Società in accomandita semplice

Diritto on line (2017)

Paolo Piscitello

Abstract

La società in accomandita semplice è un modello di società di persone il cui tratto essenziale può essere colto nella presenza di due categorie di soci: gli accomandatari, illimitatamente responsabili, cui è affidata l'amministrazione della società e gli accomandanti, limitatamente responsabili ed esclusi dalla gestione.

L'esistenza di tali categorie di soci è il motivo ispiratore della disciplina di questo tipo di società, cui si applicano, per gli aspetti non espressamente regolati, le norme della società in nome collettivo (art. 2315 c.c.).

Premessa

La società in accomandita semplice si caratterizza per la presenza di due categorie di soci: gli accomandatari, illimitatamente responsabili, cui è affidata l'amministrazione della società, e gli accomandanti, limitatamente responsabili ed, in linea di principio, esclusi dalla gestione dell'impresa. L'adozione di un siffatto modello mira a consentire la raccolta di capitali da soggetti non interessati a partecipare in prima persona all'amministrazione (cfr. Vella, F. – Bosi, G., Diritto ed economia delle società, Bologna, 2015, 92).

Nella realtà economica italiana, le società in accomandita semplice hanno una notevole diffusione, anche se, in gran parte dei casi, annoverano un numero di soci non elevato; diversamente, in Germania vi sono Kommanditgesellschaften con centinaia di accomandanti che, attraverso il collegamento con una GmbH che assume la posizione di accomandatario (Typenvermischung), consentono di coniugare i vantaggi del regime di amministrazione diretta con la responsabilità limitata. Le modifiche legislative che hanno rimosso gli ostacoli alla partecipazione di società di capitali in società di persone (art. 2361, co. 2, c.c.) potrebbero determinare anche in Italia la diffusione di un modello analogo e, più in generale, l'impiego delle accomandite quali società operative nell'ambito dei gruppi.

L'esistenza di due categorie di soci con una diversa posizione in ordine alla gestione dell'impresa ed alla responsabilità per le obbligazioni sociali è il motivo ispiratore della disciplina di questo tipo, cui, per gli aspetti non espressamente regolati, si applica la disciplina della società in nome collettivo, purché compatibile con la regolamentazione specifica (art. 2315 c.c.). Siffatta tecnica legislativa consente di individuare agevolmente il complesso delle norme che regolano la posizione degli accomandatari, ma crea non poche difficoltà nella ricostruzione dei diritti ed obblighi dei soci accomandanti (Denozza, F., Società in accomandita. I) Società in accomandita semplice, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1993, 2).

Le deviazioni dal modello normativo della società in nome collettivo riguardano le diverse fasi della vita sociale: costituzione, gestione dell'impresa, trasferimento delle partecipazioni.

La costituzione. La società in accomandita semplice irregolare

Per quanto riguarda la costituzione, le differenze di disciplina rispetto alla società in nome collettivo non sono particolarmente rilevanti.

La regolamentazione è sostanzialmente analoga, se si eccettuano le norme peculiari stabilite per la formazione della ragione sociale, che deve contenere il nome di almeno uno degli accomandatari (art. 2314 c.c.), mentre è fatto divieto di inserire nella medesima quello dei soci accomandanti.

L'inserimento del nome dell'accomandante nella ragione sociale comporta la responsabilità illimitata dello stesso per le obbligazioni sociali in solido con gli accomandatari (art. 2314, co. 2, c.c.).

Al riguardo, è stato sostenuto che non è possibile conservare il nome di un accomandatario il quale, in seguito ad una modifica dell'atto costitutivo, assuma il ruolo di accomandante, sicché in una siffatta ipotesi il socio sarebbe illimitatamente responsabile anche per le obbligazioni sociali sorte successivamente al mutamento di posizione all'interno della società, poiché la permanenza del nome del socio potrebbe trarre in inganno i terzi (Cottino, G. – Weigmann, R., Le società di persone, in Cottino, G. – Sarale, M. – Weigmann, R., a cura di, Società di persone e consorzi, in Tratt. Cottino, III, Padova, 2004, 207).

