Sociologia

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Sociologia

Paolo De Nardis
Sandro Bernardini
Alain Touraine
Alessandro Ferrara
Jeffrey C. Alexander - Paul B. Colomy

(XXXI, p. 1019; App. III, ii, p. 761; IV, iii, p. 356; V, iv, p. 15)

I temi generali della s. hanno ricevuto un'ampia esposizione nel XXXI vol. dell'Enciclopedia Italiana nella voce sociologia di U. Spirito, in cui vengono tracciate la storia e l'evoluzione della s. nel 19° secolo e nel primo ventennio del 20°. A opera dello stesso autore, è stato delineato il profilo di una branca di studi specialistici, trattati nella voce sociologia criminale, oggi più propriamente denominata sociologia della devianza. In seguito, nelle App. III e IV, F. Ferrarotti ha curato l'aggiornamento di sociologia relativo al periodo che si estende complessivamente dagli anni Trenta agli anni Settanta.  *

Macro- e microsociologia

di Paolo De Nardis

La distinzione tra micro e macro nelle scienze sociali, e con particolare riferimento alla s., pur non smentendo il significato dei due prefissi, tende a cogliere aspetti diversi e più specifici. In alcuni casi, come è ovvio, micro e macro designano, per trasposizione figurata, rispettivamente qualcosa di 'piccolo' e qualcosa di 'grande'; in altri casi, però, tale nesso si perde e i due prefissi arrivano a incarnare la distinzione tra orientamenti concettuali, teoretici, financo epistemologici che conservano un'ispirazione molto debole e lontana alla coppia 'piccolo-grande'. In altri casi, è la stessa coppia terminologica micro-macro a scomparire, sostituita da dicotomie concettuali che, pur richiamandosi a essa, trasformano la distinzione originaria in una vera e propria contrapposizione: dalla distinzione tra micro e macro si passa così all'antitesi fra 'azione' e 'struttura', fra 'analisi qualitativa' e 'analisi quantitativa', addirittura fra 'orientamento interpretativo' e 'orientamento scientista' o tra 'interpretazione' e 'causazione' (Dal Lago 1994; Agodi 1996).

Qui di seguito saranno pertanto contemplate due accezioni di base della coppia concettuale micro-macro: la prima si rifà al genuino rispetto, per traslazione, del significato dei due termini, e guarda ai contributi conformi a tale linea di ispirazione; la seconda è più propriamente riconducibile agli sviluppi che hanno sottoposto la coppia concettuale originaria a una trasformazione oppositiva dei suoi estremi.

Micro e macro come prospettive analitiche

La trattazione dovrebbe risultare più agevole muovendo da una considerazione comparativa delle diverse discipline sociali, se non altro per far chiarezza su quelle di esse in cui la distinzione tra micro e macro appare meno cristallina.

Nella teoria economica, micro e macro si riferiscono a due prospettive che si specificano e si distinguono l'una dall'altra per l'unità d'analisi adottata: da un lato, lo studio del comportamento delle famiglie e delle imprese quali soggetti 'ultimi' di decisione economica; dall'altro, lo studio delle grandezze 'aggregate', ossia delle variabili che scontano l'insieme delle suddette decisioni in riferimento a un certo ambito territoriale-amministrativo (reddito nazionale, consumi e investimenti ecc.). Prima di commentare tale distinzione, si consideri che qualcosa di analogo appare reperibile anche nell'ambito dell'analisi demografica ove, per es., il micro designa l'osservazione della condotta della coppia per quanto riguarda i suoi orientamenti procreativi, mentre il macro guarda alle variabili che incidono complessivamente sulla fertilità in termini di quadro sociale di riferimento e in termini di condizioni esterne delle decisioni della coppia (livello di divorzialità, età media al matrimonio, andamento del differenziale di età dei coniugi, parametri di mortalità, impegno professionale-lavorativo della coppia).

Va precisato, con stretto riferimento agli esempi addotti, in economia come in demografia, che il 'piccolo' e il 'grande' non sono tali che il secondo dei due possa intendersi come contenitore del primo. Le grandezze aggregate della determinazione del reddito nazionale, nonché della sua composizione in termini di consumo e risparmio, possono solo retoricamente rappresentare la sommatoria dei singoli comportamenti della moltitudine delle famiglie e delle imprese appartenenti al contesto di riferimento del calcolo di tali grandezze; soprattutto, esse nulla ci dicono circa le determinanti del comportamento e delle decisioni che famiglie e imprese adottano o hanno adottato concorrendo alla determinazione di un certo livello di consumo o risparmio. In altri termini, la logica e i meccanismi che sono alla base degli orientamenti ai quali guarda l'analisi micro non sono conoscibili, per deduzione o per inferenza, dalla loro analisi aggregata e, viceversa, questa non è ottenibile dall'accertamento di quegli orientamenti. Sono, semplicemente, due ordini di fenomeni diversi, anche se relativamente interdipendenti.

In demografia, i termini del problema non sono diversi. La fertilità di una nazione risente ovviamente del comportamento delle coppie che sono alle prese con i propri progetti procreativi, ma dipende in misura tutt'altro che trascurabile dai parametri del contesto di formazione delle coppie stesse (vedi le variabili di cui sopra), i quali, a loro volta, sono condizione o vincolo del comportamento di queste ultime, ovvero degli atti che le coppie compiono poi con esclusivo riferimento a se stesse (ai propri progetti) e non certo guardando al contesto. Le due dimensioni in gioco, pertanto, il 'piccolo' e il 'grande', si influenzano reciprocamente e consistentemente, ma in nessun senso può dirsi che una sia sottoinsieme dell'altra e che, avendo cognizione dell'una, se ne possa avere anche dell'altra. Questa mancanza di coestensività tra micro e macro non è reperibile in tutti gli ambiti disciplinari delle scienze sociali.

Non lo è, per es., in politologia, dove, sebbene le arene dell'amministrazione e della competizione pubblica siano collocabili a differenti livelli di pertinenza territoriale (Comuni, Regioni ecc.), l'opportunità di distinguere una dimensione 'piccola' da una dimensione 'grande' appare fuori luogo in quanto non si ridurrebbe ad altro che a una questione di localizzazioni spaziali. Il che vuol dire, quindi, che per distinguere tra prospettiva micro e prospettiva macro si deve contare su una demarcazione solo metaforicamente spaziale: le due prospettive sono in realtà diverse perché diverso è il soggetto che le sottende. In un caso è l'attore sociale, che coincide con l'agire privato; nell'altro è l'osservatore-interprete, la cui 'ottica' coincide eventualmente (macroeconomia) con l'interesse e la competenza di un'amministrazione pubblica, come nella modellistica econometrica che si pone al servizio delle banche centrali (Napoleoni 1963).

Sul senso di questa diversità prospettica quale fondamento della distinzione tra micro e macro, si può rilevare, per maggiore chiarezza, che se l'una e l'altra prospettiva alludono a realtà fenomeniche relativamente interdipendenti, ciò non toglie che esse si giustifichino autonomamente e separatamente l'una mettendo tra parentesi l'altra, almeno per ridurre lo spettro delle variabili in gioco e rendere così cognitivamente più controllabile il proprio ambito analitico. In demografia, la prospettiva micro è compatibile con quella macro, perché indaga sulle decisioni e sui progetti procreativi della coppia mettendo tra parentesi il fatto che i soggetti coniugali abbiano deciso di sposarsi tardi e abbiano perciò posto dei vincoli alle loro decisioni procreative; dal lato macro, si mettono tra parentesi o si avanzano ipotesi di massima sui valori e sui desideri della procreazione, cercando di accertare la misura in cui le dinamiche strutturali della vita coniugale si ripercuotano sulla fertilità. Le due prospettive stanno fra di loro allo stesso modo in cui ciò avviene per discipline limitrofe, per es. tra s. ed economia: la seconda ammette "l'impatto di fenomeni non economici su fenomeni economici" ed è quindi costretta ad assiomatizzarli o a dar loro misure parametrali ipotetiche (Zafirovski, Levine 1997). Parimenti, micro e macro non sono prospettive in alcun modo reciprocamente riducibili, ma neppure antitetiche. Non si tratta di un dualismo.

