattutto gli aspetti relativi all'ambito delle professioni. Con la differenziazione gli individui dipendono in misura crescente dalla produzione degli altri, e questa interdipendenza reciproca porta alla 'solidarietà organica'. Gli individui, come parti del corpo sociale, sono reciprocamente interdipendenti allo stesso modo in cui lo sono le parti di un organismo. Sembra dunque che anche la s. organica nasca più o meno automaticamente dalla divisione del lavoro della società.

Ma Durkheim era perfettamente consapevole che il suo quadro ideale non corrispondeva alla realtà, che la s. non è aumentata col crescere della differenziazione sociale. Ciò va imputato a suo avviso allo sfasamento venutosi a creare tra il mutamento delle strutture sociali e lo sviluppo della morale, che non ha tenuto il passo con il mutamento sociale. La morale della società segmentaria è diventata obsoleta, ma non è ancora stata sostituita da un'altra più adeguata. A ciò si aggiunge la comparsa di forme anomale di divisione del lavoro, che determinano il fenomeno dell'anomia sociale. Ma questi scompensi, secondo Durkheim, sono di natura transitoria; la società, soprattutto attraverso l'educazione, può contribuire a colmare i vuoti che si sono creati. Nella sua visione ottimistica, il "culto dell'individuo", ossia l'individualizzazione, assieme all'"ideale della fratellanza umana", al "lavoro della giustizia" e all'eguaglianza di opportunità, ci avvicineranno alla realizzazione dell'"ideale dell'umanità totale" (Müller, Schmid 1988, p. 506).

La concezione di Durkheim è stata sin dall'inizio oggetto di varie critiche. In Francia, in particolare, le venne mossa l'accusa di positivismo. Già G. Schmoller aveva messo in luce le conseguenze negative della divisione del lavoro (Müller, Schmid 1988, p. 486); altri rilevarono come Durkheim avesse riconosciuto solo in parte il carattere globale della concorrenza nella società capitalistica. Tuttavia, le due forme di s. postulate da Durkheim, se interpretate come tipi ideali, come prototipi, si rivelano particolarmente utili per l'analisi della s. e della sua dinamica. A tal fine però si rende necessario svincolare in parte la s. meccanica e quella organica dai due tipi di società cui Durkheim le aveva associate - la società segmentata e la società caratterizzata da un'avanzata divisione del lavoro - per cercarne il fondamento nelle caratteristiche di tali società quali sono state messe in luce da Durkheim stesso. Il fondamento della s. meccanica risulterà essere allora l'eguaglianza o l'affinità della situazione e/o l'eguaglianza (eventualmente nata da questa situazione comune) di interessi e di scopi. Il fondamento della s. organica, dal canto suo, andrebbe ricercato in una combinazione di differenziazione e di eguaglianza, dove quest'ultima, nel caso estremo, si riduce alla comune condizione umana.

Muovendo da questi presupposti si può distinguere una prima fase della s. che può essere denominata, sulla base del concetto precursore, come periodo della fraternità (Salvati 1993). La seconda fase è quella della solidarietà meccanica, o di solidarietà ed eguaglianza, che ha inizio in Francia negli anni Trenta dell'Ottocento. Nell'ultimo ventennio del 20° secolo ha inizio il periodo della solidarietà organica, o di una nuova definizione della solidarietà.

Il periodo della fraternità

Sebbene il termine fraternità non sia nato con il cristianesimo, è stato il concetto cristiano di fratellanza a esercitare l'influenza culturale più profonda e durevole. Un'ulteriore evoluzione del concetto di fraternità è da individuarsi nella sua spiritualizzazione per opera di Lutero e del pietismo (Schieder 1972). Quasi nella stessa epoca, peraltro, il termine fratello in senso cristiano fece la sua prima comparsa in un contesto - la guerra dei contadini in Germania - in cui oggi verrebbero usati termini quali compagno e solidarietà (Quellen zur Geschichte, 1962). Emerge in questo spirito di fratellanza dei seguaci di Th. Münzer un afflato universalistico, lo stesso che li induceva ad accogliere nella confraternita, talvolta persino a costringere all'adesione, anche borghesi e nobili.

Nelle corporazioni, per contro, sin dall'inizio viene ribadito il carattere circoscritto dell'unione. Se in molti casi, specie in Inghilterra, nelle associazioni artigiane in via di espansione, precursori delle moderne organizzazioni sindacali, si possono rintracciare accenni del concetto di s. proprio di queste ultime (Leeson 1979; Griessinger 1981), tuttavia la fraternità nelle gilde spesso restava definita in senso verticale, come legame dell'intera corporazione, dagli apprendisti ai maestri (Lay 1989), o era circoscritta a un'unica corporazione, nelle associazioni di garzoni solo a questi ultimi - con esclusione degli apprendisti - e quasi sempre soltanto agli uomini, con esclusione delle donne.

Queste delimitazioni vennero infrante dall'affermarsi della concezione illuministica della fraternità. Le prime logge massoniche erano sì modellate sulle corporazioni artigiane, e quindi presentavano ancora alcune forme di esclusione, soprattutto in quanto logge necessariamente segrete; e tuttavia il loro patrimonio di idee ha una valenza universalistica (Koselleck 1959, 1969²): i massoni concepivano se stessi - e si concepiscono tuttora - come eguali anche al di fuori della loro comunità. La stessa interpretazione del concetto, con una valenza universalistica ulteriormente rafforzata, si ritrova nei testi più celebri dell'Illuminismo europeo.

Con la Rivoluzione francese l'idea di fraternité perde la sua valenza universalistica attraverso una serie di limitazioni interne. Se è vero che nelle sociétés fraternelles dei giacobini erano ammesse anche le donne, tuttavia il concetto e in larga misura anche la prassi rivoluzionaria restavano prerogative esclusivamente maschili. La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino proclamava la libertà e l'eguaglianza come diritti, e tuttavia la fratellanza non si può imporre per decreto, e tanto meno la sorellanza. La fraternité venne persino identificata con il concetto di république, con il 'sentimento politico dei democratici', che sarebbe dovuto diventare operante sul piano della prassi. Nella realtà però dominava piuttosto il principio dell'esclusione, come dimostra la definizione della citoyenneté, che introduceva una distinzione tra cittadini attivi e cittadini passivi portando all'esclusione di 2.700.000 francesi dal diritto di voto perché non avevano un imponibile sufficiente (Castel 1995, p. 206). La politica sociale rimase ferma all'assistenza ai poveri, i quali avrebbero dovuto attendere altri cento anni prima che fosse anche solo posta la questione della fraternità come s. sociale, come introduzione della cittadinanza sociale (Marshall 1950).

Dopo la Rivoluzione francese, soprattutto gli intellettuali di sinistra vollero terminer la révolution. È questo il caso, per es., di Ch. Fourier, il quale chiamava la fraternità da lui auspicata anche fraternité sociétaire o omniphilie. É. Cabet nel suo Credo communiste dedicò alla fraternità una sezione apposita, asserendo che "l'intero genere umano forma un'unica famiglia" e che "la fraternità di tutti gli uomini comporta la loro eguaglianza" (Ausgewählte, 1920, pp. 22 e seg.).