A ben vedere, tuttavia, non sembra che tale fattispecie differisca nella sostanza da quella in cui si statuisce che la società possa continuare a mantenere nella ragione sociale il nome del socio receduto o defunto, purché vi sia il suo consenso o quello degli eredi (art. 2292, co. 2, c.c.). Ed analoghi sembrano essere, in tal caso, i rischi che i terzi possano confidare di soddisfarsi sul patrimonio personale di chi non è più socio illimitatamente responsabile.

La regolamentazione della società semplice governa altresì i conferimenti (art. 2253 ss. c.c.) ed a questa si deve -in linea di principio- fare riferimento per la determinazione delle entità conferibili, nonché per la disciplina dei relativi rapporti tra socio e società.

È discusso se il conferimento dell'accomandante possa consistere in una prestazione di opera o di servizi. L'impostazione tradizionale ritiene un siffatto apporto inammissibile; in tale direzione, deporrebbero l'origine storica della società in accomandita semplice, da cui emerge la posizione dell'accomandante come soggetto che effettua un apporto di capitale, nonché la considerazione che, in tal caso, non solo si verificherebbe una totale privazione della funzione di garanzia del conferimento, ma gli accomandanti sarebbero sottratti da ogni responsabilità in caso di cessazione dell'attività sociale (cfr., ex multis, Montalenti, P., Il socio accomandante, Milano, 1985, 244 ss.). Per contro, nel senso dell'ammissibilità sembrerebbe deporre il contenuto precettivo dell'art. 2320, co. 2, c.c., là dove prevede che gli accomandanti possono prestare la propria opera sotto la direzione degli amministratori, dato che non sembra possibile limitare tale attività ad una prestazione di lavoro subordinato da parte dei medesimi e, soprattutto, la considerazione che, non potendosi riconoscere ai conferimenti una funzione di garanzia, non sembrano sussistere ostacoli ad un apporto d'opera da parte del socio accomandante (Di Sabato, F., Capitale e responsabilità interna nelle società di persone, Napoli, 1967, 292 ss.). Su di un piano più generale, la soluzione negativa sembrerebbe essere in contraddizione con la recente evoluzione della disciplina, che all'art. 2464, co. 6, c.c. ammette il conferimento d'opera e di servizi anche nelle società a responsabilità limitata (cfr., Cottino, G. – Weigmann, R., Le società di persone, cit., 229; cfr. anche, Grippo, G. – Bolognesi, C., La società in accomandita semplice, II ed., in Tratt. Rescigno, XVII, Torino, 2010, 85).

Nel caso di società non iscritta nel registro delle imprese (accomandita semplice irregolare), ai rapporti con i terzi si applica la disciplina della s.n.c. irregolare (art. 2297 c.c.); tuttavia, per le obbligazioni sociali i soci accomandanti rispondono limitatamente alla loro quota, salvo che abbiano partecipato alle operazioni sociali (art. 2317, co. 2, c.c.). Al riguardo, va segnalato che, in assenza di un atto scritto, può mancare uno strumento incontrovertibile per l'individuazione della posizione dei singoli soci e risultare problematica la qualificazione degli stessi come accomandanti o accomandatari (Cottino, G. – Weigmann, R., Le società di persone, cit., 230) ed in alcuni casi della stessa società come accomandita semplice o società in nome collettivo irregolare; sicché sembra che nella prassi l'applicazione della disciplina dell' accomandita semplice irregolare sia destinata ad essere per lo più confinata alle ipotesi, probabilmente non frequenti, in cui le parti abbiano redatto un atto costitutivo senza tuttavia adempiere agli obblighi pubblicitari.

La gestione della società. La posizione degli accomandatari

L'amministrazione della società può essere attribuita solo agli accomandatari (art. 2318, co. 2, c.c.).

In assenza di un'espressa previsione dell'atto costitutivo, l'amministrazione spetterà a tutti i soci a responsabilità illimitata, in forza della disciplina dettata per la società semplice (art. 2257, co. 1, c.c.) e applicabile a tutte le società di persone. È peraltro possibile che i soci optino per un modello organizzativo in cui la gestione sia affidata solo ad alcuni accomandatari.

