SOCIETA POSTINDUSTRIALE

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)

SOCIETÀ POSTINDUSTRIALE

Domenico De Masi

Come alla fine del 1700 si avvertì il passaggio dalla società rurale a quella industriale, ma si stentò a individuare e fissare i tratti essenziali della nuova realtà, così oggi percepiamo un nuovo grande mutamento in atto: il declino della società industriale e dei suoi modelli e l'avvento di una società che, non essendo ancora precisata nei suoi contorni e nei suoi elementi costitutivi, si definisce ''postindustriale''. Di questa mutazione vi erano stati segni premonitori e profeti geniali sin dal 1800, ma solo a partire dalla seconda guerra mondiale se ne sono andati delineando i tratti essenziali: la prevalenza degli addetti al settore terziario, rispetto ai lavoratori dell'industria e dell'agricoltura; il declino dei modelli di vita improntati alla fabbrica e alla grande industria; l'emergere di valori e culture centrate sul tempo libero; il ruolo centrale della conoscenza teorica, della pianificazione sociale, della ricerca scientifica, della produzione di idee e dell'istruzione; il declino della lotta di classe polarizzata, sostituita da una pluralità di conflitti e di movimenti, anche per la presenza di nuovi soggetti sociali; il prevalere degli attributi caratteriali narcisistici che soppiantano o integrano quelli edipici nella struttura delle personalità individuali.

Durante la fase di transizione dalla società rurale a quella industriale, per molti anni, nonostante l'avvio dell'industrializzazione, gli autori più attenti si rendevano conto che l'epoca rurale stava volgendo al termine, ma non riuscivano a capire quale fosse l'elemento caratterizzante della nuova società. Più che ''industriale'', essa appariva ''postrurale'', e la varietà delle denominazioni adottate dai primi studiosi testimonia la loro incertezza nel definire quale fosse l'elemento caratterizzante di ciò che stava accadendo sotto i loro occhi. Qualcosa di analogo accade oggi: siamo consapevoli che la nuova società non si caratterizza più per il modo di produzione industriale, ma non è ancora possibile afferrare quale fattore o quale processo occuperà quella posizione determinante che l'industria ha mantenuto per duecento anni: secondo alcuni sarà l'informazione, secondo altri la struttura della personalità, secondo altri ancora l'incidenza della programmazione. M. Marien, che si è preoccupato di raccogliere e classificare i libri e gli articoli pubblicati sull'argomento, è riuscito a collezionare più di mille titoli (Marien 1976). Le definizioni più spesso usate per la società attuale, per gli stadi evolutivi della transizione e per le società auspicabili sono più di trecento; tra esse segnaliamo: ''società in fase di stallo'' (M. Crozier), ''società impreparata'' (D. Michael), ''età dell'equilibrio'' (L. Mumford), ''consapevolezza III'' (C. Reich), ''secolo casuale'' (M. Harrington), ''stato di entropia'' (H. Henderson), ''società narcisista'' (Ch. Lasch), ''società programmata'' (A. Touraine e Z. Hegedus), ''società postmoderna'' (J.F. Lyotard), ''cultura prefigurativa'' (M. Mead), ''società postcivile'' (K. Boulding). E poi c'è ancora la ''società postcapitalista'' di R. Dahrendorf, la ''società del capitalismo maturo'' di C. Offe, la ''società del capitalismo avanzato'' di K. Galbraith, la ''società sana'' di E. Fromm, la ''società attiva'' di A. Etzioni, la ''società postmaterialista'' di Z. Brezinski, la ''terza ondata'' di A. Toffler, la ''società dei servizi'' di J. Gershuny e W.R. Rosengren, l'''era della discontinuità'' di P. Drucker.