W. Weitling nel 1840 propose di promuovere la fraternità reintroducendo il 'tu' (Bluntschli 1843, p. 35). Durante i moti del 1848 in Germania i termini fratellanza e fraternità vennero introdotti soprattutto dal movimento operaio allora emergente. La prima organizzazione sindacale tedesca scelse di chiamarsi Allgemeine Deutsche Arbeiter-Verbrüderung, e il nome del suo periodico fu Deutsche Arbeiter-Verbrüderung.

A proposito degli operai francesi il giovane Marx affermava entusiasta nel 1844, così come avrebbe fatto poco dopo Engels: "La fratellanza degli uomini tra di essi non è una frase, ma una realtà" (Marx, Engels 1968, 40° vol., 2° tomo, p. 554). Alcuni anni più tardi, però, Marx ed Engels cominceranno a sviluppare la loro critica nei confronti dell'indifferenziazione del concetto di fraternità, "questa comoda astrazione dalle contrapposizioni di classe" (Marx, Engels 1960, 7° vol., p. 21).

Il periodo di 'solidarietà ed eguaglianza'

La solidarietà operaia

Dopo che negli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento il concetto di s., con poche eccezioni, era stato introdotto in Francia nel significato di coesione sociale, negli anni Sessanta si affermò definitivamente anche nell'accezione di s. operaia. Nella campagna elettorale del 1864, sessanta operai sottoscrissero un manifesto in cui legittimavano e appoggiavano le candidature di rappresentanti della classe operaia. "Il suffragio universale", vi si leggeva, "ci ha resi politicamente maggiorenni, ma dobbiamo ancora emanciparci socialmente". Consapevoli dei fondamenti sociali dell'eguaglianza dei diritti politici, gli operai reclamavano la libertà di associazione e l'assicurazione contro la disoccupazione, lamentando altresì la mancata realizzazione dell'eguaglianza garantita sul piano giuridico. "Coloro che, privi d'istruzione e di mezzi, non sono in grado di opporsi con la libertà e la solidarietà a esigenze egoistiche e oppressive, subiranno fatalmente il dominio del capitale: i loro interessi resteranno subordinati agli interessi degli altri". Qui il concetto di interessi e di contrapposizione di classe viene già chiaramente messo in relazione con la s., ed è presente altresì un indizio delle forti valenze emotive di cui si carica la parola: "la libertà di lavoro, il credito, la solidarietà, ecco i nostri sogni" (Proudhon 1865, ed. 1924, pp. 410 e seg.). Il manifesto venne pubblicato da Proudhon in appendice al trattato De la capacité politique des classes ouvrières. Un importante contributo all'affermarsi del concetto nell'accezione di s. operaia venne dato senza dubbio da L. Blanc con la sua monumentale Histoire de la Révolution française (1847-62) e con la sua azione di uomo politico e giornalista.

Nel 1864 - e quindi nello stesso anno in cui apparve il manifesto elettorale degli operai francesi - la Prima Internazionale dei lavoratori si diede un regolamento provvisorio in cui si menzionava la s. "tra gli operai dei diversi settori occupazionali in ciascun paese" e l'"unione fraterna tra i lavoratori dei diversi paesi" (La Première Internationale, 1962, p. 10).

Il termine solidarietà venne usato raramente da Marx, e quasi sempre in connessione con le coalizioni operaie, le associazioni dei lavoratori salariati. Soprattutto in contrapposizione al liberalismo, egli mise costantemente in risalto una particolare valenza semantica del concetto, pur senza utilizzare specificamente il termine, ossia l'aspetto della coesione sociale degli individui. Marx auspicava che la comunità dei proletari rivoluzionari assumesse il controllo delle proprie condizioni di esistenza e di quelle di tutti i membri della società, per trasformare il contesto sociale in modo tale che esso diventasse accessibile e dominabile, e che gli individui partecipassero realmente a questa società come individui (Marx, Engels 1959, 4° vol., p. 482; anche, Adler 1964).

La fine dell'Ottocento fu un periodo di impetuoso sviluppo del movimento operaio e dell'idea di solidarietà. La nuova associazione internazionale dei lavoratori, la Seconda Internazionale, proclamò il Primo maggio come "giorno di dimostrazione dei lavoratori di tutti i paesi", in cui essi avrebbero dovuto avanzare le loro richieste e manifestare la loro solidarietà (Braunthal 1961, p. 256). La s. andò assumendo in misura assai maggiore che in passato una dimensione pratica, concreta, esprimendosi da un lato negli scioperi e in altre forme di lotta, dall'altro in processi organizzativi di impronta solidaristica.

Un'analisi assai penetrante della s. in questo periodo venne sviluppata da R. Michels, che nei suoi scritti sull'argomento fa riferimento esclusivamente alla s. operaia (Ferraris, Michels 1993), considerandola "l'effetto diretto degli antagonismi di classe". La s. di classe in un dato paese sarà tanto più forte quanto più si acuiscono "le contrapposizioni di natura economica, sociale, intellettuale, confessionale e tradizionale". Nelle organizzazioni sindacali Michels vede uno "dei pochi modi oggi possibili di applicare la solidarietà nella pratica", mettendo in evidenza la componente antagonistica della s., che si rivela essere un miscuglio di altruismo e di egoismo, di spirito di sacrificio e di interesse personale. A fondamento della s. vi sarebbe l'eguaglianza della condizione sociale e degli interessi e Michels mette in rilievo in più occasioni il carattere parziale e limitato della s. operaia, che "scaturisce dall'odio comune nei confronti di un antagonista comune". A essa farebbero difetto inoltre 'spontaneità' e 'immediatezza'; spesso i lavoratori intendono la s. in senso coercitivo, obbligando i colleghi a entrare nelle organizzazioni sindacali o ad assoggettarsi alla disciplina dello sciopero. Nello stesso tempo, però, Michels vede nelle masse operaie della Germania industrializzata "l'avanguardia del più potente esercito di solidarietà di questo paese" (Michels 1914, p. 48).

La logica della coesione del gruppo dominò sin dal principio la realtà della s. operaia: mentre sul piano ideale il concetto di s. abbracciava l'intera classe dei lavoratori, nella realtà prevalse sempre tale logica della coesione del gruppo, e quindi la limitazione della s. a un dato settore della classe lavoratrice. La s. operaia spesso era circoscritta a un concreto gruppo di lavoratori contro gli altri, dando così luogo a una serie di contrapposizioni: tra gli 'intellettuali' e gli 'incolti'; tra gli uomini da un lato e le donne e i bambini dall'altro; tra i dipendenti di un'azienda o di un'impresa e le altre aziende della stessa impresa o le altre imprese dello stesso settore; tra i lavoratori locali e i lavoratori stranieri; tra gli operai e gli impiegati; tra i lavoratori organizzati e quelli non organizzati; tra la popolazione attiva e i disoccupati, e via dicendo.