Analogamente alle altre società di persone, gli amministratori possono essere nominati sia nell'atto costitutivo che con atto separato. Nel primo caso, si applicheranno in toto le regole contenute nella disciplina della società semplice (art. 2259 c.c.); qualora si scelga il modello organizzativo imperniato sull’atto separato, sono necessari invece, sia per la nomina che per l'eventuale revoca, il consenso degli accomandatari e l'approvazione degli accomandanti che rappresentino la maggioranza del capitale sottoscritto (art. 2319 c.c.).

Per la revoca degli amministratori nominati nell’atto costitutivo, troverà applicazione la disciplina generale dell'art. 2259 c.c. (per la questione della legittimità della relativa richiesta da parte dell'accomandante, vedi, infra, § 5). La giurisprudenza ha sancito che la revoca dell’accomandatario dalla funzione di amministratore non è necessariamente collegata all’esclusione dello stesso dalla società (Cass., 26.9.2016, n. 18844).

Nell'ipotesi di pluralità di amministratori, anche nella s.a.s. come nelle altre società personali si potrà prevedere un modello di amministrazione disgiunta o congiunta.

È stato sostenuto che, in mancanza di un patto espresso, non può trovare applicazione la regola generale della gestione disgiunta. Siffatto modello presupporrebbe necessariamente la decisione di tutti i soci (amministratori e non) sull’opposizione esercitata da uno degli amministratori; decisione cui non potrebbero partecipare gli accomandanti che verrebbero, in tal modo, ad intromettersi nella gestione della società. Di conseguenza, in presenza di una pluralità di accomandatari amministratori, il regime legale sarebbe quello dell’amministrazione congiunta (in questo ordine di idee, Rivolta, G.C.M., In tema di società in accomandita semplice, in Giur. comm., 2003, I, 127 ss.). Più affidante appare tuttavia ritenere che il regime legale continui ad essere quello dell’amministrazione disgiunta che, come noto, consente una gestione agile e decisioni rapide (in questo senso, Cass., 21.6.1985, n. 3719); piuttosto, il vero problema sarà quello di stabilire se gli accomandanti possano partecipare alla decisione sull’opposizione o questa resti riservata ai soci a responsabilità illimitata (vedi, infra, § 5).

L'espressa riserva della gestione a favore degli accomandatari non impedisce il conferimento di procure speciali a non soci, mentre non può ritenersi ammissibile una procura generale che attribuisca al terzo la gestione della società, che violerebbe il disposto dell'art. 2318, co. 2, c.c.

L’affidamento della gestione ad un amministratore estraneo appare in contrasto con la disciplina della società in accomandita semplice, da cui sembra trasparire la connessione indissolubile tra la posizione di accomandatario ed il compito di amministrare la società. L’articolato sistema di divieti e di sanzioni previsto per l'accomandante che viola il divieto di immistione (art. 2320 c.c.) mostra, infatti, l’intento di evitare che l’amministrazione possa essere conferita a soggetti diversi dagli accomandatari (Piscitello, P., Passaggi generazionali e gestione dell'impresa nelle società di persone, in RDS, 2014, 43).

I soci accomandanti. Il fondamento del divieto di immistione

I tratti essenziali della posizione dei soci accomandanti sono la responsabilità limitata e l'esclusione dalla gestione dell'impresa comune.

La scarna disciplina lascia, tuttavia, aperte non poche questioni sia per quanto riguarda la definizione delle regole con cui opera la responsabilità limitata di tali soci, che con riferimento alla posizione degli stessi rispetto all'amministrazione dell'impresa.

Sotto il primo profilo, se non sembra revocabile in dubbio che gli accomandanti rispondono limitatamente alla quota conferita (art. 2313, co. 1, c.c.) è necessario verificare se sussista una responsabilità diretta degli stessi nei confronti dei creditori sociali. La questione ha, invero, rilevanti risvolti applicativi, se si considera che solo se si propende per la soluzione positiva una volta dichiarato il fallimento della società i creditori sarebbero legittimati ad agire verso gli accomandanti, mentre, se si esclude la responsabilità diretta, un'eventuale azione spetterebbe unicamente al curatore fallimentare.

