Società multietnica

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)

Società multietnica

di Roberto De Angelis

l'appartenenza etnica

Tutti gli Stati nazionali moderni possono essere considerati delle s. m., in quanto comprendono nel loro territorio, in diversa misura, la presenza di gruppi più o meno estesi definibili come etnici.

Il termine etnia è stato però decostruito da un punto di vista scientifico proprio in riferimento alle stesse società non occidentali, considerate 'etniche' per eccellenza. Secondo J.-L. Amselle ed E. M'Bokolo (1985) le etnie sono state in gran parte un'invenzione di amministratori coloniali e di etnologi, funzionale al processo di dominazione perpetrato dai Paesi occidentali. L'appartenenza etnica si è sempre configurata in maniera più relazionale che sostantiva (determinata cioè dalla discendenza, dai legami con un territorio, dalla comunanza linguistica, da un sistema di valori condivisi). I gruppi tendono a selezionare, creare una propria storia, una tradizione. Le tradizioni sono perciò spesso inventate, secondo E.J. Hobsbawm e T. Ranger (1983); F. Barth (1969) preferisce parlare di un confine etnico che i vari gruppi elevano rispetto ad altri gruppi, confine che non è dato per sempre ma è continuamente flessibile, negoziabile. Per renderci meglio conto di come le etnie siano prodotte relazionalmente da una vera e propria invenzione, si può ricordare che addirittura la stessa appartenenza razziale è stata fatta derivare da analoghi processi. Oltre Atlantico gli italiani furono considerati portatori di una piccola quantità di sangue nero nelle vene e per questo non accusabili del reato di mescolamento razziale, colpa punibile con gravi sanzioni, nel caso avessero avuto relazioni sessuali con un uomo o una donna neri.

L'aggettivo etnico è generalmente servito a connotare le identità e le forme di organizzazione politica e sociale dei contesti non occidentali. Si è parlato anche di guerre etniche, esempio lampante, secondo C. Marta (2005), degli abusi della categoria 'etnico'. Le cause delle terribili guerre civili che hanno devastato, per es., l'Africa, nel caso del Ruanda, o la ex Iugoslavia vanno ricercate in conflitti e contraddizioni scatenati anche da interessi internazionali non certo riconducibili a problemi di identità etnica. I Paesi occidentali spesso hanno al loro interno delle minoranze etnico-nazionali, che si sono battute anche aspramente per l'autonomia dal governo centrale o per la stessa secessione volta a rompere l'integrità dello Stato-Nazione considerata arbitraria. Molti Paesi europei sono stati travagliati dalle rivendicazioni di minoranze etnico-linguistiche: per es., i movimenti dell'autonomismo basco in Spagna, di quello corso in Francia o di quelli sardo e altoatesino in Italia. Ma questi conflitti non sono stati sufficienti a far definire come s. m. i Paesi interessati.

Si parla di s. m., riferendosi ai Paesi occidentali, solo in seguito ai processi di immigrazione di massa che li hanno interessati. L'espressione società multirazziale non è più usata: il termine razza da vari anni è infatti desueto per preoccupazioni di opportunità anche da parte di forze politiche xenofobe e razziste. Ovviamente devono essere fatte delle distinzioni tra i flussi di migranti che lasciarono l'Europa per raggiungere gli Stati Uniti e l'Australia soprattutto nel 19° sec. e nei primi decenni del 20° sec. e quelli diretti verso l'Europa dalle ex colonie dell'Africa e dell'Asia per la ricostruzione industriale dopo le rovine della Seconda guerra mondiale. Ancora di natura assai diversa sono le migrazioni più recenti, ascrivibili ai nuovi processi di globalizzazione, in pieno corso nonostante le politiche di chiusura poste in atto dai Paesi europei e dagli Stati Uniti.

modelli di relazione

Le risposte su come regolare una s. m. sono dipese da veri e propri modelli per mezzo dei quali si è tentato di conseguire una coerenza discorsiva sul piano ideologico, e dai quali si sono fatte derivare normative e pratiche istituzionali per governare i processi d'integrazione con i migranti. Non si potrà che accennare, in maniera schematica, soltanto ad alcuni di questi modelli di relazione con i fenomeni migratori sia storici sia contemporanei.

