Società in accomandita per azioni

Diritto on line (2017)

Eugenio Barcellona

Abstract

La società in accomandita per azioni costituisce una «variante» della società per azioni e si caratterizza per la più netta separazione tra «proprietà» e «gestione» che si esprime nei seguenti «principi speciali»: a) il mandato gestorio è attribuito a tempo indeterminato ai soci accomandatari; b) il potere di nominare e revocare gli amministratori spetta all’assemblea straordinaria (e cioè ad una rappresentanza «qualificata» della «proprietà»); c) gli amministratori hanno poteri di veto tanto in ordine alle modifiche statutarie, quanto in ordine alla nomina di nuovi amministratori; d) gli amministratori/accomandatari rispondono personalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali assunte in pendenza dell’incarico. Nel contesto di una società famigliare a capo di un gruppo industriale, i peculiari poteri gestori attribuiti agli accomandatari consentono all’istanza imprenditoriale (rappresentata dagli accomandatari) di prevalere sull’istanza proprietaria (rappresentata dagli accomandanti), assicurando così continuità alla gestione professionale del gruppo sottostante nei passaggi generazionali, spesso caratterizzati da un’elevata frammentazione della base proprietaria.

Caratteri distintivi e funzione economica del tipo

Caratteri distintivi

Per lungo tempo si è incorsi nell’equivoco di ritenere la società in accomandita per azioni un tipo sociale a metà strada tra la ‘personale’ società in accomandita semplice e la ‘capitalistica’ società per azioni. Si affermava, cioè, che l’accomandita per azioni fosse un tipo sociale ‘ibrido’ caratterizzato dalla contrapposizione fra due diverse categorie di soci: da una parte, gli accomandanti – titolari di partecipazioni capitalistiche incorporate in azioni – e, dall’altra parte, gli accomandatari – titolari di partecipazioni personalistiche dotate di poteri e responsabilità analoghe a quelli dei soci di società personale.

Il superamento di tale equivoco (ampiamente sul punto v. infra § 2) ha ormai ricevuto addirittura «consacrazione» normativa (art. 2, co. 1, lett. f) l. 3.10.2001, n. 366; in giurisprudenza già Trib. Piacenza, 9.11.1998, in Arch. civ., 1999, 198). Invero, tale conclusione poteva agevolmente trarsi da una norma-chiave del codice civile, l’art. 2454 c.c., ai sensi del quale all’accomandita per azioni si applicano «in quanto compatibili» tutte le norme dettate per la società per azioni.

In via di prima approssimazione, può allora affermarsi che l’accomandita per azioni costituisce una ‘normale’ società per azioni connotata dal seguente regime ‘speciale’:

a) gli amministratori – necessariamente soci – non restano in carica al massimo per tre esercizi (come nella società per azioni: art. 2383, co. 2, c.c.), bensì a tempo indeterminato (salvo revoca e/o sopravvenuta decadenza) e sono denominati «accomandatari» (termine che, quindi, non designa una particolare categoria di soci, bensì quei soci che sono anche preposti alla carica gestoria);

b) essi non dispongono soltanto del potere esclusivo di gestione dell’impresa al fine dell’attuazione dell’oggetto sociale (come nella società per azioni: art. 2380-bis, co. 1, c.c.), bensì anche di due importanti poteri di veto: i) circa la nomina di nuovi amministratori (art. 2457 c.c.) e ii) circa eventuali modifiche statutarie (art. 2460 c.c.);

c) la loro nomina e revoca è rimessa alla competenza non dell’assemblea ordinaria (come nella società per azioni: art. 2364, co. 1, n. 1, c.c.), bensì dell’assemblea straordinaria;

d) essi rispondono non soltanto per violazioni di legge e/o statuto (come nella società per azioni: art. 2392 ss. c.c.), ma anche, personalmente e solidalmente, per le obbligazioni sociali sorte in pendenza di mandato (art. 2461 c.c.).

Origini storiche

Il tipo accomandita per azioni – introdotto in Italia con il codice di commercio del 1865 – deve la sua nascita al Code de commerce del 1807. Nell’ordinamento giuridico francese degli inizi del XIX secolo la costituzione della società anonima era sempre assoggettata alla previa autorizzazione governativa: ciò sia per una ragione funzionale di tutela dei risparmiatori, sia per una ragione politica di controllo sul ceto borghese/imprenditoriale da parte di quello nobiliare/governativo. Tuttavia, l’esigenza di tutela dei risparmiatori poteva, a ben vedere, essere assolta anche sostituendo il tradizionale meccanismo pubblicistico (mai gradito al ceto imprenditoriale) della previa autorizzazione governativa con il nuovo meccanismo privatistico (più consono alle esigenze liberali del ceto produttivo) della responsabilizzazione diretta dei gestori dell’impresa azionaria. Si decise così di creare un ‘nuovo’ tipo societario che, grazie alla diretta assonanza con il ‘vecchio’ tipo personale dell’accomandita semplice, consentiva di oscurare quelle esigenze di controllo governativo che qualsiasi tipo di società rivolta al mercato dei capitali sollecitava.

