Socialismo

Enciclopedia del Novecento (1982)

Socialismo

IIring Fetscher

di Iring Fetscher

Socialismo

sommario: 1. Significato del termine. 2. Valori fondamentali del socialismo democratico. 3. La critica socialista della società industriale capitalistica. 4. Critica socialista al socialismo di Stato (capitalismo di Stato, socialismo burocratico). 5. Socialismo e paesi in via di sviluppo. 6. Forme della transizione pacifica al socialismo. 7. Necessità di argomenti morali a favore del socialismo. 8. Socialismo e pace mondiale. 9. Conclusione. □ Bibliografia.

1. Significato del termine

Con ‛socialismo' ci si riferisce oggi, in genere, a due fenomeni diversi. In primo luogo, il termine caratterizza un ordinamento sociale in cui i mezzi di produzione essenziali appartengano alla comunità (allo Stato o alle cooperative dei produttori), e in cui valga il principio ‟da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo il suo lavoro": un ordinamento sociale, cioè, in cui le opportunità di consumo di ognuno siano proporzionate alle prestazioni lavorative effettuate per la comunità. In secondo luogo, s'intende con ‛socialismo' una tendenza politica mirante a riforme di vasta portata, o anche a un mutamento rivoluzionario della società capitalistica, nonché l'organizzazione a essa corrispondente. Sotto questa seconda accezione è possibile, in verità, raccogliere un numero straordinariamente grande di organizzazioni e di movimenti, i quali tutti - più o meno a buon diritto - pretendono per sé la qualifica di socialista.

La prima di queste due accezioni del termine risale alla critica rivolta da Marx al programma di Gotha dei socialdemocratici tedeschi, nella quale si legge: ‟Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata dalla propria base, ma viceversa come emerge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le macchie della vecchia società dal cui seno è uscita. Perciò il produttore singolo riceve - dopo le detrazioni [per il fondo di riproduzione e per gli inabili al lavoro, per scuole, ospedali, ecc.] - esattamente ciò che dà [...] Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di cose di valore uguale. Contenuto e forma sono mutati, perché, cambiate le circostanze, nessuno può dare niente all'infuori del suo lavoro, e perché d'altra parte niente può passare in proprietà del singolo all'infuori dei mezzi di consumo individuali. [...] L'uguale diritto è qui perciò ancora sempre, secondo il principio, il diritto borghese, benché principio e pratica non contrastino più. [...] Nonostante questo progresso, questo ugual diritto reca ancor sempre un limite borghese. Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l'uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale, il lavoro. Ma l'uno è fisicamente o moralmente superiore all'altro, e fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare per un tempo più lungo; e il lavoro, per servire come misura, dev'essere determinato secondo la durata e l'intensità, altrimenti cesserebbe di essere misura. Questo diritto uguale è un diritto disuguale per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente la ineguale attitudine individuale, e quindi la capacità di rendimento, come privilegi naturali. Esso è perciò, pel suo contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto [...]" (v. Marx, 1891; tr. it., pp. 960-961). Marx accenna anche alle disuguali condizioni di vita, le quali rendono disuguale, di fatto, l'uguale retribuzione per l'uguale lavoro (la situazione del padre di famiglia è diversa da quella, per es., del celibe, ecc.), e conclude: ‟Ma questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società comunista, qual è uscita, dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalistica. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale, da essa condizionato, della società" (ibid.). Più oltre, questa ‟prima fase della società comunista" viene designata comprensivamente come ‟socialismo" e distinta dalla ‟seconda" o ‟più elevata fase", definita ‟comunismo", quella in cui la ripartizione dei beni di consumo e dei servizi può essere effettuata secondo il principio ‟a ognuno secondo i suoi bisogni", cosicché viene superata ogni ingiustizia derivante dall'uguale trattamento di individui di fatto disuguali. Circa questa ‟fase più elevata", Marx osserva che in essa ‟la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro" e quindi anche il ‟contrasto tra lavoro intellettuale e manuale" sono destinati a scomparire, e che il lavoro cesserà di essere ‟soltanto mezzo di vita" per diventare il ‟primo bisogno della vita".

Non possiamo proporci qui il compito di discutere la problematica di questa ‟più elevata fase della società comunista". Ci limitiamo a osservare che, se nelle società capitalistiche industrialmente avanzate si compiono già oggi molteplici tentativi di eliminare (attraverso assegni familiari, sussidi per la casa, gratuità dell'istruzione, refezioni scolastiche, ecc.) quelle disuguaglianze che Marx riteneva inevitabili ancora nel ‛socialismo', esse permangono tuttavia in larga misura; e soprattutto esiste ancora in tutte le società capitalistiche una parte (più o meno grande) della popolazione che non vive della retribuzione del proprio lavoro, ma dei profitti, interessi o rendite derivanti dalle sue proprietà private (siano esse sotto forma di capitali, possessi fondiari, ecc.).

Al pari della prima, anche la seconda accezione del termine ‛socialismo' deriva i propri tratti distintivi dalla contrapposizione al comunismo. Da quando il Partito operaio socialdemocratico russo (bolscevico) abbandonò nel 1918 la sua vecchia denominazione per assumere quella di ‛partito comunista', in tutti i paesi frazioni dei partiti socialisti allora esistenti seguirono il suo esempio e si rifondarono sotto la medesima denominazione. I termini ‛socialismo', ‛socialista' e ‛socialdemocratico' acquistarono in tal modo, per così dire automaticamente, un significato critico - e di delimitazione - nei confronti del comunismo leninista. Questa delimitazione, che nei partiti europei andò facendosi sempre più netta col passare del tempo per raggiungere la massima asprezza durante l'era staliniana e la guerra fredda, era voluta espressamente da entrambe le parti. Al secondo congresso del Komintern (Pietrogrado-Mosca, 19/7-7/8/1920) Lenin formulò le ‛condizioni di ammissione' per ogni partito che volesse aderire all'Internazionale, condizioni che rendevano impossibile, di fatto, l'ingresso di partiti socialdemocratici e laburisti.

Molte di queste richieste sono di tale natura che oggi (1975) neppure tutti i partiti comunisti potrebbero soddisfarle interamente. Menzioneremo i punti più importanti. Il primo stabilisce che la propaganda del partito ‟deve avere un carattere realmente comunista" e ‟tutti gli organi di stampa che si trovano nelle mani del partito devono essere diretti da comunisti fidati". Questa richiesta viene poi rafforzata dal punto 12, che esige la ‟completa subordinazione" di tutta la stampa periodica e non periodica del partito al Comitato centrale. Il sesto punto esige la rottura radicale con il ‟socialpatriottismo e socialpacifismo" sia manifesti che occulti; il settimo un allontanamento di tutti i ‛riformisti' e ‛centristi'; l'ottavo una politica decisamente anticoloniale (soprattutto negli Stati che ancora possiedono colonie); l'undicesimo una ‛verifica' della ‟composizione dei gruppi parlamentari"; il tredicesimo l'introduzione del principio del ‛centralismo democratico' e una ‟disciplina ferrea, confinante con la disciplina militare"; il quattordicesimo ‟epurazioni periodiche degli iscritti alle organizzazioni del partito (nuova registrazione)"; il quindicesimo ‟l'appoggio alla lotta dell'Unione Sovietica contro le forze controrivoluzionarie"; il sedicesimo la revisione dei programmi e il loro adattamento alle deliberazioni dell'Internazionale; il diciassettesimo la subordinazione dei partiti nazionali ‟alle deliberazioni dei congressi dell'Internazionale comunista nonché a quelle del suo Comitato esecutivo"; e infine il diciottesimo esige che ‟i partiti mutino la propria denominazione in quella di Partito comunista (del tale paese), Sezione della Terza Internazionale Comunista" (v. Lenin, 1967, pp. 195-200).

Per i capi della maggioranza dei partiti socialisti tali richieste erano semplicemente inaccettabili. In particolare, non era possibile pensare a un'esclusione dei ‛riformisti' e dei ‛centristi', i quali costituivano la grande maggioranza dei gruppi dirigenti della SPD e degli altri partiti socialisti nell'Europa occidentale.

In seguito a questa spaccatura, il movimento socialista fuori della Russia si sviluppò sotto il segno della distinzione, e spesso del contrasto, nei confronti del partito russo (ribattezzato ‛Partito comunista') e dei suoi partiti fratelli nell'Europa occidentale e centrale. La completa vittoria del riformismo all'interno dei partiti rimasti fuori del Komintern (specialmente nella SPD e nella SF10) dipese tra l'altro dal fatto che i marxisti rivoluzionari avevano in grandissima parte abbandonato i partiti socialisti per aderire ai partiti comunisti di nuova fondazione.

Numerosi tratti peculiari del movimento socialista risalgono a questa rottura - causata dalla preminenza del leninismo all'interno della neonata Terza Internazionale - con l'ala rivoluzionaria del movimento operaio. E precisamente: 1) a differenza dei partiti comunisti, da allora in poi i partiti socialisti sottolineano il ‛carattere democratico' non solo del futuro ordinamento sociale (ciò che avevano già fatto espressamente Marx ed Engels), ma anche della ‛transizione' dalla società capitalistica alla società socialista; 2) a differenza di quelli comunisti, i partiti socialisti (almeno nella maggioranza dei casi) ritenevano - e ritengono - possibile una ‛transizione graduale' dal capitalismo al socialismo (riformismo). Per un certo periodo accadde persino che taluni partiti socialisti rinunciassero interamente all'obiettivo di una ‛società socialista' (nel senso marxiano) e si limitassero a correzioni - mediante riforme sociali - del capitalismo, il quale dal canto suo, sulla scia della ‛rivoluzione keynesiana', andava facendosi sempre più dipendente dagli interventi dello Stato in materia finanziaria ed economica. A rigor di termini, partiti come quello laburista inglese non sono neppure ‛riformisti', in quanto - anche se un programma di statizzazione generale è stato mantenuto a parole per decenni - essi non sono affatto interessati a una completa trasformazione della società in senso socialista; 3) a differenza di quelli comunisti, i partiti socialisti sono in pratica sempre pronti a formare coalizioni, mentre i comunisti sono disposti a entrare in coalizioni di sinistra soltanto sotto la minaccia di un ‛pericolo fascista', e spesso soltanto a condizioni inaccettabili dai loro partners. (Il governo di fronte popolare in Francia sotto Léon Blum rappresenta una rara eccezione, anche se al giorno d'oggi, in verità, tanto il Partito comunista italiano che quello francese sono disposti a formare coalizioni con partiti non comunisti). I partiti socialisti hanno perciò sostenuto governi la cui politica a stento mostrava ancora un qualche rapporto con le rivendicazioni e gli ideali del socialismo (si pensi al national government di MacDonald, alle varie coalizioni SPD-Centro nella Repubblica di Weimar e alle coalizioni della SFIO in Francia dopo la seconda guerra mondiale); 4) in continuazione della ‛svolta nazionalistica' dell'estate 1914, la maggioranza dei partiti socialisti - soprattutto nel periodo tra le due guerre mondiali - si sono sempre più saldamente attestati su posizioni nazionalistiche. A ciò ha contribuito anche il pervertimento dell'internazionalismo proletario dovuto alla subordinazione della Terza Internazionale agli interessi dell'Unione Sovietica. Soltanto la seconda guerra mondiale e la coalizione antifascista hanno nuovamente indebolito queste tendenze nazionalistiche. Ma ricordiamo che ancora dopo il 1945 la SFIO, e persino la ricostituita SPD, erano orientate in senso nazionalistico.

D'altro canto, dei termini ‛socialismo' e ‛socialista' abusarono anche partiti che avevano completamente rotto con la tradizione socialista delle riforme e della rivoluzione sociale. Il partito fascista tedesco si qualificava come Partito tedesco ‛nazionalsocialista dei lavoratori' (Nationalsozialistische deutsche Arbeiterpartei) e cercava in tal modo di sfruttare a proprio vantaggio il valore propagandistico di tale etichetta. A parte un paio di punti programmatici riguardanti le riforme sociali e in seguito completamente dimenticati (come la municipalizzazione dei grandi magazzini e la statalizzazione dei trusts), l'ostentata natura ‛socialista' e ‛filooperaia' del nazismo si limitò a parole d'ordine come ‟onore al lavoro", ‟bellezza del lavoro", ‟unità dei lavoratori del braccio e della mente", e alla propaganda di un'armonia sociale sotto il segno della ‛comunità popolare' e della ‛comunità aziendale'. Nel ‛Fronte dei lavoratori' - che aveva sostituito i disciolti sindacati - erano raccolti insieme imprenditori e operai. Il piccolo-borghese declassato Adolf Hitler amava presentarsi come ‛ex operaio'. Anche il valore simbolico della rivoluzionaria bandiera rossa fu ripreso dai fascisti tedeschi (così come i fascisti italiani avevano ripreso il nero dalle bandiere degli anarchici).