La quantità stessa e la disparità delle denominazioni forniscono ragioni sufficienti per non accettarne alcuna. Allo stato delle riflessioni non solo non esiste la certezza scientificamente necessaria circa l'elemento che caratterizzerà il sistema sociale che si va profilando, ma non sappiamo neanche se ci sarà questo fattore egemone, così come ci furono nelle epoche passate la caccia, la pastorizia, l'agricoltura, il mercato, l'industria. È anzi probabile che uno degli ulteriori tratti distintivi del nuovo sistema sociale sarà proprio quello di essere policentrico, e di basarsi su un reticolo portante di processi e di elementi nessuno dei quali, da solo, potrebbe determinare la dinamica del tutto. Per questa ragione, e per la fortuna di cui già gode questo termine, è preferibile la denominazione di s.p. che va tenuta ferma fin quando non apparirà chiaro che la nuova società, oltre a delinearsi per differenza rispetto alla società industriale, si distingue anche per uno o più fattori determinanti di cui sia ben visibile la preminenza. Va tenuto presente, inoltre, che il passaggio da una fase all'altra non significa sostituzione radicale della seconda alla prima: significa solo che un elemento diviene centrale al posto di un altro, il quale perde la propria egemonia ma non la propria presenza e influenza. E come, nella stessa area, convivono lavoratori dei campi, lavoratori delle fabbriche e lavoratori dei servizi, così nello stesso individuo convivono modelli di vita rurali, industriali e postindustriali.

Il termine s.p., dunque, non è impeccabile ma resta almeno per ora preferibile, proprio grazie a quella sua indefinitezza che non obbliga a privilegiare alcun fattore. Sulla sua origine deve essere notato che lo stesso D. Bell, considerato il padre di questa denominazione, rinvia ad A.J. Penty, socialista inglese che nel 1914 aveva curato un'antologia intitolata Essay in post-industrialism, e nel 1917 aveva pubblicato a Londra il volume Old worlds for new: a study of the post-industrial state (Bell 1973). Bell ha usato il termine a partire dal 1959 e, nel 1973, lo ha inserito nel titolo del suo famoso libro The coming of post-industrial society. Ma già nel 1969 era uscito il volume di Touraine intitolato La société post-industrielle.

Per Bell la s.p. è caratterizzata soprattutto dalla prevalenza numerica dei lavoratori addetti al settore terziario: quella ''nuova classe di funzionari'' che R.H. Tawney aveva chiamato brain workers. Per analizzare la società − sostiene Bell − se ne possono distinguere tre aspetti: la struttura sociale, l'organizzazione politica e la cultura. La struttura sociale comprende economia, tecnologia e sistema occupazionale; l'organizzazione politica regola la ripartizione del potere e assicura l'arbitrato dei conflitti individuali e di gruppo; la cultura è il campo dei simboli e dei significati. Il concetto di s.p. attiene essenzialmente ai mutamenti nella struttura sociale, alle trasformazioni che si producono nella vita economica e nella struttura professionale, infine ai rapporti nuovi che si stabiliscono tra la teoria e la pratica sperimentale, tra la scienza e la tecnologia. I cinque aspetti che la definiscono sono: il passaggio dalla produzione di beni all'economia di servizi; la preminenza della classe dei professionisti e dei tecnici; la centralità del sapere teorico, generatore dell'innovazione e delle idee direttrici cui s'ispira la collettività; la gestione dello sviluppo tecnico e il controllo normativo della tecnologia; la creazione di una nuova tecnologia intellettuale. Ma è innanzitutto il ''volto nuovo dell'economia'' e del mercato del lavoro che attira Bell: nel 1870 − egli nota − su 13 milioni di occupati solo 3 milioni erano addetti alla produzione di servizi; nel 1940, su 50 milioni di occupati più di 24 milioni lavoravano ormai in questo settore (Riche e altri 1983). Il sopravvento del settore terziario modifica e supera tutti i termini della società industriale, che era caratterizzata dalla grande fabbrica, dal ritmo della macchina impresso nella natura del lavoro, dalle lotte operaie, espressioni di un conflitto di classe polarizzato. Perciò Bell fissa al 1956 la data di nascita della s.p. avendo, per la prima volta in quell'anno, il numero di ''colletti bianchi'' superato quello degli operai negli Stati Uniti. Dunque, dalla produzione di beni, tipica della società industriale, si passa alla produzione di servizi, tipica della s. postindustriale. Al terziario tradizionale, si affianca ora il quaternario (sindacati, banche, assicurazioni) e il quinario (servizi per la salute, l'educazione, la ricerca scientifica, il tempo libero, l'amministrazione pubblica). La conoscenza, la ''nuova tecnologia intellettuale'', viene ad assumere un ruolo centrale nella nuova società; mentre, sul piano sociale, emerge − sempre secondo Bell − la necessità di superare, attraverso la meritocrazia, l'assetto che ritengono tradizionale delle democrazie occidentali, l'uguaglianza delle opportunità, l'angustia della famiglia cristiana, dei gruppi d'interesse, dell'egoismo liberale, del materialismo marxista.