L’originaria disciplina dell’accomandita francese fu, quindi, realmente e volutamente ‘ibrida’: la partecipazione degli accomandanti/azionisti era disciplinata sulla falsariga di quella degli azionisti di società anonima e la partecipazione degli amministratori/accomandatari era disciplinata per espresso rinvio a quella dei soci di società personale. Tuttavia, il richiamo, per gli accomandatari, alla disciplina della partecipazione personale dei soci di collettiva creava insormontabili problemi nel contesto di una realtà societaria comunque adottata dalle grandi imprese rivolte al mercato dei capitali.

Funzione socio-economica attuale

Il venir meno della preventiva autorizzazione governativa alla costituzione di società anonime avrebbe dovuto condannare l’accomandita per azioni all’estinzione, attesa la ben maggiore appetibilità del tipo capitalistico par excellence della società per azioni. Tuttavia, la tendenziale rigidità della disciplina normativa di quest’ultima e la valorizzazione di alcuni tratti distintivi della disciplina normativa dell’accomandita per azioni (in un contesto di tassatività dei tipi societari) hanno determinato, a partire dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, una nuova ed inattesa renaissance del tipo in esame, segnatamente quale holding famigliare di gruppi industriali. Vi sono, infatti, quanto meno tre caratteristiche essenziali dell’accomandita per azioni che (in ordine crescente di importanza) possono rivelarsi assai utili nel conformare l’assetto di controllo sui grandi gruppi industriali quotati: a) la natura a tempo indeterminato del mandato gestorio; b) l’attribuzione ai gestori del potere di veto circa la nomina di nuovi gestori; c) l’attribuzione del potere di nomina/revoca dei gestori alla competenza dell’assemblea straordinaria.

Quelle appena evidenziate sono caratteristiche di cui solo un’accomandita per azioni, non una società per azioni, può fregiarsi. In una società per azioni le norme che sanciscono il carattere temporaneo del mandato degli amministratori e quelle che attribuiscono all’assemblea ordinaria la competenza alla nomina e revoca delle cariche sociali sono in entrambi i casi inderogabili (art. 2369, co. 4, c.c.), così come è certamente escluso che all’autonomia statutaria di una società per azioni sia consentito attribuire all’amministratore il potere di veto circa la nomina di nuovi amministratori.

Le regole sopra evidenziate consentono – non certo, come erroneamente ritenuto, di preservare il controllo della famiglia sul gruppo sottostante (finalità rispetto alla quale anche una normale società per azioni o una società a responsabilità limitata potrebbe risultare del tutto adeguata) bensì – di assicurare la continuità della sua gestione professionale grazie ad una più adeguata separazione fra ‘proprietà’ e ‘gestione’. Il più grave problema che il fondatore di un gruppo industriale si trova a dover affrontare è, infatti, quello della (inevitabile) frammentazione della proprietà conseguente agli (altrettanto inevitabili) eventi successori. Se invero, al momento della sua fondazione, il controllo dell’impresa si trova saldamente nelle mani di un solo soggetto – ad un tempo ‘proprietario’ e ‘imprenditore’ –, man mano che ad esso succedono le nuove generazioni, la proprietà dell’azienda va frammentandosi fra un numero sempre crescente di eredi. Ci si trova, così, dinanzi ad un capitale azionario non solo più o meno significativamente disperso fra una molteplicità di soggetti, ma soprattutto disperso nelle mani di soggetti che potrebbero non sempre condividere le qualità imprenditoriali che furono proprie del fondatore.

Rispetto ad una simile situazione, il tipo società per azioni si rivela potenzialmente inidoneo ad assicurare la continuità di una gestione professionale del gruppo: in una società per azioni, infatti, chiunque abbia la maggioranza relativa del capitale e/o dei diritti di voto dispone, per ciò stesso, dell’intero potere gestorio e v’è il rischio che quel rapporto di corrispondenza fra potere proprietario e potere gestorio faccia sì che – man mano che si susseguono le generazioni degli eredi del fondatore – l’istanza proprietaria prevalga sull’istanza imprenditoriale.

