Società

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Società

Vincenzo Cesareo

(XXXI, p. 1002; App. I, p. 1007; II, ii, p. 853; IV, iii, p. 352; V, v, p. 6)

Il termine società è stato ed è tuttora impiegato da numerose scienze: filosofia, economia, diritto, politologia, antropologia e sociologia, definita anche scienza della società. Soprattutto in quest'ultima disciplina la s. assume una rilevanza particolare sia in senso astratto (s. al singolare), sia in senso concreto (s. al plurale).

Nell'accezione più estesa, s. designa ogni genere di legami esistente tra gli esseri viventi, siano essi vegetali, animali o persone. La s. umana si distingue dalle altre poiché nasce, vive e si sviluppa non tanto in base all'istinto quanto, piuttosto, tramite un insieme di credenze e rappresentazioni culturali. Di qui il nesso inscindibile tra s. umana e cultura, nel senso che non può esistere la prima senza la seconda né, viceversa, la cultura senza la s. (Giddens 1989).

È possibile distinguere tre diverse accezioni di società. La prima, la più ampia e generica, si riferisce a ogni tipo di relazioni umane, dirette o indirette, organizzate o non organizzate, consapevoli o inconsapevoli, caratterizzate da collaborazione o antagonismo. In tal modo si cerca di evidenziare quell'unità, seppure eterogenea, che è costituita dall'intera umanità. La s., così intesa, si configura come universale, è molto estesa e non presenta confini o limiti determinati: essa va quindi concepita solamente al singolare e deve essere distinta sia da formazioni sociali (per es. una nazione), sia da gruppi sociali particolari.

Una seconda accezione di s. è invece specifica e, in quanto tale, opposta alla precedente; essa si riferisce a tutte le forme sociali riconducibili al termine societas. Originariamente, l'uso latino di tale termine "aveva […] un chiaro, benché limitato, significato politico e stava a indicare un'alleanza tra popoli per un fine specifico, come quando gli uomini si organizzano per governare o per commettere un crimine" (Arendt 1958; trad. it. 1964, p. 30). Nel diritto romano lo stesso termine era usato per indicare un "contratto consensuale e bilaterale, col quale due o più persone si obbligano a mettere in comune beni e opere per il raggiungimento di risultati vantaggiosi per tutte" (Arangio-Ruiz 1924; 1980¹⁴, p. 349). Si pensi, per es., alla societas omnium bonorum (una sorta di eredità indivisa) o alla societas unius negotiationis che "nasce […] dal commercio internazionale, e serve a compiere con forze unite una o più operazioni di commercio" (Arangio-Ruiz 1924; 1980¹⁴, p. 350). In questa seconda accezione la s. si specifica come un definito insieme di esseri umani che interagiscono tra loro e condividono alcuni tratti culturali (valori e modelli di comportamento). La s. in quanto societas comprende non solo le s. che nascono da un preciso contratto, ma anche quelle che si costituiscono a seguito dell'intrecciarsi e del consolidarsi nel tempo di legami interpersonali. In tale accezione di s. rientrano pertanto numerose forme sociali quali: la s. per azioni, la s. cooperativa, la s. di mutuo soccorso, la s. culturale, la s. degli artisti, la s. segreta, la s. sportiva, i gruppi amicali. Si tratta di aggregazioni che spesso, anche se non necessariamente, assumono la forma di associazioni, e perseguono precise finalità di tipo strumentale o espressivo: politiche, economiche, culturali, ricreative, umanitarie. Tutti questi esempi di s. non hanno come elemento qualificante un determinato territorio.

Una terza accezione del termine società, riconducibile al concetto latino di civitas, fa leva, invece, proprio sull'elemento territoriale, e contempla una relativa autosufficienza economica e un'autonomia politico-culturale. La s. identificabile come civitas, oltre a possedere gli elementi propri di ogni formazione sociale (esseri umani con rapporti di interazione tra loro e tratti culturali comuni), si qualifica non solo per il richiamo a un determinato territorio, ma anche per le modalità di reclutamento dei suoi membri e per una relativa autonomia. Di conseguenza, la s., in questa accezione, può essere sia il piccolo villaggio, composto da poche persone che vivono nella foresta amazzonica, sia il grande paese con oltre un miliardo di abitanti come la Cina. In ogni caso, la base di ogni s. è sempre costituita da un sistema di interazioni che unisce tra loro gli esseri umani (Giddens 1989). Per G. Simmel, in particolare, la s. è un insieme di individui uniti da rapporti di interazione, e il compito dell'analisi sociologica è quello di descrivere e analizzare le varie forme di interazione così come esse si presentano nei diversi contesti storico-culturali (Simmel 1890).