Tuttavia, le esperienze delle due guerre mondiali, le crisi degli anni Venti e Trenta e il processo di ricostruzione nel secondo dopoguerra non hanno alterato in modo sostanziale i caratteri della s. operaia. Questa problematica è stata affrontata in Germania da I. von Reitzenstein (1961) in una ricerca approfondita e di notevole spessore teorico, Solidarität und Gleichheit. Alla base di questo lavoro vi sono diverse fonti testuali: dichiarazioni programmatiche delle organizzazioni sindacali, comunicati ufficiali dei loro leader, nonché testi di intellettuali vicini ai sindacati, protocolli di vari congressi, statuti e via dicendo. Nonostante le posizioni politiche spesso molto diverse degli autori esaminati, emerge una sostanziale convergenza nelle tesi essenziali. L'eguaglianza viene riaffermata quale elemento costitutivo della s., in un duplice senso: la situazione sociale e i mali comuni costituiscono la base della s.; lo scopo dell'azione solidale è quello di realizzare una società strutturata secondo il principio di eguaglianza. Il processo di democratizzazione potrà eliminare l'ineguaglianza sociale. Poiché è impossibile riportare la complessità della società contemporanea allo stato di eguaglianza reale e di immediatezza, la richiesta di una eguaglianza effettiva appare del tutto irrealistica.

Per i leader sindacali e gli autori in questione l'eguale stato di dipendenza dal lavoro salariato favorirebbe dunque la s., esattamente nel senso della s. meccanica di Durkheim. L'elemento centrale resta qui l'eguaglianza (che oggi può esistere solo in una forma piuttosto astratta) e non la differenza. Tuttavia, i processi di differenziazione che caratterizzano la realtà moderna impongono una nuova definizione della solidarietà. Con ciò si compie però il passaggio dal periodo della s. meccanica a quello della s. organica. I difensori del primo tipo di s. nella società contemporanea dovrebbero chiedersi "quale dovrebbe essere il fondamento unificante e portante di un consenso generale in grado di assicurare alla società la possibilità di difendersi dalle divisioni pluralistiche e di essere e restare unita" (Reitzenstein 1961, p. 210).

Il solidarismo

Il solidarismo costituisce un momento importante, e merita quindi di essere analizzato, non solo perché in Francia tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento fu un movimento estremamente influente sul piano sia politico sia sociofilosofico, ma anche perché le idee del solidarismo hanno fortemente improntato la politica sociale europea, con l'eccezione relativa della Germania. Il solidarismo venne e viene tuttora definito da molti autori come un movimento che si proponeva di trovare una terza via tra l'individualismo (liberale) e il socialismo (o collettivismo). La stessa definizione può applicarsi anche ad altre varianti successive del solidarismo, cui manca peraltro l'originalità delle idee di L. Bourgeois, la personalità più significativa di questa corrente di pensiero.

Ciò che il solidarismo si propone è un rinnovamento politico e sociale attraverso la s. sociale. Gli uomini hanno bisogno della s. universale per lo sviluppo individuale. Nell'ambito di una "dottrina pratica della solidarietà sociale" si deve realizzare l'unione dei buoni e dei giusti. Riprendendo un'affermazione del filosofo Ch. Secrétan, Bourgeois sostiene che l'universalizzazione è una legge morale, e cerca un nuovo fondamento per la società in via di rinnovamento. La gerarchia e la divisione non sono una legge di natura, e nella misura del possibile le ineguaglianze naturali non devono essere accresciute attraverso le ineguaglianze dei diritti. Il contratto sociale di Rousseau implica un'alienazione dell'uomo, mentre per Bourgeois si tratta di istituire la libertà attraverso la solidarietà. Per raggiungere questo obiettivo gli uomini devono riconoscere il proprio debito nei confronti della società e degli altri uomini (Bourgeois 1896). Da qui Bourgeois deriva la sua nozione del quasi-contratto, che consiste nel debito culturale, materiale, scientifico ecc. nei confronti dei nostri predecessori, che possiamo ripagare solo accettando l'obbligo di preservare e far progredire la civiltà. Il contratto come fondamento definito nel diritto viene elevato nella forma del quasi-contratto a fondamento della società solidale e - come ha messo giustamente in evidenza F. Ewald (1986 e 1996) - a fondamento del moderno diritto sociale, cui spetta il compito della perequazione sociale.

In questo edificio teorico la libertà viene fondata in modo nuovo e diverso rispetto al liberalismo: la libertà degli altri diventa possibile solo attraverso l'obbligazione sociale. Il 'contratto di solidarietà' di Bourgeois istituisce una specifica dottrina contrattuale sulla quale si basa il diritto sociale, configurandosi nel contempo, come in Durkheim, come una dottrina morale. La fine del 19° secolo segna l'avvento dei riformatori sociali. L'economista Gide aveva già delineato un primo abbozzo del solidarismo in un breve scritto del 1893, L'idée de solidarité en tant que programme économique, rifacendosi alla vasta letteratura sul tema della s. - da Durkheim a Secrétan - nonché ad alcuni elementi della dottrina sociale cristiana. Il più noto esponente tedesco del solidarismo fu il gesuita H. Pesch (1905 e 1922), cui peraltro manca l'originalità di pensiero di Bourgeois. Il solidarismo come dottrina sociale cattolica trovò un seguito dopo il 1945 in Italia. Sebbene orientamenti solidaristici si possano senza dubbio trovare anche in altri paesi, è soprattutto in Italia che essi hanno esercitato la massima influenza. A. Fanfani riuscì a raccogliere intorno a sé e a unificare diverse correnti solidaristiche, acquistando con ciò influenza politica (De Giorgi 1993).

Politica sociale e solidarietà sociale

In epoca premoderna, quando le misure assistenziali costituivano la sola forma di politica sociale, la s. esisteva unicamente nel contesto di comunità e di gruppi fortemente coesi, quelli che in francese vengono chiamati réseaux primaires (reti sociali primarie), ovvero la famiglia, la famiglia estesa, il vicinato, le associazioni religiose ecc. Mentre oggi il fondamento della politica sociale e della sua prassi è costituito dalla s. sociale, alla base della prassi assistenziale vi è il principio della caritas, che implica una netta distinzione gerarchica tra chi dà e chi riceve, differenza che non viene annullata, ma semmai rafforzata dall'atto del dare.

La Rivoluzione francese negava ancora ai poveri lo status di cittadini. Una politica basata sull'esclusione di determinati individui o gruppi di individui è inconciliabile con la politica sociale e la s., e in questo senso si può affermare che nella Rivoluzione francese non vi fu un'autentica politica sociale. Nel suo studio sulla cittadinanza T.H. Marshall (1950) ha definito il Novecento come secolo della cittadinanza sociale, e sebbene si possano avanzare dubbi più che legittimi sul fatto che essa abbia trovato piena realizzazione, solo nel 20° secolo alcuni Stati hanno cercato, con l'ausilio della politica sociale, di realizzare l'eguaglianza del cittadino sociale e di conseguenza la s. della società nel suo complesso.

Si è trattato di un processo durato parecchi secoli, il cui punto d'avvio è segnato dall'introduzione forzosa del lavoro salariato. Nel 1349 Edoardo iii, re d'Inghilterra, emanò lo statuto dei lavoratori, in cui peraltro il salario era limitato al livello minimale della sussistenza ed era corrisposto per lo più in natura. La Rivoluzione francese segnò l'avvio di un diverso modo di impostare la questione, e si cominciò a pensare anche in termini di politica sociale; sul piano pratico, tuttavia, si rimase fermi alle misure puramente assistenziali, e persino il diritto di cittadinanza rimase legato al censo. Sul piano teorico il lavoro per tutti avrebbe abolito il bisogno, principio che tre mesi dopo venne fissato addirittura nella Costituzione come dette sacrée; ma a distanza di oltre due secoli ci si è ormai abituati alla differenza tra norma costituzionale e prassi costituzionale, asserita e lamentata all'epoca da F.-N. Babeuf e da P.-S. Maréchal.