La costruzione intellettuale di Bell si apre e si chiude all'insegna dell'ottimismo. "L'immaginazione dell'uomo − egli scrive − non rinunzierà mai a fare della società un'opera d'arte". Ma non è detto che quest'opera d'arte debba essere realizzata all'insegna della grandiosità e dell'estraneazione. Per altri autori, come I. Illich, E.F. Schumacher, J. Gershuny, il futuro potrebbe o dovrebbe riservare la rivincita del self-help, del self-service, della convivialità, dello small is beautiful. Contro il totalitarismo di uno stato onnivoro, che ingloba e regola (il ''fascismo amichevole'' della società dei servizi, denunziato da B.M. Gross, e prefigurato già da A. de Tocqueville come un immenso potere tutelare assoluto, minuzioso, metodico, previdente e persino mite, che si occupa solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sul loro destino), si levano altre due visioni del mondo: quella dei decentralisti e quella degli ecologisti. La prima si batte per un ''mondo a misura d'uomo'', per un decentramento delle decisioni, per una giustizia partecipativa, per un'organizzazione della convivenza a livello comunitario. La seconda si occupa dell'esaurimento delle risorse, della devastazione dell'ambiente, della rottura dell'equilibrio globale da cui dipende la sopravvivenza dell'umanità. Entrambi hanno origini lontane ma, dopo la seconda guerra mondiale, tendono sempre più a confluire in un medesimo filone teorico e di movimento. I cultori del pensiero decentralista e di quello ecologista (si pensi a H. Belloc, G.K. Chesterton, H. Agar, W. Harman, E.F. Schumacher, T. Roszak, I. Illich, P. Goodman) criticano aspramente l'industrialismo urbano, l'invadenza tecnologica, il materialismo consumista, e vedono nella s.p. un "mondo delle forme di organizzazione decentralizzate, in scala minore, strutture organiche piuttosto che meccaniche, dirette alla realizzazione dei valori umani più che verso obiettivi materialisti". S.p., dunque, come società conviviale, semplificata, parsimoniosa, austera, decentrata e pacifica.

Ricorrendo all'aiuto del già citato saggio di Marien, in cui sono puntigliosamente enumerati i punti di vista dei teorici del benessere, che vedono nella s.p. la prevalenza degli addetti ai servizi e l'opulenza della vita liberata dalla scarsità, e i punti di vista dei decentralisti e degli ecologisti, che vi vedono il ritorno alla natura, all'autoconsumo e alla convivialità, è possibile costruire una tavola sinottica, in cui le due contrastanti visioni vengono messe a confronto (tab. 1). Le differenze tra teorici del benessere e decentralisti-ecologisti (tra i playboys e i plowboys, come li ha chiamati il periodico The Mother Earth News) sono enormi e riflettono la vecchia contrapposizione tra ''integrati'' e ''apocalittici'' che, di fatto, divide tutta la crescente schiera di cittadini che si pongono domande di fondo circa le prospettive del nostro pianeta e della nostra società. La radice della discordia sta soprattutto nella diversa posizione che i due gruppi assegnano all'individuo. I teorici della società dei servizi hanno un'ottica per così dire ''copernicana'': nelle loro concezioni è messo a fuoco il sistema sociale, mentre l'individuo costituisce una sorta di variabile dipendente. Al contrario, l'ottica ''tolemaica'' dei decentralisti e degli ecologisti, meno teorica e più ideologica, situa l'uomo al centro del sistema e a esso subordina tutto il resto.