Gli elementi costitutivi delle società territoriali

Un importante elemento che identifica le s. è la cultura: l'identità di ogni s. deriva, infatti, dalla condivisione, da parte dei suoi membri, di tratti culturali specifici che la contraddistinguono e, nello stesso tempo, la differenziano dalle altre. In ogni caso, l'esigenza di possedere una propria cultura non esclude che una s. possa avere legami culturali con altre s., con le quali può condividere modi di essere, di pensare e di agire.

Ogni s., comunque, possiede una sua specificità culturale, un patrimonio simbolico (si pensi, per es., al linguaggio) condiviso dagli individui che ne fanno parte e da questi appreso e assimilato mediante processi di socializzazione-interiorizzazione. Del resto, è stato sottolineato che "un uomo impara non soltanto, come un topo, dalle proprie esperienze individuali, ma anche dalle esperienze collettive di una società, da tutti gli uomini, vivi o morti, che gli hanno trasmesso, o possono trasmettergli, i frutti della loro esperienza, i modi che hanno trovato per uscire da un labirinto o per affrontare altre situazioni che possano presentarsi" (Childe 1956; trad. it.1962, p. 20). Proprio questa capacità di comunicare i risultati dell'esperienza avrebbe "fornito alla nostra specie il suo unico vantaggio nella competizione biologica per la sopravvivenza" (Childe 1956; trad. it.1962, p. 20), e alcuni antropologi sono arrivati addirittura a considerare la cultura come fattore esplicativo fondamentale del funzionamento dell'intera s. (la cosiddetta prospettiva della culturalità).

I sociobiologi, invece, attribuiscono grande importanza alla componente genetica, e studiano in modo sistematico le "basi biologiche di tutte le forme di comportamento sociale […] in tutte le specie di organismi compreso l'uomo" (Wilson 1975; trad. it. 1979, p. 4). In altri termini ritengono che i geni regolino sia il comportamento individuale sia quello sociale. Va però precisato che nell'ambito di tale approccio vi è chi pone decisamente l'accento sulla componente biologica e chi invece presta attenzione anche alla cultura in quanto fattore che tende a sostituirsi alla natura (Gallino 1978). Alcuni sociobiologi infatti ritengono che biologia e cultura siano tra loro strettamente connesse, poiché riconoscono che il comportamento, pur avendo origini biologiche, è mediato dalla componente culturale. Tuttavia, essi prestano comunque particolare attenzione alle basi biologiche del comportamento sociale sia degli animali sia degli uomini. Tale accostamento è stato oggetto di critiche in quanto l'uomo verrebbe ridotto a una sorta di macchina biochimica, con conseguente sottovalutazione della componente spirituale e di quella culturale/valoriale.

Per sottolineare l'importanza della dimensione culturale si è osservato che le s. umane si basano innanzitutto sulla comunicazione verbale (Washburn 1978), cosa che presuppone l'esistenza di un sistema simbolico quale il linguaggio. Si è considerato inoltre che numerosi comportamenti non sono riconducibili alla base biologica, ma si spiegano in relazione a determinate situazioni storiche che la prospettiva sociobiologica non coglie. In sintesi, si tratterebbe di un approccio astorico nel cui ambito la s. umana è considerata all'interno di una prospettiva evoluzionistica per l'appunto destoricizzata (Izzo 1974-77).