Anche in Inghilterra sino al 19° secolo si rimase fermi al puro assistenzialismo. Nel 1795, con l'Atto di Speenhamland, venne riconosciuto per la prima volta a ogni individuo il diritto a un livello minimo di sussistenza. Il Poor law amendment act del 1834 abolì il vincolamento al luogo di residenza. Ma sia in Inghilterra sia in altri paesi europei la s. sociale trovò le sue prime forme di espressione concreta nelle associazioni di autotutela e di mutuo soccorso dei lavoratori (friendly societies, Vereine für gegenseitige Hilfe, sociétés de secours mutuels), organizzate nella maggioranza dei casi in base al modello dell'assicurazione.

La grande eccezione è rappresentata dai paesi scandinavi e dal Belgio, dove il sistema della s. sociale si sviluppò direttamente dalle associazioni di mutuo soccorso. È questo uno dei percorsi di sviluppo idealtipici della politica sociale (Ferrera 1993). Dalle associazioni di mutuo soccorso nacquero le grandi assicurazioni, che coprivano rischi di malattia, incidenti sul lavoro, disoccupazione ecc. Queste assicurazioni sociali rimasero strettamente legate ai sindacati: tra s. sociale e s. operaia non esiste in questo caso soluzione di continuità.

Ciò che contraddistingue un altro percorso di sviluppo è l'iniziativa dello Stato per la creazione di una previdenza sociale moderna, quale venne attuata in Germania tra il 1883 e il 1889. Vivamente preoccupato per il successo elettorale dei socialdemocratici, Bismarck sperava di batterli sul loro stesso terreno con la sua legislazione sociale. Se in ultimo, dunque, questa iniziativa si dovette indirettamente alla s. operaia, si trattò nondimeno di una politica sociale intrapresa dallo Stato imperiale, che creò un sistema di s. sociale globale sotto forma di assicurazione obbligatoria. Nonostante le critiche che si possono muovere nel dettaglio, nel suo complesso la legislazione tedesca segnò un passo in avanti nella direzione della modernizzazione che in altri paesi europei si dovette attendere ancora a lungo.

Come esempio di un terzo percorso di sviluppo si può far riferimento al caso della Francia. Qui, come negli altri paesi europei - con alcune eccezioni - né il movimento operaio in generale né le sociétés de secours mutuels erano sufficientemente forti per dare vita a un proprio modello di previdenza sociale. La cosiddetta questione sociale fu tuttavia al centro dell'attenzione di un gruppo relativamente forte di riformatori sociali della più varia provenienza (riformisti sociali cattolici, socialisti moderati, socialisti radicali, cittadini comuni impegnati in campo sociale ecc.), spesso assimilabili, per il loro orientamento politico, ai socialisti della cattedra.

L. Bourgeois - che fu primo ministro in Francia nel 1895 e nel 1919 venne nominato delegato francese alla Società delle Nazioni - mise mano al progetto di una fondazione teorica globale della politica sociale. Il valore dell'opera di Bourgeois, spesso ancora oggi misconosciuto, è attestato dal fatto che le sue idee, in varie forme e senza che venga citato il nome dell'autore, continuano a ripresentarsi sino ai nostri giorni nel dibattito sulla politica sociale. Rifacendosi a Comte, Bourgeois (1896, p. 138) non solo anticipa l'idea assai più tarda del patto intergenerazionale, ma la pone a fondamento della sua nuova teoria contrattualistica: "questo scambio di servizi costituisce la materia di un quasi-contratto di associazione che unisce tutti gli uomini, e l'oggetto legittimo della legislazione sociale è l'equa valutazione dei profitti e delle perdite, dell'attivo e del passivo sociale". Partendo da questi presupposti, Bourgeois afferma il primato della società su ogni scambio individuale. La règle de justice può assumere solo la forma del contratto. Secondo la formulazione ancora più incisiva proposta da A. Fouillée, la giustizia può esistere solo su una base contrattualistica (Fouillée 1880, pp. 41 e segg.), e in questo senso la teoria di Bourgeois può essere considerata una dottrina contrattualistica. Alla questione - in che modo gli uomini pervengano a questo contratto sociale - Bourgeois fornisce una risposta estremamente originale: "la legge che fisserà tra di essi queste condizioni non dovrà essere che un'interpretazione e una rappresentazione dell'accordo che si sarebbe dovuto stabilire in via preliminare se essi avessero potuto essere consultati liberamente ed equamente: l'unico fondamento del diritto sarà dunque la presunzione del consenso che avrebbero dato le loro volontà eguali e libere. Il quasi-contratto non è che il contratto retroattivamente sottoscritto" (Bourgeois 1896, pp. 132 e seg.). Al pari di quelli postulati in precedenza, anche il contratto sociale di Bourgeois è una finzione, ma di natura profondamente diversa nella misura in cui non si tratta di una finzione relativa alle origini della società: "la società è già presente" (Ewald 1986, p. 369). Gli uomini possono accettare o ricusare questo contratto sociale; il contratto di s. rappresenta una necessità sociale, che può prendere forma solo una volta che tale necessità venga riconosciuta. Ma ciò implica anche che il contratto deve venire costantemente riaffermato, si tratta propriamente di un processo di negoziazione permanente.

Per quanto si sia probabilmente ancora lontani dallo stato di decisione cosciente e permanente del patto di s. descritto da Bourgeois, tuttavia ha avuto incontestabilmente luogo un lento processo di affermazione della cittadinanza sociale. Tale processo è stato studiato in modo approfondito per quanto riguarda la Francia e la Gran Bretagna (Thane 1982; Ritter 1983 e 1986). Resta comunque aperta la questione, in che misura possa essere raggiunto quel livello di riflessività sociale che è tanto necessario alla realizzazione del contratto di s. quanto la fondazione su nuove basi della s. sociale auspicata da P. van Parijs (1996).

La nuova definizione della solidarietà

L'avvio del nuovo e ultimo periodo della s. è segnato dalla crisi delle sue forme tradizionali. Si può presumere che tutte le vie possibili per uscirne verranno percorse: una parte delle vecchie forme di s. resterà in vita, mentre altre non saranno in futuro altrettanto diffuse quanto in passato; si assisterà alla nascita di nuove forme, di cui alcuni elementi cominciano già a emergere. Le cause della crisi dello stato sociale - oggetto ai giorni nostri di un intenso dibattito (Rosanvallon 1984; de Foucauld, Piveteau 1995; Prisching 1996; Ascoli 1993) - vengono ricollegate a fattori assai diversi, e diverse sono anche, di conseguenza, le analisi proposte. Un fattore di indubbia importanza è la crisi fiscale, in quanto quasi tutti i modelli della s. sociale organizzata erano costruiti sul presupposto di una crescita economica, e non contemplavano la possibilità di periodi di stagnazione prolungati. Come conseguenza si è avuta una stasi delle entrate dei sistemi di sicurezza sociale, cui ha fatto riscontro un ulteriore aumento delle spese. Ad aggravare la crisi sotto questo riguardo ha contribuito la tendenza a estendere la previdenza sociale a tutti i membri della società, il che si traduce di solito in un aggravio per la fascia della popolazione già coperta dall'assicurazione (Baldwin 1990; Ewald 1986). Un'altra questione sulla quale si continua a discutere è se il rapporto solidaristico tra le generazioni, incarnato nel patto intergenerazionale, riuscirà o meno a sopportare gli oneri derivanti da una situazione in cui una quota sempre minore della popolazione attiva (i giovani) deve pagare i trasferimenti (pensioni di vecchiaia) a un numero crescente di anziani (in età pensionabile) con i propri contributi sociali e/o fiscali (Attias-Doufut, Rozenkier 1995; Rosanvallon 1995; Saint-Étienne 1993; Hondrich, Koch-Arzberger 1992).