Gli esempi e le applicazioni di tale distinzione in s. appaiono conformi a quanto precede, pur con le specificità disciplinari che non possono non intervenire. T. Parsons ne offre un'esauriente esemplificazione indagando su quel processo di socializzazione che pure, in riferimento al ciclo familiare e alle dinamiche biografiche dei suoi componenti, è definibile come "processo di mutamento istituzionalizzato"; è definibile, cioè, come processo di mutamento all'interno di un sottosistema, il quale si realizza "indipendentemente dai più vasti processi di mutamento nella società" e che, quindi, dal punto di vista di questi ultimi, può essere considerato come 'non mutamento' (Parsons 1951; trad. it. 1965, pp. 511-13). In questo caso, gli attori sociali percepiscono un mutamento proprio in quanto ne mettono tra parentesi il carattere istituzionalizzato. Il 'ciclo familiare' è ricco di traumi individuali, di 'crisi' e di sconvolgimenti, anche se tutto questo fa in definitiva parte della riproduzione (stabile) del sistema sociale nel suo complesso. Da tale prospettiva micro può distinguersi quella macro descritta da C.W. Mills in The power elite (1956; trad. it. 1959, p. 9) contrapponendo il "mondo quotidiano [...] dell'uomo comune" ai "grandi cambiamenti" che egli non può comprendere e che sfuggono al suo controllo, anche se ne influenzano "il comportamento e il modo di vedere le cose". In tale secondo caso è l'osservatore-interprete che, mettendo tra parentesi il punto di vista dell'attore ("dell'uomo comune"), coglie il mutamento macro ("grande"); è come se, quasi paradossalmente, si potesse parlare di mutamento senza che ciò risultasse anche a chi, in definitiva, ne è protagonista.

In sintesi, si può rilevare come in s. e in altre scienze sociali a essa limitrofe la distinzione tra micro e macro si assesti intorno all'ammissibilità dei "concetti di aggregato", ove il diverso accento che le due prospettive vengono a porre sul 'punto di vista dell'attore sociale' dipende dall'evidente impossibilità di quest'ultimo di muoversi e di tener conto della dimensione aggregativa stessa (Giesen, Schmid 1976). Su queste stesse basi si parla, nell'analisi sociologica contemporanea, di un attore 'intenzionale' ma 'limitato' in quanto a 'razionalità'; un attore che, in altri termini, non può vedere, contestualmente al suo stesso agire, tutto ciò che sta intorno a lui (Boudon 1977). Più ci si avvicina, in questo senso specifico, a teorie 'macroscopiche', più ci si allontana da quel suo 'punto di vista', sicché l'ottica che guarda alle dimensioni 'grandi' non può che essere l'ottica dell'osservatore-interprete.

Dalla distinzione tra micro e macro all'opposizione tra azione e struttura

Una seconda accezione della distinzione tra micro e macro recepisce al di là della s. la distinzione basilare tra punto di vista dell'attore e punto di vista dell'interprete, offrendone però una versione ipostatizzata sul piano metodologico. L'argomento ispiratore è il seguente: se il micro rileva il punto di vista dell'attore e il macro quello dell'interprete (od osservatore), nel primo caso l'intelligibilità dell'oggetto di indagine comporta un lavoro interpretativo; nel secondo caso, un lavoro più propriamente descrittivo riguardante assetti normativi, quadri istituzionali, standard di comportamento. Sotto il profilo teoretico, tale demarcazione è strettamente imparentata con quella che contrappone azione a struttura, cioè l'accento sull'indeterminatezza del comportamento sociale (primato della situazione) all'accento sul suo carattere precodificato (primato della posizione). Sembrerebbe che una distinzione di prospettiva si trasformi così in un'alternativa di principio, ove l'irriducibilità dei termini comporta il loro dualismo.

Prima di riflettere su tale considerazione, è bene rammentare che, in questo caso, si suole identificare la prospettiva micro con quell'ampia area di contributi che coincide con la tradizione americana dell'interazionismo simbolico, dell'etnometodologia e delle cosiddette s. fenomenologiche, e quella macro con la tradizione europea propriamente durkheimiana, fino al suo massimo epigono d'Oltreoceano, ravvisato nella figura di Parsons (Collins 1985). In tale ottica, il micro verrebbe a privilegiare tutto ciò che è fenomenicamente irriducibile alla dimensione modellistica e al suo apriorismo svariatamente normativo: celebre, al riguardo, il concetto di "distanza dal ruolo", sul quale ha ripetutamente insistito E. Goffman per ribadire che "gli individui sono sempre liberi di modulare ciò che viene loro richiesto di fare" (ossia è richiesto in base ad aspettative standardizzate; Goffman 1961; trad. it. 1979, pp. 153-54). Il macro porrebbe l'accento sulla tipizzazione del sociale inteso come tutto, o come insieme di insiemi interdipendenti, in base a categorie qualificanti esse stesse riferibili a ottiche in questo senso 'complessive': divisione sociale del lavoro, processi formativi, assetti e 'forme' produttive. Con il risultato finale di pervenire a ricostruzioni storico-tipologiche delle società come fenomeni di "successione", fino alle più celebri teorizzazioni sul processo di modernizzazione (Collins 1985; Eisenstadt, Semyour 1985).

Le demarcazioni in esame si prestano in realtà a qualche incertezza definitoria; E. Durkheim stesso può, a seconda dell'indirizzo interpretativo, essere assunto come capostipite degli orientamenti micro o di quelli macro (Collins 1985). Ciò su cui occorre in particolare soffermarsi riguarda la necessità di eliminare possibili confusioni, o false argomentazioni, che infirmerebbero la validità della distinzione appena operata, e questo proprio nell'ottica di difendere quanto di essa appare cognitivamente utile. C'è una distinzione concettuale che, a tale riguardo, appare particolarmente illuminante e sulla quale occorre insistere: è quella che sottolinea la differenza tra il concetto di istituzione e quello di istituzionalizzazione.

Secondo la prospettiva macro, l'istituzione implica la convergenza di almeno due elementi: un valore, e cioè un elemento etico-concettuale che svolge la funzione di scopo per un insieme di comportamenti; e una struttura, cioè un elemento materiale, che è il mezzo per il perseguimento di tale scopo. Tra i primi autori della tradizione sociologica che si sono sistematicamente dedicati a questo argomento si può senz'altro citare W.G. Sumner (1906), che ha trattato le istituzioni come classe di una tipologia di fenomeni normativi.

Un'istituzione è la scuola, intesa come sistema formativo pubblico; un'istituzione è anche lo Stato; lo sono molti suoi apparati e, infine, lo è anche la famiglia. Se ora ci si chiede qual è la ragione specifica che consente a tale concetto di essere adoperato in riferimento alla prospettiva macro, nell'accennato senso durkheimiano del termine, è chiaro che la risposta non può che essere la seguente: il richiamo alla dimensione istituzionale della vita sociale consente di offrirne una trattazione in base alla quale l'osservatore-interprete può procedere come se i referenti dei suoi concetti non fossero riconducibili a fenomeni comportamentali; in breve, come se tali referenti - vale a dire le istituzioni, le organizzazioni, gli apparati ecc., che in questo senso verrebbero a designare le strutturalità della vita sociale - fossero dotati di vita propria.

Un'impostazione del genere consente di affrontare la diacronia storica mediante tipologie di società, descritte attraverso la ricostruzione dei loro assetti istituzionali e, sulla base di questi ultimi, differenziate per tratti qualificanti. Nell'ambito delle scienze sociali, è stato L. Morgan a inaugurare e a sistematizzare tale indirizzo analitico, proponendo una scansione dell'evoluzione storica basata sulla nozione di "periodo etnico" e identificando le varietà di quest'ultimo mediante la considerazione di una serie di 'parametri': da un lato lo sviluppo tecnologico (sfera della 'sussistenza') di una società, dall'altro la sua organizzazione istituzionale sotto non meno di sei profili (famiglia e sistemi di parentela, religione, principio di proprietà, governo, linguaggio, soluzioni abitative e insediative). Al di là del suo realismo storico, la portata euristica dello sforzo di Morgan si è rivelata enorme: sia nell'ambito dell'etnologia empirica, di sua specifica pertinenza, sia in quello delle altre scienze sociali, fino a influenzare taluni scritti freudiani. In campo sociologico, la tipizzazione macro più recente e, nello stesso tempo, più consolidata è quella di G. e J. Lenski (1970), consistente in una definizione sintetica di quattro modelli di società (di "caccia e raccolta", "orticole", "agricole", "industriali"), centrata su considerazioni parametrali meno differenziate ma del tutto analoghe a quelle di Morgan. È opportuno sottolineare ulteriormente il vantaggio concettuale derivante dall'impiego del lessico macro: tipologie, descrizioni, comparazioni sono sviluppate astraendo dal richiamo all'agire dei membri del gruppo sociale, ma tale astrazione riposa fondatamente sull'assunto del carattere sopraindividuale delle strutture sociali, ossia sulla possibilità di ritagliare dal comportamento sociale ciò che può considerarsi eredità culturale e materiale ed è sedimentato nell'organizzazione delle risorse alla quale è dato di accedere a ogni generazione di membri.