Il territorio costituisce un altro elemento della s. intesa come civitas, e ha una sua importanza perfino nel caso della s. nomadica, dove l'elemento territoriale è costituito dall'intero spazio occupato dai nomadi nei loro spostamenti. Inoltre, fino a quando una s. esiste, essa mette in atto un processo di autoperpetuazione assicurato dalla riproduzione sessuale, in primo luogo, e da altre modalità quali l'adozione, l'immigrazione, la schiavitù. Questa terza accezione di s. implica anche una popolazione in qualche misura autosufficiente. Ciò, comunque, non significa che tutti i beni e i servizi necessari alla vita di una determinata s. debbano essere prodotti e realizzati autarchicamente. Di fatto, un numero crescente di s., anche quelle più avanzate e ricche, dipende sempre più dagli scambi con l'esterno, con la conseguenza che l'autosufficienza si estende anche alla capacità di soddisfare le esigenze interne tramite le importazioni. Infine, le s. territoriali, anche quelle più piccole, tendono a organizzarsi per l'autodifesa e per sopravvivere nel tempo mediante la riproduzione materiale e culturale. In altri termini, ogni s. cerca di assicurarsi una propria autosufficienza economica e un'autonomia politico-culturale.

La terza accezione di s., quindi, è caratterizzata da sette requisiti: gli esseri umani, l'interazione tra questi, i tratti culturali comuni, la territorialità, l'autoperpetuazione, l'autosufficienza economica e l'autonomia politico-culturale. Quando ricorrono tutti questi requisiti, abbiamo la s. insediata in un concreto ambiente fisico delimitato da precisi confini: per es. la civitas romana.

In riferimento al territorio, si può distinguere tra s. italiana e s. francese, tra s. europea e altre s. quali quella nord-americana e quella orientale. In tutti questi esempi, il riferimento è costituito da un insieme di individui di diverso genere e di differente età, insediati in modo stabile su un territorio dai confini definiti, che hanno tra loro dei rapporti strutturati sulla base di diritti, doveri e modelli culturali. Tali rapporti, connessi al grado e al tipo di divisione del lavoro presente nella s., tendono a qualificarsi in termini di reciprocità e interdipendenza. Essi si declinano secondo modalità in cui può prevalere la collaborazione o la contrapposizione, il consenso o il conflitto. Conseguentemente, ogni s. ha una propria storia e una propria configurazione strutturale che la qualifica e la distingue da tutte le altre.

Inoltre, ogni s. è costituita da un certo numero di gruppi interconnessi (la famiglia, la Chiesa, il sindacato ecc.), con struttura e caratteristiche proprie. In tale prospettiva, l'associazione si configura come sotto-società, cioè come un particolare gruppo di persone organizzate per il conseguimento di uno scopo specifico. La s., concepita come entità costituita da gruppi interconnessi, si distingue sia dal concetto di Stato, che ha una valenza politica e giuridica, sia da quello di nazione, che enfatizza la centralità di un nucleo culturale unitario.

Tipi di società

Nella storia dell'umanità è possibile individuare molti tipi di s. che hanno contrassegnato la vita associata degli esseri umani. Ciò giustifica l'interesse e l'impegno degli studiosi nel distinguere e nel classificare queste differenti formazioni sociali. Le tipologie, comunque, dipendono da una serie di elementi, cioè dai criteri scelti, dagli aspetti che si vogliono evidenziare, nonché dalle tesi che si intendono sostenere. Spesso alle classificazioni si accompagnano, in modo più o meno esplicito, anche le gerarchizzazioni (s. superiori e inferiori) e le valutazioni (s. migliori e peggiori). Le s. sono quindi classificate in modi molto differenti. Questa distribuzione delle s. in tipi diversi comporta anche una qualificazione diretta a focalizzare l'attenzione su alcuni aspetti specifici propri di un raggruppamento umano in un determinato periodo storico (la s. tribale, la s. rinascimentale, la s. industriale ecc.). È perciò possibile classificare le s. considerando come viene occupato il territorio - s. di cacciatori (nomadismo) contrapposte a quelle di agricoltori (stanzialità) - oppure tenendo conto della loro complessità crescente. Data la varietà di proposte tipologiche con cui si sono cimentati i sociologi, è opportuno distinguere tra tipologie dicotomiche e classificazioni non dicotomiche.