Al riguardo, sembra preferibile optare per la soluzione negativa (in questo senso, già, Graziani, A., Diritto delle società, V ed., Napoli, 1962, 155). La responsabilità dell'accomandante discende dalla mancata esecuzione del conferimento nei confronti della società, sicché appare ragionevole ritenere che l'unico soggetto legittimato ad agire per l'esecuzione di tale obbligo sia la stessa. Non va trascurato poi che la tesi della responsabilità diretta dell'accomandante verso i creditori sociali suscita non poche perplessità, dato che finisce per identificare fenomeni eterogenei quali l'obbligo di conferimento e la responsabilità patrimoniale (e vedi, Di Sabato, F., Società in generale. Società di persone, in Tratt. dir. civ. Perlingieri, V, t. 4, Napoli, 2004, 244).

Più complessa è la definizione delle forme in cui i soci accomandanti possono partecipare alla gestione della società e dei diritti di controllo che spettano agli stessi sull'attività degli accomandatari.

La formulazione dell'art. 2320, co. 1, c.c., ove prevede che i soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione, né trattare affari in nome della società, se non in forza di procura speciale, lascia aperti ampi margini di incertezza in merito alle linee perimetrali dell'intervento di tali soci nell'attività sociale, sicché la definizione delle stesse richiede che si precisino le ragioni dell'esclusione dalla gestione.

Il fondamento del divieto di immistione è, come noto, discusso. La previsione della responsabilità illimitata non sembra volta a tutelare l'affidamento dei terzi che hanno confidato di potersi soddisfare anche sul patrimonio personale dell'accomandante. Ed invero, la violazione del divieto di immistione si verifica sia nel caso di atti di rilievo meramente interno che nell’ipotesi di amministrazione esterna ed anche i terzi che non hanno avuto contatti con l'accomandante possono giovarsi della responsabilità dello stesso con il proprio patrimonio personale. Inoltre, la sfera di responsabilità dell'accomandante ingeritosi nella gestione comprende anche obbligazioni di carattere non negoziale, quali i debiti tributari o gli obblighi derivanti da fatto illecito; il che appare in palese contrasto con l’individuazione del fondamento della stessa nella tutela dell’affidamento (in questo ordine di idee, Di Sabato, F., Società in generale, cit., 254).

Da altro angolo visuale, si è affermato che la previsione della responsabilità illimitata in seguito alla violazione del divieto di immistione si ricollega ad esigenze di ordine pubblico economico e costituisce espressione del principio della necessaria corrispondenza tra potere di gestione e responsabilità (tra gli altri, Galgano, F., Le società in genere. Le società di persone, III ed., in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, Milano, 2007, 465 ss.). Vero è, tuttavia, che anche siffatta ricostruzione suscita perplessità e appare indissolubilmente legata all'esistenza di un nesso inscindibile tra potere di gestione e responsabilità illimitata che è, come noto, controversa. Il principio keine Herrschaft ohne Haftung, presupposto di questa tesi, non può infatti essere posto alla base della soluzione di problemi applicativi, se si considera che lo stesso è ampiamente controverso. Risulta, pertanto, preferibile ritenere che la regola sia collegata al diverso rilievo delle due categorie di soci accomandanti ed accomandatari e costituisca un presidio posto a tutela delle caratteristiche tipologiche della società in accomandita semplice (per tali considerazioni, Spada, P., La tipicità delle società, Padova, 1974, 443 e, sulla sua scia, Di Sabato, F., Società in generale, cit., 255).

La partecipazione degli accomandanti alla gestione. I poteri di controllo

Alla luce di tali rilievi, possono essere risolte le principali questioni relative alle modalità di partecipazione degli accomandanti all’amministrazione dell'impresa, che può riguardare sia atti di amministrazione interna sia l'attività esterna.