Al contrario, il tipo accomandita per azioni, grazie alle regole che le sono proprie, consente (non certo di garantire in termini assoluti, ma comunque) di favorire una più equilibrata composizione fra istanza proprietaria e istanza imprenditoriale:

a) lo spostamento di competenza (da assemblea ordinaria ad assemblea straordinaria) dei poteri di nomina/revoca delle cariche sociali determina, innanzitutto, un corrispondente innalzamento del ‘costo del controllo’; inoltre, si viene, in tal modo, ad attribuire anche a minoranze qualificate (ovvero: minoranze che siano tali da impedire il raggiungimento dei quorum di assemblea straordinaria) un importante potere di veto proprio nella decisiva materia della nomina e revoca delle cariche sociali;

b) il potere di veto degli accomandatari circa la nomina di nuovi gestori e la (tendenziale) perennità del mandato rendono poi il ricambio manageriale evento pressoché eccezionale (dipendendo, in buona sostanza, soltanto dalla morte del gestore ovvero da un largo dissenso intorno alla sua persona), venendosi così ad attribuire agli amministratori una posizione di forza che certamente essi non hanno (meglio, non possono avere) in una società per azioni a capitale frammentato.

Concorrenza tipologica interna

Qualora l’evoluzione del diritto della società per azioni dovesse rendere possibile, anche all’interno di tale tipo sociale, ciò che oggi rappresenta la vera disciplina differenziale dell’accomandita (modificabilità dei quorum per la nomina dei membri dell’organo di governo e non temporaneità del mandato), allora, probabilmente, per l’accomandita sarà davvero giunto il momento del tramonto. Invero, già oggi, a seguito della riforma del diritto societario, il tipo accomandita per azioni pare destinato a subire – per il perseguimento di quelle finalità social-tipiche di ‘cassaforte di famiglia’ – la concorrenza della ‘nuova’ società a responsabilità limitata (i dati comunicati il 9.7.2013 dalla Camera di Commercio di Milano confermano un calo delle accomandite per azioni, passate nel decennio 2003-2013 da 175 a 150). L’enorme apertura all’autonomia privata consentita dal legislatore della riforma rende, infatti, oggi possibile in una società a responsabilità limitata: a) che la carica gestoria sia attribuita anche a tempo indeterminato (esattamente come avviene in una accomandita per azioni) e, addirittura, che b) essa sia conformata nella più ampia libertà secondo i desiderata dei soci e ciò grazie alla previsione di cui all’art. 2468, co. 3, c.c., che consente all’autonomia statuaria l’attribuzione a singoli soci di ‘diritti particolari’ inerenti l’amministrazione. Questi nuovi aspetti di disciplina della società a responsabilità limitata sono tali da renderla, con opportuni interventi statutari, strumento assai efficace per adempiere alle funzioni di holding familiare di gruppi industriali.

Categorie di soci (critica) e azioni

Contrariamente a quanto afferma larga parte della dottrina, gli accomandatari e gli accomandanti non costituiscono due categorie distinte di soci. A tale conclusione si giunge sulla base dell’analisi dei seguenti dati normativi.

In primo luogo, a norma dell’art. 2461, co. 2, c.c., l’accomandatario che cessa dalla carica di amministratore non risponde per le obbligazioni sociali sorte posteriormente all’iscrizione di tale cessazione nel registro delle imprese, così tornando ad essere soltanto un «normale» socio accomandante a responsabilità limitata e non più (anche) un amministratore/accomandatario a responsabilità illimitata. In altri termini, gli accomandatari che cessano dalla carica di amministratori diventano ex lege soci accomandanti. Tutto ciò vale a marcare la profonda distanza strutturale dell’accomandita per azioni rispetto all’accomandita semplice: in quest’ultima, infatti, l’accomandatario, che di regola è anche amministratore, una volta cessato dalla carica continua a rispondere illimitatamente per le obbligazioni sociali (anche per quelle sorte in seguito alla cessazione dall’ufficio), senza che tale cessazione comporti alcuna modifica del regime normativo di responsabilità (illimitata). Nell’accomandita semplice può, allora, correttamente parlarsi di socio a responsabilità illimitata e può correttamente dirsi che la responsabilità illimitata dell’accomandatario è una caratteristica di una partecipazione sociale di categoria differente rispetto a quella degli accomandanti. Nell’accomandita per azioni, al contrario, l’accomandatario non è affatto un socio a responsabilità illimitata, bensì un amministratore a responsabilità illimitata, giacché tale responsabilità è un connotato del rapporto di amministrazione e non già della partecipazione sociale.

In secondo luogo, il legislatore prevede quale ‘speciale’ causa di scioglimento dell’accomandita per azioni soltanto il venir meno di tutti i soci accomandatari (art. 2458 c.c.), mentre rimane del tutto indifferente all’eventuale venir meno di tutti i soci accomandanti (a differenza di quanto previsto dall’art. 2323 c.c. in materia di accomandita semplice). Questa differenza di disciplina si giustifica in considerazione del fatto che il venir meno degli accomandatari equivale al venir meno di un organo essenziale della società – quello gestorio – senza il quale nessuna società potrebbe mai operare, mentre il venir meno dei (soli) accomandanti sta a significare che, in un certo momento della vita sociale, tutti i soci dell’accomandita sono anche amministratori e, quindi, accomandatari, il che non comporta alcuna incompatibilità con la disciplina e con i principi di funzionamento della società. Da ciò consegue, inoltre, la legittimità della costituzione di un’accomandita per azioni per atto unilaterale (artt. 2328, co. 1, e 2454 c.c.), a condizione che socio unico fondatore sia il soggetto destinato ad acquisire le vesti di amministratore/accomandatario.