Fenomeni di crisi di tipo diverso, per quanto paralleli, si osservano nell'ambito della s. operaia. In alcuni paesi - sebbene non in tutti - il numero degli iscritti ai sindacati, che possono essere considerati le organizzazioni più rappresentative della s. operaia, è sensibilmente diminuito.

Una delle basi della s. era l'esperienza comune del lavoro salariato e della difesa degli interessi legati a tale condizione (che erano espressi come istanza collettiva), cosicché su queste basi poteva svilupparsi non solo una s. operaia, ma anche una s. sociale. Nel passaggio dalla Gemeinschaft alla Gesellschaft - dalla comunità alla società (Tönnies 1887) - non solo diminuiscono le risorse rappresentate dalla dimensione comunitaria, che alimentano entrambe le forme di s., ma oltre a ciò il lavoro salariato per molti perde, se non la sua centralità (Gorz 1988; Rifkin 1995), per lo meno il suo carattere di fondamento dell'identità e di fonte di solidarietà. Peraltro, l'inasprirsi della concorrenza tra i lavoratori salariati spesso ha portato alla rottura di rapporti improntati in precedenza alla s.; i gruppi occupazionali sono in aperta competizione, i dipendenti di diverse aziende di un'impresa delle quali una deve essere chiusa si trovano improvvisamente divisi da interessi contrapposti, e si hanno anche numerosi esempi di una rinascita della concorrenza diretta tra i lavoratori salariati all'interno delle aziende (Hondrich, Koch-Arzberger 1992, pp. 30 e segg.; Zoll 1992). La globalizzazione alimenta forme di concorrenza in cui le parti in competizione non hanno più alcun contatto diretto. Per molte organizzazioni sindacali la mancanza di iscritti della fascia d'età giovanile costituisce un grave pericolo. Accanto a questi fenomeni di crisi si osservano tuttavia anche esempi di una s. operaia tuttora esistente, nonché di una 'cultura della solidarietà' nel campo sociale. Non in tutte le organizzazioni sindacali europee si è verificato un drammatico calo degli iscritti; alcune di esse restano forti come in passato, mentre in altre le perdite riguardano solo i lavoratori disoccupati, che tendono in genere ad abbandonare l'organizzazione sindacale. È in atto inoltre una significativa trasformazione nella composizione dei membri delle organizzazioni sindacali: per es., nella Germania occidentale le perdite di tesserati di sesso maschile subite negli anni Ottanta sono state più che compensate da un aumento della presenza femminile. Alcune ricerche, poi, dimostrano che per i membri dei sindacati la s. operaia resta un punto di riferimento essenziale (Lind 1996, pp. 118 e segg.). Anche alla base della s. incarnata nei sistemi di previdenza sociale vi è spesso una 'cultura della solidarietà', come ha dimostrato K. Hinrichs (1995, pp. 679 e segg.) nella sua ricerca qualitativa sull'assicurazione contro le malattie in Germania. È vero che le organizzazioni sindacali fondano ancora il concetto di s. su una eguaglianza che ormai non esiste più - cfr. a questo riguardo le ricerche di B. Valkenburg (1996) per i Paesi Bassi e di R. Zoll (1996) per la Germania - e dunque faticano a tenere nel debito conto la differenziazione e l'individualizzazione dei loro membri; tuttavia, nonostante questi mutamenti, la s. sindacale nei paesi in questione non è (ancora) messa seriamente in pericolo.

Alcune nuove forme di s. si sono sviluppate a partire dal 1968 e hanno avuto, dalla fine degli anni Sessanta, una diffusione assai maggiore che in passato (Christoph 1979). A questo riguardo vanno menzionati innanzitutto i gruppi di autotutela: come nel caso delle associazioni di mutuo soccorso, anche i membri di questi gruppi partono da un'interpretazione comune di una data situazione - che non deve essere necessariamente di ordine sociale - e decidono di impegnarsi in un'azione collettiva di mutuo sostegno. Nati inizialmente soprattutto nell'ambito psicosociale e sanitario, questi gruppi mirano in generale a sviluppare forme di autotutela solidale per il superamento dei problemi quotidiani (gruppi femminili, associazioni di handicappati, di anziani, di vicinato ecc.: Hondrich, Koch-Arzberger 1992).

Esistono però numerosi gruppi fondati sulla differenza anziché sull'eguaglianza: in Germania, per es., sono nate svariate associazioni che forniscono assistenza agli Asylanten, aiutandoli nelle procedure burocratiche necessarie, oppure organizzando centri di accoglienza e di rifugio nelle chiese. In questi casi dunque il gruppo comprende sia chi fornisce l'assistenza sia chi ne beneficia; reti di s. di questo tipo sono nate anche nell'ambito sociale. K.-O. Hondrich e C. Koch-Arzberger (1992, pp. 58 e segg.) hanno fornito una descrizione dettagliata di un'associazione di questo genere, che come rete di sostegno di natura privata presta assistenza in campo sociale o terapeutico in forma diretta o mediata.

La s. dunque trascende oggi in misura assai maggiore che in passato le differenze culturali, sociali, etniche, nazionali e di genere, mentre prima superava tutt'al più le barriere sociali, a volte le distinzioni legate alla nazionalità e al genere: il fondamento di legittimità era dato comunque quasi sempre dall'eguaglianza. Nel movimento operaio l'elemento propulsivo era ed è ancora oggi l'eguale status di lavoratori salariati, nel movimento delle donne era e rimane l'eguale condizione femminile, e via dicendo.

Ma come si è arrivati a questa trasformazione in virtù della quale nella società contemporanea le differenze vengono percepite e tematizzate in misura assai maggiore che in passato? Senza dubbio i processi di differenziazione sociale, culturale ed etnica sono ulteriormente progrediti, e in certa misura hanno acquistato maggiore visibilità. Tuttavia è difficile prendere coscienza del mutamento senza movimenti culturali che tematizzino la differenza. È senza dubbio merito del movimento delle donne e del femminismo aver affrontato il tema della differenza in modo approfondito e più articolato. A partire dal 19° secolo l'attenzione si era focalizzata, ovviamente, sulla differenza tra i generi (Lange 1897). Da allora il tema - soprattutto negli ultimi decenni - è diventato in misura crescente oggetto di dibattito (in ambito accademico), è stato usato politicamente (tra gli altri Knapp 1994) e internamente differenziato (Gerhard 1995, pp. 268 e segg.). Da un lato, le donne al pari degli uomini trovano difficile praticare la s. al di là delle differenze (di classe, di nazionalità ed etniche: Caplan, Bujra 1978; Lenz 1995, pp. 41 e segg.; Frerichs, Steinrücke 1995; Tax 1980), dall'altro, la tematizzazione di differenza e s. ha caratterizzato sin dall'inizio il movimento femminista, che per primo ha affrontato la problematica di differenza ed eguaglianza e in modo più radicale di quanto non abbia fatto il movimento operaio (v. genere, in questa Appendice).