Il modello assimilazionista è stato alla base delle politiche d'integrazione nei confronti delle storiche grandi ondate migratorie negli Stati Uniti provenienti da tanti Paesi europei. L'idea americana di un melting pot, di un crogiolo dal quale sarebbe uscita una cultura uniforme, risale al primo decennio del Novecento. L'assimilazione, l'abbandono definitivo e convinto della cultura d'origine per acquisire la nuova cultura alla base dell'American way of life era la prospettiva che si prefigurava per tutti i flussi di immigrati che avevano costituito la nazione statunitense. La scuola sociologica di Chicago mise al centro delle sue analisi empiriche l'immigrazione e le relazioni etniche: basti pensare che la città di Chicago in meno di 50 anni era passata da un milione di abitanti a 3 milioni e mezzo, per lo più nati fuori dagli Stati Uniti. R.E. Park nel 1950 indicò un ciclo delle relazioni etniche in quattro tappe: 1) rivalità; 2) conflitto; 3) adattamento; 4) assimilazione. Tale processo, nella maggior parte dei casi, si considerava destinato al successo. Con l'accumulazione progressiva di risorse materiali e simboliche, lo straniero diveniva uno statunitense che andava a risiedere anche nei suburbi, abbandonando finalmente gli insediamenti precari che per forza di cose doveva all'inizio dividere con i suoi connazionali. La visione ottimistica della scuola di Chicago comprendeva anche quelle situazioni di ibridità culturale che caratterizzavano l'uomo marginale, spesso respinto da due culture. Ma possedendole entrambe aveva la possibilità di esercitare un ruolo di connessione. Il modello assimilazionista non negava la validità delle diverse culture e perciò non era antitetico al pluralismo culturale. Una doppia appartenenza poteva essere rivendicata, per es., quella di italo-americano, senza produrre dissonanze. Però sia la tradizione del pensiero liberale sia quella del pensiero socialista avevano rigorosamente come referente l'individuo quale soggetto di diritti e doveri e non i gruppi etnici. Per la prima tradizione la modernizzazione avrebbe comportato la sostituzione del modello di solidarietà basato sulla etnicità, i rapporti di sangue e la cultura, in relazioni che avrebbero privilegiato i rapporti funzionali tipici della divisione sociale del lavoro. Per la seconda, i rapporti di classe e la conseguente coscienza di classe sarebbero dovuti diventare preminenti. Discorso diverso la scuola di Chicago fece per i Neri americani, considerati dai ricercatori sociali pienamente assimilati sia sul piano culturale sia su quello dei valori ma profondamente discriminati socialmente e sul piano dei diritti civili. Si era negli anni Venti e ci vollero ancora decenni di lotta per l'acquisizione dei diritti civili, non sufficienti però a colmare le forti disuguaglianze scontate ancora ai nostri giorni.

La Francia costituisce un esempio contemporaneo di pratiche assimilazioniste nei confronti dei flussi di immigrati provenienti per lo più dalle ex colonie del Nord Africa, derivate da un modello universalista-giacobino. Il processo di naturalizzazione, di acquisizione della cittadinanza è stato favorito, a differenza della Germania che non si è mai voluta riconoscere come Paese di immigrazione stabile e aveva immaginato la possibilità di far rientrare definitivamente nella terra d'origine le centinaia di migliaia di turchi che avevano permesso la ricostruzione nel dopoguerra. Anche in Francia non si disconosce il valore delle diverse appartenenze culturali, ma si pretende in maniera quasi ossessiva una distinzione tra spazio pubblico e spazio privato. Nello spazio pubblico, come, per es., la scuola, vi è l'assoluto divieto, sancito per legge, di ostentare vistosamente anche i simboli di appartenenza religiosa: le ragazze musulmane non possono portare a scuola l'hijab, il foulard islamico, e una legge del 2004 ha ribadito il divieto di comportamenti contro la laicità dello Stato.