Infine, a norma dell’art. 2452, seconda parte, c.c., le «quote di partecipazione» di tutti i soci, a prescindere dai loro poteri e dalla loro responsabilità, sono rappresentate da azioni. Pertanto, i soci accomandatari di un’accomandita per azioni si trovano, uti socii, in posizione assolutamente identica ai soci accomandanti, attendendo le differenze fra gli uni e gli altri alle peculiarità di quel rapporto di amministrazione che connota la posizione dei primi. I peculiari poteri e la peculiare responsabilità dei soci accomandatari non possono, infatti, certamente ritenersi incorporati nella «quot[a] di partecipazione» (ovvero nelle azioni) degli stessi: le azioni dei soci accomandatari non costituiscono quindi in alcun modo una particolare «categoria» di azioni nell’accezione di cui all’art. 2376 c.c., così come certamente non costituiscono una ‘categoria’ le azioni degli amministratori di società per azioni.

Per gli stessi motivi, le azioni degli accomandatari devono ritenersi liberamente trasferibili – così come quelle dei soci accomandanti – in assenza di particolari vincoli previsti dallo statuto.

Quanto rilevato non esclude che, anche in un’accomandita per azioni, si possano creare ‘categorie di azioni’ fornite di diritti diversi, le quali possono indifferentemente essere possedute dagli accomandanti e dagli accomandatari (art. 2348 c.c.).

Denominazione sociale

La denominazione della società in accomandita per azioni non è libera come quella delle altre società di capitali, bensì rigidamente vincolata dalla necessaria indicazione di almeno un socio accomandatario (art. 2453 c.c.). La presenza di soci dotati di particolari poteri e di particolari responsabilità costituisce tratto tipologico essenziale dell’accomandita e il legislatore pretende ancor oggi che, già con la denominazione sociale, i terzi siano posti in grado di identificare almeno uno di quei soci/amministratori ‘garanti’ delle obbligazioni sociali. In verità, dinanzi ad un’impresa capitalistica, quale è tipicamente quella sottesa al tipo accomandita per azioni, è indubbio che i terzi facciano affidamento molto più sul patrimonio sociale che non sul patrimonio personale di un singolo amministratore: sotto questo profilo, la prescrizione appare desueta.

Nessuna ragione di ordine pubblico osta a che, unitamente al nome di un accomandatario (in carica), nella denominazione sociale sia anche inserita qualsivoglia espressione ulteriore (ivi incluso, in ipotesi, il nome di un accomandatario ormai cessato); ma al tempo stesso, l’esigenza di consentire ai terzi l’identificazione di almeno un accomandatario/garante delle obbligazioni sociali esclude che un’accomandita possa continuare ad operare sotto il solo nome di un accomandatario ormai cessato.

Organi sociali: l’assemblea

Peculiarità rispetto alla società per azioni

La disciplina dell’assemblea della società in accomandita per azioni coincide con quella dell’assemblea della società per azioni (artt. 2363-2379-ter c.c.) salvo che per le seguenti importanti peculiarità: a) la nomina dei componenti dell’organo gestorio (cioè degli amministratori/accomandatari) non compete all’assemblea ordinaria, bensì all’assemblea straordinaria (con conseguente differenza di quorum); b) le delibere assembleari di nomina dei nuovi amministratori/accomandatari e di modifica di clausole statutarie non sono immediatamente efficaci e vincolanti, bensì soggette al potere individuale di veto di ciascun amministratore/accomandatario (art. 2457, co. 1, c.c.); c) la legittimazione al voto assembleare per la nomina dei membri dell’organo di controllo non spetta a tutti i soci, bensì ai soli soci accomandanti (art. 2459 c.c.).

Pur costituendo deviazioni dalla disciplina dell’assemblea della società per azioni, le appena evidenziate peculiarità non consentono di affermare che nell’accomandita l’assemblea non coincida con l’assemblea generale dei soci (accomandanti ed accomandatari), fungendo piuttosto quale mero ‘organo speciale di categoria’ in rappresentanza dei soli soci accomandanti (come avviene, invece, in Germania). Accomandanti e accomandatari sono, in quanto soci, entrambi azionisti di pari grado e di pari categoria (Trib. Milano, 30.1.1967, in Giur. it., 1967, I, 2, 435; App. Milano, 31.5.1968, in Giust. civ., 1968, I, 1494; contra Trib. Milano, 8.10.1962, in Temi, 1962, 520). Ciò non esclude che lo statuto possa riservare solo ai secondi (accomandatari) particolari prerogative che spetteranno loro non nella qualità di ‘soci di categoria’, ma esclusivamente nella qualità di amministratori.