Sotto un particolare aspetto, e per la precisione quello etnico, il movimento operaio e soprattutto le organizzazioni sindacali avrebbero avuto un motivo sufficiente per affrontare e sviluppare in senso solidaristico il tema della differenza. Il fenomeno dell'immigrazione è vecchio quanto il capitalismo industriale - basti pensare alla condizione degli operai irlandesi in Inghilterra descritta da Engels. Il problema di una s. che trascenda le barriere etniche si è da allora costantemente riproposto. Il problema assumeva naturalmente la massima rilevanza nel melting pot della società statunitense, in cui il pluralismo etnico ha ostacolato lo sviluppo di organizzazioni sindacali su larga scala, soprattutto agli inizi del movimento sindacale (Oestreicher 1986). A seguito dell'enorme incremento dell'immigrazione, il problema dei lavoratori stranieri e degli Asylanten (v. migrazioni e rifugiati, in questa Appendice) è stato oggetto di particolare attenzione anche da parte degli studiosi; sul pluralismo etnico esiste attualmente una letteratura di dimensioni imponenti (limitando le citazioni a Bastenier, Dassetto 1995 e Martiniello 1995, v. anche multiculturalismo, in questa Appendice).

Tuttavia, al fine di capire perché la s. organica ha impiegato tanto tempo per affermarsi in modo anche solo di poco più incisivo, perché gli esempi positivi per lungo tempo sono rimasti eccezioni o confinati sul piano della mera retorica, è necessario comprendere meglio il problema della differenza. A questo scopo occorre spostare l'attenzione dal microlivello delle differenze specifiche di tipo culturale, sociale ed etnico, al macrolivello della differenza nella sua forma assoluta, o come tale percepita: l'estraneità. L'estraneo è la vera e propria sfida alla coesione sociale, rappresenta l'autentico, importante problema morale nel rapporto reciproco tra gli uomini, in grado di mettere a dura prova la solidarietà.

Rifacendosi a C. Lévi-Strauss, Z. Bauman (1992, p. 243) opera una distinzione tra strategie antropofagiche (divorare, incorporare, assimilare) e antropoemiche (rigettare, respingere, ghettizzare), che a un altro livello si manifestano come xenofilia e xenofobia. In quest'ultimo caso la differenza dell'estraneo viene assolutizzata; nell'altro, che si verifica più raramente, esso viene assunto come eguale. Siamo così ricondotti all'ambivalenza dell'estraneo postulata da Bauman, che ora può essere riformulata in termini di ambivalenza tra differenza ed eguaglianza: l'estraneo è differente in quanto proviene da un'altra cultura, ma nello stesso tempo è eguale in quanto essere umano al pari di noi. Per molti questa eguaglianza costituisce un fondamento per la solidarietà.

In sintesi, si può affermare che se il periodo della s. 'organica' è senza dubbio ancora agli inizi, tuttavia alcuni suoi elementi cominciano già a rendersi visibili. La differenziazione sociale e culturale ha reso di estrema attualità il problema se sia o meno possibile una s. che trascenda le differenze; la risposta, secondo Hondrich e Koch-Arzberger (1992), deve essere affermativa nella misura in cui sono riscontrabili empiricamente molteplici forme di solidarietà. H. Joas, che si è posto il problema relativamente alla realtà tedesca, può richiamarsi contro i teorici del 'postmoderno' e della 'fine del sociale' sia alle vecchie forme tradizionali e ancora salde di associazionismo, sia a quelle nuove che vanno emergendo sempre più numerose (gruppi di autotutela, associazioni di vicinato ecc.), contestando con buone ragioni, per lo meno per quanto riguarda la Germania occidentale, l'idea di una perdita permanente di senso comunitario (Joas 1996).

Il processo di differenziazione sociale e culturale spesso può far apparire obsoleta l'illusione egualitaria delle vecchie forme di s., ma ciò vale solo nella misura in cui si trattava effettivamente di un'illusione, e non di una eguaglianza specifica, e d'altro canto questo stesso processo dà origine a una s. che trascende i confini dell'eguaglianza. Per citare Hondrich e Koch-Arzberger, "la solidarietà è unione nonostante la differenza, nonostante l'ineguaglianza (e presuppone dunque la differenziazione sociale)" (Hondrich, Koch-Arzberger 1992, p. 13). Questo implica peraltro che il processo di differenziazione abbia incluso la s. stessa, determinandone una pluralizzazione in molteplici forme e contenuti.

La pluralizzazione, com'è noto, comporta anche l'individualizzazione. Nella misura in cui questo processo porta a un individualismo egoistico, non può che pregiudicare, come del resto molti temono, il potenziale della s. sociale. Ma il processo di individualizzazione ha un carattere ambivalente, che ha come altra faccia l'aumento, seppure sempre relativo, dell'autonomia individuale (Zoll 1992). H. van der Loo e W. van Reijen (1992) parlano a questo proposito di un paradosso dell'individualizzazione. Quando tale processo è inteso come "moltiplicarsi delle alternative d'azione che si offrono al singolo a seguito dell'allentarsi dei vincoli sociali tradizionalmente costrittivi, non è più in contrasto con la solidarietà, ma ne costituisce anzi il presupposto" (Hondrich, Koch-Arzberger 1992, p. 25).

Un altro aspetto della trasformazione della s. è stato finora affrontato solo in modo implicito o marginale. Di fronte ai fenomeni di burocratizzazione nelle istituzioni della s. sociale, così come negli apparati delle organizzazioni sindacali, non sorprende che i giovani spesso preferiscano vivere la s. nella dimensione quotidiana. Fin quando la s. operaia rimase ancorata al mondo della vita improntato alla cultura operaia e alla cooperazione dei lavoratori, restava sempre anche in un certo senso una s. quotidiana. Ma quanto più manca alla s. operaia questa dimensione del quotidiano, del mondo della vita, tanto più emergono in primo piano i suoi aspetti negativi - la coercizione e l'egoismo del gruppo - che portano alla sua disgregazione. I giovani sviluppano nuove forme di s. quotidiana, che vanno dall'aiuto reciproco per il superamento dei problemi della vita di tutti i giorni (per es., attraverso la costituzione di comuni) ai gruppi d'asilo ecc. Quando al posto della s. fondata sull'eguaglianza della condizione di salariati e degli interessi che ne derivano subentrano forme in parte nuove, e nello stesso tempo 'reinventate', di s. quotidiana, questa verrà favorita in modo decisivo da quei processi comunicativi che costituiscono gli elementi della nuova cultura dei giovani. In questa nuova cultura (Zoll 1992) tutto viene discusso e analizzato: ogni affermazione, ogni decisione devono legittimarsi nel corso di un processo comunicativo. Possiamo così indicare altri due processi della trasformazione della s., la 'quotidianizzazione' e l'universalizzazione. L'agire comunicativo, da un lato, è ancorato alla quotidianità del mondo della vita (Habermas 1981), dall'altro implica nei principi che lo guidano la possibilità di universalizzazione. Questa tendenza fa riscontro alla 'riduzione' dell'eguaglianza alla sua forma più astratta, all'eguaglianza come esseri umani, che implica nello stesso tempo una universalizzazione. La dinamica del mutamento socioculturale della s. può dunque essere definita come un insieme di processi di differenziazione, individualizzazione e pluralizzazione, di quotidianizzazione e universalizzazione. Detto in altri termini, il mutamento socioculturale della s. è un processo della modernizzazione.