A questo punto assume rilevanza il richiamo a ciò che distingue il concetto di istituzione da quello di istituzionalizzazione. Si supponga infatti che, con riguardo al medesimo ambito fenomenico di riferimento, entri ora in gioco una prospettiva micro del tipo di quella riassunta dalla formula oppositiva 'azione-struttura'. Che cosa comporta tale orientamento se si guarda all'istituzione scolastica, e cioè alle dinamiche del processo formativo? Una possibile risposta è che i ruoli dell'esperienza di apprendimento, così come di essi abbiamo cognizione in base all'analisi della classe scolastica in un sistema formativo pubblico, non costituiscono argomento sociologico esaustivo. Non costituisce, cioè, argomento esaustivo un'analisi funzionale della classe scolastica, ove questa costituisca un sottosistema che si attivi in condizioni di interdipendenza nei confronti di altri sottosistemi e che, con essi, si presti quindi a un esame complessivo del sistema-ambiente al quale appartiene.

La prospettiva micro introdurrebbe così, a questo punto, un criterio analitico del tipo di quello esemplificato dall'insistenza di Goffman sul concetto di "distanza dal ruolo", mostrando tutto il 'gioco', tutta la libertà di azione che caratterizza il rapporto tra il docente e il discente: per es., gli effetti della loro interazione faccia-a-faccia, il loro mutuo condizionamento in termini di 'profezia che si autoavvera' e di 'profezia che si autodistrugge', la riconducibilità di tali effetti al retroterra culturale della loro estrazione socio-economica ecc. Tutto ciò, per porre in luce che l'agire 'nel ruolo' non è deducibile dalla configurazione standardizzata del ruolo stesso e merita, pertanto, un'attenzione analitica specifica, uno sforzo di indagine adeguato.

Ora, su tale prospettiva non si può eccepire, nello stesso senso in cui non si poteva eccepire a proposito di quel che faceva il lessico macro privilegiando la nozione di struttura. Qui l'azione, ovvero la 'libertà di azione', è a sua volta considerata in posizione di primato in quanto l'osservatore-interprete, facendo sua un'ottica che è facilmente riconoscibile alla posizione dell'attore, procede come se l'agire di insegnanti e allievi non fosse precodificato dalla configurazione di ruolo. È quindi vero che, in una certa misura, la deduzione macro della definizione di un ruolo nulla ci dice sull'agire situazionato di chi assume la titolarità di quel ruolo; ma è altrettanto vero che guardando a tale agire situazionato (contesto micro) nulla sapremo di esso se non rinviando a ciò che trascende tale situazionalità.

È questo il motivo che giustifica la necessità di distinguere istituzione da istituzionalizzazione: il primo termine, nell'accezione di Sumner di cui si diceva poc'anzi, designa gli insiemi invarianti della vita sociale, definibili come tali sia dal punto di vista dell'attore, sia dal punto di vista dell'interprete-osservatore. Il secondo designa le condizioni di prevedibilità dell'azione, ovvero i margini - ciò che Parsons chiama boundaries - entro i quali è lecito attendersi la sua imprevedibilità: entro i quali, cioè, gli attori stessi, reciprocamente, ne avvertono la contingenza, la situazionalità. È infatti istituzionalizzato un modello di comportamento capace di conciliare proprio la 'doppia contingenza' dell'interazione: quella degli orientamenti personali del soggetto e quella riguardante le reazioni dei suoi partner. Un modello di questo genere stabilizza l'interazione e le consente di iterarsi nel tempo. Il concetto di istituzionalizzazione si situa così a metà strada tra la prospettiva dell'azione e quella della struttura, o delle istituzioni propriamente dette: esso sottolinea che la comprensibilità stessa del processo di interazione, anche dal punto di vista di chi ne è protagonista, dipende dal grado di 'routinizzazione' di tale processo, nel senso della possibilità - da parte degli attori in gioco - di contare su un minimo di familiarità e di memoria rappresentativa di certi elementi (simboli) che compaiono nel processo (Giddens 1984).

Tale impossibilità di concepire il versante micro come versante dell'azione indeterminata, per così dire 'libera', ha indotto a considerare la distinzione di F. Tönnies fra 'comunità' (Gemeinschaft) e 'società' (Gesellschaft) alla stregua di un contributo antesignano della microsociologia. Qui comunità e società rappresenterebbero 'forme pure' dell'interazione, fenomenologicamente fondate, alla stregua delle kantiane categorie trascendentali della conoscenza e, come tali, costituirebbero una condizione positiva del processo di istituzionalizzazione. Tönnies stesso, d'altra parte, aveva ricondotto la sua dicotomia tipologica dell'universo delle relazioni sociali a due strutture elementari della volontà individuale, omologhe a tali relazioni: la 'volontà essenziale' (Wesenwille), corrispondente alla Gesellschaft, e la 'volontà arbitraria' (Kürwille), corrispondente alla Gemeinschaft (Cahnman 1973). Non diversamente, si evidenzia l'illegittimità di ogni ipostatizzazione del concetto di struttura, in quanto va ribadito che tale dimensione altro non è se non una stenografia di comportamenti sociali; per cui, quando si dice che le strutture e/o le istituzioni vivono di vita propria, tale affermazione, se non è solo un 'modo di dire', rappresenta al più il contenuto di una rappresentazione, di una credenza degli attori sociali e mai un enunciato realistico che li trascenda. Se tali attori credono che le istituzioni vivano di vita propria, si comporteranno di conseguenza: per confermare o smentire ciò che essi credono che siano. E proprio quel loro comportamento costituirà ciò che le istituzioni, in ultima analisi, sono.

Gli esiti della nostra analisi depongono a favore dell'ammissibilità di una distinzione tra s. micro e s. macro se non altro in ragione di un argomento pragmatico. Micro e macro designano, infatti, dimensioni analitiche che non è del tutto agevole organizzare congiuntamente in uno sforzo di ricerca unitario. Anche il lessico teorico-concettuale che fa capo a ognuna di queste dimensioni pone questioni di sistematicità che suggeriscono di tener separate le due linee di indagine. Emerge altresì l'opportunità di soluzioni analitiche che sdrammatizzino e attenuino la distinzione tra micro e macro come distinzione 'pura', favorendo soluzioni collocate a metà strada, ovvero accezioni le quali, senza pretendere di ottemperare a entrambi i termini della distinzione, non li considerino però come estremi.

Su queste basi, resta ingiustificato ogni intento volto a trasformare la distinzione tra micro e macro in un'antitesi concettuale, e non sembra persuasivo, né particolarmente utile, il tentativo, opposto, di fondere i due termini cercando di ri-fondarne uno tramite l'altro (Boudon 1979; Collins 1981). Resta infine da scongiurare l'eventualità che, parlando di micro e macro, si confonda tale concettualizzazione con quella che adotta la terminologia 'piccolo-grande' in riferimento alla portata delle teorie sociologiche. È la questione dell'ammissibilità o meno di teorie cosiddette onnicomprensive, le quali mirano a spiegare ogni 'uniformità empiricamente osservabile' e che, pertanto, si opporrebbero alle semplici ipotesi ad hoc emergenti nel corso della pratica quotidiana di ricerca (Merton 1949-68). L'alternativa tra micro e macro nulla ha a che vedere con tutto ciò: tale alternativa resta legata a questioni di scelta del livello di indagine e della possibilità di riferire il lavoro concettuale a oggetti aggregati, come i gruppi, le istituzioni, le categorie collettive, anziché ad attori sociali, considerati nella loro singolarità, peraltro anch'essa ipotetica.

bibliografia

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Orientamenti attuali della sociologia

di Sandro Bernardini

Dalle App. III e IV si è data crescente attenzione alle discipline sociologiche che man mano venivano accreditandosi, nonché ai lemmi più qualificanti del lessico sociologico: si vedano per es., famiglia (App. IV, i, p. 757; V, ii, p. 183; e anche in questa Appendice), sociologia del diritto (App. V, v, p. 27), sociologia della comunicazione (App. V, v, p. 28), sociologia della devianza (App. V, v, p. 32), sociologia dell'educazione (App. V, v, p. 35), sociologia della scienza (App. V, v, p. 36), sociologia della letteratura (App. IV, iii, p. 360), sociologia delle professioni (App. V, v, p. 38). Nell'App. V sono stati sviluppati anche temi epistemologici e metodologici - come nel caso dei sottolemmi Logica ed epistemologia della sociologia, Metodi e tecniche della ricerca sociale e Il metodo biografico della voce sociologia (App. V, v, p. 15) - nonché temi relativi a un'ampia ricognizione storica della disciplina, sul piano internazionale e per quanto concerne specificamente la storia della s. italiana.