Le più recenti ricerche di psicologia sembrano concordi nel rilevare che, mutando la società da industriale a postindustriale, si va profondamente modificando anche la costellazione dei bisogni individuali e la struttura stessa della personalità. Concordi nel riconoscere il mutamento, gli studiosi si ridividono circa la sua consistenza e la sua qualità. Si passa, così, dal pessimismo di Ch. Lasch, il cui volume The culture of narcisism (1980) nell'edizione italiana reca il significativo sottotitolo "l'individuo in fuga dal sociale in un'età di disillusione collettiva", all'ottimismo ricco di supporti statistici di R. Inglehart (1977) che scorge nei cambiamenti dell'Occidente una ''rivoluzione silenziosa'' verso una maggiore partecipazione politica e una migliore qualità della vita. The silent revolution traspone di sana pianta la teoria di A.H. Maslow dall'ambito psicologico della singola personalità all'ambito sociologico di intere nazioni e, trattando i grandi gruppi sociali come se fossero singoli individui, cerca di dimostrare che alcuni di essi sono ancora fermi sui gradini più bassi della gerarchia maslowiana, mentre gli altri hanno già raggiunto la cima della scala. I primi, che Inglehart chiama ''materialisti'', sono tuttora impegnati nella soddisfazione di bisogni connessi al sostentamento (economia stabile, crescita economica, lotta all'aumento dei prezzi) e alla sicurezza (mantenimento dell'ordine, lotta alla criminalità, potenti forze di difesa). I secondi, che Inglehart chiama ''post-materialisti'', danno ormai poca importanza ai bisogni primari, che ritengono già ampiamente soddisfatti, e sono impegnati nella soddisfazione dei bisogni di appartenenza e di stima (società meno impersonale, maggior potere decisionale nel governo, nel lavoro, nella comunità) e dei bisogni intellettuali ed estetici (città più belle, natura più protetta, preminenza delle idee, libertà di parola).

Per una visione sinottica delle caratteristiche della società industriale, comparate con quelle della società pre- e postindustriale, è ancora utile la tabella elaborata da Bell (1973) opportunamente integrata dei numerosi elementi nuovi emersi dal ricco dibattito successivo sull'argomento (tab. 2). Cosa caratterizza, dunque, questa s.p., questo cosiddetto "villaggio globale", questa ''terza ondata'' succeduta a quella dell'era rurale e di quella industriale? Secondo Toffler (1981), gli ultimi due secoli sono nient'altro che una parentesi squilibrata tra una convivialità arcaica che l'industria frantumò, e una convivialità telematica che la scienza reinventerà. La società industriale standardizzò strutture e culture, specializzò uomini e macchine, sincronizzò tempi e comportamenti, concentrò uomini, capitali e mezzi, ingigantì fabbriche e città, centralizzò informazioni e decisioni. La s.p. valorizzerà nuovamente il nucleo familiare come cellula di convivenza civile, sommerà nella medesima persona il ruolo di produttore e consumatore, destrutturerà il tempo e lo spazio permettendo, attraverso la telematica, il collegamento di sottosistemi sempre più decentrati, demassificherà la cultura recuperando il valore dell'individuo. A una visione ottimistica della s.p. contribuisce l'idea che, in futuro, sarà data più importanza ai miglioramenti qualitativi che non alla crescita quantitativa; il lavoro perderà la brutalità della fatica fisica, si ridurrà, finirà per confondersi col tempo libero; si eleverà sempre più il livello di scolarità e il sapere diffuso tra i cittadini; il perfezionamento delle tecniche previsionali e programmatiche ridurrà l'ansia per il futuro; la miniaturizzazione degli strumenti tecnici e delle organizzazioni sociali metterà le persone a proprio agio di fronte al progresso, sempre più gestibile e fruibile; soprattutto aumenteranno le possibilità di scelta di fronte al lavoro, agli oggetti, ai divertimenti, alle fonti d'informazione. Altri studiosi della s.p. sono però meno ottimisti. Lasch (1980) ne ha sintetizzato, condividendole, le preoccupazioni scrivendo: "Chi sognava qualche anno fa di dominare il mondo, ora dispera di governare la città di New York". La crisi dell'occupazione, lo sviluppo senza lavoro (jobless growth), i limiti d'ordine sociale che inceppano la crescita economica e l'uso delle nuove tecnologie, la crisi delle risorse energetiche, i costi sociali e psicologici di un'evoluzione così rapida, i sacrifici imposti dalla transizione sono pericoli sufficienti per far guardare al futuro non come a una rinascita, né come a una gioia che ci attende con certezza (Guest 1987).