Per quanto riguarda gli atti di amministrazione interna, è necessario partire dal contenuto precettivo dell'art. 2320, co. 2, c.c., secondo cui gli accomandanti possono prestare la propria opera sotto la direzione degli amministratori e, se l'atto costitutivo lo consente, dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni nonché compiere atti di ispezione e sorveglianza. Al riguardo, mi sembra che sia permessa solo una collaborazione limitata per quanto riguarda la gestione, in modo da non alterare le caratteristiche strutturali della società in accomandita semplice; pertanto, gli accomandanti possono prestare la propria attività sotto la direzione degli accomandatari. Per contro, sembra di dover dissentire da un'interpretazione dell'art. 2320 c.c. che dilati la categoria dei comportamenti inibiti fino a ricomprendervi tutti gli atti che possano avere una qualche influenza sulla gestione della società; piuttosto, sembra ragionevole reputare vietate solo le operazioni di immediata disposizione del patrimonio sociale e, tra gli atti che possono influenzare l'amministrazione (autorizzazioni, pareri ecc.), quelli che configurino un'alterazione dei rapporti tra soci o, in altri termini, della struttura tipologica della società (in questo senso, Denozza, F., Società in accomandita, cit., 4).

Nella medesima prospettiva, riterrei che la previsione secondo cui l'atto costitutivo può riservare agli accomandanti autorizzazioni o pareri per determinate operazioni (art. 2320, co. 2, c.c.) non possa giungere a svuotare il potere di gestione degli accomandatari, sicché se può reputarsi legittima la previsione del parere per tutti gli atti di una determinata categoria (ad es., vendite di immobili), non appare, invece, possibile statuire un generale potere di autorizzazione per tutte le operazioni superiori ad un determinato importo (Cottino, G. – Weigmann, R., Le società di persone, cit., 209). Non sembra poi che gli amministratori possano di loro iniziativa rimettere agli accomandanti la decisione in merito all'opportunità o meno di un'operazione, come del resto confermato dallo stesso disposto dell'art. 2320, co. 2, c.c. che riserva all'atto costitutivo e non ad una scelta degli accomandatari la possibilità di richiedere il parere in ordine ad atti di gestione preventivamente individuati (Denozza, F., Società in accomandita, cit., 4).

L'accomandante è, a mio avviso, altresì legittimato a chiedere, in ogni caso, la revoca per giusta causa degli amministratori, indipendentemente dal titolo di nomina degli stessi, ai sensi del disposto dell'art. 2259, co. 3, c.c.; si tratta di strumento di tutela che, in quanto volto a ripristinare la correttezza nell'amministrazione della società, non può essere qualificato atto di gestione, ma piuttosto costituisce la sola via praticabile nell'ipotesi in cui il socio accomandatario sia unico e perciò amministratore (così, limpidamente, Campobasso, G.F., Diritto commerciale. 2. Diritto delle società, IX ed., a cura di M. Campobasso, Milanofiori Assago, 2015, 127).

È controverso se, nell'ipotesi di regime di amministrazione disgiunta, gli accomandanti possano partecipare alla decisione sull'opposizione agli atti di gestione di un socio amministratore ex art. 2257, co. 3, c.c. (per la soluzione negativa, tra gli altri, Bussoletti, M., Società in accomandita semplice, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, 974; Vassalli, Fr., Responsabilità d’impresa e potere di amministrazione nelle società personali, Milano, 1973, 217-218). La soluzione positiva è tuttavia da ritenere preferibile se si considera che, in tal caso, la maggioranza dei soci è chiamata a pronunciarsi sull'opposizione e non sul merito dell'operazione e, soprattutto, che con tale attività non si partecipa alla gestione alterando le caratteristiche tipologiche della s.a.s., ma si esercita un controllo ed un indirizzo solo indiretto sull'amministrazione, come confermato dalla disciplina della società semplice (art. 2257, co. 3, c.c.), ove si prevede la partecipazione a tale decisione anche dei soci non amministratori. Né può essere trascurato che, in questo caso, l'intervento su una questione attinente alla gestione della società non avviene per autonoma iniziativa, ma in seguito all'opposizione e il concorso dell'accomandante alla decisione sull'atto di amministrazione risulta circoscritto alla specifica operazione per la quale è stato manifestato il dissenso (per un'ampia trattazione del problema, Montalenti, P., Il socio accomandante, cit., 311 ss.; sul punto, cfr. già Venditti, A., Collegialità e maggioranza nelle società di persone, Napoli, 1955, 78). La circostanza poi che esista un contrasto formalizzato tra gli amministratori esclude il pericolo che attraverso la partecipazione alla decisione sull’opposizione gli accomandanti partecipino alla gestione della società (Denozza, F., Società in accomandita, cit., 4).