Alla luce di quanto trattato nell'Enciclopedia fino all'App. V, non sembrano necessari aggiornamenti; tuttavia alcuni orientamenti della ricerca teorica costituiscono una novità nel campo della s., o rappresentano una riproposizione di concetti storicamente determinati. Se ne propone, di seguito, una trattazione.

Autoreferenziale

La teoria dei sistemi autoreferenziali si fonda sull'assunto generale che i sistemi complessi non siano isolabili rispetto ai propri componenti, che - di fatto - esauriscono il sistema nel suo insieme. In via generale, quindi, l'autoreferenza implica che la spiegazione di fenomeni complessi non possa prescindere dalla definizione delle relazioni (che, appunto per questo, si definiscono circolari) che interconnettono, secondo modalità autoriflessive, i singoli elementi sia tra di loro sia in quanto costituenti il sistema. Definiamo, quindi, autoreferenziale la circolarità tra sistemi ed elementi componenti, e autoreferenza la descrizione delle modalità attraverso le quali un sistema riproduce continuamente la propria organizzazione relazionale. Si deve a T. Parsons il primo consapevole impiego del termine autoreferenziale nel lessico sociologico. Con la teoria dei media (simbolici) generalizzati Parsons chiarisce le condizioni della comunicazione-negoziazione tra attori, sia in riferimento alla definizione individuale dello scambio sia in riferimento alle condizioni di compatibilità tra sottosistemi componenti e modalità di negoziazione degli attori. Al di fuori del lessico sociologico, da un punto di vista più generale, il termine autoreferenziale denota, per es., un qualunque sistema che destini la maggior parte delle proprie risorse finanziarie al mantenimento del proprio apparato burocratico.

bibliografia

J. Widmer, Langage et action sociale, Fribourg 1986.

Comportamento collettivo

di Alain Touraine

Considerazioni preliminari

Il concetto di comportamento collettivo non definisce un insieme di fenomeni sociali oggettivamente riscontrabili, ma serve da rivelatore per ciascuno dei grandi orientamenti generali che si contrappongono all'interno della s. e degli studi storici. Pertanto, possono esistere dei comportamenti collettivi solo quando una società non è interamente aperta, oppure, come affermano la maggior parte degli autori, è dominata da un potere, e dunque è in essa operante una logica di dominio che eleva barriere, esclude alcuni mentre controlla altri, e così via.

Vi sono tre tipi principali di analisi dei comportamenti collettivi, definibili come analisi delle rivendicazioni, analisi delle paralisi istituzionali e analisi dei conflitti sociali. I tre approcci sono più complementari che contraddittori, e non si collocano allo stesso livello rispetto alla realtà sociale. Il concetto di movimenti sociali si colloca al livello più elevato, ma anche più difficile da raggiungere, quello che A. Touraine (1973) ha chiamato historicité, cioè la realizzazione sociale dei grandi modelli culturali attraverso i quali una società costruisce le sue relazioni con l'ambiente. Al contrario, i conflitti d'interesse si collocano a livello dell'organizzazione sociale e anche di ciò che i sociologi chiamano le organizzazioni. I movimenti di riforma si collocano tra i due, a livello delle istituzioni e dei meccanismi politici, che costituiscono un insieme di mediazioni capace di condurre dai rapporti di dominio sociale a forme di organizzazione professionale e tecnica. Pertanto, invece di affermare perentoriamente che i comportamenti collettivi devono essere analizzati nell'una e nell'altra prospettiva, è opportuno distinguere anzitutto i tre grandi tipi di comportamenti collettivi e affermare, quindi, che i comportamenti di livello più elevato, i movimenti sociali, si formano soltanto attraverso il superamento dei comportamenti collettivi degli altri due tipi, che si collocano a livello dell'organizzazione sociale o a livello politico. L'oggetto principale delle ricerche storiche o sociologiche deve dunque consistere nell'identificare i comportamenti sociali e nel definire il livello di realtà sociale in cui essi si collocano. Occorre anche riconoscere che il vantaggio di un'analisi in termini di movimenti sociali consiste nel fatto che essa permette di rilevare questa diversità, mentre troppo spesso le analisi di tipo utilitaristico (come pure quelle condotte soltanto in termini di meccanismi di integrazione sociale) tendono a rifiutare l'esistenza di altri tipi di comportamenti collettivi e quindi a rifiutare anche altri metodi di analisi. Tuttavia vedere nei comportamenti utilitaristici, per es., soltanto delle forme degradate di movimenti sociali significherebbe andare troppo lontano in direzione contraria. Esiste in realtà un'ampia autonomia dei comportamenti collettivi a ciascuno dei tre livelli che sono stati ora distinti.

Tutti i comportamenti collettivi ora definiti combinano tra loro partecipazione e rifiuto, elementi facilitanti ed elementi ostacolanti l'azione. Tuttavia, alcuni sono più vicini al polo riformatore, altri a quello rivoluzionario, e questa opposizione si può osservare a ciascuno dei tre livelli succitati. A livello dell'organizzazione sociale e, in particolare, dell'organizzazione del lavoro, le rivendicazioni 'positive' mirano a ottenere gratificazioni più adeguate alla natura del contributo personale o collettivo, a ottenere, cioè, un miglior rapporto tra lavoro e salario. Ma l'azione operaia, in particolare al suo sorgere, ha fatto largamente ricorso a forme di violenza, cioè di rifiuto delle norme dominanti. Il sabotaggio o il boicottaggio sono le forme estreme di questa violenza; il rallentamento della produzione è stato invece una pratica molto più frequente. A livello della pressione politica, dell'azione destinata a cambiare le regole del gioco, la spinta 'positiva' è stata sempre accompagnata da una pressione violenta di cui lo sciopero, da parte operaia, e la serrata, da parte padronale, sono espressioni ben note. Infine, e questo rappresenta l'opposizione storicamente più visibile e più importante, la formazione di movimenti sociali 'positivi', miranti, per es., a sostituire una gestione padronale delle imprese con una gestione operaia o con un'autogestione, è stata sempre accompagnata da azioni di rottura di tipo rivoluzionario, tese, in misura più o meno completa, a respingere la posta stessa del conflitto, cioè (nel caso in esame) la produzione industriale, insieme al dominio del padronato sulla produzione e ai metodi di lavoro industriali.

Le modalità dei comportamenti collettivi: movimenti e antimovimenti sociali

Si definisce movimento sociale quello che combina un rapporto sociale conflittuale con un obiettivo culturale riconosciuto e apprezzato da tutti gli avversari. Ma può succedere che questa associazione di orientamenti comuni e di conflitto sociale si rompa. Talvolta, il conflitto può non riferirsi più a orientamenti comuni e diventa una semplice concorrenza o addirittura una guerra, vale a dire un gioco a somma zero. In altri casi, un attore sociale si identifica interamente con l'obiettivo culturale e considera il suo avversario più come un nemico e uno straniero che come qualcuno con cui si è in conflitto all'interno di orientamenti culturali comuni. Un'azione collettiva, trasformata così in richiamo alla violenza, rifiuta il negoziato con un avversario che è inteso come una minaccia sia per i valori culturali sia per gli interessi sociali; i portatori di tale azione si identificano così completamente con questi valori culturali da poter concepire solo una società omogenea, di cui essi stessi rappresenterebbero la componente 'pura'. Si chiama antimovimento sociale non un movimento che si oppone a un altro movimento, ma la distruzione della nozione stessa di movimento sociale in nome dell'identificazione dell'attore con l'obiettivo culturale e del rifiuto dell'avversario come un nemico pericoloso contro cui tutta la comunità deve mobilitarsi.