Un analogo abuso del termine ‛socialismo' è rintracciabile in una quantità di partiti che detengono il monopolio del potere statale nei paesi ex coloniali. Anche qui la parola è destinata a comunicare l'illusione della giustizia sociale e dell'armonia tra le classi, ma solo per consolidare in tal modo la compattezza e la forza combattiva della nazione.

2. Valori fondamentali del socialismo democratico

Per grande che continui a essere, per il socialismo del sec. XX, l'importanza del marxismo, mi sembra ragionevole cominciare un panorama dei problemi e dei compiti odierni del socialismo non con una ricapitolazione (o ricostruzione) della teoria marxiana dell'evoluzione della società capitalistica, ma con una rassegna dei valori fondamentali del socialismo democratico, così come essi si sono delineati anzitutto negli anni successivi alla seconda guerra mondiale.

Al vertice di tali valori fondamentali del socialismo democratico stanno, con pari dignità, la ‛libertà' e la ‛giustizia sociale'. I socialisti non rifuggono dall'ammettere che le proprie finalità politiche si riallacciano a valori morali (e anche a convinzioni religiose). Il programma di Godesberg della SPD ha espressamente riconosciuto una pluralità di ‛fondazioni' egualmente valide della lotta per il socialismo. Del resto, non soltanto gli utopisti premarxisti, ma anche lo stesso Marx - e così Engels - rivelavano in ultima analisi una motivazione etica quando si schieravano a favore dell'avvento di un nuovo ordinamento sociale. Se questa circostanza è stata trascurata - anche all'interno della socialdemocrazia tedesca avanti la prima guerra mondiale - ciò è dovuto soltanto alla preponderanza che nel marxismo ha l'interesse per l'economia e per la teoria della storia. M. Horkheimer ha osservato una volta, con ragione, come la dimostrazione che un determinato sviluppo è destinato a verificarsi con ‟la necessità di una legge naturale" non sia ancora, per il singolo, un motivo per accelerarne il corso con il proprio intervento. Solo in quanto era convinto - sulla base delle contraddizioni della società capitalistica - dell'inevitabile avvento di un'‟associazione dei liberi produttori", nella quale ‟il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione del libero sviluppo di tutti", in Marx venivano a coincidere la visione scientifica del corso necessario dell'evoluzione e l'adesione eticamente motivata a esso. La dimensione etica era per Marx ovvia, giacché era egli stesso un tipico erede della borghesia liberale e delle sue migliori tradizioni.

Il socialismo democratico si rifiuta di attribuire un predominio esclusivo a uno solo dei due valori fondamentali: la libertà e la giustizia sociale. Dipende soprattutto dalle concrete condizioni di un paese quale dei due valori debba essere sostenuto con maggiore energia (senza però che sia mai possibile perdere l'altro interamente di vista).

Con ‛libertà' il socialismo intende anzitutto il libero dispiegamento di ciascuno dei diversi talenti individuali, e in secondo luogo un'organizzazione della società che consenta a ciascuno dei suoi membri adulti di collaborare attivamente al disbrigo degli affari comuni. Questa seconda specie di libertà - la libertà democratica - può essere considerata come una forma della prima; essa ha però, oltre a ciò, anche un'importante ‛funzione strumentale'. Da un lato favorisce il dispiegamento e l'attivazione delle capacità individuali nel processo collettivo di discussione e decisione politica, dall'altro serve a controllare i governanti (i quali, nell'attuale ordinamento basato sulla divisione del lavoro, sfruttano le loro importanti funzioni), e a proteggere i singoli contro il loro potere.

La giustizia sociale è volta all'instaurazione graduale di una completa ‛uguaglianza di opportunità' (diretta a consentire il dispiegamento delle molteplici capacità individuali). È possibile fare alcuni passi su questa strada anche nel quadro di una società basata sulla proprietà privata; o, in ogni caso, è possibile quando tale società abbia raggiunto un alto grado di industrializzazione. Così, per esempio, la gratuità dell'istruzione - anche per i giovani che vogliono proseguire gli studi medi e universitari -, come pure la concessione di borse di studio agli studenti capaci, sono obiettivi realizzabili anche senza il superamento dell'ordinamento basato sulla proprietà privata. In verità, è facile immaginare che i giovani dei ceti abbienti, privati in tal modo di una (piccola) parte dei propri privilegi, cercheranno delle scappatoie per sfuggire all'‛effetto livellante' di una uguaglianza di opportunità nel campo dell'istruzione. Ma, anche se si raggiungesse l'obiettivo di un'uguaglianza di opportunità formalmente completa in materia di accesso alla scuola media e all'università, rimarrebbero tuttavia, per i giovani delle famiglie operaie, evidenti situazioni di svantaggio: l'ambiente linguistico familiare ostacola lo sviluppo delle doti naturali legate al linguaggio, tanto che i figli di operai ottengono nei test attitudinali (non matematici) risultati inferiori a quelli che corrisponderebbero alle loro doti ‛innate'. La volontà di procurarsi, attraverso l'apprendimento, i presupposti per l'accesso a occupazioni professionali più interessanti è, nelle famiglie operaie, assai meno diffusa che in quelle borghesi e piccolo-borghesi. L'ambiente sociale esercita istintivamente, nell'interesse del mantenimento della solidarietà di classe, un'azione frenante nei confronti degli individui che vogliono emergere. Solo se ci fosse la garanzia che al successo professionale non si associasse necessariamente il passaggio in un'altra classe - ovvero, se la propria occupazione implicasse comunque un effettivo collegamento con la classe d'origine -, questa influenza inibente potrebbe essere interamente eliminata. In alcuni strati discriminati (come i Negri nordamericani o gli Algerini in Francia, i Turchi o altri lavoratori stranieri nella Germania Federale) si aggiunge inoltre una - reale o presunta - mancanza di prospettive di raggiungere una posizione professionale legata a un'istruzione superiore. L'offuscamento dell'orizzonte futuro scoraggia gli sforzi e blocca lo sviluppo intellettuale (e affettivo). Se si porta la discussione su di un piano concreto, l'obiettivo della giustizia sociale - nel senso di una realizzata uguaglianza delle opportunità - appare straordinariamente difficile e come una meta ancora assai lontana. Su questa strada, l'ordinamento basato sulla proprietà privata non costituisce affatto l'unico ostacolo (anche se è forse il più potente). Che la sua eliminazione non comporti quindi, di per sé, l'instaurazione della giustizia sociale e dell'uguaglianza delle opportunità, è cosa che risulta chiaramente da indagini compiute in paesi a socialismo burocratico sui desideri e sulle opportunità, in materia di scelta professionale, dei giovani di famiglie operaie, i quali - in una percentuale che si aggira spesso sull'80-90% - finiscono per fare gli operai come i loro padri (da ricerche sociologiche condotte in Ungheria). In questo caso, è ben possibile che svolga un ruolo importante, nei confronti di quelli che vogliono emergere, il motivo della solidarietà di classe e dell'influenza ambientale (motivo caldeggiato dagli strati burocratici privilegiati). Verosimilmente, una completa uguaglianza delle opportunità sarebbe raggiungibile soltanto se scomparissero interamente le forti differenze - nello stile di vita e nel reddito - tra gli elementi altamente qualificati (tecnici, burocrati, funzionari, artisti) da un lato e i semplici lavoratori manuali dall'altro. Per il momento, di una siffatta evoluzione non c'è ancora traccia nei paesi a socialismo burocratico (a differenza di quanto avviene nella Cina Popolare). Nei paesi industrialmente avanzati e orientati verso le riforme sociali (come la Svezia) esiste invece una tendenza verso l'instaurazione di livelli salariali compensativi. Ciò vuol dire che i salari tendono a essere tanto più alti quanto minore è la soddisfazione ricavabile da una data occupazione. A favore della rigorosa attuazione di questo principio gioca anche un incentivo economico addizionale, quello cioè di sostituire in misura sempre maggiore le mansioni superpagate con processi automatici. È, questa, una tendenza che in molti paesi industrialmente avanzati viene frenata da un afflusso di manodopera priva di istruzione (e più economica), la quale non richiede ancora livelli salariali compensativi.

Nella rassegna dei valori fondamentali del socialismo democratico il terzo posto è occupato dalla ‛pace'. Con ciò s'intende, in primo luogo, l'istituzione di un regime di pace tra gli Stati (ancora relativamente) sovrani; quasi sempre vi si associa, però, l'inclinazione ad attribuire grande valore alla ‛pace sociale'. Si constata ancora, è vero, l'esistenza di contrasti tra le classi, ma si assume che: 1) possano essere risolti nella forma di una composizione dei conflitti istituzionalmente regolata (contratti collettivi, scioperi, procedure di arbitrato, ecc.); e che 2) nell'interesse di un progresso pacifico si debba impedire il più possibile lo ‛scoppio di lotte aperte'.

Le due specie di pace, però, non debbono essere necessariamente associate l'una all'altra. Al contrario, conflitti di classe sul piano interno possono anche diventare il presupposto di una pace duratura, quando abbiano lo scopo di strappare il potere a uno strato imperialistico e guerrafondaio della propria società e di condurre lo Stato sotto un controllo realmente democratico.

L'orientamento dei partiti socialisti e laburisti europei verso una politica di pace, anzi una politica pacifista, ha sortito dopo il 1945 grossi successi, ai quali non sono mancati riconoscimenti internazionali. Nel 1975 J. K. Galbraith ha definito i successi delle coalizioni e dei governi socialisti in politica estera come il vero titolo di merito del socialismo nella nostra epoca: ‟Nell'ultimo trentennio la sinistra democratica nei paesi industriali si è dimostrata capace di liquidare l'impegno oltremare (nelle sue forme coloniali e non coloniali). La sinistra francese ha accelerato la ritirata militare dall'Indocina e dal Nordafrica; in altri paesi le sinistre hanno in parte condotto a termine ciò che avevano cominciato. I socialdemocratici tedeschi hanno posto nella sua giusta prospettiva il problema dei territori orientali. La sinistra americana si è messa alla testa di un movimento che ha condotto alla fine dell'intervento in Vietnam" (‟Le nouvel observateur, spécial économie", luglio 1975, p. 70). A questo titolo di merito corrisponde però, secondo Galbraith, un relativo fallimento riguardo al compito di una trasformazione della società capitalistica. Paradossalmente, i successi di uomini politici come W. Brandt, B. Kreisky ecc., si sono avuti proprio nei settori tradizionalmente considerati come tipici dei conservatori. Galbraith fa risalire tale fallimento soprattutto alla mancanza di specialisti abbastanza competenti da guidare un'economia moderna - in conformità a un piano - in modo tale che risultino garantite al contempo la stabilità della moneta e la piena occupazione. Ci si deve chiedere però se - anche nel caso di un migliore sfruttamento degli strumenti esistenti - una guida siffatta sia possibile continuando a mantenere la libertà decisionale in materia di investimenti, sia per le imprese autonome sia per il settore controllato da trusts internazionali.

A questo proposito, i socialisti e i socialdemocratici (per es. svedesi) si differenziano dai comunisti (marxisti-leninisti dogmatici) soprattutto per un maggiore ‛pragmatismo'. Le socializzazioni vengono bensì prese in considerazione in quanto possibile strumento, ma non se ne fa uno scopo assoluto. Se, per esempio, una crescita dell'economia in direzione della piena occupazione, della creazione di centri produttivi non nocivi per l'ambiente e della produzione di beni di consumo durevoli, non è possibile in altro modo, si procede allora a una socializzazione, cioè si sopprime la libertà decisionale dei proprietari o dei loro rappresentanti - in materia di investimenti. E però immaginabile che una tale operazione possa aver luogo anche nella forma di una cogestione (Mitbestimmung), e quindi non sempre necessariamente in quella di una regolare espropriazione.

3. La critica socialista della società industriale capitalistica

Le società capitalistiche contemporanee sono oggetto di critica da parte non solo dei socialisti, ma anche dei conservatori e dei comunisti. Ma, per quanto numerosi possano essere i punti di concordanza, le differenze nelle finalità e nei valori comportano anche differenze nelle critiche che alla società capitalistica vengono rivolte. La critica socialista poggia sui valori della libertà individuale e della giustizia sociale (uguaglianza); valori che, pur essendo alla base anche dell'ideologia borghese (a partire dalla Rivoluzione francese), sono però sempre stati disattesi nella prassi degli Stati borghesi capitalistici. La critica che i comunisti contemporanei di stampo sovietico rivolgono al capitalismo prende invece le mosse, in prevalenza, dal valore dell'aumento della produzione: essa insiste quindi maggiormente sul fatto che il capitalismo è incapace di sviluppare la produzione (e la produttività del lavoro) sino al punto da consentire una piena e onnilaterale soddisfazione dei bisogni di tutti i membri della società. Questa ristrettezza della prospettiva critica si può spiegare, storicamente, considerando l'arretratezza storica della Russia e la sua situazione verso la fine della guerra civile.