Nomina dell’organo di controllo e del revisore esterno

L’art. 2459 c.c. dispone una riserva di competenza, a favore degli accomandanti, in merito alla nomina dei membri dell’organo di controllo. Il legislatore ha voluto in tal modo bilanciare il surplus di potere ‘gestorio’ (in senso lato) di coloro che rivestono la carica esecutiva di un’accomandita con un corrispondente deficit di potere di ‘controllo’ (in senso lato): ad un organo esecutivo ‘rafforzato’ si è, in altri termini, voluto contrapporre un organo di controllo parimenti ‘rafforzato’ nella sua indipendenza dai destinatari del controllo stesso (cfr. App. Bologna, 10.10.1947, in Foro it., 1948, I, 236).

Circa le conseguenze della violazione del divieto di voto e circa, in particolare, le conseguenze in termini di validità/invalidità della delibera assunta con il voto determinante dell’accomandatario, all’orientamento (minoritario) che afferma la nullità insanabile della delibera si contrappone quello (maggioritario) che sostiene la semplice annullabilità.

Sebbene la legge nulla disponga in merito alle delibere di nomina dell’eventuale revisore dei conti esterno, la ratio dell’art. 2459 c.c. (assicurare una più forte indipendenza dei controllori rispetto ai controllati) impone che gli accomandatari siano privi della legittimazione al voto anche per queste delibere.

Organi sociali: gli amministratori accomandatari

Peculiarità rispetto alla società per azioni

L’amministrazione di una società per azioni può essere affidata anche a non soci (art. 2380-bis, co. 2, c.c.), mentre nell’accomandita per azioni la carica gestoria può essere affidata soltanto a soci (Cass., 28.6.1997, n. 5790, in Giust. civ., 1997, I, 2737), i quali, proprio in virtù della nomina (da parte dell’assemblea straordinaria), divengono soci accomandatari.

Inoltre, mentre in una società per azioni gli amministratori dispongono soltanto del potere esclusivo di gestione e sono responsabili solo per violazioni inerenti all’incarico gestorio, nell’accomandita per azioni essi dispongono anche di due fondamentali poteri di veto (circa la nomina di nuovi accomandatari – art. 2457 c.c. – e circa eventuali modifiche statutarie – art. 2460 c.c. –) ed assumono l’ulteriore responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali contratte in pendenza di mandato (art. 2461 c.c.).

Infine, mentre in una società per azioni la carica gestoria non può che essere a tempo determinato (massimo tre esercizi), nell’accomandita per azioni la carica è sempre a tempo indeterminato (ferma restando, beninteso, la facoltà di revoca).

La revoca degli amministratori

A norma dell’art. 2456 c.c., l’assemblea straordinaria può validamente ed efficacemente revocare gli accomandatari dall’ufficio di amministratori anche in assenza di una giusta causa, la quale rileva ai soli fini del risarcimento del danno. Laddove si rammenti che, a norma dell’art. 2461, co. 2, c.c., l’accomandatario che cessa dall’ufficio di amministratore torni a essere soltanto un normale socio accomandante a responsabilità limitata (v. supra § 2), appare agevole concludere che la revoca dell’amministratore (accomandatario) non rappresenti un atto estintivo di una partecipazione sociale ‘personalisticamente’ caratterizzata (l’ipotetica partecipazione ‘accomandataria’); essa va piuttosto qualificata quale ipotesi di recesso unilaterale della società dal rapporto di amministrazione (collaterale rispetto al rapporto sociale e meramente eventuale).

Si giustifica così, senza difficoltà di inquadramento sistematico, la ragione per la quale la revoca dell’accomandatario non necessiti del consenso degli (altri) accomandatari: con essa non avviene alcuna modifica del contratto sociale (su cui gli accomandatari vantano un potere di veto a norma dell’art. 2460 c.c.), bensì solamente una modifica del rapporto di amministrazione che, come lega il consigliere di amministrazione alla società per azioni, così lega l’accomandatario alla società in accomandita.

La rinuncia dell’accomandatario

Oltre che per revoca, l’amministratore/accomandatario può cessare dalla carica per morte, fallimento o sopravvenuta incapacità, nonché per perdita della qualità di socio. Discussa è la legittimità della rinuncia alla carica di amministratore ovvero allo status di accomandatario. La questione riveste particolare rilievo sistematico: la tesi contraria appare il portato del pregiudizio secondo cui l’accomandatario sarebbe non un normale socio altresì preposto alla carica gestoria, bensì il titolare di una speciale partecipazione sociale di tipo personale, pregiudizio smentito dal dettato stesso degli artt. 2452-2461 c.c. (v. supra § 2). Atteso poi che la carica di amministratore (accomandatario) di accomandita per azioni è a tempo indeterminato, sembra doversi concludere non solo per la piena legittimità di un recesso anche in assenza di giusta causa, ma addirittura per la non doverosità di alcun risarcimento del danno.