Le forme dell'azione collettiva: i comportamenti di crisi

Questi comportamenti sono i più deboli di tutti, poiché manifestano la decomposizione e non la mobilitazione di un corpo sociale. La loro forma estrema è il panico, che si ha quando un pericolo a un tempo generale e non bene identificato, e quindi difficile da combattere e da prevedere, minaccia un corpo sociale. Il panico è la risposta a una catastrofe, si tratti dell'eruzione di un vulcano, della rottura di una diga, di un bombardamento, di un incidente nucleare o, anche, di una crisi di borsa. Il comportamento di crisi decompone il gruppo e lo sostituisce con la folla. Quest'ultima, non essendo portatrice d'azione autonoma, si dissolve nel ripiegamento individuale o nella lotta di tutti contro tutti, o è ristrutturata dall'azione di un leader che agisce non sulla collettività, ma su ciascuno degli individui, desocializzati e disorientati, stabilendo con essi un rapporto di dominio.

I gruppi di interesse. I gruppi di interesse, ai quali la scienza politica americana ha attribuito tanta rilevanza, sono l'esatto opposto della folla. È appunto da questi gruppi che ci si attendono comportamenti utilitaristici più o meno organizzati, ai quali la prima delle tre prospettive analitiche definite all'inizio ha assegnato un ruolo centrale. A molti è sembrato che l'elemento specifico di una società moderna razionalizzata consista nell'importanza sempre crescente di questi gruppi specializzati, capaci di agire in modo calcolato e poco emotivo, con un comportamento, quindi, esattamente contrario a quello della folla. Questa immagine è del tutto artificiale, e l'osservazione mostra piuttosto la trasformazione di questi presunti gruppi di interesse da un lato in clientele relativamente passive di agenti di influenza, in particolare di politicanti o lobbisti all'americana, e dall'altro in movimenti di base tanto più capaci di ricorrere alla violenza o a ogni altra forma di azione dimostrativa quanto più grande è la separazione tra gli agenti di influenza e coloro che essi sarebbero tenuti a rappresentare. Aggiungiamo, inoltre, che un'azione puramente strumentale, largamente delegata ad agenti di influenza, si riscontra tanto più facilmente quanto più i gruppi d'interesse sono dominanti o privilegiati, hanno cioè un accesso più diretto al potere politico e ai mezzi di manipolazione dell'opinione pubblica. D'altra parte categorie socialmente deboli o in declino, per es. in regioni sottosviluppate, o categorie contadine in decadenza, artigiani, commercianti e piccoli imprenditori minacciati dalla concentrazione commerciale e industriale possono difendere i loro interessi solo mescolando subordinazione al padronato politico e violenza. Questa strana mescolanza di integrazione estrema nel sistema politico e di comportamenti di rottura reale e simbolica con questo stesso sistema si manifesta di frequente nell'Europa occidentale. Il poujadismo francese, nato nel dopoguerra all'epoca del grande sviluppo industriale del paese, è uno degli esempi più citati. È dunque artificioso credere all'autonomia dei gruppi di interesse; ciò che viene definito con questo nome non è altro che un equilibrio instabile tra una mobilitazione contestataria e un apparato di manipolazione e di integrazione politica.

Vita privata e azione pubblica

Contro l'idea stessa di gruppi d'interesse e di interest groups politics, va sottolineato che la pressione collettiva e l'azione strumentale non sono separabili dalla dimensione dimostrativa dell'azione, ossia dal rapporto con la cultura e con l'organizzazione sociale del gruppo interessato. Da ciò l'importanza del riferimento alle culture professionali più forti da parte di gruppi relativamente isolati, come i minatori o i portuali, e l'importanza dell'azione collettiva di gruppi culturalmente e socialmente minoritari, come anche dei giovani e delle donne. In generale, è impossibile separare la ricerca strumentale dell'interesse dalla dimostrazione di un'unità collettiva. Il leader di un'azione collettiva dev'essere uno stratega o un negoziatore e, insieme, un uomo capace di mobilitare e soprattutto di esprimere una coscienza, un'inquietudine, una speranza o una paura collettive. Ogni comportamento collettivo può essere collocato in rapporto a due forme estreme egualmente rare nella realtà: l'azione puramente strumentale e l'azione puramente dimostrativa; l'una e l'altra conducono alla distruzione dei comportamenti collettivi.

Il gruppo diviso

La combinazione di azioni strumentali e di azioni dimostrative è soltanto uno degli aspetti della complessità di tutte le forme di mobilitazione collettiva. Questa complessità spiega, a sua volta, il fatto che assai raramente un'azione organizzata corrisponde direttamente a un gruppo sociale (come se un partito, un sindacato, un movimento religioso o associativo potesse identificarsi con l'insieme della popolazione in nome della quale esso agisce e parla). Al contrario, proprio la distanza tra il gruppo rappresentato, l'azione organizzata e, all'interno di questa, i dirigenti costituiscono l'aspetto più appariscente dei comportamenti collettivi organizzati. Al punto che, spesso, le divisioni e le lotte interne costituiscono un fattore di mobilitazione maggiore dell'azione contro l'avversario.

Si possono distinguere tre forme principali di crisi interna dell'azione organizzata. Lo scisma mette in discussione la direzione del movimento e, quindi, la sua strategia e le relazioni con gli avversari o con gli eventuali alleati. Facendo ancora ricorso al linguaggio religioso, si può chiamare eresia una rottura interna che verte sulle finalità dell'azione e addirittura sulla sua natura. Una causa frequente di divisione è rappresentata dall'opposizione tra i difensori di un movimento autonomo e coloro che invece cercano di inserirsi nel gioco politico. La terza forma di divisione può essere definita fondamentalismo: nasce come risposta alle tensioni che minacciano il movimento e fa appello alla comunità o alle credenze originarie capaci di cementare l'azione collettiva. Questo atteggiamento assume un'importanza eccezionale alla fine del 20° secolo. Lo si trova sotto forma di movimenti islamici, ma anche nelle comunità di base più o meno religiose di molti paesi dell'America Latina e, in particolare, del Brasile.

È possibile parlare in generale di un'evoluzione dei comportamenti collettivi? È difficile, in effetti, rinunciare a ogni concezione evoluzionistica, anche se occorre scartare le versioni più semplicistiche. L'idea a lungo dominante, espressa da quasi tutti i sociologi classici, è che con la modernizzazione si è passati da un'azione dimostrativa a un'azione strumentale e, come diceva T. Parsons, da un'azione centrata sulla comunità a un'azione centrata sull'interesse personale, come se la società si avvicinasse a un modello di funzionamento di tipo economico, capace di combinare l'organizzazione dell'impresa e le leggi di mercato. Ma l'interesse costante rivolto allo studio dei comportamenti collettivi in tutte le scienze umane, dalla psicologia sociale alla s. e alla storia, costituisce una critica di questa concezione razionalistica della modernità.

A questo punto si pongono due idee. La prima è che i comportamenti collettivi sono sempre meno diretti verso i centri politici o culturali del potere e sempre più rivolti alla difesa di un'azione autonoma degli attori, sia in rapporto agli altri, sia in rapporto ai poteri centrali, sia, infine, in rapporto a possibili pericoli venuti dall'esterno. Anche se il tema dell'autogestione resta sempre più utopistico che realistico, le azioni collettive fanno appello alla partecipazione responsabile, individualizzata, dei loro membri. In secondo luogo, e questo è ancora più importante, i comportamenti collettivi mobilitano in modo sempre più complesso e completo i loro attori. Al punto che si potrebbe, senza fare del paradosso, rovesciare l'immagine classica e dire che si passa da azioni sempre più strumentali ad azioni sempre più dimostrative, come se la capacità di cambiamento, di innovazione e di critica estendesse costantemente il suo campo d'azione. Agli inizi, a partire dal momento in cui i comportamenti non sono più 'di conformità' ma 'di cambiamento', essi si collocano a un livello completamente istituzionale. In seguito, nella società industriale, i comportamenti collettivi coinvolgono più concretamente i lavoratori che i cittadini; mobilitano, quindi, i gruppi di lavoro e la loro organizzazione informale, la loro esperienza vissuta di un'attività professionale e di rapporti sociali di potere. Si può dire che oggi i comportamenti collettivi sono capaci di mobilitare in modo ancora più ampio; fanno appello a quella che si può chiamare la vita privata, cioè l'insieme della personalità e della cultura, e non solo alle forme più istituzionalizzate della vita politica: anche per questo i comportamenti collettivi mostrano un indebolimento della loro leadership. I profeti e i capi militari hanno lasciato il posto ai rappresentanti eletti e questi ai mandatari, ai responsabili di associazioni la cui funzione può essere soppressa in ogni momento dal gruppo dei mandanti. In tal modo, la partecipazione ai comportamenti collettivi diventa sempre più totale, mentre crea allo stesso tempo una crescente fragilità di tutte le forme organizzative.