L'attuale discussione sociofilosofica

A partire da Durkheim, proseguendo con T. Parsons e N. Luhmann e finendo a P. Giovannini e D. Lockwood, si sono sviluppati sino ai giorni nostri vari orientamenti teorici, tra i quali uno dei più significativi è il funzionalismo normativo e la sua filiazione, la teoria sistemica. La dottrina sociale cattolica e il solidarismo si richiamano solo marginalmente a Durkheim, e lo stesso vale per M. Scheler, il quale peraltro si rifà al solidarismo. Il dibattito sulla s. nei suoi aspetti morali e filosofici si è allargato a dismisura, con o senza Durkheim. L'aspetto contrattualistico della teoria di Durkheim viene sviluppato piuttosto raramente, sebbene egli definisca esplicitamente la s. organica come s. contrattuale. Nell'attuale dibattito sociofilosofico si possono distinguere due poli: il primo è rappresentato dalla teoria della giustizia, il secondo da un approccio postmodernista, che si contrappone sia alle riflessioni in termini di filosofia morale sia alle teorie di Scheler.

R. Rorty, uno dei più illustri esponenti di quest'ultimo approccio, oppone un radicale rifiuto ai fondamenti ultimi e ai principi morali della filosofia, affermando che non esiste contrasto tra la ragione e il suo Altro (le passioni, o la volontà di potenza nietzschiana, o l'essere di Heidegger), poiché la 'ragione' diventa per Rorty (1989) fonte della solidarietà. Se per alcuni autori la s. è "la reciproca consapevolezza della nostra comune umanità", Rorty rifiuta invece di richiamarsi a "qualcosa al di là della storia e delle istituzioni" (Rorty 1989; trad. it. 1989, p. 218) o all'idea di 'umanità', di una natura umana comune a noi tutti. Il bersaglio polemico della sua critica è "l'universalismo etico secolare" mutuato dal cristianesimo (p. 220). L'universalismo è incompatibile con la posizione di Rorty, sebbene egli non sia contrario all'estensione della s. a una cerchia via via più ampia.

Rorty formula un'idea della s. che trascende le differenze, senza peraltro rendersi conto che tale idea è perfettamente conciliabile con l'assunto di una natura umana comune, anzi lo implica sul piano sia empirico che teoretico. È questa la posizione sostenuta con forza da N. Geras (1995) nella sua critica a Rorty. Per quest'ultimo sarebbe decisiva la definizione del noi-gruppo, che è in ogni caso qualcosa di "più limitato della razza umana" (Rorty 1989; trad. it. 1989, p. 219). Geras, per contro, cita un'infinità di esempi di uomini di tutte le razze che (come Schindler, per citare un nome ormai noto) nel corso della Seconda guerra mondiale hanno salvato moltissimi Ebrei, meritando il titolo onorifico di 'Righteous among the nations' da parte dello Stato di Israele. Come emerge dalle dichiarazioni di questi 'uomini giusti', nella quasi totalità dei casi essi si adoprarono per salvare gli Ebrei non per loro qualità di vicini e conoscenti, ma unicamente in quanto esseri umani: "siamo stati educati ad amare il genere umano" (Geras 1995, p. 26). Contro l'arbitrarietà di una morale postmoderna, Geras invoca gli ideali "di una natura umana comune, di diritti universali, e del ragionare insieme per cercare di scoprire la verità, al fine di minimizzare le ingiustizie e le sofferenze evitabili" (p. 143).

È proprio su questo terreno che si sviluppa l'attuale dibattito sociofilosofico, il cui punto di partenza è la questione della giustizia, e che si può ricollegare ancora una volta a Durkheim. Verso la fine del suo studio sulla divisione del lavoro sociale, egli asseriva che il compito delle società più avanzate è quello di creare la giustizia. Con ciò Durkheim riconosceva che l'affermarsi della s. organica ha come presupposto la realizzazione della giustizia, e in particolare dell'eguaglianza delle condizioni di partenza e delle opportunità.

Nella sua critica all'utilitarismo J. Rawls riprende in forma modificata l'idea contrattualistica e sviluppa una propria teoria della giustizia ispirata a Kant. A tal fine stabilisce una serie di principi che dovrebbero creare un contesto di equità. La giustizia per Rawls (1958, p. 164) è una virtù delle istituzioni o delle pratiche sociali. Poiché la società crea costantemente delle differenze, sorge il problema di come sia possibile la giustizia nonostante la differenza, nonostante l'ineguaglianza. Il problema può essere risolto, secondo Rawls, stabilendo due principi, quello della differenza e quello delle eguali opportunità; sulla base di tali principi, la giustizia può essere espressa come un complesso di tre idee: libertà, eguaglianza e 'retribuzione' per i servizi che promuovono il 'bene comune' (p. 165). Nell'etica della condotta di Rawls un concetto chiave è quello di fairness (equità), che può essere definita come correttezza di rapporti tra persone che competono o cooperano tra loro. La fairness può nascere quando due individui liberi nel loro rapporto reciproco fissano e rispettano tali regole. In un rapporto improntato alla correttezza gli individui liberi possono agire nel rispetto reciproco e senza violare i principi degli altri. La fairness dunque è anche un presupposto per la solidarietà.

Il senso di fairness, che dovrebbe essere rafforzato dalla procedura, ossia dalle regole, fa nascere un obbligo morale ad agire in modo corretto; di conseguenza il comportamento del free rider (colui che beneficia dei risultati dell'azione collettiva senza impegnarsi in prima persona) contravviene al requisito della fairness. Il riconoscimento di principi morali diviene dunque un criterio per il riconoscimento dell'altro come essere umano, come persona che ha interessi e sentimenti simili, riconoscimento che deve emergere anche nei rapporti reciproci. Il riconoscimento reciproco delle persone e dei principi di giustizia e l'obbligo alla correttezza sono strettamente legati.

A. Honneth (1992) ha sviluppato in un certo senso la tesi del riconoscimento di Rawls, senza peraltro richiamarsi a tale autore. La sua fonte di ispirazione è piuttosto Hegel, di cui riprende l'idea della "visione reciproca" associandola alla "trasformazione naturalistica" di G.H. Mead. Honneth perviene così a tre "modelli di riconoscimento intersoggettivo: amore, diritto e solidarietà" (Honneth 1992, pp. 148 e segg.). I tre livelli dell'autoconsiderazione - fiducia in se stessi, rispetto di sé e coscienza del proprio valore - trovano riscontro in tre forme di riconoscimento reciproco. L'amore implica il riconoscimento dell'altro come individuo e si esprime nella dedizione e nell'assistenza; il diritto implica l'attribuzione a tutti gli individui della stessa affidabilità morale (questa viene presupposta); le comunità basate sui valori, infine, implicano il riconoscimento reciproco come persone dotate di capacità preziose per gli altri e per la comunità, e tale riconoscimento del valore altrui trova espressione nella solidarietà.