Tipologie dicotomiche. - La tradizione sociologica è ricca di contrapposizioni tra due modelli di s., che vengono generalmente denominati idealtipi, elaborati per cogliere gli elementi di novità e perciò di differenziazione di un determinato assetto societario rispetto ad altri che lo hanno preceduto. In questa logica si colloca la distinzione operata da H. Spencer tra s. militare (centralizzata e gerarchica) e s. industriale (caratterizzata dall'autonomia e dalla libertà della persona), distinzione finalizzata a dimostrare la superiorità della seconda rispetto alla prima (Spencer 1860-62).

Analoga considerazione vale per É. Durkheim quando distingue tra s. basate sulla solidarietà meccanica (dove prevale il diritto repressivo e dove l'uomo pensa, sente e agisce in base ai dettami della collettività d'appartenenza) e s. basate sulla solidarietà organica, caratterizzate dalla divisione del lavoro (fonte di tale specifica forma di solidarietà) e da altri elementi tra cui la prevalenza del diritto restitutivo (Durkheim 1893).

F. Tönnies, riprendendo una dicotomia peraltro già utilizzata, mette a fuoco le differenze tra 'comunità' (Gemeinschaft) e 'società' (Gesellschaft): la prima si fonda sull'affettività, sulla presenza di sentimenti comuni e reciproci; la seconda, invece, è un'unione contrattuale nel cui ambito le relazioni, fredde e formali, sono fondate sull'interesse personale, sul calcolo. Alla comunità corrisponde la volontà 'organica' o 'essenziale' (Wesenwille), espressione del bisogno vitale dell'uomo, manifestazione degli impulsi del cuore. La s., invece, è la risultante del prevalere della volontà 'riflessiva' o 'arbitraria' (Kürwille), espressione della razionalità, del calcolo, del dominio. La comunità è quindi caratterizzata da legami naturali e spontanei quali quelli di sangue (famiglie), di luogo (villaggio) o di amicizia; la s., invece, è caratterizzata da legami fondati su interessi individuali, sulla competizione, sulla concorrenza. Per Tönnies la storia del mondo occidentale è caratterizzata da una transizione da assetti comunitari ad assetti societari anche se, comunque, "le forme di vita comunitarie perdurano, sia pure atrofizzandosi ed estinguendosi nell'ambito di quelle sociali, come le uniche forme reali" (Tönnies 1887; trad. it. 1963, p. 290). In sintesi, l'analisi di Tönnies si traduce in una critica della s. industriale dove, fra l'altro, decade la famiglia e vengono meno spontaneità e affettività, sostituite da convenienze e buone maniere.

Col passare del tempo il ricorso a distinzioni dicotomiche tende a ridursi, senza però scomparire del tutto. Si pensi alla contrapposizione tra s. chiusa e s. aperta, che assume un rilievo centrale nell'analisi di K.R. Popper, deciso sostenitore di una s. basata sulla libera discussione (capace di influenzare la sfera politica) e sulla presenza di istituzioni che garantiscano la libertà individuale (Popper 1945). A differenza della s. chiusa, totalitaria, la s. aperta presuppone l'esercizio critico della ragione e la presenza di istituzioni che consentano la critica, il controllo dell'azione dei governanti e la possibilità di sostituirli.

Classificazioni non dicotomiche. - Oltre alle distinzioni dicotomiche vi sono anche classificazioni multiple. Tra queste va ricordata quella di A.Comte, che classifica la s. in base alle forme di conoscenza: di qui la distinzione tra s. militare, s. di giuristi e s. industriale. Il primo tipo di s. corrisponde allo stadio teologico della conoscenza in cui la spiegazione dei fenomeni viene ricercata nel sovrannaturale; la s. di giuristi è relativa, invece, allo stadio metafisico nel quale i fenomeni vengono spiegati sulla base dell'azione di forze astratte; infine, la s. industriale, intesa come s. ottimale, corrisponde allo stadio positivo in cui l'uomo "rinuncia alla vana ricerca delle nozioni assolute, dell'origine e della destinazione dell'universo, delle cause intime dei fenomeni, per dedicarsi allo studio delle loro leggi" (Comte 1830-42, 1934; trad. it. 1967, 1° vol., p. 3).