I concetti di assimilazione e di integrazione comportano ampi margini di ambiguità; lo si può constatare quando si analizzano le strategie discorsive su molte forme di conflitto che stanno attraversando le s. m. di alcuni Paesi europei. La rivolta delle banlieues francesi nell'autunno 2005 è stata determinata, secondo i commentatori dei media, da motivi di razza, etnicità, religione. I giovanissimi che sistematicamente ogni notte hanno incendiato migliaia di macchine e gli edifici pubblici territoriali, come, per es., le scuole, sono stati sorprendentemente rappresentati come 'immigrati di seconda e terza generazione'. Nella cité di edilizia popolare, della cinta parigina, in effetti, sono state concentrate le famiglie di quanti avevano costituito i flussi migratori della ricostruzione, ormai naturalizzati. Ma i protagonisti della rivolta sono stati i giovani che paradossalmente, proprio perché si sentivano assimilati, francesi a tutti gli effetti, denunciavano le promesse non mantenute del modello universalista e cosmopolita. Contestavano con forme di violenta protesta urbana la segregazione abitativa, i tassi altissimi di disoccupazione, più del doppio rispetto al resto della popolazione giovanile, il controllo poliziesco sistematico, l'esclusione da ogni forma di rappresentanza politica e sindacale e soprattutto il disprezzo da parte delle istituzioni che li avevano definiti 'spazzatura'.

Il modello d'integrazione multiculturalista non soltanto riconosce la presenza di una pluralità etnica e culturale, ma considera importante che si favorisca l'espressione, la forma organizzativa comunitaria della differenza culturale stessa: ai gruppi etnici possono essere attribuiti diritti collettivi specifici. Secondo J. Rex (1985), comunque nella sfera pubblica deve essere garantita la formale e sostanziale uguaglianza di opportunità per tutti, indipendentemente dalla provenienza e dal richiamarsi o meno a identità collettive. Ci sono stati dei modelli che in diverso modo si sono ispirati al multiculturalismo per regolare la convivenza interetnica: nel Nord Europa, in Gran Bretagna e in Canada. La politica di sostegno ai gruppi etnici ha favorito e rafforzato processi di 'incistamento' comunitario che, molto spesso, hanno determinato fenomeni di segregazionismo, di controllo esasperato sui membri dei gruppi stessi. In genere si stanno determinando dei ripensamenti per ovviare alle storture del multiculturalismo, soprattutto quando i codici dei gruppi etnici ostacolano l'autodeterminazione; come esempio di un topos ricorrente del comunitarismo si può citare il ruolo subalterno della donna.

È opportuno fare anche dei riferimenti ai modelli relativi alle società multietniche maturati nelle forze politiche e nei movimenti xenofobi e razzisti dei Paesi occidentali. Il rifiuto nei confronti dei migranti viene teorizzato in base a una concezione essenzialista della etnicità. Tutte le culture vengono considerate, benché prodotte da specifici processi storici, come un patrimonio cristallizzato e immodificabile, passibile però di essere messo a rischio dal contatto con l'alterità. Non si fa più cenno alle differenze razziali, argomento considerato politicamente scorretto anche secondo il senso comune, né si prefigura una gerarchia tra culture superiori e inferiori, ma si ribadisce la necessità di non inquinare o l'identità nazionale o l'identità etnica, utilizzate spesso in maniera sinonimica. La minoranza bianca che nella Repubblica Sudafricana teneva segregata la maggioranza nera utilizzò analoghe argomentazioni essenzialiste. Il Front national in Francia ha centrato gran parte della sua campagna elettorale contro l'immigrazione e, paradossalmente, con particolare veemenza contro i cittadini di origine nordafricana, che, rispetto a quanti hanno, per es., una origine asiatica, sono di gran lunga i più assimilati. In Italia la Lega Nord è una forza politica che ha portato avanti una reinvenzione della tradizione, prefigurando e rivendicando un'identità padana: benché con palesi finalità secessioniste e dunque contro l'unità nazionale, nonostante i suoi eletti in Parlamento, ha sostenuto mobilitazioni popolari contro le comunità dei migranti che costituirebbero un pericolo per l'integrità dell'identità nazionale. Il Front national e la Lega Nord sostengono l'ideologia dello scontro di civiltà, arrogandosi il diritto di rappresentare l'Occidente cristiano contro l'Islam, diffuso ormai per la presenza dei migranti musulmani. L'Islam trapiantato viene considerato inintegrabile e identificato, stereotipicamente, con il fondamentalismo terrorista.