Mentre la critica comunista rimprovera al punto di vista socialista la sua affinità con la tradizione borghese, gli uomini politici socialisti hanno a che fare, nella prassi delle società industrialmente avanzate, con una borghesia che si è sempre più allontanata, di fatto, dai valori fondamentali del proprio passato umanistico, e anzi, spesso, li rinnega cinicamente. Questo allontanamento dai valori delle proprie origini è ravvisabile anche sul piano scientifico. Un esempio tipico è la teoria della democrazia. Nella sua forma originaria, la democrazia era l'autodeterminazione del popolo (o piuttosto della borghesia, che si identificava con il popolo come totalità). Essa si caratterizzava come ‛dominio del popolo', ovvero come ‛identità di governanti e governati'. Nella ‛teoria economica della democrazia', oggi largamente diffusa, troviamo invece semplicemente un'intesa di élites concorrenziali, le quali, in elezioni periodicamente organizzate, combattono per il diritto all'esercizio del potere. L'esistenza di élites al governo (e all'opposizione), e la possibilità ch'esse si scambino i ruoli in seguito a consultazioni elettorali, è ritenuta un presupposto pienamente bastevole per una democrazia efficiente. L'atto del voto (come unica ‛attività' del cittadino) è interpretato in analogia con l'‛atto di compera' proprio del consumatore. La propaganda delle élites concorrenziali per guadagnarsi la fiducia degli elettori è l'analogo della pubblicità dei produttori di merci per procacciarsi i clienti. L'esistenza di oligopoli, che in campo economico è spesso ancora oggetto di critica, in campo politico da lungo tempo non appare più come uno svantaggio. L'esistenza anche solo di due concorrenti è giudicata sufficiente. A questa concezione ristretta della democrazia viene contrapposta dai critici di sinistra l'esigenza di una ‛democrazia partecipativa', che consenta al singolo cittadino di partecipare direttamente e indirettamente alla formazione delle decisioni politiche in qualsiasi sede (comunale, regionale, provinciale, statale). La teoria partecipativa muove dal principio che una concorrenza di élites non significa libertà democratica, soprattutto se si considera che di solito vi si associa una crescente spoliticizzazione della coscienza dei cittadini, declassati a ‛consumatori di politica'. La critica socialista, inoltre, mette in chiaro che la democrazia delle élites concorrenziali sembra essere un mezzo per mantenere le masse elettorali dipendenti in una condizione di amorfa passività, e per stabilizzare quindi lo status quo socioeconomico (cioè l'esistenza di strati economicamente privilegiati). In una situazione caratterizzata dalla concorrenza di élites partitiche è assai difficile che si sviluppi la coscienza della necessità di radicali riforme di struttura (o di un mutamento rivoluzionano); e in particolare è difficile quando la preoccupazione dei due (o più) concorrenti è necessariamente quella di soddisfare a breve scadenza i desideri della maggioranza degli elettori, e nessun partito ha, da solo, la possibilità di spuntarla contro il peso immenso della pubblicità che il sistema economico mette incessantemente in opera a proprio vantaggio. Da questa visione delle cose consegue che i partiti socialisti, nella loro attività d'informazione e di propaganda, non possono limitarsi ai brevi periodi delle battaglie elettorali e debbono invece preoccuparsi di innalzare continuamente la coscienza politica della maggioranza della popolazione mettendola dinanzi alla necessità di riforme radicali.

Gli apologeti dello status quo economico e politico argomentano spesso, oggigiorno, che evidentemente la maggioranza della popolazione è contenta del sistema sociale esistente (si sostiene che noi ‛votiamo' quando, per es., compriamo al chiosco dei giornali i prodotti demagogico-reazionari della stampa di massa). Altrimenti si dice all'incirca - come si potrebbe spiegare il flusso continuo (sino all'erezione del muro di Berlino) dei profughi dalla Germania Orientale verso quella Occidentale, e la contemporanea quasi completa mancanza di un movimento in senso inverso? L'interpretazione di questo fatto richiede in verità considerazioni più complesse di quelle fatte comunemente. Bisogna anzitutto ricordare che nella Repubblica Democratica Tedesca c'è un capitalismo di Stato amministrato dalla burocrazia (con una produttività del lavoro inferiore a quella della Germania Federale, e quindi salari reali inferiori); difficilmente perciò, nonostante varie incontestabili conquiste nel campo della sanità e dell'istruzione superiore, essa può presentare attrattive per lavoratori o impiegati tedesco-occidentali. Ciò non vuol dire affatto, però, che, in Occidente, alle condizioni esistenti si accompagni una piena soddisfazione. Indizio di una insoddisfazione diffusa, e spesso non apertamente ammessa, è ad esempio l'aumento delle malattie mentali e la fuga - spesso convulsa - nel consumo (incessantemente stimolato dalla pressione pubblicitaria). Le forme della felicità - in ogni caso una felicità da soddisfare a breve scadenza - che una società capitalistica industrialmente avanzata può offrire ai suoi membri si riducono di nuovo e sempre al consumo, al consumo di merci e di servizi sotto forma di merci (per es., viaggi). Tale consumo, che viene pensato in teoria come aumentabile all'infinito, soddisfa però, almeno in parte, solo per la sua reale o presunta ‛esclusività'; una merce, cioè (prescindendo dal suo materiale valore d'uso), procura una soddisfazione tanto maggiore quanto minore è il numero di coloro che partecipano al suo godimento. E poiché la via al godimento di una merce passa per il pagamento della medesima, ciò significa in pratica che le opportunità di felicità sono direttamente proporzionali al reddito, e quindi che - in quanto la piramide dei redditi termina in una punta sottile - la maggioranza della popolazione deve essere di necessità scontenta e infelice.

È un'infelicità che, in tempi di congiuntura favorevole, trova una certa compensazione nella speranza di un futuro accrescimento delle opportunità di consumo. Ma, non appena le società industrialmente avanzate entrano in uno stadio di crescita più lenta (o addirittura di crescita zero), questo malessere, questa frustrazione sono destinati ad aumentare sino a diventare insopportabili.

Sorge allora il pericolo che le ideologie reazionarie offrano all'‛aggressività' delle masse frustrate degli ‛oggetti' sui quali poter rovesciare la propria insoddisfazione. In altre parole, il passaggio a una ripartizione dei redditi (e delle risorse patrimonali) che risulti almeno un poco meno ineguale diventa tanto piu urgente quanto più s'avvicina il momento in cui - anche soltanto a causa della rarefazione dell'energia e delle materie prime, e della necessità di conservare la biosfera - bisognerà rallentare il ritmo della crescita economica. In quel momento, se non prima, lo sfondo ideologico delle società industrialmente avanzate (training for consumership, status sociale determinato dalle opportunità di consumo e anzi dal conspicuous consumption) dovrà trasformarsi. I termini del conflitto saranno allora i seguenti o si potrà ottenere, con argomenti razionali e con l'instaurazione di una certa giustizia sociale (cioè di una maggiore - anche se non completa - uguaglianza), l'accettazione della crescita zero, oppure quest'ultima richiamerà alla ribalta, come compensazione, ideologie reazionarie.

Per quanto riguarda i paesi industriali, la svolta più importante della critica socialista contemporanea è il ripudio, e anzi addirittura il ‛rovesciamento', del rimprovero mosso da Marx all'economia capitalistica, di non essere cioè in grado di realizzare un aumento della produzione tale da soddisfare effettivamente i bisogni di tutta la popolazione. Rimane pur sempre vero che, anche nelle società più ricche, esiste una povertà di massa; essa non è però la conseguenza di capacità produttive insufficienti, ma soltanto di un'ingiusta distribuzione. Il modo di produzione capitalistico si è dimostrato assai più dinamico e vitale di quanto non presumesse Marx nel 1867. In paesi come gli Stati Uniti e la Germania Federale il problema di gran lunga più urgente per il modo di produzione capitalistico è un altro: come cioè rallentare, ai fini della conservazione dell'ecosfera, la dinamica in esso insita (e di vitale importanza per la sua conservazione). Il vero problema non è tanto una dinamica insufficiente (derivante dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, che ha trovato una compensazione maggiore di quanto Marx presumesse e che si dimostra pur sempre sopportabile per le grandi imprese), quanto il mantenimento di tale dinamica ove rimanga al contempo ‛cieca' la direzione in cui la produzione incessantemente crescente si muove. In modo un po' sommario, la situazione si può descrivere nel modo seguente.

Il capitale può conservarsi solo in quanto (e finché) cresce; e, poiché continuamente riemerge il pericolo di una saturazione del mercato, gli sforzi dei produttori capitalistici sono necessariamente diretti a gettare sempre più rapidamente sul mercato prodotti smerciabili e a far invecchiare attraverso il rapido mutamento delle mode prodotti che sarebbero in sé ancora utilizzabili. L'accorciamento del tempo lavorativo necessario alla fabbricazione di un prodotto non serve quindi (o in ogni caso non in primo luogo) ad abbassare il prezzo del prodotto né a investire per rendere più piacevoli i luoghi di lavoro o potenziare e migliorare servizi di vitale importanza (assistenza sanitaria, trasporti pubblici, scuole, giardini, luoghi di ricreazione, ecc.), ma ad aumentare le vendite dei prodotti (merci). Alla base di una tale direzione dello sviluppo sta anzitutto il principio che soltanto la vendita di merci può procurare un profitto, e in secondo luogo che, nonostante il notevole prelievo operato dal fisco, un'alta quota dei profitti dev'essere impiegata per l'ampliamento delle capacità produttive (e per la pubblicità necessaria alla vendita delle merci così prodotte). Sempre maggiore, perciò, diventa la discrepanza tra ciò che da lungo tempo è tecnologicamente possibile e ciò che di fatto avviene: l'accorciamento del tempo di lavoro rimane fortemente indietro rispetto all'aumento della produttività; l'automazione (cioè l'eliminazione dei lavori ripetitivi e faticosi) viene promossa in misura minore di quanto sarebbe possibile (è specialmente degno di nota che il meccanismo concorrenziale sembra in questo caso indebolito, e che l'interesse per la sopravvivenza non costringe affatto le grandi corporations a operare innovazioni tecnologiche); gli investimenti nel settore pubblico (che non dà profitti) rimangono indietro rispetto al bisogno reale. In altre parole, la cosa veramente nefasta non è la carente dinamica del modo di produzione capitalistico, ma la direzione ‛cieca' - cioè obbediente agli impulsi immanenti al sistema - della dinamica in atto.

Già nel 1951 Th. W. Adorno ha anticipato nei Minima moralia questo mutamento di prospettiva e criticato, nei marxisti, la riduzione dell'immagine del futuro a quella di un aumento indefinito della produzione: ‟L'univocità ingenuamente presupposta della tendenza all'aumento della produzione fa già parte di quello spirito borghese che ammette lo sviluppo in una sola direzione, perché, concluso in sé come totalità, e dominato dalla quantificazione, è ostile alla differenza qualitativa. Se si concepisce la società emancipata proprio come emancipazione da questa totalità, ecco che appaiono linee di fuga che hanno poco in comune con l'aumento della produzione [...]; la società liberata dalle catene potrebbe comprendere che anche le forze produttive non costituiscono l'ultimo substrato dell'uomo, ma una figura particolare dell'uomo, storicamente adeguata alla produzione di merci. Forse la vera società proverà disgusto dell'espansione e lascerà liberamente inutilizzate certe possibilità, invece di precipitarsi, sotto un folle assillo, alla conquista delle stelle [...]. Tra i concetti astratti, nessuno si avvicina all'utopia realizzata più di quello della pace eterna" (v. Adorno, 1951; tr. it., p. 154). Nella sua critica Adorno va anche al di là di quanto sopra accennavo. Non soltanto il ‟folle assillo" all'incessante aumento della produzione dei beni di consumo, ma anche la feticizzazione della produzione e della produttività in quanto tali appaiono ai suoi occhi come un eredità - che deve essere superata - della mentalità borghese. La pace in quanto concetto includente il compimento, l'essere - e non più l'agire e il divenire - sono per lui il simbolo più adeguato dell'utopia realizzata. Negli anni trascorsi dalla sua formulazione, tale principio non ha fatto altro che guadagnare in attualità e importanza.