Tutto questo conduce a una conclusione più generale: il concetto di comportamento collettivo è essenziale per passare da una scienza sociale centrata sul sistema sociale, sulle sue regole, sulle sue istituzioni, sulle sue forme di integrazione, di partecipazione o di devianza, a una concezione della vita sociale centrata sull'azione. Gli attori e le loro relazioni, conflittuali o non, divengono gli elementi più importanti dell'analisi, mentre le forme di organizzazione sociale e anche le regole istituzionali sembrano ormai dei compromessi temporanei o instabili, fissati tra attori in continuo movimento, le cui relazioni d'autorità, di influenza e di potere sono variabili. La concezione tradizionale aveva fatto dei comportamenti collettivi la zona d'ombra della società, come se il loro destino normale fosse l'autodissoluzione in un funzionamento individualizzato delle regole dell'organizzazione sociale e come se ogni lavoratore o cittadino utilizzasse delle regole impersonali che non richiedono un'organizzazione collettiva. Al contrario, più la nostra società si definisce per la sua capacità di agire su se stessa e di autotrasformarsi, più i comportamenti collettivi occupano il posto centrale attribuito in altri tempi alle istituzioni, dal momento che queste sono state ricondotte alla posizione relativamente marginale assegnata precedentemente agli attori come elemento di devianza e di protesta: di modo che la s., definita al momento della sua nascita come lo studio della società, deve essere definita oggi come lo studio dei comportamenti collettivi, vale a dire degli attori sociali e delle relazioni sociali.

bibliografia

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Comunità

di Alessandro Ferrara

Il termine comunità è tornato al centro del dibattito nella teoria sociale e politica contemporanea, specie di filiazione americana, assumendo connotazioni notevolmente diverse dal concetto classico presente nella tradizione sociologica dalla fine del 19° secolo.

Il concetto 'classico' di comunità nella tradizione sociologica

È a F.Tönnies che si deve la formulazione classica del concetto di comunità. La sua è una caratterizzazione per contrasto, in cui la 'comunità', o Gemeinschaft, si oppone alla 'società', o Gesellschaft. Mentre la comunità deve essere considerata un 'organismo vivente', la società deve essere intesa, sostiene Tönnies, come un "aggregato e prodotto meccanico" (Tönnies 1887; trad. it. 1963, p. 47). La comunità - in qualunque veste si presenti: come famiglia, vicinato, amicizia, parentela, o come comunità locale - possiede sempre il carattere dell'immediatezza e dell'affettività e ha il sapore 'totalistico' di quello che un ventennio più tardi C.H. Cooley chiamerà "gruppo primario"; possiede, cioè, la qualità concreta dell'interazione faccia a faccia. La società, per contro, è il regno della mediazione, non vi si entra in contatto se non tramite lo scambio di denaro, di potere o di riconoscimenti di status, non ci coinvolge se non in parte e da punti di vista specifici. Alla società si è leali con la ragione. Ancora più importante, per comprendere lo spostamento di significato che il termine comunità sta oggi subendo, è un altro asse oppositivo. La società è il luogo del pluralismo; la comunità, in ogni sua forma, è invece il luogo di un "sentire comune e reciproco" (Tönnies 1887; trad. it. 1963, p. 62). Nasce qui uno degli equivoci che circondano il concetto contemporaneo di comunità: l'idea, cioè, che la comunità e i rapporti comunitari presuppongano omogeneità culturale, ovvero che l'espressione comunità pluralista sia contraddittoria.

Questo modo di pensare la comunità rimane immutato nelle sue linee essenziali lungo tutta la stagione della teoria sociologica classica. M. Weber incorpora questa definizione nella sua ricostruzione di vari tipi di comunità, soprattutto delle comunità religiose, e dell'ethos della fratellanza sotteso alle comunità cristiane premoderne. La comunità rimane, per Weber, il luogo dell'agire meno razionale, un ambito in cui "la disposizione dell'agire sociale poggia [...] su una comune appartenenza, soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale), degli individui che a essa partecipano" (Weber 1922; trad. it. 1961, 1° vol., p. 23). Da questo punto di vista, i processi di differenziazione e razionalizzazione che inaugurano e accompagnano l'evolversi della società moderna non possono che essere concepiti come radicalmente in tensione rispetto all'ethos comunitario. Le Considerazioni intermedie (Weber 1994) sono una puntuale ricostruzione delle tensioni che la modernizzazione della società non può non infliggere alle comunità religiose tradizionali. Anche in T. Parsons - perlomeno nel Parsons di The social system - il concetto tönnesiano di comunità sopravvive opponendosi, per il tramite dell'opposizione concettuale con il termine società, ai processi di modernizzazione. Di nuovo, Parsons aggiunge la scomposizione del concetto di comunità nei suoi costituenti, che troviamo elencati sotto forma di alcuni pattern variables (Parsons 1951). La comunità, nella sua versione classica, può essere riottenuta congiungendo uno stile di interazione ispirato all'affettività (più che alla neutralità affettiva) a un orientamento verso la collettività (più che verso l'Io), a una propensione particolaristica (piuttosto che universalistica), a una propensione a privilegiare il momento ascrittivo (piuttosto che quello dell'acquisizione) nell'attribuzione di status, e a una tonalità diffusa (piuttosto che specifica) come caratteristica delle aspettative di ruolo. Più complessa è la posizione di É. Durkheim, il quale da un lato incorpora alcuni aspetti del concetto di comunità - il prevalere della dimensione collettiva su quella individuale e l'assenza di pluralismo - nella sua nozione di solidarietà meccanica (Durkheim 1893); d'altro lato, però, l'intero itinerario durkheimiano successivo a De la division du travail social può essere inteso come una cauta rivalutazione dell'insopprimibilità di momenti comunitari - sotto forma di riti religiosi, di un senso del sacro che può anche, laicamente, indirizzarsi verso quella che R. Bellah chiama religione civile o sotto forma di educazione morale ai valori comuni - anche nel seno della società industriale moderna. Questo concetto classico di comunità è andato gradualmente dissolvendosi nelle diverse problematiche dell'identità, della reciprocità e della fiducia. È però sopravvissuto in una forma specifica. Il vero erede diretto del concetto classico di comunità elaborato dalla tradizione sociologica è infatti il concetto di comunità locale, quale lo troviamo, per es., nello studio di R.S. e H. Lynd su Middletown (anni Venti-Trenta) e, da noi, nello studio di A. Pizzorno dal titolo Comunità e razionalizzazione (Pizzorno 1960).

La nuova concezione della comunità come spazio del bene comune

Ciò che oggi intende per comunità una serie di autori spesso raggruppati sotto il nome di 'comunitaristi' - A.C. MacIntyre, Ch. Taylor, R.N. Bellah, Ph. Selznick, A. Etzioni - è qualcosa di assai diverso. Di quanto nel concetto classico è posto come centrale - la qualità face to face dei rapporti intracomunitari, la condivisione di modelli di socializzazione, la potenziale globalità dei rapporti sociali, il senso di appartenenza - solo quest'ultimo elemento sopravvive, depurato da ogni forma di 'tradizionalismo'. Non si trova nessun accenno nell'intera opera di MacIntyre, Bellah, Taylor e degli altri, dal quale si possa evincere che la reintroduzione di elementi di comunità nel tessuto delle società complesse, da essi così caldamente auspicato, consista nell'incrementare il numero di relazioni face to face, il grado di omogeneità culturale o le potenzialità insite nei rapporti sociali di coinvolgere globalmente la persona.

Già nel 1927 J. Dewey, filosofo liberale pragmatista certamente non sospettabile di simpatie integraliste, scriveva che "la Grande Società" - termine con cui egli designava la società industriale della fine del 19° secolo e del primo quarto del 20° - "ha parzialmente disintegrato le piccole comunità senza generare una Grande Comunità" (Dewey 1927; trad. it. 1971, p. 127). In questa frase, nella quale Dewey non intende lamentare né una mancanza di omogeneità culturale, né la 'superficialità' dei rapporti nella Gesellschaft, né il carattere anonimo di gran parte della comunicazione nella società complessa, troviamo accostati due concetti. Le "piccole comunità" sono le comunità locali tönnesiane, ma la "Grande Comunità" non è una macrocomunità locale accidentalmente più estesa. È qualcosa di qualitativamente diverso, perfettamente compatibile con la modernità: si tratta del senso di un destino comune, di una posta in gioco comune; in ultima analisi, di un bene comune che può essere insieme perseguito e conseguito.