L'essenzialismo etnico non è sempre solo appannaggio delle forze xenofobe. Non è raro che si utilizzino argomenti essenzialisti anche in maniera più subdola, quando cioè sono portati avanti anche da forze politiche progressiste, che si dichiarano impegnate per l'accoglienza, l'ottenimento della parità dei diritti da parte dei lavoratori stranieri e che considerano la differenza culturale un valore da conservare, esaltando la nuova s. m. e multiculturale. Il caso dei Rom e dei Sinti in Italia è paradigmatico.I numerosi Zingari giunti in diverse ondate dai Paesi dell'Est devono essere considerati in gran parte profughi di una diaspora che ha anticipato e seguito la guerra civile nella ex Iugoslavia e lo sgretolamento dei regimi comunisti, come in Romania e in Bulgaria, dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. Benché già sedentarizzate nei Paesi di provenienza, sono state rinchiuse in campi sosta, veri e propri lager distanti dal centro delle città e spesso prossimi alle discariche, in quanto considerati dei nomadi. La cultura connessa al nomadismo viene esaltata nella sua differenza come un valore da preservare, ma di fatto continua a essere la ragione con la quale si giustifica l'esclusione sociale scontata dai Rom. Il caso dei Rom è il più eclatante per l'uso perverso del processo di etnicizzazione messo in atto dalle istituzioni. L'European Roma Rights Center nel 2000 ha prodotto un pamphlet di denuncia internazionale contro l'Italia per una situazione ai limiti del genocidio. L'unico intervento sistematico, finalizzato in qualche maniera all'integrazione, ha riguardato la scolarizzazione dei minori, ma senza affrontare i problemi del diritto a una abitazione e soprattutto al lavoro. Le loro attività tradizionali di artigianato sono andate sempre più fuori mercato e l'esercizio di attività commerciali è divenuto sempre più difficile per il controllo subito. Paradossalmente, poi, la violazione sistematica di una legge dello Stato, che imporrebbe ai Comuni l'obbligo di allestire spazi adeguati a tutela degli artisti di strada, ha determinato una sedentarizzazione forzata di quegli Zingari italiani che erano veri nomadi da lungo tempo. I Sinti, giostrai italiani, esercitavano lo spettacolo viaggiante, il teatro dei burattini, portavano ovunque i piccoli circhi, e le loro giostre erano presenti in tutte le feste patronali.

i migranti del postfordismo

Nei Paesi dell'area mediterranea le migrazioni postfordiste stanno determinando delle s. m. di assoluta novità. Le migrazioni non sono più collegate alla storia coloniale e sono in gran parte determinate da pull factors, fattori di attrazione. L'economia postindustriale, in profonda trasformazione e con un welfare molto carente, richiede una manodopera non solo nell'agricoltura e nell'industria manifatturiera, ma soprattutto nei servizi, nel basso terziario, nel lavoro domestico e nell'assistenza alla persona. L'Italia, come la Spagna, la Grecia e il Portogallo, da Paese di emigrazione è divenuto Paese di immigrazione. All'immigrazione extracomunitaria viene fatta risalire la trasformazione in società multietnica dell'Italia dove, in due decenni, si è arrivati a 3 milioni di soggiornanti regolari e a circa un milione di lavoratori in condizione di clandestinità. La discontinuità di maggior rilevanza rispetto alle migrazioni storiche avvenute in Europa per la ricostruzione del dopoguerra è costituita dal fatto che quelle attuali non risalgono più alla storia coloniale di un Paese. Nella penisola sono arrivati immigrati da ogni parte del mondo riconducibili a più di 100 nazionalità; le provenienze più consistenti sono da almeno 30 Paesi. Il livello scolastico dei migranti è molto alto rispetto al passato nonostante vengano impiegati in mansioni subalterne.