Al problema di come sia possibile, nelle società industriali moderne, tutelare (o meglio salvare e reinstaurare) la libertà individuale, i critici socialisti danno una risposta radicalmente diversa da quella dei conservatori e dei liberali. Per costoro, la proprietà privata dei mezzi di produzione e l'autoresponsabilità economica dell'individuo (anche se da lungo tempo non più pienamente realizzabili) rimangono però sempre un punto di riferimento. Su tale base, a un ulteriore potenziamento dello Stato sociale assistenziale essi contrappongono la promozione della piccola proprietà. I socialisti partono invece dal riconoscimento che la diffusione della proprietà, e la sua acquisizione, non reca più con sé la possibilità di una reale indipendenza. Il possessore di azioni non può, di regola, neppure utilizzarle per i casi di emergenza: in caso di depressione congiunturale, infatti, il suo risparmio si svaluterà, col risultato che egli può essere addirittura danneggiato da questa forma d'investimento (scarsamente adatta al suo caso), in quanto deve vendere proprio quando l'abile speculatore rastrella azioni a buon mercato. Ma, anche lasciando da parte tutto questo, la somma risparmiata non è mai sufficiente a emancipare dalla necessità del lavoro salariato, al quale - mantenendo intatta la struttura delle imprese è associato un alto grado di illibertà. Su tale base, i socialisti aspirano a un ampliamento (o a una reinstaurazione) della libertà individuale per la grande maggioranza (salariata) della popolazione, e ciò anzitutto in due modi: 1) attraverso una sufficiente sicurezza in materia di disoccupazione, invalidità e vecchiaia (pensione sociale di tipo svedese); 2) attraverso diritti di cogestione esercitati da operai e impiegati nella propria azienda (sul luogo di lavoro, nell'azienda, come anche in sede sovraziendale).

Le assicurazioni sociali diminuiscono la dipendenza dall'azienda (insieme con il diritto a cambiare posto di lavoro, diritto che, in piccole città o in comuni rurali, può naturalmente diventare relativamente irrilevante); il diritto alla cogestione diminuisce la dipendenza nell'azienda e - in condizioni ottimali - fa del dipendente salariato un soggetto che concorre attivamente all'organizzazione dei propri rapporti di lavoro (e della produzione in generale).

Gli avversari del socialismo obiettano a queste due vie: 1) che il potenziamento dello Stato sociale e assistenziale rende il singolo sempre più dipendente dalla burocrazia statale, e che la pretesa a essere assistito paralizza la coscienza della responsabilità personale; 2) che la cogestione da un lato conduce a scalzare la libertà imprenditoriale, indispensabile per l'efficienza dell'economia, e dall'altro mette di fatto il singolo lavoratore sotto la tutela dei sindacalisti, i quali parlano in suo nome: si dovrebbe perciò, almeno, escludere la presenza di sindacalisti estranei all'azienda.

La prima obiezione contiene un elemento di verità, ma lascia in ombra l'altra faccia della medaglia. Con la garanzia di una pretesa giuridica alla protezione - una protezione che non può più essere vista come una ‛grazia' o un'‛elemosina' - è la dignità del dipendente salariato che viene garantita in caso di disoccupazione, invalidità ecc. Scompare (o almeno diminuisce) la paura della disoccupazione e della malattia, e si attenua la dipendenza dagli accidenti della congiuntura e/o della propria salute. Si attua così per lui e per la sua famiglia - e in un modo molto reale - la libertà dal bisogno. La dipendenza dalla burocrazia statale, d'altra parte, può al contempo essere alleviata e resa sopportabile se il suo lavoro si svolge in piena luce ed è sottoposto al controllo, per es., dei sindacati.

Nel peggiore dei casi, comunque, il beneficiano dei servizi sociali scambia la dipendenza dalle imprese o dalle elemosine private ed ecclesiastiche con la dipendenza da una burocrazia statale (assai più efficiente e destinata per legge all'assistenza), che è soggetta a un continuo controllo.

Per quanto riguarda la cogestione, l'affermazione ch'essa comporta una limitazione della libertà imprenditoriale è giustificata solo in quanto il consiglio di amministrazione è effettivamente tenuto a render conto del proprio operato al consiglio di sorveglianza (Aufsichtsrat, composto per il 50% da rappresentanti dei lavoratori). Ma in quanto le sue decisioni siano sollecitate da necessità economiche evidenti, anche i rappresentanti dei lavoratori non faranno opposizione e anzi tanto meno si opporranno se saranno forniti di adeguate conoscenze in materia di economia aziendale (conoscenze che, di nuovo, potranno essere mediate dai rappresentanti sindacali). Con ciò si viene anche a dire che un'efficace cogestione a livello aziendale (al di là della cogestione sul luogo di lavoro) non è realizzabile senza l'aiuto dei rappresentanti degli interessi dei lavoratori: i sindacati.

La critica al collettivismo dello Stato assistenziale e all'onnipotenza dello Stato dei sindacati è un espediente difensivo mediante il quale si vuole stornare l'attenzione dai veri pericoli e dai veri privilegi. Essa muove dall'immagine idealizzata di una società liberale costituita da imprenditori che partecipano al mercato in condizioni di relativa uguaglianza e autonomia: immagine che non ha mai corrisposto alla realtà storica e che tanto meno corrisponde all'odierno capitalismo delle corporations.

Sinora abbiamo parlato della critica che i socialisti rivolgono a una democrazia spogliata del suo contenuto concreto (e alla teoria della democrazia che tale realtà rispecchia), al dinamismo cieco dell'economia capitalistica industrialmente avanzata e alla funzione difensiva degli argomenti - di vecchio stampo liberale - usati contro lo Stato assistenziale. Ma il socialismo riformistico, oltre a ciò, ha anche contribuito alla scoperta di forme occulte di disuguaglianza, di cui sinora non si era fatta parola e che - in forma mutata - sono nuovamente riemerse nelle società e negli Stati a socialismo burocratico.

Se si muove dal presupposto che in una società si può parlare di uguaglianza solo in termini di uguali opportunità - per tutti, senza riguardo per l'origine, il sesso, ecc. - di sviluppare le proprie capacità innate e, attraverso tale sviluppo, di condurre una vita soddisfacente, allora tutte le società sono oggi assai lontane da quest'obiettivo.

Difficilmente si potrebbe contestare la manifesta disuguaglianza delle condizioni di vita degli uomini. Nei paesi che ignorano la povertà di massa, tale disuguaglianza viene accettata da una parte considerevole della popolazione, o almeno vista come non insopportabile. La sua legittimazione, per lo più inconscia e sottintesa, si fonda sulla diversità delle prestazioni. Ora, un tale assunto - almeno per quanto riguarda la distribuzione della proprietà - non regge a una verifica. Continua cioè a sussistere il fatto che una piccola minoranza della popolazione percepisce notevoli rendite fondiarie e una parte considerevole dei profitti di capitale. Nella piramide dei redditi ‛al disotto' della fascia più alta (che rappresenta meno dell'1% della popolazione) si sottintende invece come valida un'approssimativa equazione tra prestazione e reddito. Abilità rare - argomenterà l'economista - avranno un prezzo corrispondentemente alto, e un direttore generale o una cantante d'opera di fama mondiale non riceveranno lo stesso ‛salario' di un fattorino d'autobus. Anche questo argomento difficilmente regge a un esame più accurato, o almeno abbisogna di specificazioni. I redditi altissimi di beniamini del pubblico - come calciatori, pugili, cantanti, ecc. - svolgono in misura considerevole una funzione di alibi. Il pubblico concede loro alti redditi (che del resto sono inferiori a quelli dei membri, per es., del consiglio di amministrazione di un grande magazzino, ecc.) perché da loro ha ricevuto svago, distrazione, piacere. In questo modo, però, viene al contempo legittimato, come compenso per la prestazione di particolari servizi, anche il reddito, per es., di un direttore generale, i cui emolumenti consistono spesso soltanto in misura minore di compensi monetari diretti, e in misura maggiore di prestazioni e di servizi gratuiti forniti dall'azienda (come la casa, l'aeroplano, l'autista, il giardiniere, ecc.). Tutto ciò rappresenta il compenso per la prestazione di servizi e, al contempo, una sorta di ‛subornazione' mirante a garantire un'identità di interessi con i proprietari (o il proprietario). Nella misura in cui (in seguito alla loro dispersione e disinformazione) diventa più difficile il controllo da parte dei rappresentanti della proprietà, cresce il potere dell'oligarchia di coloro che occupano i posti chiave nelle grandi banche e nelle società per azioni e che si cooptano a vicenda. La capacità di rappresentare con successo gli interessi del capitale è considerata, in questi circoli, come il decisivo criterio di qualificazione; ciò che è in giuoco, in realtà, è quindi il possesso di certe capacità, cui corrisponde quella che si potrebbe chiamare un'élite di prestazioni. Si potrebbe forse dire che il capitalismo delle corporations destina al successo qualità e disposizioni d'una natura affatto peculiare, le quali hanno ormai relativamente poco a che fare con le qualità imprenditoriali dell'industriale o del grande commerciante classico, ma piuttosto con quelle dell'organizzatore e del propagandista. In una società strutturata in modo diverso altre sarebbero presumibilmente le qualità capaci di condurre chi le possiede a posizioni dirigenziali.

Ma anche lasciando da parte la problematica della speciale ricompensa accordata a qualità che servono unicamente alla conservazione dell'ordine sociale esistente, rimangono tuttavia ancora numerose competenze e capacità, delle quali anche in una società postcapitalistica ci sarà un acuto bisogno e che (almeno per un certo tempo) continueranno a possedere un relativo ‛valore di rarità'; si pensi, per es., a medici, ingegneri, tecnici, artisti, scrittori, professori: tutti costoro - nella nostra società scolarizzata - debbono la propria posizione a una lunga e (socialmente) costosa formazione. Se lasciamo da parte la circostanza che (secondo la stessa definizione marxiana) anche in una società socialista domina - come per l'innanzi - la disuguaglianza sotto la forma di ‛salario disuguale per lavoro disuguale', allora l'unica rivendicazione realizzabile di giustizia sociale viene a essere che almeno ogni bambino riceva proprio quella formazione che, corrispondendo alle sue disposizioni innate, gli consenta il pieno sviluppo di se stesso. La giustizia sociale, così, coinciderebbe con la prima realizzazione generale del ‛principio della prestazione'. Ognuno sarebbe debitore della sua posizione nella società esclusivamente a se stesso (e alle sue qualità, portate al pieno sviluppo con l'aiuto della società). Naturalmente, oggi nessuno richiederà che questo principio della prestazione sia applicato in tutto il suo rigore, giacché le leggi esistenti provvedono, già nel quadro delle società capitalistiche avanzate, a diminuire la disuguaglianza delle condizioni di vita che si accompagna alla disuguaglianza delle prestazioni: la progressività delle imposte provvede ad alleggerire i percettori di redditi bassi o bassissimi, mentre assegni familiari di vario genere (Francia e Germania) e analoghe sovvenzioni a carico dell'erario compensano la disuguaglianza effettiva del carico finanziario delle famiglie senza riguardo alle prestazioni lavorative dei loro membri (o meglio, in misura inversamente proporzionale ai redditi percepiti). La compensazione rimane però di gran lunga insufficiente, mentre d'altra parte il bisogno di tali meccanismi diventerà tanto più incalzante proprio se ai riformatori sociali riuscirà di realizzare sul serio l'uguaglianza di opportunità. In una società nella quale ciascuno dovrà dire a se stesso di dovere la propria posizione (e quindi il suo reddito) esclusivamente alle proprie prestazioni, l'accettazione di una posizione ‛inferiore' diventerà psicologicamente ancor più insopportabile. Per il momento, i membri della società possono, in maggioranza, ancora appellarsi alla circostanza di non avere avuto l'opportunità di sviluppare le proprie forse latenti - disposizioni in quanto la casa paterna, l'istruzione insufficiente e la precoce necessità di guadagnare hanno loro impedito una più adeguata formazione. In una società nella quale siffatti ostacoli siano invece stati smantellati e/o ne sia stato corretto l'influsso, questa motivazione perderà la capacità di alleviare, psicologicamente, il peso delle situazioni singole. Per questa ragione, la perfetta attuazione della società della prestazione (‟da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo il suo lavoro", come suona la vecchia formula socialista) riuscirà sopportabile per la popolazione soltanto se sarà accompagnata dall'eliminazione delle maggiori differenze di reddito (cioè da un ‛livellamento' delle fasce salariali e retributive in genere), e da una concomitante intensificazione dell'autogestione e della cogestione da parte di tutti i lavoratori. Soltanto nella misura in cui siano realizzate tali misure correttive, l'attuazione - implicita nel socialismo - del principio della prestazione può risultare sopportabile per i singoli. Per le società industrialmente avanzate dei nostri giorni, la transizione a un socialismo ‛non corretto' non è più possibile. Lo stadio socialista deve, sin dall'inizio, già recare con sé caratteristiche del comunismo, deve cioè avvicinarsi - anche se agli inizi possa essere ancora necessario mantenere, in limitata misura, differenze di reddito basate su differenze di prestazione - al principio ‟da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni".