Sulla scia della distinzione suggerita da Marien, si può distinguere un gruppo di pensatori ''ottimisti'' che identificano la s.p. con un sistema più grande, più ricco, più attrezzato di tecnologia e dotato di servizi, più strutturato in istituzioni e burocratizzato; e un gruppo di pensatori ''pessimisti'' che temono il progresso tecnologico e le mega-organizzazioni, e che, attraverso i movimenti, si battono per il decentramento, l'ecologia: il ''piccolo è bello''. Ma vi è un terzo gruppo, costituito da Touraine e dai sociologi della sua scuola, che in un certo senso sintetizza e supera le due posizioni precedenti. Tra il 1959 e il 1968 Touraine pubblicò in Francia una serie di articoli − poi raccolti e ampliati nel volume La société post-industrielle (1969) − in cui, più che il funzionamento del sistema sociale, si analizza "la formazione dell'azione storica, il modo cioè in cui gli uomini fanno la loro storia". Perciò, a differenza di altri, l'approccio di Touraine "si rivolge immediatamente agli orientamenti sociali e culturali di una società, alla natura dei conflitti sociali e al potere attraverso i quali prendono forza questi orientamenti, a ciò che le forze dominanti reprimono e che provoca, per reazione, dei movimenti sociali" (trad. it., p. 6). Mentre Bell e Toffler collegano l'avvento postindustriale a una pluralità di caratteristiche, nessuna delle quali prioritaria e determinante, per Touraine il cuore della nuova società risiede nella produzione scientifica e il processo basilare non è la produzione dei beni ma la programmazione dell'innovazione. Perciò la sua preferenza va per la denominazione di società programmata anziché di s. postindustriale.

In questa nuova società l'accumulazione economica, lo sfruttamento materiale e i conflitti economici (e, quindi, la classe imprenditoriale e quella proletaria) non sono più centrali. Al loro posto sono subentrati l'accumulazione scientifica, l'azione dirigente, l'alienazione, i nuovi soggetti sociali, i movimenti. Il dominio sociale assume l'aspetto d'integrazione sociale ("perché l'apparato di produzione impone modi di comportamento in accordo con i suoi obiettivi e dunque con il suo sistema di potere"), di manipolazione culturale ("poiché le condizioni della crescita non si pongono soltanto all'interno del campo della produzione propriamente detto. Occorre agire sia sui bisogni e le attitudini che sul lavoro"), di potenza e controllo politico verso l'interno e verso l'esterno. Ne deriva che lo sfruttamento economico è via via sostituito dall'alienazione sociale, dalla partecipazione dipendente con cui l'individuo viene sedotto, manipolato, incorporato, anziché ridotto in miseria e controllato con metodi polizieschi. In questa società, l'egemonia è tenuta non più dai proprietari dei mezzi di produzione, bensì da coloro che gestiscono la conoscenza e che possono pianificare l'innovazione. Di fronte a sé, essi trovano l'opposizione di tutti coloro che rifiutano il cambiamento o che reclamano un cambiamento diverso, o che pretendono un incremento dei propri consumi. Nel quadro complessivo della società programmata, si ristruttura sia l'organizzazione del lavoro aziendale, sia quella del tempo libero e degli svaghi. Così pure la comprensione delle trasformazioni dipende da nuovi parametri concettuali e può essere meglio realizzata con l'ausilio della sociologia che non dell'economia.