Queste nuove migrazioni hanno un accentuato carattere di transnazionalità, che comporta la reversibilità delle strategie migratorie e l'alternanza lavorativa e residenziale tra il Paese di emigrazione e quello di accoglienza, delineando un campo sociale nuovo che non tiene conto dei confini nazionali. La velocità e il basso costo dei mezzi di trasporto permettono ormai di mantenere non solamente costanti rapporti con il Paese di provenienza, bensì di sperimentare forme di transnazionalità sconosciute in passato. In realtà le migrazioni hanno sempre avuto caratteristiche transnazionali: anche quando i migranti s'insediavano definitivamente nel Paese d'accoglienza, restavano forti relazioni economiche e simboliche con il Paese di provenienza. Attualmente però si verificano fenomeni di circolarità, di pendolarismo, di circuiti migratori che per la prima volta mostrano come i migranti strutturino relazioni, investano risorse con uno stesso peso in entrambi i poli della migrazione. L'insicurezza per un'inclusione mai acquisita in maniera sufficientemente stabile costringe a una continua reversibilità delle strategie d'insediamento e d'identificazione.

La caratteristica strutturale di queste nuove migrazioni è proprio la clandestinità, di fatto non scoraggiata nonostante le politiche di contenimento come i rimpatri forzati e indiscriminati di migliaia di migranti e profughi. In Italia è richiesta sempre più una manodopera flessibile, sottopagata per varie mansioni subalterne nel mercato del lavoro, richiamata per aggirare i limiti imposti dalle conquiste degli operai dell'industria, per soddisfare il boom senza sosta dell'edilizia e le carenze di un welfare per i servizi alla persona in una situazione di grave invecchiamento della popolazione. Ma è proprio la transnazionalità che rende sopportabili le condizioni di inclusione subalterna. Sino a quando è operante uno scarto notevole tra il costo della vita in patria e quello nel Paese di accoglienza, anche scarse rimesse sono risolutive per garantire migliori condizioni di vita alla rete di intere famiglie estese.

Le formule con le quali si affrontano le dinamiche di questa realtà effettuale che riguarda le condizioni di vita e di lavoro dei nuovi migranti, come, per es., 'la società italiana come società multietnica', sono quanto mai obsolete. Il problema dell'identità etnica e culturale di questi attori sociali si pone ancora in maniera essenzialista da parte degli xenofobi di turno o sbandierando petizioni di principio sul pluralismo culturale di una genericità sorprendente. I migranti del postfordismo, spesso con una capacità di mobilità addirittura planetaria, mostrano di disporre di identità multiple, situazionali, che li rendono in grado di poter agire nei diversi contesti transnazionali all'interno dei quali si trovano a vivere.

Vi è infine un modo di concepire le dinamiche delle s. m. diverso sia dal modello del pluralismo culturale sia da quello del multiculturalismo. L'ibridità, il metissage, la creolizzazione, sono il prodotto del contatto culturale che disarticola e rende astratte le forme pure dell'identità etnica e culturale. Per P. Gilroy (1993) è proprio la diaspora che mette in crisi l'effettivo potere del territorio nel determinare l'identità.

Il termine éthnos contrapposto a démos serviva a distinguere tra i cittadini della polis e i barbari, 'balbuzienti' perché parlavano lingue strane. Si tende ancora nel 21° sec. a riproporre questo termine in maniera inopportuna, connotando etnicamente migranti che provengono tutti da Stati nazionali, spesso con livelli scolastici medi molto più alti rispetto ai nostri connazionali. La modernizzazione, la globalizzazione, avrebbero dovuto portare a una sempre più accentuata scomparsa della etnicità. Eppure l'esplosione dei localismi a livello planetario sembra costituire una reazione all'omologazione culturale. Ma il motivo di fondo, la funzione latente di tante nuove forme di revival etnico, con produzione di mobilitazioni centrate sulla etnicità o sulla religione da parte delle comunità dei migranti nei Paesi occidentali, è costituito dalla reazione alle promesse non mantenute sul piano della piena integrazione sociale ed economica.

bibliografia

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F. Barth, Ethnic groups and boundaries: the social organization of culture difference, Bergen-London 1969.

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P. Gilroy, The black Atlantic: modernity and double consciousness, Cambridge (Mass.) 1993 (trad. it. Roma 2003).

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C. Marta, Relazioni interetniche: prospettive antropologiche, Napoli 2005.

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