Nel frattempo, però, noi siamo ancora piuttosto lontani anche dalla realizzazione dell'uguaglianza delle opportunità di partenza. La tendenza generale all'accettazione di valori democratico-egualitari ha comunque avuto l'effetto che soltanto pochi (e piccoli) partiti ripudiano apertamente questa rivendicazione. Tutt'al più si afferma che non può essere realizzata interamente. Ciò che nella pratica si verifica, naturalmente, è un inasprimento della lotta per l'introduzione e l'applicazione di misure capaci di tradurre tale esigenza nella realtà.

Su questa strada, il primo passo era la gratuità dell'istruzione, che in teoria doveva aprire a tutti gli strati della popolazione l'accesso anche alle scuole superiori (ginnasi, licei, istituti tecnici). Divenne presto evidente, però, come tale misura non bastasse ad aprire effettivamente ai giovani delle famiglie operaie l'accesso alle università. La prospettiva di entrare nella vita lavorativa, e quindi formare una famiglia, con cinque o più anni di ritardo trattiene molti giovani della classe lavoratrice dall'intraprendere la lunga strada degli studi superiori e universitari. A ciò si aggiunga che l'ambiente d'origine: genitori, amici e conoscenti, vede istintivamente, nell'‛ascesa individuale', un tradimento della solidarietà con la classe d'origine e quindi, anche se il giudizio rimane inespresso, ne fa oggetto di condanna morale. Timori siffatti possono essere eliminati con successo (e in modo non illusorio) solo se la scuola si trasforma da istituzione della società divisa in classi in scuola per tutto il popolo: in altre parole, se la vecchia scuola superiore cede il posto a una scuola globale, come, per es., accade da lungo tempo in Svezia. Ciò vuol dire che la totalità dei giovani frequenta per nove (o dieci anni) la stessa scuola, nella quale - senza riguardo per l'origine sociale - vengono stimolate nel modo migliore tutte le doti individuali. In tal modo si sottrae ai genitori dei ragazzi di dieci anni la decisione: scuola superiore o prosecuzione della scuola elementare? Quando poi avranno quindici anni - si suppone - i ragazzi saranno in grado, con l'aiuto dei consigli del proprio insegnante, di decidere da soli.

Ma queste misure non sono sufficienti a superare le forme di disuguaglianza che impediscono a molti ragazzi di sviluppare le proprie disposizioni. Le misurazioni del quoziente d'intelligenza (in base a test sia verbali che non verbali) hanno mostrato che, nei bambini di famiglie operaie, il Q.I. verbale rimane notevolmente indietro rispetto a quello non verbale, mentre negli altri bambini i due valori vanno all'incirca di pari passo. Ciò ha fatto riconoscere che, nelle case proletarie, la socializzazione pregiudica lo sviluppo e la differenziazione delle capacità linguistiche, il che danneggerà in seguito i bambini. Si rende perciò necessario, onde controbilanciare questo svantaggio di partenza, un insegnamento linguistico compensativo per i bambini delle classi inferiori. Sennonché numerosi pedagogisti progressisti hanno rifiutato l'adozione di provvedimenti del genere in quanto essi discriminerebbero i bambini provenienti da un ambiente linguistico proletario e conferirebbero una validità generale alla norma linguistica ‛borghese'. Bisognerebbe piuttosto riorientare la scuola, nel senso di indurla ad ammettere con pari diritti, accanto alla lingua letteraria, la lingua colloquiale usata dagli strati proletari (con le sue abbreviazioni e semplificazioni, e con tutta la sua rozzezza e carenza di differenziazione). Per comprensibile che sia il movente d'una simile rivendicazione, nella pratica essa si risolverebbe in una stabilizzazione della disuguaglianza, giacché sarà assai più facile per i bambini di estrazione borghese e piccolo-borghese l'‛apprendimento addizionale' del codice ridotto (Basil Bernstein) che non l'inverso (e d'altra parte ogni sforzo diretto a compensare questo deficit viene energicamente riprovato). Siamo dunque dinanzi al dilemma: o la lingua colloquiale delle famiglie proletarie viene discriminata attraverso l'insegnamento linguistico compensativo, e il bambino viene allora potenzialmente estraniato dal suo ambiente d'origine; 0vvero si tralascia l'insegnamento compensativo, ma allora al bambino rimangono precluse certe possibilità di differenziare e articolare i suoi sentimenti, di sviluppare la propria individualità o di raggiungere un'adeguata comprensione della letteratura. Anche se Adorno aveva qualche ragione a beffarsi di un certo primitivismo osservabile nell'‛appropriazione dei beni culturali' da parte dei socialdemocratici (avanti la prima guerra mondiale), è pur vero che non si può negare l'importanza, ai fini di un pieno dispiegamento della propria sensibilità spirituale, di un aiuto che favorisca l'acquisizione di capacità linguistiche adeguatamente differenziate. In definitiva, la padronanza della lingua letteraria, con le sue molteplici possibilità espressive, significa anche ‛potere', capacità di convincere, capacità di operare al di là della cerchia, geograficamente - e, nella maggior parte dei casi, linguisticamente - condizionata del proprio ambiente di classe. Ciò che sinora è riuscito, mercé sforzi appositi e contro notevoli resistenze esterne, solo a singoli membri delle classi inferiori, deve essere reso possibile alle cerchie più vaste.

L'ottimizzazione del sistema scolastico in quanto premessa dello sviluppo delle - diverse - capacità individuali costituisce poi la premessa di analoghi effetti positivi anche all'interno del processo produttivo basato sulla divisione del lavoro. Idealmente il suo risultato sarebbe questo, che ognuno finirebbe con l'occupare il posto nel quale può meglio realizzare se stesso e, quindi, meglio riuscire utile alla società. Sennonchè, nessuno vorrà dare per scontato che esistano sempre ed esattamente tante disposizioni naturali quante sono le funzioni che possono essere assegnate. Non è possibile supporre una siffatta armonia prestabilita. Bisogna piuttosto ammettere che esiste un numero di talenti naturali considerevolmente maggiore di quanti ne vengano adoperati - nel quadro di una società basata sulla divisione del lavoro - per l'espletamento di funzioni di alto livello. Ora, nel caso che questi talenti siano tutti sviluppati, sorge il problema seguente: chi, fra tutte le persone (egualmente) fornite di una data capacità, assumerà le relative funzioni (professioni)? A questo riguardo la società socialista, com'è realizzabile oggi nell'ambito dei paesi industrialmente avanzati, si spinge nuovamente oltre i propri confini tradizionalmente concepiti: la sovrapproduzione di elementi qualificati non conduce a un'ulteriore frustrazione soltanto se viene completata dal superamento dell'asservimento dei singoli, vita natural durante, alla divisione del lavoro. La maggior parte dei vecchi marxisti ha sottolineato questo punto soprattutto per quanto riguarda la sfera politica: una sovrapproduzione, per es., di amministratori competenti spezzerebbe il monopolio della burocrazia, e una rotazione dei funzionari potrebbe avere l'effetto di impedire che i detentori di cariche si isolino dai concreti interessi della popolazione, consolidando e perpetuando il proprio potere. Ma qualcosa di simile si potrebbe sostenere riguardo a tutti gli altri campi. Con l'eccezione di poche funzioni, che a coloro stessi che le esercitano e alla società sembrano ‛non trasferibili' (arte? scienza?), tutte le altre attività dovrebbero essere intercambiabili. Che poi ci si debba rappresentare tale avvicendamento al modo dell'utopia di Fourier (cioè, come un avvicendamento continuo nell'ambito stesso della giornata lavorativa), ovvero, più realisticamente, che uno muti la sua attività principale una o due volte nella vita, non ha grande importanza. L'essenziale è che gli elementi altamente qualificati non rimangano sterilmente inattivi, e non sorgano quindi nuove frustrazioni.

Accanto alla rotazione delle attività (superamento dell'asservimento alla divisione del lavoro, il che però non esclude la sopravvivenza di funzioni diverse) la possibilità di una compartecipazione al processo decisionale nello Stato e nella società (nell'azienda, ecc.) permetterebbe poi la pratica applicazione di una parte delle capacità che si saranno così sviluppate. Bisognerebbe, infine, anche provvedere che il cosiddetto tempo libero possa essere adoperato come tempo dedicato all'esercizio delle facoltà acquisite: esso dovrebbe quindi, rispetto a oggi, mutare radicalmente la propria natura. Il tempo libero cesserebbe allora di essere semplicemente il tempo della riproduzione della capacità lavorativa e di essere dissipato nel consumo passivo di merci e servizi, per diventare il tempo della libera spontaneità e realizzazione di sé, che ha in se stesso il proprio fine.

Anche il problema di procurare ai membri della società capacità e possibilità che consentano loro un uso produttivo (per se medesimi) del tempo libero è stato preso in considerazione da alcuni governi socialisti (specialmente in Danimarca e Svezia). La sua importanza è destinata a crescere ulteriormente con l'accorciamento del tempo di lavoro.

4. Critica socialista al socialismo di Stato (capitalismo di Stato, socialismo burocratico)

Come abbiamo visto, il fatto di prendere le distanze dal comunismo sovietico (e la sua critica) ha contribuito in modo essenziale alla separazione del movimento operaio socialista dalla sua ala estremista, comunista. Una tale separazione, naturalmente, è stata sempre ignorata da coloro che avversano le riforme sociali e la rivoluzione in tutte le loro forme. I fascisti, quando parlavano di ‛bolscevismo', intendevano riferirsi sempre anche ai socialisti e ai socialdemocratici, e i clerico-autoritari austriaci combattevano con la violenza delle armi sia gli uni che gli altri. Talvolta, socialisti e comunisti sono anche arrivati - soprattutto nei periodi di persecuzione - a concordare azioni comuni. Il ristagno della vita politica dovuto alla sistematica esclusione dei partiti comunisti, che in certi casi hanno saputo guadagnarsi sino a un terzo dell'elettorato, ha condotto in Francia a un'alleanza dei socialisti con i comunisti. Ma perché queste alleanze possano risultare davvero solide, i socialisti devono riuscire a impegnare il partner all'osservanza delle norme di una costituzione democratica, la quale preveda la protezione delle minoranze, il pluralismo dei partiti, l'indipendenza dell'amministrazione della giustizia e la libertà di stampa. È in generale vero - almeno fintantoché il socialismo non sia semplicemente un richiamo da sfruttare per un'estrema linea di difesa contro una rivoluzione più radicale - che i socialisti criticano il comunismo non già perché vuol mutare l'assetto capitalistico della proprietà, ma perché, di fatto, esso ha condotto a porre l'intera popolazione (compresa la classe operaia) sotto la tutela di una casta privilegiata di burocrati, la quale presume, né più né meno, di realizzare la volontà di tutti quanti i lavoratori. Non si può in verità negare che questa critica socialista al comunismo è spesso tornata assai comoda ai conservatori, che potevano così stornare l'attenzione dai propri motivi di opposizione. Essi hanno sfruttato persino le critiche di un Kautsky o di una Rosa Luxemburg, traendone immediatamente pretesto per denunciare anche i socialisti democratici come illusi lontani dal mondo, dimentichi del fatto che il socialismo deve di necessità condurre a un burocraticismo di tipo sovietico. Accade così che sia i reazionari sia gli apologeti dell'Unione Sovietica concordino nella stessa tesi: tale è necessariamente il volto del socialismo! La critica dei socialisti al socialismo di Stato, perciò, ha sempre due aspetti: se da un lato combatte l'autoritarismo burocratico di una élite di partito, dall'altro vuol distinguere tra il socialismo e la sua caricatura.

In una forma un po' diversa i socialisti democratici potrebbero ben riprendere le parole di K. Kraus, il quale, rispondendo polemicamente alla lettera di un'anonima dama della nobiltà ungherese, nel 1920 così si esprimeva: ‟Il comunismo in quanto realtà non è se non il contraltare della sua [cioè delle classi dominanti] ideologia che insulta la vita - facendo però grazia al comunismo di una più pura origine ideale. [...] Il diavolo si porti la sua prassi, ma Iddio ce lo conservi come una costante minaccia sulla testa. di coloro che posseggono terre e che, con la consolazione che la proprietà non è il valore supremo, vorrebbero cacciare tutti gli altri verso il fronte della fame e dell'onore della patria. Iddio ce lo conservi, affinché questi gaglioffi, la cui insolenza già ora non sa più dove rivolgersi, non diventino ancora più insolenti; affinché la società degli aventi l'esclusiva del piacere, la quale ritiene che l'umanità a essa sottomessa riceva abbastanza amore quando si prende da loro la sifilide, vada almeno a letto con un incubo; affinché, almeno, le passi la voglia di fare la morale alle proprie vittime, e il buon umore per scherzarci sopra!" (v. Kraus, 1962, pp. 33-34).