Si esclude, invece, generalmente che i soci possano convenzionalmente prestabilire un termine alla durata del rapporto amministrativo: non è ammessa la figura dell’accomandatario a tempo determinato. Diversamente verrebbe snaturato, per eccesso o per difetto, il potere di veto spettante agli accomandatari circa la nomina dei nuovi amministratori ai sensi dell’art. 2457, co. 1, c.c., prerogativa che costituisce un tratto essenziale della società in accomandita per azioni: per eccesso, laddove si ritenesse che la scadenza del termine comporti che gli accomandatari cessati rimangano in carica sino al momento in cui il consiglio di amministrazione è ricostituito (come previsto dall’art. 2385, co. 2, c.c.). In tal caso agli stessi competerebbe un potere di veto sulla nomina dei nuovi amministratori, ma tale potere, pur formalmente innegabile, mal si giustificherebbe rispetto ad un soggetto destinato, di lì a poco, a perdere ogni potere gestorio (ed ogni connessa responsabilità illimitata). Per difetto, laddove, invece, si ritenesse che l’accomandatario cessato non sia più ‘in carica’ al momento della nuova nomina (diversamente da quanto previsto all’art. 2385, co. 2, c.c.) e non disponga quindi (più) di alcun potere di veto. In tal modo, si finirebbe col frustrare alla radice il senso stesso del potere di veto: i soci potrebbero, infatti, statutariamente circoscriverne la portata al (breve) tempo della durata della carica.

Per motivi analoghi è da escludere che i soci possano prevedere in statuto la decadenza automatica dell’intero consiglio di amministrazione per effetto della cessazione dall’ufficio di taluni suoi membri (cd. clausola simul stabunt, simul cadunt, di cui all’art. 2385, co. 3, c.c.).

La responsabilità degli accomandatari e loro fallibilità

I soci accomandatari sono, in quanto amministratori, responsabili sia verso i terzi per le obbligazioni sociali assunte in pendenza di mandato, sia verso la società e i creditori sociali per violazioni dei doveri gestori.

La responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali non è nient’altro che un’obbligazione di garanzia che gli accomandatari assumono unitamente alla carica e che prescinde in toto da qualsiasi loro condotta colposa: quand’anche gli accomandatari avessero osservato alla lettera tutti i loro doveri, il creditore sociale, ad esempio, che non trovasse soddisfazione nel patrimonio della società sarebbe comunque legittimato ad attivare quella sorta di fideiussione personale che gli accomandatari prestano ex lege.

La responsabilità per violazione del mandato gestorio è, al contrario, una responsabilità che nasce solo in ragione di un inadempimento ai doveri imposti dalla carica e solo allorquando tale violazione abbia determinato un danno al patrimonio sociale.

Sebbene la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali possa rendere in alcuni casi superflua la responsabilità per violazione dei doveri gestori, l’una e l’altra restano ben distinte quanto a presupposti e scopi.

Ciò posto, non può non rilevarsi come l’imposizione di una responsabilità illimitata in capo agli accomandatari risulti oggi priva di qualsiasi giustificazione sistematica: tale responsabilità è certamente da porre in relazione, nell’attuale tessuto normativo, ai peculiari poteri attribuiti agli accomandatari, ma questi poteri non possono in alcun modo ritenersi maggiori rispetto a quelli del socio unico di società di capitali (che, in ipotesi, si ‘auto-nomini’ anche alla carica di amministratore unico) ovvero a quelli degli amministratori di s.r.l., così che non si rinviene alcuna ragione sistematica che impedisca al legislatore la diversa opzione normativa – anch’essa, oggi, sistematicamente altrettanto coerente – di mantenere quegli stessi poteri senza tuttavia contestualmente imporre quella responsabilità (sia consentito rinviare a Barcellona, E., Rischio e potere nel diritto societario riformato, Torino, 2012).

Anteriormente alla riforma del diritto fallimentare si discuteva se la responsabilità personale e illimitata dell’accomandatario per le obbligazioni sociali sorte in pendenza di mandato fosse sufficiente per provocarne l’assoggettamento a fallimento ai sensi dell’abrogato art. 147 l. fall. (Barcellona, E. – Costi, R. – Grande Stevens, F., Società in accomandita per azioni, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2005, 260 ss.). La questione deve oggi intendersi definitivamente risolta dalla novella di quest’ultima disposizione, la quale – comprendendo ora espressamente l’accomandita per azioni nel novero delle società il cui fallimento comporta anche quello ‘in estensione’ dei soci illimitatamente responsabili – ha inteso chiaramente optare per la fallibilità degli accomandatari.