L'idea di una s. ottimale è presente anche in K. Marx, il quale, partendo da una visione antropologica materialistica, ritiene - a differenza di Comte - che alla base della s. e del mutamento sociale vi siano i rapporti di produzione. Questi "corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle […] forze produttive materiali" e l'insieme di tali rapporti "costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica, e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale" (Marx 1859; trad. it. 1957, pp. 10-11). Quindi, a una determinata fase di sviluppo delle forze produttive corrisponde un determinato tipo di rapporti di produzione.

La classificazione delle s. in base ai rapporti di produzione contempla uno stadio iniziale di comunismo primitivo e quattro successivi fondamentali modi di produzione: il modo di produzione asiatico, quello antico, quello feudale e, infine, quello borghese. Quest'ultimo costituirebbe "la forma antagonistica terminale del processo di produzione sociale" (p. 11) poiché, secondo Marx, la rivoluzione del proletariato avrebbe condotto a una s. senza classi, dove al conflitto sociale si sarebbe sostituita l'armonia tra gli individui. In conclusione, anche se Comte ha una prospettiva essenzialmente consensuale mentre Marx decisamente conflittuale, entrambi ipotizzano uno stadio ultimo della s., considerato ottimale, e danno una spiegazione monocausale del mutamento sociale, individuata da Comte nella conoscenza e da Marx nei rapporti di produzione.

La prospettiva consensuale, che caratterizza l'analisi di Comte, si ritrova anche in T. Parsons, che attribuisce particolare rilevanza alla dimensione valoriale ed elabora una tipologia delle s. che deriva da un'impostazione chiaramente evoluzionistica (Parsons 1966). A suo parere il mutamento sociale consiste in un processo di progressiva differenziazione funzionale e, in proposito, distingue tre livelli evolutivi (primitivo, intermedio, moderno) ai quali corrispondono diverse s. umane: la s. primitiva, la s. primitiva avanzata, la s. intermedia e quella moderna.

La s. primitiva è caratterizzata dal 'simbolismo costitutivo' (nel senso che i simboli, soprattutto quelli religiosi, costituiscono le fondamenta della vita sociale); la s. primitiva avanzata si distingue essenzialmente per un sistema di stratificazione, il quale si sostituisce alla struttura sostanzialmente egualitaria delle s. più semplici; la s. intermedia è associata al sorgere della scrittura e, infine, la s. moderna è ancora più differenziata. L'integrazione viene comunque assicurata anche nelle s. complesse e articolate poiché, nella costruzione parsonsiana, il processo di differenziazione funzionale si accompagna a un processo di progressiva 'generalizzazione dei valori'.

Altre tipologie fanno riferimento ad aspetti particolari come l'economia, la religione, il linguaggio, e classificano la s. in base a questi elementi: s. feudale, s. capitalista; s. musulmana, s. cristiana; s. inglese, s. italiana. G. Lenski (1966) elabora una tipologia basata sulle principali fonti di sussistenza della s., distinguendo tra s. di caccia e raccolta (il cui sostentamento è assicurato dalla ricerca di vegetali e dall'attività venatoria), s. orticole (dedite alla coltivazione svolta con mezzi ancora piuttosto rudimentali), s. agraria (dove la coltivazione, praticata con attrezzi più evoluti, assicura una produzione maggiore), e, infine, s. industriali che sfruttano le macchine e le fonti energetiche (il carbone, il petrolio, l'energia elettrica, quella nucleare ecc.).

Un'ulteriore tipologia fa leva, invece, su molteplici elementi: i mezzi di sostentamento, la presenza (maggiore o minore) di disuguaglianze, il periodo di esistenza. In base a tali elementi si distingue tra s. di caccia e raccolta, s. agricole, s. pastorali, stati o civiltà tradizionali, s. del Primo, del Secondo, del Terzo Mondo (Giddens 1989).