Un tale grido d'indignazione morale, come anche il saluto rivolto da Kraus al comunismo in quanto costante minaccia sospesa sul capo degli oppressori e degli sfruttatori possono suonare troppo retorici, anche se in verità sentimenti analoghi agitavano probabilmente parecchi socialisti. In effetti, i successi che i partiti socialisti hanno potuto conseguire in Occidente in materia di riforme sociali e di miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia possono in parte essere messi sul conto della paura che le classi dominanti hanno avuto del comunismo; o comunque è accaduto che, là dove la situazione economica generale lo permetteva senza mettere in pericolo la base della propria esistenza, la classe dominante si è mostrata condiscendente. Quando, invece, il margine per soluzioni di compromesso si era fatto troppo angusto (come negli anni 1932-1933 in Germania), la classe dominante ha naturalmente fatto ricorso senza scrupoli ai movimenti reazionari di massa e al terrore fisico (nonché alla liquidazione delle istituzioni democratico-liberali e dello Stato di diritto).

La critica socialista al capitalismo di Stato sovietico si distingue dalla critica liberale per il suo proposito di dimostrare che - se non prima, con la proibizione di una pluralità di piattaforme all'interno del partito unico - ciò che è andato perduto nell'Unione Sovietica non è soltanto la libertà degli individui, ma anche la garanzia del rispetto degli interessi dei lavoratori. Il partito monolitico guidato con mano di ferro da Lenin (partito che, di fatto, nel 1917 non era da lungo tempo così unitario come la teoria avrebbe richiesto), se poteva rendere buoni servigi nella lotta politica per il potere, una volta diventato la spina dorsale di una società e della sua amministrazione - e dopo la proibizione di tutti gli altri partiti operai e contadini - non poteva che degenerare necessariamente ad apparato burocratico-dittatoriale. Se, almeno agli inizi, il dualismo di apparato di partito e apparato statale garantiva al cittadino sovietico (e al lavoratore) un certo margine di libertà e una certa protezione dall'oppressione, con la totale fusione degli apparati anche questi margini dovevano purtroppo scomparire del tutto.

Il potere statale, che di necessità cresceva enormemente con la statizzazione dei più importanti mezzi di produzione, avrebbe richiesto, come contrappeso, un'intensificazione del controllo dal basso. Avvenne invece il contrario: la libertà di stampa, la libertà di associazione e di riunione furono di fatto abolite. Anche la Costituzione sovietica del 1936 riserva questi diritti esclusivamente alle organizzazioni controllate dal partito unico. Solo tali organizzazioni possono disporre di carta, locali, macchine tipografiche. L'opposizione e il dissenso sono costretti a ricorrere, per la diffusione di libri e riviste, a metodi di riproduzione proibiti (samizdat).

La giustificazione dell'operato dei comunisti viene ravvisata nella necessità di un'accelerata edificazione del socialismo e di una rapida industrializzazione del paese. In verità, un tale duplice compito non era stato quasi preso in considerazione da Marx e da Engels (e, prima del 1918, neppure da Lenin); ma, dopo la conquista del potere politico, la leadership sovietica non credette di potersi fermare a uno sviluppo semicapitalistico controllato. Prevalse dunque la ‛rivoluzione permanente' (preconizzata da Trotzki), che oltrepassava senza indugio la fase dello Stato borghese democratico e dell'economia capitalistica (sia pure controllata e corretta in senso sociale). Ma, se ai primi passi in questa direzione aderirono spontaneamente anche gli operai delle grandi fabbriche, la continuazione di un tale programma a opera dell'apparato burocratico condusse - dopo la fine della NFP - a una ‛rivoluzione dall'alto' (Stalin), che dalla Germania bismarckiana mutuava non soltanto il nome, ma anche le caratteristiche, emerse sempre più chiaramente dopo il 1934, di una gerarchia di livelli e di poteri dotata di tutti quei simboli tradizionali (uniformi, insegne di rango, onorificenze, ecc.) che il movimento operaio aveva un tempo così risolutamente criticato e combattuto. Nasceva così una società stratificata con rilevanti forme di privilegio, la quale, se in verità non può essere definita, in termini marxiani, come una società di classi, ben costituiva però una nuova gerarchia di caste. La mobilità verticale è limitata, se prescindiamo dall'ascesa folgorante di certi funzionari, ascesa resa possibile da Stalin attraverso la liquidazione quasi completa del gruppo dei vecchi comunisti e le periodiche purghe del partito.

La critica socialista a uno sviluppo siffatto si appunta anzitutto contro la forma autodistruttiva assunta dalla collettivizzazione dell'agricoltura (dalla quale, a causa della resistenza dei contadini, derivarono la carestia e il ristagno della produzione agricola): distorsione che fu di fatto agevolata dall'eliminazione di tutti i meccanismi che potevano consentire al regime un'efficace autocorrezione. Ma, oltre a ciò, la critica socialista vuol anche mostrare come lo smantellamento di tutti i meccanismi democratici di controllo, e la loro sostituzione con ‛procedure di acclamazione' controllate dall'alto, fosse non soltanto illiberale ma anche antisocialista, e risultasse nocivo persino dal punto di vista della mera redditività dell'economia nel suo complesso. Il fatto che, più di sessant'anni dopo la Rivoluzione d'ottobre e più di trenta dopo la seconda guerra mondiale, l'Unione Sovietica rimanga fortemente indietro, in materia di produttività sia industriale che agricola, rispetto alla Germania Federale e agli Stati Uniti è un eloquente argomento contro la forma dell'ordinamento economico adottato. Una minore produttività del lavoro significa in pratica che nell'Unione Sovietica i contadini dei kolchoz e gli operai debbono lavorare di più (e più a lungo) dei loro colleghi americani e tedeschi per ottenere lo stesso prodotto. E difficilmente questi svantaggi potranno essere controbilanciati dai servizi sociali forniti dallo Stato (nel campo della sanità, dell'istruzione, dei trasporti, della cultura).

Ancor più pesante si è rivelato il fatto che gli eccidi in massa e i processi farsa dell'epoca staliniana (ufficialmente ammessi, dopo il 1956, anche nell'Unione Sovietica) hanno arrecato al socialismo un discredito vastissimo. Per quella via, Stalin diede indirettamente, e proprio negli anni della grande crisi economica mondiale, un contributo difficilmente valutabile alla stabilizzazione dell'ordinamento economico capitalistico. L'esistenza dell'‛Arcipelago Gulag' ha, verosimilmente, dato alla stabilizzazione dello status quo un contributo maggiore di tutti gli sforzi riuniti dei partiti conservatori. R. Aron ha potuto, con argomenti persuasivi, paragonare questo gigantesco esercito di lavoratori coatti all'‛esercito industriale di riserva' del capitalismo e alla miseria di massa all'epoca dell'accumulazione primitiva capitalistica. L'alternativa alla forma privato-capitalistica dell'industrializzazione, qual è offerta dall'Unione Sovietica, è apparsa scarsamente convincente ai bene informati operai dell'Europa occidentale. Soltanto la rottura con lo stalinismo (1956) e la - assai timida invero - liberalizzazione dei rapporti nei paesi del Patto di Varsavia (e del Comecon) hanno potuto in qualche misura mutare il loro atteggiamento.

Ora, se è vero che - almeno in parte - è possibile spiegare l'evoluzione dell'Unione Sovietica come inevitabile conseguenza delle specifiche condizioni di vita del nuovo Stato (sottosviluppo industriale, distruzioni dovute alla guerra civile, accerchiamento capitalistico), ciò che tuttavia non si può giustificare (né presentare come necessario) è la subordinazione del movimento mondiale del marxismo rivoluzionario (comunismo) ai modelli sviluppatisi nell'Unione Sovietica. È proprio a causa del pericolo di un tale adattamento e di una tale ‛imitazione' che i seguaci di Rosa Luxemburg già nel 1919 criticarono lo stabilirsi del Comitato esecutivo del Komintern nell'Unione Sovietica. Accadde così - e non solo per quanto riguarda l'Unione Sovietica dell'epoca staliniana, ma per tutto il movimento mondiale - che caratteristiche russe, come la specifica situazione d'emergenza degli anni dell'edificazione e l'arretratezza, diventarono ‛virtù' generali. A uno svolgimento siffatto portò un decisivo contributo la cristallizzazione dogmatica del materialismo dialettico e storico e la sua trasformazione in un'ideologia giustificazionistica amministrata dalla burocrazia di partito. Questo irrigidimento dogmatico ha poi sortito anche il risultato che le forme specifiche dell'edificazione sociale nella Cina Popolare furono dai marxisti sovietici fraintese e sottomesse a una gretta critica. Ancora e sempre i partiti dell'Europa occidentale debbono lottare contro il partito fratello dell'Unione Sovietica per il riconoscimento di una ‛via propria', giacché la dogmatica (e astratta) identificazione delle esperienze sovietiche con la ‛dottrina generale' storna lo sguardo dalla concretezza e varietà delle situazioni storiche. La dogmatica immobilità, che abbiamo appena caratterizzata, ha condotto i partiti comunisti a numerose sconfitte (per es. negli anni trenta in Cina, Spagna, ecc.).

Col 1968, come già nel 1956, un altro capo d'accusa è stato formulato contro l'Unione Sovietica e l'orientamento da essa rappresentato. Il 21 agosto di quell'anno l'Unione Sovietica e i suoi alleati (con l'eccezione della Romania) occuparono con un colpo di mano la Cecoslovacchia e, con l'uso della forza, costrinsero il partito che governava quel paese ad accettare l'occupazione illimitata - da parte delle truppe sovietiche - e la modificazione della sua politica interna. In quell'occasione, la critica si appuntò soprattutto contro la concessione della libertà di stampa e della libertà di costituire partiti (meno invece contro la riforma dell'economia, che non si distingueva granché dal modello ungherese). La giustificazione dell'intervento fu ravvisata, da parte sovietica, nella minaccia incombente di un Putsch reazionario o di un ingresso nel paese di truppe tedesco-occidentali, e nella mancata adozione, da parte del governo, di adeguate contromisure. L'imperativo della solidarietà socialista (comunista) avrebbe dunque obbligato gli Stati del Patto di Varsavia a intervenire. A siffatti argomenti tutti i critici occidentali (come anche quelli all'interno del campo socialista) contrapposero il principio, basato sul diritto internazionale, della non ingerenza nelle faccende interne di uno Stato sovrano. Anche il partito e il governo della Cina Popolare aderirono a questo punto di vista (a differenza di quanto accadde in occasione dei fatti ungheresi del 1956, quando Mao Tse-tung approvò esplicitamente l'intervento).

Mentre i commentatori conservatori (e liberali) spiegarono l'intervento dell'Unione Sovietica e dei suoi alleati come una logica conseguenza del comunismo, e - indirettamente - mostrarono un certo sollievo per la fine violenta dell'esperimento cecoslovacco di un comunismo dal ‛volto umano', la critica dei socialisti era resa ancor più aspra dal fatto che in quell'occasione erano stati soffocati sul nascere promettenti accenni di una democratizzazione. Si prese a pretesto per l'intervento la minaccia di un Putsch reazionario proprio quando, per la prima volta dopo molti anni, si andava costituendo un'ampia solidarietà tra governo e popolo: per questa ragione non è assolutamente possibile paragonare quest'ingerenza con le armi con l'ingerenza a favore di un governo democratico minacciato dal fascismo.

Il caso della Cecoslovacchia può essere interpretato come un indizio della paura che la leadership sovietica (o polacca, o tedesco-orientale, ecc.) nutre nei confronti di un socialismo veramente democratico, il quale avrebbe una straordinaria forza d'irradiazione in tutti questi paesi. Ma, anche qualora sussista il pericolo (come parecchi socialisti privatamente ammettono) che un movimento mirante a un socialismo democratico oltrepassi il segno e conduca alla restaurazione del capitalismo, ciò costituirebbe un argomento eloquente contro il sistema esistente del socialismo burocratico di Stato (o capitalismo di Stato) piuttosto che contro il socialismo democratico. L'esistenza di un pericolo siffatto significherebbe che l'operato del regime sovietico (in più di sessant'anni) e quello delle repubbliche popolari (in più di trenta) non hanno ancora definitivamente conquistato al socialismo la maggioranza della popolazione: è un certificato di inettitudine che difficilmente potrebbe essere presentato in pubblico.