I contenuti del volume pubblicato in Francia nel 1969 saranno più vigorosamente ripresi qualche anno dopo in due opere di Touraine ben più ampie: La production de la société (1973) e Pour la sociologie (1974). Nella prima l'autore sostiene che la società industriale produceva soprattutto mezzi di produzione, beni consumabili, capitale, mentre la s.p. produce soprattutto conoscenza, gestione dei sistemi, capacità di programmare il cambiamento. Il principio della società industriale era di mettere il lavoro a disposizione del capitale. Il principio della s.p. è di mettere il presente a disposizione del futuro. Nella s.p. sono i movimenti che assumono massima rilevanza dinamica perché costituiscono "un'azione collettiva conflittuale che cerca di modificare le modalità di utilizzazione dei modelli culturali mediante i quali una comunità costruisce i suoi rapporti con l'ambiente" (Touraine 1982).

È difficile precisare il momento del passaggio dalla società industriale a quella postindustriale. Bell (che però fa dipendere la mutazione scientifica dal lavoro in équipe con cui è stato sostituito lo scopritore isolato e dalla maggiore velocità con cui le scoperte scientifiche ormai si traducono in applicazioni pratiche) indica un primo esempio concreto di questa svolta nell'episodio accaduto durante la prima guerra mondiale, allorché la Germania, per ovviare al blocco navale con cui le potenze nemiche avevano interrotto i suoi rifornimenti di nitrati dal Chile, mobilitò il proprio mondo scientifico fino alla messa a punto di un nuovo procedimento chimico per la produzione di ammoniaca sintetica. A noi pare che il complesso di trasformazioni per cui oggi la società è qualcosa d'altro da quella industriale iniziata due secoli orsono, per quanto veloce possa essere stato, non sia tuttavia collocabile in un punto preciso del tempo e dello spazio se non per esigenze sistematiche e per quell'inconscio bisogno di limite che ci spinge ad assegnare un inizio e una fine a tutti gli eventi storici.

Ma se un punto si deve privilegiare come avvio acclarato della s.p., noi preferiamo identificarlo in quell'atto crudele e onnipotente (il lancio della prima bomba atomica su Hiroshima) con cui, il 6 agosto 1945, qualcuno, su comando di qualche altro, compiva un gesto programmato da altri ancora, fin nei minimi particolari − tanto da risultare ormai ineluttabile − e in cui istinto di vita e istinto di morte, aggressività e paura trovavano la massima sintesi. A partire da quel momento l'umanità, per la prima volta nella sua storia, aveva acquisito la sinistra potenza dell'autodistruzione. Mai prima di quell'evento si erano dispiegate una a una, finalizzandosi a esso, tutte le modalità che sarebbero poi divenute caratteristiche dell'epoca postindustriale: la paura dell'uomo per l'uomo; il primato della scienza organizzata; i rapporti tra potere scientifico e potere politico; l'incidenza degli interessi militari; la capillare programmazione delle tappe in cui si sarebbe articolato l'evento complessivo; la consapevole strapotenza dell'azione sia ideativa che esecutiva rispetto all'ignara impotenza delle vittime inermi designate; il ruolo amplificante e manipolativo dei mass media nei confronti dell'opinione pubblica mondiale.