Modelli alternativi di amministrazione e controllo

Il modello dualistico

L’applicabilità del modello dualistico  alla società in accomandita per azioni non parrebbe, almeno prima facie, poter essere messa in dubbio dal momento che il ‘nuovo’ art. 2459 c.c. espressamente prevede il divieto degli accomandatari di partecipare alle deliberazioni di nomina e revoca dei membri del consiglio di sorveglianza (art. 2459 c.c.), organo tipico, per l’appunto, del modello dualistico.

Come noto, tratto caratteristico di tale modello è la devoluzione (dall’assemblea) al consiglio di sorveglianza del potere di nominare e revocare gli amministratori. Il fatto che le speciali norme in materia di accomandita ‘riservino’ tale potere all’assemblea non costituisce tout court motivo di incompatibilità del modello: l’attribuzione all’assemblea del potere di nominare e revocare gli amministratori non è, infatti, carattere tipologico essenziale dell’accomandita. Esso è pertanto «derogabile» mediante l’adozione di un modello alternativo di gestione, a patto però che vengano rispettati i seguenti principi (questi sì caratteristiche tipologiche essenziali dell’accomandita): a) l’innalzamento dei quorum che garantiscono che nomina e revoca degli amministratori ricevano il benestare della maggioranza della proprietà e b) l’attribuzione ai membri dell’organo esecutivo del potere di veto rispetto ad ogni suo nuovo membro.

Laddove si riconosca che nel modello dualistico la funzione di gestione non è attribuita ad un solo organo, ma è ripartita fra consiglio di sorveglianza (cui spetta anche l’’alta amministrazione’) e consiglio di gestione (composto di ‘amministratori subordinati’), appare in primo luogo possibile che la veste di accomandatari sia assunta dai membri del consiglio di sorveglianza (prima ipotesi). Essi sarebbero nominati e revocati dall’assemblea straordinaria e agli stessi competerebbero gli speciali poteri di veto sulla nomina dei nuovi sorveglianti, nonché la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali. I gestori sarebbero nominati dai sorveglianti ed il loro mandato durerebbe al massimo un triennio. La verifica di compatibilità di una simile configurazione del modello dualistico incontra serie difficoltà di fronte al dettato dell’art. 2459 c.c., a mente del quale «i soci accomandatari non hanno diritto di voto nelle deliberazioni dell’assemblea che concernono … la nomina e la revoca dei componenti del consiglio di sorveglianza». Un’interpretazione letterale della norma comporterebbe un divieto per i sorveglianti di partecipare alla votazione assembleare concernente nomina e revoca dei membri dell’organo di cui essi stessi fanno parte, contraddicendo, così, il potere di veto spettante agli accomandatari in forza dell’art. 2457, co. 1, c.c. e, soprattutto, attribuendo agli accomandanti il pieno ‘controllo’ sulla società (ossia, l’esclusivo potere di nomina e revoca dei sorveglianti/accomandatari). Invero, riconoscendo che la ratio dell’art. 2459 c.c. risiede non nel ridurre di per sé i poteri dei soci accomandatari, bensì nel rafforzare i controllori rispetto ai controllati, appare possibile interpretare il divieto di voto ivi contenuto non come destinato a operare con riferimento agli stessi sorveglianti/controllori, ma con riferimento ai membri del consiglio di gestione. In altri termini, un’interpretazione teleologicamente orientata del divieto in parola porterebbe a concludere che i gestori (nominati dai sorveglianti) non abbiano diritto di voto per le azioni ad essi spettanti nelle deliberazioni assembleari di nomina e revoca dei sorveglianti. In virtù di questa (non irragionevole) lettura «correttiva» del divieto di cui all’art. 2459 c.c., un’accomandita a struttura dualistica con sorveglianti/accomandatari parrebbe risultare compatibile con i tratti tipologici essenziali del tipo (contra Campobasso, G.F., Diritto commerciale, II, Diritto delle società, VII ed., a cura di M. Campobasso, Torino, 2013, 564, nt. 13).