Da quanto abbiamo detto, si può dedurre come non sia possibile escludere la possibilità di una restaurazione del capitalismo nei paesi governati da un socialismo burocratico di Stato. Il socialismo democratico, al contrario, fornirebbe una garanzia abbastanza certa contro la ricaduta nel sistema capitalistico, in quanto l'economia pianificata sarebbe necessariamente posta al servizio dei bisogni concreti della popolazione, e la popolazione stessa potrebbe, non solo formalmente ma anche materialmente, partecipare con pienezza alle decisioni di interesse collettivo. Mai il pericolo di una restaurazione del capitalismo fu minore che nel momento in cui, alla testa della Repubblica cecoslovacca, si trovò un governo che era sostenuto dalla maggioranza della popolazione e che riconosceva il diritto a una critica aperta. I governi dei paesi organizzati burocraticamente possono certo, in base ai rapporti delle spie della polizia sugli umori della gente, farsi un quadro dell'opinione della popolazione, ma tale quadro può essere ingannevole. I governi democratici hanno invece a disposizione il termometro dei risultati elettorali, delle dimostrazioni, della critica aperta in discorsi, libri, riviste ecc. Per questa ragione essi non possono mai - per quanto l'opinione pubblica possa venir deformata - allontanarsi dai desideri della popolazione nella stessa misura dei governi dei paesi burocratici. L'identità democratica di governanti e governati non è attuata oggi in nessun luogo, ma gli Stati burocratici sono da essa più lontani che non gli Stati democratico-capitalistici (anche se forse meno lontani dei paesi capitalistici governati da un regime di polizia).

5. Socialismo e paesi in via di sviluppo

Sinora abbiamo parlato esclusivamente dei problemi dei paesi capitalistici industrialmente avanzati. Ma la maggiore miseria e le maggiori (o comunque più oppressive) disuguaglianze sociali sono oggi osservabili nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Si tratta di paesi e di territori che l'ampliamento del mercato mondiale capitalistico ha strappato al loro tradizionale ordinamento economico e sociale e ridotto alla condizione di aree periferiche del capitalismo mondiale. A rigore, il loro sottosviluppo è uno sviluppo più o meno fortemente deviato, uno sviluppo che è stato determinato esclusivamente dagli interessi delle imprese capitalistiche nelle metropoli (e dagli interessi statali delle potenze coloniali), e non dai bisogni stessi dei territori colonizzati.

Nella loro critica al sistema coloniale i socialisti europei possono rifarsi a una lunga tradizione. L'oppressione dei popoli coloniali fu già per tempo sottoposta a critica. Ci furono però - purtroppo - anche coloro che parlarono di una sorta di missione civilizzatrice dell'Europa, giustificando il colonialismo come una forma di europeizzazione e di ‛progresso'. In Germania si distinse in modo particolare, per il ricorso a siffatti argomenti, il socialdemocratico M. Schippel. Egli pensava che, anche se avevano bisogno delle materie prime dei paesi oltremare, gli operai tedeschi non si sarebbero fatti ricattare da barbari incivili, tanto più che non si facevano sfruttare ‛neppure' (!) dai capitalisti di casa loro. Una volta che si avesse bisogno delle materie prime d'oltremare, era dunque meglio averne ‛il controllo diretto'. Si dovevano così custodire i possessi coloniali dello Stato capitalista, affinché lo Stato socialista potesse poi ereditarli.

Ma anche lasciando da parte questi eccessi nazionalistici, il rapporto del socialismo con il colonialismo non era privo di ombre. Lo stesso Marx mostra talvolta un atteggiamento ambivalente, quando ad esempio da un lato critica gli orrori del colonialismo inglese in India e in Cina (guerra dell'oppio), ma dall'altro saluta, come inizio del cammino verso l'industrializzazione e il socialismo, la dissoluzione del modo di produzione asiatico e il superamento del suo secolare ristagno in seguito alla penetrazione del capitalismo europeo. Il colonialismo (come anche il capitalismo in genere) è suo malgrado un veicolo del progresso, di un progresso che, anche quando costa alle masse sangue e miseria, non per questo cessa di essere tale. È vero che nella speranza di Marx, la rivoluzione proletario-socialista mondiale avrebbe, in un tempo relativamente breve, provocato la fine del colonialismo, ma questo aspetto del problema aveva per lui un interesse assai marginale. Per Marx, il centro dell'evoluzione della storia universale stava chiaramente in Europa e nel Nordamerica. Soltanto quando una rivoluzione socialista avesse vinto in queste aree industrializzate, si sarebbe potuto risolvere anche il problema dello sviluppo (rapido e senza intoppi) degli altri paesi del globo.

Le cose sono andate diversamente da come supponevano Marx ed Engels, Kautsky e Rosa Luxemburg. I centri industrializzati del mercato mondiale - con l'eccezione di alcuni Stati che hanno aderito in un secondo tempo al Comecon - sono ancora e sempre capitalisti, mentre nei paesi del Terzo Mondo, dopo la decolonizzazione politica, si è rafforzata la tendenza in direzione di movimenti socialisti. È vero che in molti Stati la decorativa etichetta di ‛socialismo' serve ad abbellire un capitalismo burocratico (e nazionale) di Stato, ma comunque la diffusione della ‛parola' denuncia l'influsso della cosa.

I problemi economici e i conflitti sociali, che occorre superare in questi paesi, sono notevolmente diversi da quelli che aveva in mente Marx e da quelli che stanno dinanzi ai paesi industrialmente avanzati. Anzitutto, manca in tutti una classe operaia idonea a svolgere il ruolo di soggetto della trasformazione socialista della società. In alcuni Stati latinoamericani la classe operaia, esigua e costituita in notevole misura da lavoratori qualificati dell'industria, rappresenta uno strato privilegiato piuttosto che un elemento rivoluzionario. La stragrande maggioranza della popolazione povera (sottoccupata, affamata) consiste di contadini e braccianti e delle loro numerose famiglie. La meccanizzazione dell'agricoltura con l'aiuto di macchinari importati libera una quantità sempre maggiore di manodopera e, con l'inasprirsi della concorrenza, manda a picco le piccole aziende, quando non accade che i contadini stabilitisi come affittuari vengano senz'altro cacciati dai proprietari. Le società cooperative di grandi dimensioni sono quasi sconosciute e la loro costituzione è ostacolata dai governi, controllati dalle oligarchie agrario-commerciali. Anche là dove - come in Messico - sono state attuate riforme agrarie (distribuzione della terra dei latifondisti), si verifica una nuova incessante concentrazione dei possessi fondiari, che ricaccia nella miseria le famiglie senza terra. In questa situazione, le città cresciute oltre misura funzionano come centro d'attrazione per la popolazione eccedente delle campagne, e sono circondate da una cintura di miserabili sobborghi. La popolazione di questi quartieri è in maggioranza così apatica che difficilmente può essere presa in considerazione come fattore attivo di un movimento rivoluzionario, sicché, per il momento, le riforme possono essere avviate soltanto dall'alto. E portatori di tali riforme (può trattarsi anche di riforme di struttura, come quelle promosse da Allende in Cile) possono essere, nelle condizioni date, soltanto élites di intellettuali (ivi compresi ecclesiastici di tendenze radicali), le quali si valgono dell'appoggio passivo delle masse povere e della loro possibilità di mobilitazione. Un marxismo recepito in modo dogmatico non può, in una situazione del genere, offrire alcuna guida all'azione. Movimenti come quello di P. Freire in Brasile, che negli abitanti degli slums cercano anzitutto di svegliare la coscienza della dignità umana e della loro situazione - e della possibilità di una sua trasformazione -, acquistano invece grande importanza. In particolari circostanze, anche i militari (capitani, cadetti di scuole militari) possono diventare il motore di un movimento politico, in quanto hanno ricevuto un'istruzione sufficiente e d'altra parte, per i loro continui contatti reciproci, possono facilmente associarsi in vista dell'attuazione di obiettivi politici.

In certi paesi accade anche che si formi un'alleanza di contadini, piccolo-borghesi, intellettuali e settori della borghesia nazionale, i quali tutti si sentono oppressi dallo strapotere delle imprese straniere. Ma in generale tali alleanze hanno vita assai breve. La maggior parte dei paesi in via di sviluppo scavalcano la fase capitalistico borghese. Nella misura in cui ancora predominano sistemi economici capitalistici (come nella maggioranza dei paesi del Terzo Mondo), essi dipendono in considerevole misura dagli Stati industrialmente avanzati e dalla loro economia; le borghesie locali sono di solito strettamente associate all'apparato statale (per lo più facilmente controllabile) dei vari paesi.

L'atteggiamento dei socialisti negli Stati industriali è (o dovrebbe essere) determinato da quel principio della ‛solidarietà internazionale' che vale anche tra i movimenti operai di quegli stessi Stati. Ciò vuol dire che, nella misura in cui i socialisti possono esercitare un influsso sui loro governi, o hanno essi stessi responsabilità di governo, dovrebbero adoperarsi per: 1) mutare i terms of trade a favore dei paesi del Terzo Mondo produttori di materie prime; 2) indurre i governi dei paesi industrializzati a fornire, con aiuti tecnici, con la concessione di know how e con l'assistenza per lo sviluppo di un'infrastruttura e di una tecnologia realmente corrispondenti ai bisogni dei paesi in via di sviluppo, un contributo al risarcimento delle ingiustizie subite da questi paesi e dalle loro popolazioni.

Quello che abbiamo qui caratterizzato come un ‛dovere morale' corrisponde però, sino a un certo punto, anche agli interessi - se intesi con lungimiranza - dei paesi industrializzati. L'abisso crescente - constatato anche da papa Paolo VI nell'enciclica Populorum progressio (26/3/1 967) - tra il tenore di vita della popolazione del Terzo Mondo e quello degli Stati industrializzati non è soltanto un problema morale dei ‛sazi', ma anche un problema politico. Per questa ragione un partito realmente socialista in uno Stato industrializzato capitalistico non potrà esimersi dal prestare ai movimenti antimperialisti del Terzo Mondo la sua simpatia (anche se non un sostegno attivo). Delle socialdemocrazie europee al governo soltanto il partito svedese si è mosso con chiarezza (pur se con cautela) su questa strada. Dopo essersi lasciati dietro le spalle oscuri trascorsi nella guerra d'indocina, anche i socialisti francesi hanno dato espressione alla loro simpatia per questi movimenti.

Senonché, tanto è indiscutibile il dovere morale di una tale opzione, quanto è problematica la sua concretizzazione nei casi singoli. L'Internazionale socialista, alla quale appartengono sia il partito di governo d'Israele sia parecchi partiti del Terzo Mondo (che condannano Israele), non può neppure garantire la pace tra i suoi membri. E accade che anche Stati industrializzati socialisti (e comunisti) concludano accordi con Stati produttori di petrolio - che hanno represso nel sangue i propri partiti socialisti (e comunisti) - e si astengano da ogni polemica contro quei regimi autoritari. La dipendenza dei paesi industrializzati dalle importazioni di petrolio si dimostra più importante della solidarietà con i socialisti (o i comunisti) perseguitati.

Per quanto riguarda la ‛forma dello sviluppo' dei paesi del Terzo Mondo verso l'industrializzazione, il ‛modello di sviluppo cinese' è stato il primo a mostrare quanto possa essere sbagliato l'accoglimento immediato della tecnologia degli Stati industrializzati. Ad esempio, l'importazione di trattori provoca in Brasile un accrescimento, e non già una diminuzione, della miseria contadina. All'aumentata produttività per addetto all'agricoltura corrisponde un accresciuto dispendio tecnologico (e quindi di capitale). Ora, poiché le importazioni debbono essere pagate con le esportazioni (a prezzi in parte calanti) la cosa si risolve di fatto in una perdita: una perdita che si scarica, in primo luogo, direttamente sulla popolazione contadina. È perciò molto più ragionevole promuovere lo sviluppo di tecnologie produttive meno dispendiose e a più alta intensità occupazionale, le quali aumentino la produttività senza accrescere parallelamente il dispendio di capitale e quindi senza appesantire la bilancia commerciale. Tecnologie del genere, inoltre, possono almeno in parte essere sviluppate direttamente sul posto. La concessione di know how tecnico deve adattarsi ai bisogni immediati delle regioni e dei paesi interessati (e delle loro masse lavoratrici). Questo non significa che si debba abbandonare l'edificazione di una propria industria pesante, si tratta piuttosto di trovare le proporzioni ‛ottimali' dell'economia, come anche una forma di sviluppo che eviti quel tipo di controllo sociale mediante la miseria di massa che fu caratteristico dell'Europa. Ciò vuol dire che lo sviluppo deve cominciare dalla produzione agricola e dall'industria leggera, e che bisogna accontentarsi di tecnologie più semplici prima di poter compiere i primi passi verso l'industria pesante e verso l'industrializzazione dell'agricoltura. In un processo del genere, sussiste la possibilità che almeno alcuni dei paesi in via di sviluppo dedichino sin dall'inizio ai problemi ecologici un'attenzione maggiore di quanto non sia accaduto nei primi paesi industrializzati.