Allo stesso modo, nessuno fra gli autori che oggi utilizzano il termine comunità come architrave di una critica della cultura individualistica delle società industriali avanzate - neppure A.C. MacIntyre o M. Sandel - mette in discussione il decentramento della ragione e il sorgere di sfere di valore e di universi di discorso differenziati. Nessuno di loro intende ritornare a un solo orizzonte indifferenziato di significati condivisi. Al contrario, persino accesi difensori dell'attualità del concetto di comunità come Selznick sostengono che "le istanze della comunità non si oppongono necessariamente al giudizio razionale e all'autonomia personale" ma, al contrario, "il disconoscimento radicale di questi valori segnala la distruzione o distorsione della comunità". Lungi dal vagheggiare un ritorno alla comunità omogenea della solidarietà meccanica, autori come Selznick, Bellah, Taylor, Sandel, MacIntyre e altri intendono riprodurre "un'unità che preservi l'integrità di persone, gruppi e istituzioni [...] una unità di unità", che mantenga fra loro in tensione "i valori spesso in conflitto di autonomia e integrazione" (Selznick 1989; trad. it. 1992, p. 233).

Se da un lato ciò che definiva la comunità nell'accezione tönnesiana è divenuto marginale nell'uso contemporaneo del termine, dall'altro l'elemento definitorio centrale del concetto contemporaneo di comunità quale è utilizzato nella teoria sociale e politica contemporanea era invece assai poco enfatizzato nella versione classica del concetto. Su che cosa fa perno la nozione contemporanea di comunità? In termini generali, tutti gli autori a cui si è fatto riferimento sono d'accordo sul fatto che reintrodurre aspetti della comunità all'interno delle nostre società significa in qualche modo ravvivare la sfera pubblica e rafforzare la funzione di mediazione esercitata da associazioni volontarie collocate a un punto intermedio fra i due estremi dell'individuo e dello Stato-nazione. Ma anche questo è ancora troppo vago. Il punto centrale, nella concezione difesa da P.L. Berger, R.N. Bellah, Ch. Taylor e altri, è che la comunità ruota intorno a un genuino interesse per il bene comune. C'è comunità là dove esiste e si coltiva il senso di un destino comune, di un bene che non è riducibile alla ottimalità paretiana.

Vale la pena di notare tre aspetti di questa nuova concezione della comunità. In primo luogo - nonostante le polemiche intercorse tra comunitaristi e liberali intorno alla natura del sé, al rapporto tra il giusto e il bene e alla 'cultura dei diritti' - tale concezione non è incompatibile con il liberalismo in quanto tale. È possibile immaginare tipi di liberalismo che non si oppongono a queste considerazioni. In condizioni moderne la comunità può soltanto essere una 'comunità voluta', non una comunità ascrittiva. In gioco è la misura in cui è possibile una 'comunità liberale', una comunità differenziata, pluralistica, tollerante, o 'riflessiva'. R. Dworkin (1996) e J. Habermas (1992) sono i due autori che si sono spinti più in là nella riformulazione di una concezione rispettivamente liberale e repubblicano-procedurale che possa incorporare un forte interesse per il recupero della dimensione della comunità, se con questa espressione intendiamo designare un interesse per il bene comune.

In secondo luogo, questa concezione, lungi dall'inseguire la chimera del rivitalizzare la Gemeinschaft, si presenta come un tentativo di rafforzare certe istituzioni intermedie attraverso mezzi giuridici, pedagogici, organizzativi. Bellah e gli altri autori di The good society si spingono a sostenere che proprio per evitare connotazioni tönnesiane, il termine comunità potrebbe essere sostituito dal termine istituzioni (Bellah et al. 1985), inteso più o meno nel senso conferitogli da Parsons (1934). La proposta di Bellah, che potrebbe essere sottoscritta anche da Berger e da Taylor, dà per scontato, con una sicurezza su cui varrebbe la pena di tornare, il fatto che siano le istituzioni, piuttosto che i movimenti sociali o le correnti culturali, a costituire il luogo privilegiato per considerazioni intorno al bene comune.

In terzo luogo, questa concezione sostiene l'opportunità di un rafforzamento non tanto di quelle associazioni volontarie che sono già immerse nella logica dell'agire strumentale, ma piuttosto di quelle istituzioni (come la famiglia, le chiese, le scuole) all'interno delle quali gli individui apprendono a perseguire certi beni, interni alle pratiche sociali, i quali non necessariamente coincidono con l'interesse personale o con l'autorealizzazione. Questo ambizioso programma è coronato infine dal suggerimento di ricreare, all'interno della società più ampia, un luogo simbolico privilegiato in cui ci si possa intrattenere intorno al bene comune della comunità sociale nella sua interezza, un luogo che è stato concepito da vari autori come una società politica (Tocqueville), una sfera pubblica (Habermas), una società civile (Cohen/Arato), la Grande Comunità (Dewey), la comunità sociale (Parsons) e in molti altri modi.

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A. Ferrara, Justice and judgment. The rise and the prospect of the judgment model within contemporary political philosophy, London 1999.

Descolarizzazione

di Sandro Bernardini

Si deve a I. Illich (1971) la consapevole introduzione del termine descolarizzazione, con cui si intende, in senso stretto, l'abolizione della scuola come istituzione finalizzata all'organizzazione del consenso e alla riproduzione passiva dei ruoli sociali, a favore di un decentramento educativo aperto e diffuso trasversalmente in tutta la società. Entrato nel lessico e nella riflessione sociologici soprattutto negli anni Ottanta, il concetto di descolarizzazione ha acquisito un significato più ampio nella direzione di una deburocratizzazione complessiva delle società avanzate. In questo senso, il termine significa che l'istituzione scolastica deve fare i conti con l'offerta di informazione e cultura generata dallo straordinario sviluppo dei nuovi mezzi di comunicazione e informazione. In senso più generale, la descolarizzazione fa anche riferimento alle 'istituzioni totali' di E.G. Goffman, non nel senso, naturalmente, di considerare la scuola come un'istituzione totale, ma in quello di esprimere l'esigenza manifestata oggi dalle società complesse di non racchiudere entro strutture rigide i propri sottosistemi sociali.