La veste di accomandatari potrebbe poi essere assunta anche dai membri del consiglio di gestione, la nomina e revoca dei quali spetterebbe al consiglio di sorveglianza (seconda ipotesi). Una simile configurazione del modello dualistico appare compatibile con i tratti essenziali del tipo in oggetto solo e soltanto alla condizione che le regole di nomina e revoca dei sorveglianti siano quelle dell’assemblea straordinaria, garantendo così, quanto meno indirettamente, che i gestori/accomandatari siano espressione di una rappresentanza ‘qualificata’ della proprietà. Tuttavia, mentre in un’accomandita a modello dualistico con sorveglianti/accomandatari (ipotesi precedente) ci si poteva porre il problema se il divieto di voto di cui all’art. 2459 c.c. fosse effettivamente imputabile ai sorveglianti/accomandatari (come imposto da un’interpretazione letterale della disposizione) ovvero ai membri del consiglio di gestione (come invece suggerito da una lettura teleologica), in un’accomandita a modello dualistico con gestori/accomandatari l’interpretazione possibile è soltanto una: il divieto di voto nelle deliberazioni assembleari di nomina e revoca dei sorveglianti è certamente riferibile ai soli gestori/accomandatari. Con la conseguenza che: i) i gestori/accomandatari si troverebbero nella singolare posizione di poter esercitare il veto sugli eventuali sostituti del consiglio di gestione ma di non poter neanche partecipare al voto per la nomina e revoca di quei sorveglianti cui compete la nomina dei nuovi gestori; ii) il controllo della società finirebbe nelle sole mani dei soci accomandanti, i quali, grazie al loro unilaterale potere di nomina e revoca dei membri del consiglio di sorveglianza, potrebbero facilmente tenere sempre ‘sotto scacco’ – sia pure in via indiretta – i gestori/accomandatari, a tutto scapito di quella maggiore stabilità e indipendenza della carica gestoria che rappresenta la caratteristica princeps dell’accomandita. Non resta, quindi, che rassegnarsi a constatare come la norma contenuta nell’art. 2459 c.c. condanni certamente all’inammissibilità il modello dualistico con gestori/accomandatari nominati e revocati dai sorveglianti.

Infine, la veste di accomandatari potrebbe essere assunta dai membri del consiglio di gestione (come nell’ipotesi precedente), ma (a differenza dell’ipotesi precedente) il potere di nomina e revoca degli stessi potrebbe essere devoluto dai sorveglianti all’assemblea (terza ipotesi). Questa è l’unica configurazione del modello dualistico rispetto alla quale la nuova formulazione dell’art. 2459 c.c. non crea alcun problema. Per tale motivo, essa costituisce l’ipotesi concordemente adottata dalla dottrina che si è espressa in senso favorevole all’ammissibilità del modello dualistico nell’accomandita per azioni. Tuttavia, la devoluzione del potere di nomina e di revoca all’assemblea anziché ai sorveglianti – pur compatibile con i tratti tipologici essenziali dell’accomandita per azioni – potrebbe ritenersi incompatibile con i tratti essenziali dello stesso modello dualistico (arg. ex art. 2409-terdecies, co. 1., lett. a, c.c.).

Il modello monistico

Se rispetto alla compatibilità del modello dualistico la posizione della dottrina risulta articolata, pressoché unanime appare invece l’orientamento sfavorevole alla compatibilità del modello monistico con l’accomandita per azioni.

Come noto, il modello monistico è caratterizzato dall’assenza di un organo di controllo separato rispetto ad assemblea e consiglio di amministrazione: le funzioni di controllo sono infatti attribuite ad un comitato interno allo stesso organo esecutivo, i cui componenti, in particolare, devono soddisfare i requisiti di indipendenza previsti dall’art. 2399, co. 1, c.c. per i sindaci.

Tuttavia, non vi è, a priori, incompatibilità del modello monistico per il fatto che in un’accomandita (tutti) i gestori (e, quindi, anche i componenti del comitato per il controllo sulla gestione) debbano essere necessariamente soci: la qualità di socio non rientra di per sé tra le cause di ineleggibilità di cui all’art. 2399 c.c. Anzi, lo stesso legislatore espressamente ammette l’eleggibilità alla carica di sindaco degli azionisti (art. 2397, co. 1, c.c.).

Né vi è, a priori, incompatibilità in forza della tendenziale ‘perennità’ della carica di accomandatario/membro del comitato di controllo: nel modello tradizionale la carica di sindaco è rinnovabile ad nutum e in sede di modello dualistico è espressamente prevista la rieleggibilità dei sorveglianti.

Né infine vi è incompatibilità derivante dalla circostanza che la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali presupponga un pieno potere gestorio in capo al soggetto onerato di tale fardello: anche in un’accomandita per azioni ‘tradizionale’ è ben possibile che alcuni soltanto degli amministratori/accomandatari siano destinatari di deleghe ovvero siano membri del comitato esecutivo.

A dispetto della contraria opinione sostenuta dalla dottrina deve quindi concludersi per l’ammissibilità dell’adozione del modello monistico anche in società in accomandita per azioni.

Fonti normative

Artt. 2452-2461 c.c.; in quanto compatibili, gli artt. 2325-2451 c.c.

Bibliografia essenziale

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Prima della riforma del diritto delle società di capitali del 2003: Costi, R., L’azionista accomandatario, Padova, 1969; Grande Stevens, F., Società in accomandita per azioni, in Giur. piemontese, 1989, 225; Marocco, A. – Morano, A. – Raynaud, D., Società in accomandita per azioni, Milano, 1990; Weigmann, R., L’accomandita per azioni come cassaforte familiare, in Scintillae iuris. Studi in memoria di Gino Gorla, III, Milano, 1994, 2516.

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