È a partire dagli anni Quaranta che si è andato affermando infatti un modello sociale del tutto nuovo in cui la produzione scientifica e culturale ha occupato il ruolo centrale prima detenuto dalla produzione manifatturiera, in cui la stessa produzione manifatturiera ha cambiato modalità, in cui i rapporti hanno assunto una dimensione transnazionale e in cui esiste una sfasatura di tempo e di luogo tra l'azione ideativa, quella produttiva e quella fruitiva. Più o meno dagli stessi anni, accanto alla struttura postindustriale della società si è andata affermando una nuova cultura, che viene generalmente denominata ''postmoderna'' (v. anche postmoderno, in questa Appendice). In essa il razionalismo, che aveva trionfato durante tutta l'epoca industriale, condivide il primato con la rivalutazione della sfera emotiva; alla standardizzazione dei prodotti e dei modelli si va sostituendo una marcata soggettività; alla specializzazione si va affiancando l'interdisciplinarietà; alla sincronizzazione e all'unità di luogo della vita e della produzione si va sostituendo la destrutturazione del tempo e dello spazio; alle mansioni ripetitive ed esecutive (ormai delegabili alle macchine) si vanno sostituendo attività flessibili e creative; cresce la femminilizzazione della società e la qualità della vita diventa bisogno primario. Nella produzione estetica domina il pastiche e il collage di stili; nell'epistemologia guadagna terreno la teoria della complessità; nel pensiero e nell'azione trionfa il rifiuto delle dicotomie interno/esterno, essenza/apparenza, latente/manifesto, autentico/inautentico, significante/significato (Touraine 1992; Harvey 1989; Koslowski 1987; Vattimo 1985; Lyotard 1979; Jameson 1984).

Bibl.: R. Aron, La société industrielle et la guerre, Parigi 1959 (trad. it., Milano 1965); D.S. Landes, Unbound Prometheus: technological change and industrial development in Western Europe from 1750 to the present, Cambridge 1969 (trad. it., Torino 1975); A. Touraine, La société post-industrielle, Parigi 1969 (trad. it., Bologna 1970); Id., La production de la société, ivi 1973 (trad. it., Bologna 1973); D. Bell, The coming of post-industrial society, New York 1973; A. Touraine, Pour la sociologie, Parigi 1974 (trad. it., Torino 1978); M. Marien, Societal directions and alternatives: a critical guide to the literature, in Information for political design, New York 1976; R. Inglehart, The silent revolution, Princeton 1977 (trad. it., Milano 1983); L. Gallino, Dizionario di sociologia, Torino 1978, p. 627 ss.; J.-F. Lyotard, La condition post-moderne. Rapport sur le savoir, Parigi 1979 (trad. it., Milano 1981); C. Lasch, The culture of narcisism. American life in age of diminishing expectations, Londra 1980 (trad. it., Milano 1981); A. Toffler, The third wave, ivi 1981 (trad. it., Milano 1989); A. Touraine, Analisi critica dei movimenti sociali, in Il Mulino, 30,6 (1982), p. 789 ss.; M. Marien, Le due visioni della società post-industriale, in Immagini del post-moderno, a cura di C. Aldegheri e M. Sabini, Venezia 1983; R.W. Riche e altri, High technology today and tomorrow: a small slice of the employment pie, in Monthly Labor Review, novembre 1983; F. Jameson, Postmodernism or the cultural logic of late capitalism, Durham 1984 (trad. it., Milano 1989); G. Vattimo, La fine della modernità, Milano 1985; Z. Hegedus, Il presente è l'avvenire, ivi 1985; D.E. Guest, Les relations professionnelles dans les sociétés postindustrielles, in Atti del sesto congresso dell'Associazione internazionale delle relazioni industriali, 1: Relazioni industriali nella società postmoderna, 1987; P. Koslowski, Die postmoderne Kultur, Monaco 1987 (trad. it., Milano 1991); D. Harvey, Condition of postmodernity, Oxford 1989 (trad. it., Milano 1993); A. Touraine, Critique de la modernité, Parigi 1992 (trad. it., Milano 1993); L'avvento post-industriale, a cura di D. De Masi, Milano 1993.

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