L'aggettivazione della società contemporanea. - Generalmente le tipologie, soprattutto quelle elaborate fino alla metà del 20° secolo, tendono a contrapporre s. meno avanzate a s. più avanzate, e quindi a evidenziare la presenza di una transizione verso una crescente complessità societaria che si specifica in termini di differenziazione strutturale-funzionale. Questa trasformazione comprende anche profondi cambiamenti nella cultura, nei valori, nella mentalità e negli orientamenti degli esseri umani. Se da una parte sono riscontrabili delle convergenze interpretative, sussistono altresì forti divergenze valutative che dipendono dall'approccio adottato: basti pensare alle già accennate differenze tra la visione consensuale di Comte e quella conflittuale di Marx. Al di là di queste sostanziali differenze si registra, comunque, un notevole consenso nell'individuare nel processo di industrializzazione un evento che ha cambiato radicalmente il volto della società. C'è infatti ragione di ritenere che le s. industrializzate siano molto diverse da quelle che le hanno storicamente precedute. L'emergere della produzione meccanizzata, lo sviluppo tecnologico, le scoperte scientifiche, l'impiego della maggioranza della popolazione attiva nelle fabbriche e negli uffici, l'aumentato livello di urbanizzazione, il diffondersi di forme democratiche di gestione del potere politico, la maggior rapidità dei trasporti e delle comunicazioni sono alcuni dei fattori significativi che, nel loro intrecciarsi sinergico, hanno prodotto la s. industriale. In tale contesto è arduo riuscire a distinguere le cause dalle conseguenze, le condizioni dagli effetti.

L'avvento della s. industriale ha impresso una svolta epocale nella storia dell'umanità, generando una nuova e originale combinazione tra attività di produzione e attività di consumo, e istituendo nuove reti di relazioni tra attori economici e sociali. Tale forma di s., nel momento in cui si è consolidata e diffusa, è stata oggetto di numerose critiche, dirette a contrastare la visione ottimistica propria del positivismo. Già Marx aveva messo in evidenza le contraddizioni interne del capitalismo e l'inevitabile acutizzarsi del contrasto endemico tra sfruttatori e sfruttati. A sua volta, la sociologia critica della Scuola di Francoforte ha accusato la s. industriale di essere una macchina infernale che snatura e impoverisce l'uomo, ritorcendosi contro di lui e negandogli i suoi sogni prometeici. Altri stigmatizzano il processo di massificazione indotto dalla s. industriale, che sarebbe una s. atomizzata, nel cui ambito i rapporti tra individui diventano particolarmente deboli, palesando il rischio della dissoluzione degli stessi legami sociali (Kornhauser 1959).

La s. di massa è stata oggetto di una meticolosa e lucida analisi soprattutto da parte dei critici del totalitarismo. H. Arendt ha sottolineato che i movimenti totalitari europei hanno reclutato i loro membri proprio dalla 'massa', termine usato in riferimento a quei gruppi i quali, per entità numerica e/o per indifferenza nei confronti della cosa pubblica, non sono inseriti in strutture intermedie e neppure possono entrarvi (Arendt 1951). L'assenza di vincoli intermedi di fedeltà fa in modo che si venga a stabilire un contatto diretto tra le masse e quei leader carismatici che esigono una fedeltà illimitata e incondizionata, la quale presuppone, appunto, l'assenza di vincoli sociali con familiari, amici e conoscenti. In altri termini, la Arendt dipinge la massa come un aggregato sociale amorfo, indifferente, apatico e stupido che si forma all'interno di una s. atomizzata, caratterizzata dalla distruzione dei legami primari. Il processo di atomizzazione consiste, infatti, nella progressiva dissoluzione dei legami comunitari mediante l'ingegnoso criterio della 'colpa per associazione': "appena un uomo veniva accusato, i suoi vecchi amici si trasformavano di colpo nei suoi nemici più accaniti; per salvare la propria pelle essi offrivano volontariamente delle informazioni e si affrettavano a presentare delle denunce per avvalorare le prove indiziarie contro di lui che erano inconsistenti; questo ovviamente era l'unico modo per dimostrare la propria fidatezza. Retrospettivamente essi cercavano altresì di dimostrare che la loro relazione o amicizia con l'accusato era soltanto un pretesto per tenerlo d'occhio ed eventualmente smascherarlo come sabotatore, trockista, spia straniera o fascista. Poiché il merito veniva 'valutato dal numero delle denunce presentate contro i compagni più vicini' era ovvio che la più elementare prudenza imponesse a uno di evitare ogni intimità, se possibile; non per impedire la scoperta dei suoi pensieri segreti, ma unicamente per tenere alla larga, in caso di futuri guai, tutte le persone che avrebbero potuto trovarsi costrette dal pericolo a provocare la sua rovina. In ultima analisi, fu con l'impiego radicale di questi metodi polizieschi che il regime staliniano riuscì a instaurare una società atomizzata quale non si era mai vista prima" (Arendt 1951; trad. it. 1996, p. 447). La principale caratteristica della s. atomizzata è quindi l'isolamento dei membri, ed è proprio dai frammenti di tale s. che si formano le 'masse'. Conseguentemente, ciò che contraddistingue l'uomo-massa non è tanto la "brutalità o la rozzezza" quanto, piuttosto, "l'isolamento e la mancanza di normali relazioni sociali" (p. 439). In sintesi, la s. di massa implica l'assorbimento dei diversi gruppi sociali in un'unica s. che controlla tutti i membri che ne fanno parte: "L'avvento della società di massa […] indica […] che i vari gruppi sociali sono stati assorbiti in una società unica, come è avvenuto per le unità familiari; e col sorgere della società di massa la sfera sociale è […] giunta ad abbracciare e controllare tutti i membri di una data comunità in maniera uniforme" (pp. 46-47).