Sulla scorta della previsione secondo cui gli accomandanti hanno diritto ad avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite (art. 2320, co. 3, c.c.) deve reputarsi che essi debbano approvare il bilancio; se è vero che il diritto di ricevere tale documento non comporta di per sé quello di approvarlo, è altrettanto vero che l'obbligo di comunicazione agli accomandanti non avrebbe significato se lo stesso non dovesse essere approvato anche dai soci limitatamente responsabili. Né può trascurarsi che approvare un consuntivo non significa amministrare la società, ma costituisce attività tipica di chi affida ad altri la cura dei propri interessi, come avviene anche nella maggior parte dei sistemi di amministrazione delle società di capitali (sul punto, Cottino, G. – Weigmann, R., Le società di persone, cit., 219; e già, Venditti, A., Nuove riflessioni sull'organizzazione collegiale delle società di persone, in Dir. e giur., 1962, 396). In tale prospettiva, l'autonomia statutaria, se può senza dubbio allargare la sfera dei diritti di controllo consentendo la possibilità di compiere atti di ispezione e sorveglianza, non può spingersi oltre ed, in particolare, attribuire agli accomandanti parte del potere decisionale degli amministratori. Di conseguenza, è possibile prevedere pareri obbligatori dei soci limitatamente responsabili per operazioni di una determinata natura o superiori ad un certo importo; tuttavia, l'autonomia privata non potrà riconoscere agli stessi valore vincolante.

L’accomandante ha inoltre diritto, ex art. 2320, comma 3, c.c., di consultare i libri e gli altri documenti della società. L’inadempimento degli accomandatari a tale obbligo costituisce giusta causa di recesso dalla società (Trib. Milano, 18.10.2016, in Giur. it., 2017, 395).

È preferibile ritenere che il socio accomandante sia soggetto all'obbligo di non concorrenza ex art. 2301 c.c., sul presupposto che i poteri di informazione possono consentirgli l'acquisizione di notizie riservate che potrebbero danneggiare la società, qualora eserciti in proprio un'attività concorrente o partecipi come socio illimitatamente responsabile ad altra società (in questo senso, Denozza, F., Società in accomandita, cit., 8; e già, Greco, P., Le società nel sistema legislativo italiano. Lineamenti generali, Torino, 1959, 351, nota 24; ma v., in senso contrario, Cass., sez. I, 24.5.2016, n. 10715; nonché Graziani, A., Diritto delle società, cit., 162, nt. 1).

Per quanto riguarda l'attività esterna, gli accomandanti possono concludere negozi nei confronti dei terzi in virtù di procura speciale, mentre non appare legittimo il conferimento agli stessi di una procura generale (Campobasso, G.F., Diritto commerciale, cit., 127). Appare ragionevole ritenere che la società non sia vincolata agli atti posti in essere dall'accomandante in violazione del divieto di immistione; si tratta di atti compiuti da un soggetto privo dei necessari poteri che devono, pertanto, reputarsi inefficaci (in questo senso, Denozza, F., Società in accomandita, cit., 5 s.; ed, in giurisprudenza, Cass., 5.3.1982, n. 1381; Cass., 22.6.1978, n. 3092), a meno che non sussista una regolare procura o l'attività dell'accomandante sia successivamente ratificata dagli amministratori (Campobasso, G.F., Diritto commerciale, cit., 131).

Non è, infine, agevole precisare le linee perimetrali dei poteri di controllo degli accomandanti sulla gestione, posto che la regolamentazione specifica della s.a.s. si limita a prevedere che costoro possono compiere atti di ispezione e sorveglianza (art. 2320, co. 2, c.c.) e che, in ogni caso, hanno diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite e di controllarne l'esattezza consultando i libri e gli altri documenti della società (art. 2320, co. 3, c.c.).