bibliografia

I. Illich, Deschooling society, New York 1971.

Neofunzionalismo

di Jeffrey C. Alexander, Paul B. Colomy

A partire dagli anni Ottanta il funzionalismo vive una nuova fase, attualmente in evoluzione, contrassegnata da una diffusa propensione per una teorizzazione di tipo sintetico (Alexander 1988), da un contesto sociopolitico caratterizzato dal pressoché unanime rifiuto dei regimi repressivi, sia di destra sia di sinistra, e da un clima culturale decisamente meno relativistico e meno favorevole alle ideologie anticapitaliste e antimoderniste di tipo sia marxista sia poststrutturalista. Tale fase è nota come neofunzionalismo e si distingue: 1) dal funzionalismo assoluto, il cui esponente più autorevole - l'antropologo inglese di origine polacca B. Malinowski - è solitamente considerato il padre della tradizione funzionalista; 2) dal funzionalismo relativo, che esprime la critica svolta contro queste tesi dal sociologo americano R.K. Merton, e generalmente ritenuta oggi la più pertinente e decisiva nell'ambito dei nuovi indirizzi empirici del funzionalismo; 3) dal funzionalismo sistemico o strutturalfunzionalismo, che si distingue dai precedenti perché non si rifà all'analisi degli elementi culturali o sociali, ma adotta come punto di partenza la società considerata in modo astratto come un insieme interrelato di parti che si muovono in vista di obiettivi di integrazione. Secondo il neofunzionalismo, di cui si parla a proposito di certi aggiornamenti proposti specialmente da N. Luhmann in chiave di teoria generale dei sistemi, lo studio della società è lo studio di sistemi complessi, altamente differenziati e 'multimediali', sottoposti di continuo alla sfida di 'eccedenza delle possibilità', ossia all'aumento considerevole delle alternative di scelta, che essi devono riuscire a ridurre selettivamente. Attori e protagonisti sociali non sono gli uomini o i gruppi con i loro valori e bisogni, ma i ruoli, le strutture, l'ambiente entro i quali gli individui operano come elementi intercambiabili e perfettamente fungibili. Il neofunzionalismo riprende la tesi parsonsiana del ruolo relativamente indipendente dell'elaborazione teorica nelle scienze sociali e giudica, nello stesso tempo, negativamente la proposta di Merton di privilegiare le teorie a medio raggio, ritenendo che essa si basi su un fraintendimento dei fondamenti epistemologici della scienza sociale (Alexander, Colomy 1992). Il neofunzionalismo, inoltre, riafferma l'originaria esortazione alla sintesi di T. Parsons, mettendo in evidenza come Parsons stesso il più delle volte non sia riuscito a sostenere una posizione pienamente sintetica. Per quanto riguarda l'azione, per es., i neofunzionalisti criticano l'inclinazione idealista dell'analisi di Parsons, e sostengono che molte carenze del funzionalismo ortodosso - inclusa la tendenza a considerare il cambiamento in termini teleologici e a trascurare il ruolo delle ricompense economiche e della coercizione politica - derivano dal riduzionismo normativo parsonsiano. Criticando il funzionalismo convenzionale per non essere riuscito a introdurre in modo pienamente convincente la contingenza nella sua teoria dell'ordine, i neofunzionalisti hanno mutuato una serie di elementi da varie teorie microsociologiche al fine di incorporare il volontarismo e lo sforzo individuale in una più ampia concezione dell'ordine. Essi, inoltre, hanno messo l'accento non sulla convergenza tra Parsons e i classici, bensì sulle tangibili discrepanze che sussistono tra il funzionalismo ortodosso e le tesi dei padri fondatori della disciplina. Mentre Parsons aveva respinto K. Marx, i neofunzionalisti ritengono che il pensiero di quest'ultimo fornisca i paradigmi di quell'approccio materialistico e strumentale che Parsons, a loro avviso, ha avuto il torto di trascurare. Analogamente, in contrasto con il riduzionismo culturale che caratterizza la concezione dei valori sociali propria del funzionalismo ortodosso, sono state riprese e valorizzate le analisi di É. Durkheim sulla cultura e sulla dimensione simbolica (Alexander 1988). Senza dubbio i neofunzionalisti non hanno abbandonato l'idea che la società possa essere analizzata come un sistema intellegibile (The dynamics of social systems, 1992), ma sono decisamente meno ottimisti di Parsons per quel che riguarda la capacità di una società di risolvere i problemi funzionali, e assai più inclini a riconoscere che le tensioni delle società moderne e postmoderne non possono trovare alcuna soluzione pienamente soddisfacente. Di conseguenza, mentre le opere di Parsons - soprattutto quelle del secondo dopoguerra - sono permeate dalle idee di progresso e di equilibrio, i neofunzionalisti, specie quelli statunitensi, sostengono piuttosto che il progresso è fragile e spesso illusorio (Rethinking progress: movements, forces, and ideas at the end of the twentieth century, 1990).

I principali programmi di ricerca del neofunzionalismo riguardano gli studi sulla cultura e sul mutamento sociale e le ricerche di s. politica. Lo sforzo di ricostruzione e revisione proprio della teoria neofunzionalista impronta in primo luogo i programmi di ricerca sulla cultura. Il modello parsonsiano dei tre sistemi, parzialmente inficiato da una certa ambiguità per quel che riguarda l'autonomia del sistema culturale, aveva ispirato una quantità di studi sugli orientamenti di valore, i quali presupponevano l'esistenza, all'interno del sistema sociale, di un sistema culturale perfettamente istituzionalizzato attraverso i valori che la personalità interiorizza mediante la socializzazione. I valori, quindi, non il sistema culturale vero e proprio, divennero il punto focale di questo programma di ricerca. I neofunzionalisti hanno messo in discussione questo approccio in due modi. In primo luogo, hanno ridefinito concettualmente i rapporti tra cultura e società. Luhmann, per es., mette in discussione il ruolo privilegiato assegnato alla cultura e al consenso normativo nella gerarchia cibernetica di Parsons, e propone una prospettiva secondo cui la cultura non è che uno tra i tanti ambiti dell'azione presenti all'interno della società. Secondo J.C. Alexander l'analisi parsonsiana dell'istituzionalizzazione, la quale costituisce ciò che egli definisce un modello di specificazione culturale, rappresenta semplicemente una delle tre forme che possono assumere i rapporti cultura-società. La 'rifrazione' culturale si determina quando gruppi sociali e funzioni in conflitto tra loro producono subculture antagonistiche che continuano peraltro a basarsi su un sistema di valori integrato. Una cultura 'verticalmente segmentata' si produce, invece, quando esistono differenze fondamentali sia nel sistema culturale sia in quello sociale, quando i gruppi di interesse condividono pochi valori fondamentali e quando emergono raggruppamenti politico-culturali sostanzialmente opposti. Questa riformulazione delle relazioni intersistemiche tra cultura e società ha consentito una comprensione più specifica e meno circoscritta al livello sociale del sistema culturale stesso. Combinando elementi desunti da modelli semiotici ed ermeneutici con una rivalutazione della s. culturale delineata da Durkheim nelle sue opere più tarde, i neofunzionalisti propongono un programma di ricerca sulla cultura incentrato sulla chiarificazione della complessa struttura dei sistemi simbolici. La nuova apertura dei neofunzionalisti nei confronti di analisi dettagliate di strutture e processi simbolici costituisce in parte una reazione all'ambivalenza del funzionalismo ortodosso in merito all'autonomia della cultura proposta dalle interpretazioni idealistiche e unilaterali della vita sociale.

Per quanto concerne i programmi di ricerca sul mutamento sociale, i neofunzionalisti hanno rielaborato criticamente la teoria ortodossa del cambiamento sociale. In primo luogo, l'attenzione per la tendenza a una crescente differenziazione culturale, sociale e psicologica è stata integrata con l'individuazione di variabili di mutamento strutturale. Inoltre, lo schema convenzionale che presentava la differenziazione come il prodotto di una risoluzione dei problemi di tipo sistemico ha lasciato il posto a un modello più ampio sul piano analitico, in cui assumono rilievo anche le contingenze associate alla mobilitazione e al conflitto tra i gruppi e il modo in cui questi fattori influenzano il processo di differenziazione.

Per quanto concerne la s. politica, i neofunzionalisti hanno assunto una posizione critica nei confronti sia della tendenza di Parsons a non distinguere le analisi formali del sistema politico e gli scambi tra i suoi sottoinsiemi dai processi empirici, sia della concezione parsonsiana della democrazia come risultato di una evoluzione secolare, opponendovi una serie di analisi storiche e comparative di un'ampia gamma di strutture e movimenti politici.

Ma altrettanto critici i neofunzionalisti sono stati verso Parsons per il suo ottimismo nei confronti del funzionamento delle strutture democratiche istituzionalizzate e, più in generale, della stabilità degli ordinamenti sociali moderni. D. Sciulli (1992) oppone a questa posizione la convinzione che la vita moderna sia caratterizzata da un'incessante pressione verso la razionalizzazione strumentale e l'autoritarismo burocratico, soprattutto nelle sfere materiali dell'economia e delle istituzioni politiche. Il concetto di costituzionalismo sociale di Sciulli rappresenta una sintesi tra la nozione di legalità procedurale elaborata da R. Fuller e l'analisi dell'organizzazione fondata sulla collegialità di Parsons, e fornisce un criterio per distinguere un'autentica integrazione sociale da un ordine sociale stabilito attraverso il dominio burocratico. Rispetto al funzionalismo nella sua prima versione, nonché alle critiche che sono state a esso mosse dall'esterno, si può affermare che il neofunzionalismo ha fatto progressi significativi sia al livello di teoria generale, sia al livello di programmi di ricerca. Reagendo alle critiche che minacciavano di demolirlo completamente, esso ha prodotto una vasta gamma di studi e di ricerche che hanno tenuto conto dei rilievi critici, pur conservando la continuità con il nucleo essenziale della tradizione funzionalista. I critici del neofunzionalismo reagiscono sollevando nuove obiezioni: alcuni cercano di ignorare i cambiamenti di vasta portata introdotti dalla prospettiva neofunzionalista (Bourdieu, Wacquant 1992); altri riconoscono le sostanziali trasformazioni che si sono verificate e formulano critiche di diversa natura (Hilbert 1992). Il futuro del funzionalismo è legato all'esito di questo scambio di critiche e di risposte, oltreché, ovviamente, al lavoro teorico sostenuto dalla ricerca empirica dei neofunzionalisti.

bibliografia

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