Anche in altre analisi, relative alla s. occidentale dopo la Prima guerra mondiale, si è sottolineato l'emergere di una s. di massa nella quale l'uomo è un essere inerte, appunto come lo è la massa. L'uomo-massa è paragonato a un "bimbo viziato" che ha tutti i diritti e nessun dovere: "tutto gli è permesso […] a nulla egli è obbligato" (Ortega y Gasset 1929; trad. it. 1974, p. 55); è ingrato, irresponsabile e si preoccupa solo del proprio benessere senza sentirsi solidale con le cause di tale benessere. In conclusione, l'uomo-massa non designa una classe sociale "ma un tipo o un modo d'essere dell'uomo che si ritrova […] in tutte le classi sociali" (p. 102) e che è l'espressione emblematica di una certa s. in un determinato momento storico.

Un'altra aggettivazione, usata in riferimento alle s. dell'Occidente industriale, è quella di s. dell'abbondanza o s. opulente (affluent societies), diffusasi a partire da un noto lavoro di J.K. Galbraith (1958), e successivamente ripresa e sviluppata anche da altri (si pensi a W.W. Rostow e G. Katona). Tale aggettivazione sottolinea la grande abbondanza di prodotti che caratterizza alcune s. industriali (in particolare quella statunitense) e che implica una possibilità di accesso ai beni inconcepibile nelle s. precedenti, possibilità strettamente legata alla produzione industriale. Dalla s. industriale si sarebbe passati, come osservato da diversi studiosi, a un nuovo assetto societario definito società postindustriale, espressione usata per sottolineare una diversità rispetto alla precedente forma societaria (v. anche società postindustriale, App. V). In proposito, vi è chi ha richiamato l'attenzione sul fatto che esistono diverse visioni contrapposte della s. postindustriale (Maldonado 1987). Alcuni intendono il termine postindustriale come anti-industriale e rimpiangono la s. agraria; altri - come D. Bell (1973) - usano l'espressione società postindustriale come sinonimo di società dei servizi (caratterizzata, cioè, dalla prevalenza del settore terziario); altri ancora danno grande importanza alla dimensione tecnologica e al processo di informatizzazione della s. (Toffler 1980), e c'è anche chi teorizza la s. postindustriale come manifestazione di 'capitalismo disorganizzato' (Offe 1985).