Al riguardo, è stato rilevato che i poteri di controllo degli accomandanti inderogabili per legge siano meno intensi di quelli spettanti al socio di società in nome collettivo, cui l'art. 2261, co. 1, c.c. riconosce il diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali, di consultare i documenti relativi all'amministrazione e di ottenere il rendiconto quando gli affari per cui fu costituita la società sono stati compiuti, sicché potrebbe postularsi che il potere ispettivo degli accomandanti non sia permanente, ma limitato alla verifica dei dati risultanti dal bilancio (Cottino, G. – Weigmann, R., Le società di persone, cit., 218; vedi anche, Rivolta, G.C.M., In tema di società, cit., 132 s., che rileva come, in tal caso, si applicherebbe il disposto dell’art. 2320, co. 3 c.c. e non l’art. 2261 c.c.; nonché gli acuti rilievi di Limatola, C., Considerazioni sul controllo del socio non amministratore nelle società di persone, in RDS, 2015, 316). Invero, una siffatta limitazione dei poteri di controllo dell'accomandante appare in contraddizione con la recente evoluzione della disciplina, che riconosce anche al socio non amministratore di società a responsabilità limitata di avere notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di propria fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all'amministrazione (art. 2476, co. 2, c.c.), ampliando le linee perimetrali del controllo rispetto alla disciplina previgente.

La violazione del divieto di immistione

L'ingerenza dell'accomandante nell'amministrazione della società comporta una duplice sanzione: la responsabilità illimitata verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali e la possibilità di esclusione (art. 2320, co. 1, c.c.).

È discusso se la perdita del beneficio della responsabilità limitata operi anche nei rapporti interni, con la conseguenza che l'accomandante ingeritosi nella gestione debba sopportare una quota delle perdite della società (Galgano, F., Le società in genere, cit., 470; e in giurisprudenza, Cass., 19.12.1978, n. 6085) oppure sia limitata ai rapporti con i terzi come sembra essere confermato dallo stesso tenore letterale dell'art. 2320, co. 1, c.c. (in questo senso, ex multis, Bussoletti, M., Società in accomandita semplice, cit., 969 s.; nonché, con riferimento alla responsabilità illimitata e solidale del socio di s.n.c., Cass., 19.10.2016, n. 21066). Appare, pertanto, ragionevole ritenere che, nell'ipotesi in cui la violazione del divieto di immistione sia avvenuta con il consenso degli accomandatari, l'accomandante costretto a pagare i creditori abbia diritto di rivalsa verso costoro, poiché la sanzione della responsabilità illimitata è disposta solo nei confronti dei terzi (Campobasso, G.F., Diritto commerciale, cit., 130).

La giurisprudenza consolidata afferma che la violazione del divieto di immistione e la conseguente assunzione della responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali comportano anche l'estensione all'accomandante dell'eventuale fallimento della società (da ultime, Cass., 6.11.2014, n. 23651; Cass., 8.5.2015, n. 9398). Si tratta, tuttavia, di conclusione che merita di essere rimeditata alla luce del contenuto precettivo dell'art. 147 l. fall., così come modificato dal d.lgs. 9.1.2006, n. 5. E invero, l'espressa esclusione delle s.p.a. ed delle s.r.l. dalle società in cui è previsto il fallimento dei soci illimitatamente responsabili sembra essere indice della volontà del legislatore di limitare l'estensione della procedura alle ipotesi di soci istituzionalmente a responsabilità illimitata e non a coloro che divengono soci illimitatamente responsabili in seguito ad avvenimenti successivi. Inoltre, è significativo che, almeno nell'ipotesi di violazione del divieto di immistione, il quale inibisce all'accomandante di compiere atti di amministrazione e di trattare o concludere affari (per i quali non abbia ricevuto procura speciale) della società, la responsabilità illimitata di costui assume carattere sanzionatorio analogamente a quanto avviene per i soci unici di s.p.a. e di s.r.l., per i quali il nuovo testo dell'art. 147 l. fall. esclude testualmente l'estensione della procedura.

Per quanto riguarda l'esclusione, deve ritenersi che la stessa sia preclusa quando l'ingerenza nella gestione si è verificata con il consenso degli altri soci.

Il trasferimento delle quote

La differente posizione delle due categorie di soci si riflette sulla regolamentazione del trasferimento delle partecipazioni sociali. La circolazione delle quote degli accomandatari è soggetta alla disciplina prevista per le altre società di persone, per cui, salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo, è necessario il consenso di tutti i soci. Per contro, le quote dei soci accomandanti sono trasferibili per atto tra vivi con efficacia verso la società con il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale (art. 2322, co. 2, c.c.) e liberamente trasmissibili mortis causa (art. 2322, co. 1, c.c.).