Il punto di partenza delle riflessioni di J. Habermas (1986) sul tema della giustizia e della s. è una presa di distanza da una tesi di L. Kohlberg, al quale peraltro si richiama per molti aspetti. Entrambi concordano con G.H. Mead sul fatto che "le persone come soggetti dotati della capacità di linguaggio e di azione possono diventare individui solo attraverso la socializzazione" (Habermas 1986, p. 310). Nel processo di socializzazione inteso in senso ampio hanno la loro "origine comune" l'identità sia dell'individuo sia della collettività cui questi appartiene. L'identità non può essere affermata unicamente per se stessa, in quanto dipende da un intreccio di relazioni di riconoscimento. I 'dispositivi di tutela' morali che dovrebbero assicurare l'integrità dell'individuo restano inefficaci se non sono in grado di garantire nello stesso tempo "l'intreccio vitale di relazioni di riconoscimento" (p. 310). È qui che risiede la differenza rispetto alla posizione di Kohlberg, in quanto ciò non esclude "la benevolenza per il prossimo", ma implica la s. nella misura in cui si tratta di un 'riconoscimento reciproco'. "Per questa ragione la prospettiva complementare all'eguale trattamento non è la benevolenza, ma la solidarietà". Da ciò nasce anche il collegamento con l'eguaglianza: "la giustizia intesa in senso deontologico esige come sua controparte la solidarietà. Si tratta di due aspetti della stessa cosa" (p. 311). Poiché giustizia e s. sono strettamente interdipendenti, le norme morali hanno la funzione di tutelare sia "gli eguali diritti e libertà dell'individuo" sia "il bene del prossimo e della comunità cui esso appartiene". La s. diventa qui "parte integrante di una morale universalistica" e perde così il carattere particolaristico che costituiva, come abbiamo visto, uno dei possibili difetti della s. operaia. La tesi forte di Habermas è che "la giustizia concepita in senso post-convenzionale può convergere con il suo altro, la solidarietà, solo quando sia stata trasformata alla luce dell'idea di una formazione discorsiva e universale della volontà" (p. 312). Habermas ammette che "i principi fondamentali di eguale trattamento, solidarietà e bene comune" erano già presenti nelle società premoderne nelle "condizioni di simmetria e aspettative di reciprocità di ogni prassi comunicativa quotidiana", ma queste aspettative normative non oltrepassavano i confini del mondo della vita concreto della famiglia, della tribù, della città o della nazione. Quanto sia difficile ancora oggi superare questi confini, lo si può riscontrare per es. nella prassi quotidiana delle organizzazioni sindacali. "Tali barriere possono essere spezzate solo in processi discorsivi, nella misura in cui questi sono istituzionalizzati nelle società moderne" (p. 312). È attraverso tali processi che si viene a creare una comunità comunicativa ideale, ovvero anche virtualmente universale (Apel 1988).

Il potenziale di universalizzazione del discorso emerge nell'abbattimento delle barriere, nel superamento dei limiti di un determinato gruppo o mondo della vita. Solo in questo modo "gli interessi di ogni singolo individuo" possono "farsi valere senza disgregare il gruppo sociale" (Habermas 1986, p. 312). Habermas ritiene che "ogni esigenza di universalizzazione resterebbe lettera morta, se dall'appartenenza a una comunità comunicativa ideale non scaturisse anche la coscienza di una solidarietà permanente, la certezza della fratellanza in un contesto di vita comune" (p. 313).

Prendendo spunto da Habermas, J. Cohen e A. Arato (1992) focalizzano l'attenzione sulla sfida che la differenza rappresenta per la s., e sottolineano come l'etica del discorso si proponga proprio di affrontare tale sfida. Anch'essi mettono in risalto come l'etica del discorso trasformi il concetto di s. conferendogli una dimensione universale, che trascende ogni barriera. Il vantaggio di formulare il concetto di s. nei termini della teoria del discorso è quello di tematizzare esplicitamente la differenza, che è diventata uno dei principali problemi delle società pluralistiche: "Il moderno concetto di solidarietà che abbiamo in mente non richiede empatia né identità con l'altro con il quale siamo solidali. La solidarietà complementare all'etica del discorso, tuttavia, comporta la capacità di identificarsi con il non identico. In altre parole, comporta l'accettazione dell'altro come altro" (p. 383).

È stata la teoria etica femminista a tematizzare con l'adeguata concretezza e profondità la rilevanza della differenza per la solidarietà. S. Benhabib (1989, pp. 454 e segg.) critica le teorie morali maschili e la figura dell'"Altro generalizzato" da esse create. Questo costrutto artificioso costituisce probabilmente un'astrazione necessaria per arrivare alle norme dell'eguaglianza e della reciprocità formali. Ma "il punto di vista dell'Altro generalizzato presuppone che ogni singolo individuo venga considerato come un essere razionale, che ha diritto agli stessi diritti e doveri che reclamiamo per noi. Se si assume questo punto di vista, si fa astrazione dall'individualità e dall'identità concreta dell'altro". A ciò la Benhabib contrappone la prospettiva dell'Altro concreto, che ci impone di "considerare ogni singolo essere razionale come un individuo con un volto concreto, con una precisa identità e una specifica costituzione affettiva-emozionale" (p. 468). Solo questa prospettiva consente di praticare una s. concreta. La diversità dell'altro è un elemento essenziale per la s. concreta, per la s. nella vita quotidiana. Nella concezione di Rawls, per contro, le differenze diventano "assolutamente irrilevanti", dato che l'Io di Rawls non conosce "il suo posto nella società, la sua classe o il suo status, le proprie doti naturali, la sua intelligenza, la sua forza fisica, ecc." (Rawls 1971, p. 160). Sembrerebbe impossibile conciliare la s. con questo livello di astrazione. S. Benhabib si chiede a ragione se sia possibile formulare teorie morali senza il costrutto dell'Altro generalizzato. Non si tratta peraltro di abbandonare del tutto questo costrutto, bensì di riconoscere "che ogni Altro generalizzato è anche un Altro concreto" (Benhabib 1989, p. 476). Nell'Altro generalizzato si realizza l'esigenza di universalizzazione, nell'Altro concreto è garantita la necessaria liberazione del singolo individuo che mette in atto la s. e la concretizzazione dell'universalizzazione. Non si tratta solo di scoprire nell'Altro generalizzato l'Altro concreto, ma di vedere ogni volta in quest'ultimo anche il primo. Grazie al contributo della riflessione femminista, la s. 'organica' può essere ridefinita come s. che in una prospettiva unitaria ha a suo fondamento la differenza concreta e l'eguaglianza astratta; questa s. vede la persona come Altro concreto e come Altro generalizzato, e unisce giustizia e cura, responsabilità, diritti e doveri.

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