In ogni caso, vi è chi critica l'uso del prefisso 'post' (Maldonado 1987) o, comunque, preferisce non ricorrervi. A. Touraine, autore di uno studio sulla s. postindustriale (Touraine 1969), ritiene che l'espressione società programmata sia "più precisa rispetto a "società postindustriale", che è definita solo in base a ciò cui fa seguito" (Touraine 1992; trad. it. 1993, p. 287). La s. programmata è quella nella quale "la produzione e la diffusione di massa dei beni culturali occupano il posto centrale che nella società industriale era stato occupato dai beni materiali" (p. 287). In altri termini, l'espressione società programmata viene usata per indicare che, in tale s., si cerca di prevedere e modificare opinioni, atteggiamenti, comportamenti, entrando direttamente nella sfera valoriale. Secondo Touraine, "la transizione dalla società industriale alla società programmata è il passaggio dall'amministrazione delle cose al governo degli uomini" (p. 288).

Si è anche osservato che, mentre nella s. industriale il problema fondamentale è la produzione di ricchezza, nella s. contemporanea, indicata anche come società del rischio, la questione cruciale è quella di prevedere, riconoscere, ridurre e, se possibile, neutralizzare i rischi connessi al processo di modernizzazione (Beck 1986). Il rischio, che oggi costituisce un nuovo oggetto di comunicazione (Luhmann 1986), è un termine che "si adatta perfettamente alle necessità di dibattito della nuova cultura globale" (Douglas 1985; trad. it. 1991, p. 198) o meglio alle problematiche connesse alla globalizzazione. Tale termine, diffusosi a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta (Robertson 1990), indicherebbe, secondo alcuni, tutti quei processi mediante i quali le popolazioni del mondo sono incorporate in un'unica società mondiale, la società globale (Albrow 1990).

Quest'ultima aggettivazione della s., che richiama alla mente l'immagine di un unico sistema sociale, o meglio di un'integrazione economico-sociale dell'intero pianeta terrestre, si riferisce, in realtà, a un processo di crescente interdipendenza economica, politico-militare, culturale-relazionale, che presenta ampi margini di ambivalenza e si esprime in forme contraddittorie. Spinte universalizzanti si accompagnano, infatti, a tendenze di natura localistica (Robertson 1992); aumentano le interdipendenze e le relazioni sociali ma, nello stesso tempo, crescono le possibilità di conflittualità (Giddens 1990); i processi di omologazione, anche in termini di occidentalizzazione del mondo (Latouche 1989), si accompagnano a decise rivendicazioni in difesa delle diversità culturali.

Indubbiamente è in atto un mutamento; è difficile, però, stabilirne le direzioni e soprattutto prevederne gli esiti. Alcuni sono ottimisti e ritengono che l'aumento dell'interconnessione tra civiltà di tipo diverso porterà a un cosmopolitismo universale; altri, invece, vedono nella globalizzazione la fonte di forme di esclusione sociale e, conseguentemente, di instabilità: in sostanza, una vera e propria minaccia per la s. civile (Dahrendorf 1995). Quest'ultima è, in estrema sintesi, il luogo delle libertà individuali ed economiche (Seligman 1992) e comprende "le associazioni in cui conduciamo la nostra vita, e che devono la propria esistenza ai nostri bisogni e alle nostre iniziative, anziché allo Stato" (Dahrendorf 1995; trad. it. 1995, 1997⁷, pp. 31-32). Tali associazioni "a volte sono frutto di un progetto profondamente meditato e a volte sono di breve durata, come i club sportivi e i partiti politici. A volte hanno radici storiche e vantano secoli di vita, come le chiese o le università. Altre ancora sono i luoghi in cui lavoriamo e viviamo, imprese, comunità locali; anche la famiglia fa parte della società civile. La rete di relazioni creata da queste associazioni [...] costituisce la realtà della società civile: una realtà preziosa, tutt'altro che universale, che a sua volta è il prodotto di un lungo processo di civilizzazione, ma che nondimeno è spesso esposta alle minacce rappresentate da governanti autoritari o dalle forze della globalizzazione" (p. 32), le quali potrebbero determinare un preoccupante aumento delle disuguaglianze in termini di reddito e lo smantellamento del welfare state. In conclusione, è estremamente difficile fare previsioni sulla s. del prossimo futuro, ma è auspicabile che si riesca a operare in modo tale da liberare quel potenziale positivo che, comunque, è presente nel processo di globalizzazione.

bibliografia

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