La disciplina della circolazione della partecipazione del socio accomandante lascia irrisolti alcuni problemi di notevole rilievo.

Innanzitutto, deve reputarsi che, in mancanza del consenso della maggioranza degli altri soci, il trasferimento per atto tra vivi della quota dell'accomandante resti valido, ma inopponibile alla società (già, Galgano, F., Il principio di maggioranza nelle società personali, Padova, 1960, 217; Montalenti, P., Il socio accomandante, cit., 301; Piscitello, P., Società di persone a struttura aperta e circolazione delle quote, Torino, 1995, 80, ove ulteriori riferimenti). In assenza del consenso degli altri soci, si realizzerà pertanto una scissione tra la posizione di colui che resta titolare della quota ed il beneficiario dei risultati economici dell'attività dell'impresa comune; situazione questa che potrebbe risultare non scevra di inconvenienti, dato che è probabilmente necessario attribuire al cessionario il diritto di conoscere dati e notizie in merito all'attività della società (Cottino, G. – Weigmann, R., Le società di persone, cit., 226).

Sotto altro profilo, è necessario precisare il regime della partecipazione sociale del socio accomandante nel caso di alienazione a più soggetti o ad una pluralità di eredi. Al riguardo, riterrei che la responsabilità limitata di tali soci non induca ad escludere che, nel caso in cui la quota pervenga a più persone, la stessa resti indivisa. Ed invero, una diversa soluzione potrebbe alterare il computo delle maggioranze consentendo all'accomandante, attraverso l'alienazione della partecipazione, di realizzare l'ingresso in società di più soci di sua fiducia. Pertanto, nell'ipotesi in cui la quota dell'accomandante pervenga inter vivos o mortis causa ad una pluralità di soggetti, questi dovranno esercitare i diritti sociali tramite un rappresentante comune (vedi, amplius, Piscitello, P., Società di persone, cit., 160 ss.). Resta comunque possibile, in presenza del consenso unanime dei soci, il frazionamento della quota in applicazione della disciplina generale delle modifiche dell'atto costitutivo delle società di persone (art. 2252 c.c.).

Lo scioglimento

La società in accomandita semplice si scioglie, oltre che nelle ipotesi previste per le società in nome collettivo (art. 2308 c.c.), nel caso in cui rimangano soltanto accomandatari o accomandanti e, nel termine di sei mesi, non sia stato sostituito il socio che è venuto meno (art. 2323, co. 1, c.c.). Ed invero, essendo le società in accomandita semplice caratterizzate dalla contemporanea esistenza di due categorie di soci, risulta naturale che la disciplina dello scioglimento debba adeguarsi a tale situazione (Ferri, G., Delle società, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, III ed., Bologna-Roma, 1981, 503).

Nel caso in cui vengano a mancare tutti gli accomandatari, gli accomandanti nominano un amministratore provvisorio per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione (art. 2323, co. 2, c.c.); questi non assume la posizione di accomandatario, né risponde illimitatamente per le obbligazioni sociali. Appare preferibile ritenere che amministratore provvisorio possa essere lo stesso accomandante; in tal caso, infatti, si esula dagli atti di immistione vietati, ma la nomina è volta a consentire il ripristino della dualità di categorie tipica della s.a.s.; peraltro, la stessa previsione dell’art. 2323, co. 2, ult. parte, c.c., secondo cui l’amministratore provvisorio non assume la qualità di accomandatario, trova ragionevole spiegazione solo se si ammette che l’accomandante può essere nominato amministratore provvisorio (Ferri, G., Delle società, cit., 505; Montalenti, P., Il socio accomandante, cit., 204).

A seguito dell'estinzione della società, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, si determina – secondo la corrente giurisprudenza – «un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all'ente si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione, ovvero illimitatamente in base al regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti pendente societate» (Cass., 7.6.2016, n. 11683).

Fonti normative

Artt. 2313-2324 c.c.

Bibliografia essenziale

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