Mentre nelle società industrialmente avanzate i socialisti hanno in mente una transizione democratica e graduale al socialismo e ripudiano le forme di transizione violente, una via analoga non è certamente possibile in tutti i paesi in via di sviluppo. Sinora i partiti socialisti non hanno elaborato una posizione unitaria verso i movimenti di guerriglia e tutte le altre forme di resistenza armata contro il neocolonialismo e contro quei governi che di fatto rappresentano gli interessi dei trusts e delle grandi potenze capitalistiche. Il loro atteggiamento ha oscillato tra la decisa presa di posizione adottata dai socialdemocratici svedesi durante il conflitto vietnamita a favore del movimento di liberazione e la subordinazione della lotta antimperialista nel Terzo Mondo alle esigenze del conflitto Est-Ovest, come ha fatto la leadership centrista del Labour Party (ma non la sua sinistra). Un socialista che voglia giudicare in base alla concretezza storica dovrebbe guardarsi dal trasporre frettolosamente le condizioni a lui familiari a paesi strutturati in modo affatto diverso. Tanto poco appare oggi necessaria negli Stati industrializzati - in presenza della democrazia e dello Stato di diritto - la violenza rivoluzionaria, quanto invece può diventare indispensabile in un paese come il Cile odierno, sottoposto a una dittatura militare. D'altra parte, la condanna in blocco di ogni violenza si addice assai poco ai governi e agli ideologi borghesi, in quanto essi stessi non sono altro che i diretti o indiretti beneficiari, o gli eredi, di rivoluzioni violente. Gli studenti contestatori americani, che hanno nuovamente portato alla luce questa verità storica e che distribuivano volantini con la Dichiarazione d'indipendenza americana, furono tacciati e perseguitati dai conservatori come ‛comunisti': a tanto può arrivare l'oblio (o la rimozione) della storia! (V. anche sottosviluppo e terzo mondo).

6. Forme della transizione pacifica al socialismo

Come abbiamo già sottolineato nell'introduzione, il socialismo contemporaneo muove dalla premessa che - almeno nelle società industrialmente sviluppate - è possibile una transizione pacifica e democratica al socialismo. In verità, sinora non è mai accaduto che un governo socialista abbia, sulla base della propria maggioranza parlamentare, realizzato un ordinamento socialista della società, ma c'è la convinzione (per es., nei socialdemocratici svedesi) che su questa via sia possibile una transizione lenta, graduale (‟a passo di lumaca", dice G. Grass) verso altre forme di società. P. Vinde - un eminente economista socialista svedese che è stato anche sottosegretario del Ministero dell'economia - ravvisa nello sviluppo della Svezia dopo il 1932 (anno in cui i socialdemocratici arrivarono per la prima volta al governo) una continua ma non conclusa marcia di avvicinamento all'obiettivo socialista. La via democratica e riformista verso il socialismo consiste secondo lui in ciò, ‟che il potere dei cittadini viene esteso sempre di più, mentre quello del capitale è sempre di più ricacciato indietro". Lo svantaggio di questo metodo è la sua lentezza, nonché il pericolo di scendere a troppi compromessi, così da rischiare di smarrire l'obiettivo lungo il cammino. Il suo vantaggio consiste invece nell'appoggiarsi sulla volontà politica della maggioranza, il che dà alle riforme una solida base. L'obiettivo rimane fermamente delineato come segue: ‟[...] una società nella quale il popolo intero decida sulla produzione e distribuzione dei beni; una società basata sulla libertà, l'uguaglianza, la democrazia e la solidarietà" (‟Le nouvel observateur, spécial économie", luglio 1975, p. 58).

Le riforme che Vinde ha in mente sono la pensione sociale per tutti, l'istruzione generalizzata e gratuita (e obbligatoria per nove anni), l'assistenza sanitaria gratuita, la sicurezza dalla disoccupazione (la garanzia del ‛diritto al lavoro'), ecc. In vista di ciò, la statizzazione non è considerata uno scopo in sé, ma uno strumento cui far ricorso soltanto quando (e nei casi in cui) ogni altra misura sia fallita. Così, ad esempio, il programma della Svezia di statizzazione dell'industria farmaceutica, serve a mettere interamente sotto controllo i prezzi delle medicine (le farmacie sono statizzate già da lungo tempo). Anche la speculazione sulle aree è stata resa impossibile (o almeno limitata) da leggi apposite, e una gran parte delle abitazioni è diventata di proprietà dei comuni.

Mentre la statizzazione si ritira un po' nello sfondo, il potenziamento della democrazia e la democratizzazione dell'economia hanno svolto in Svezia (come anche nel programma della coalizione di sinistra in Francia) un ruolo importante. La pianificazione statale fu avviata già nel 1932 con l'obiettivo del superamento della disoccupazione, che appariva come ‛la prima delle disuguaglianze'. Negli ultimi anni lo Stato si è sentito impegnato a procurare a ogni cittadino - uomo o donna - un lavoro conforme alla sua dignità. ‟Nell'odierna recessione mondiale - prosegue Vinde - noi abbiamo deciso di compensare la contrazione dei mercati mondiali con l'espansione interna e di non rassegnarci ad accettare la disoccupazione. La nostra bilancia commerciale è peggiorata, ma il saggio di occupazione è cresciuto e non abbiamo che una disoccupazione assai modesta" (ibid., p. 59). Altri compiti della pianificazione statale riguardano lo sviluppo regionale e l'aiuto in caso di cambiamento del posto di lavoro (e per l'ulteriore qualificazione dei lavoratori). La pianificazione ha quindi, secondo Vinde, due obiettivi principali: 1) la sicurezza della piena occupazione; 2) ‟lo sfruttamento razionale del suolo, delle risorse idriche e delle materie prime".

Ciò significa che la pianificazione deve controllare lo sviluppo tecnologico e garantire la protezione dell'ambiente. Ma in questo modo si rafforza anche e in primo luogo la posizione del consumatore. In sempre maggior misura lo Stato (cioè la comunità) si assume la protezione dei consumatori dai prodotti nocivi o senza valore o troppo cari, e costringe i fabbricanti a rispettare norme prefissate. Inoltre, lo Stato provvede direttamente a mettere a disposizione di tutti certi servizi essenziali che non sono forniti - o almeno non nella quantità sufficiente e a prezzi accessibili - dagli imprenditori privati, e cioè l'assistenza sanitaria, i servizi sociali, la cultura, l'istruzione. In tal modo la quota del consumo sociale (cioè del consumo dei servizi summenzionati) è salita in Svezia, negli anni 1964-1975, dal 14 al 240. Ciò vuol dire che quasi un quarto dei consumi dello svedese medio è assicurato dallo Stato (qualunque sia la prestazione lavorativa dei singoli beneficiari).

La cogestione nell'azienda, in Svezia, è regolata dal 1974 in modo che ogni azienda con più di 100 dipendenti deve avere nel consiglio di amministrazione due rappresentanti dei sindacati. Questi rappresentanti sono stati preparati dai sindacati - con l'aiuto dello Stato - allo svolgimento delle loro mansioni, e dispongono di adeguate conoscenze specifiche che consentono loro un controllo effettivo sulla direzione dell'azienda nell'interesse dei lavoratori. ‟A partire dal 1975, una nuova legge per la garanzia della sicurezza sul posto di lavoro ha ulteriormente rafforzato la posizione dei rappresentanti sindacali nell'azienda. In certi casi, essi possono ora anche bloccare la produzione, quando si siano formati la convinzione che essa comporti seri pericoli per la salute dei lavoratori" (ibid.). Le modalità dell'assunzione e del licenziamento della manodopera, come anche la sua distribuzione nell'azienda ecc., saranno in futuro oggetto dei contratti collettivi stipulati tra imprenditori e sindacati. ‟Senza la preventiva approvazione del sindacato, l'imprenditore non potrà più introdurre nell'azienda alcun mutamento essenziale" (ibid.).

Senza mutare in linea di principio l'assetto della proprietà, in questo modo ‟si muta radicalmente il ‛rapporto di forza' tra imprenditori e lavoratori", un mutamento che riguarda anche il settore pubblico, nel quale i sindacati hanno una posizione egualmente forte. Vinde richiama esplicitamente l'attenzione sui problemi che in una simile situazione nascono da un conflitto tra la democrazia politica (che controlla e insedia i capi delle aziende statali) e il controllo diretto dal basso, esercitato dai sindacati. Nei paesi a socialismo di Stato conflitti di questo genere sono negati a parole, mentre sono di fatto repressi, giacché i capi sindacali sono inseriti nella gerarchia dello Stato e del partito, e in genere ignorano (o almeno non mettono al primo posto) gli interessi diretti dei lavoratori.

Sembra però, infine, che si stia procedendo a una lenta socializzazione delle grandi imprese (delle società per azioni). Questa transizione segue una strada alla quale accennò incidentalmente anche Marx (riguardo all'Inghilterra): la strada cioè dell'‛accaparramento'. ‟Il fondo statale per le pensioni (che dispone di enormi mezzi finanziari) ha cominciato nel 1974 a fare incetta di azioni di grandi società. Il diritto di voto derivante da queste partecipazioni viene esercitato dai relativi sindacati aziendali" (ibid.). Nel 1974 fu bloccato circa un terzo degli utili (detratte le tasse) delle grandi aziende svedesi. Questi mezzi finanziari possono essere sbloccati, con il benestare dei sindacati, solo per promuovere miglioramenti delle condizioni dei lavoratori. ‟Attualmente, i sindacati stanno studiando le modalità di un'operazione che consentirebbe loro di partecipare alla crescita economica delle società e di acquisire quote crescenti della proprietà" (ibid.). Alla fine di un simile processo si avrebbe una società socialista, la quale godrebbe di tutte le conquiste utili del capitalismo e si sarebbe risparmiata i pesanti intralci e la perdita di produttività che una rivoluzione reca necessariamente con sé.

Quello svedese può essere considerato come il modello meglio riuscito di uno sviluppo riformistico (ormai progredito) verso il socialismo democratico. I presupposti perché questa via abbia successo sono: 1) una democrazia sufficientemente consolidata (e garantita da complotti di forze reazionarie); 2) un movimento operai o politicamente attivo, con una leadership non corrotta e non integrata.

In particolare il primo dei due presupposti non potrebbe esser dato per scontato in tutte le società industrializzate dell'Occidente, come ha dimostrato l'esempio del Putsch militare cileno e la sua esaltazione, nella Germania Federale e altrove, a opera di riviste e uomini politici ‛liberali'. Quando si tratta di salvare la proprietà privata, numerosi uomini politici conservatori sono ancor oggi evidentemente pronti a sacrificare la democrazia e ad abbassare gli standard della morale politica. Le azioni che si sono incessantemente rimproverate a Fidel Castro come un crimine, il generale Pinochet le può compiere senza biasimo alcuno (almeno finché egli non ‛esagera' e, soprattutto, finché ‛ha successo').

Ma anche quando siano adempiuti entrambi i presupposti, non sarà facile, per un partito socialista fautore di riforme radicali, ottenere nelle elezioni una maggioranza sufficiente. La difficoltà è strettamente connessa con il mutamento della struttura sociale nei paesi industrialmente avanzati e con il grande influsso dei mass media, per lo più dominati da circoli filocapitalistici e conservatori. Se è vero che negli Stati industrializzati lo strato dei percettori di salari e stipendi costituisce la grande maggioranza della popolazione (l'80% e più), all'interno di esso, però, i lavoratori dell'industria raggiungono a stento la metà, mentre l'altra metà è costituita da impiegati che lavorano negli uffici e nei servizi (amministrazioni, assicurazioni, agenzie di viaggi, banche, ecc.). Ora, attraverso questo spostamento del baricentro sociale verso gli impiegati - i white-collar workers, il nuovo ceto medio - la disponibilità a organizzarsi e la mentalità dei percettori di salari e stipendi hanno subito un mutamento considerevole. Da un lato, si sono formate organizzazioni separate per gli impiegati e i funzionari (per es., nella Germania Federale), e dall'altro il grado di organizzazione è in questo strato assai minore che nei lavoratori industriali delle grandi fabbriche. Ma è soprattutto la loro mentalità - con il suo orientamento verso i valori borghesi: concorrenza delle prestazioni, interesse alla carriera, attenzione ai problemi di status - che distingue nettamente i white-collar workers dai blue-collar workers, cioè dai lavoratori impegnati nella produzione materiale.

Negli anni successivi alla prima guerra mondiale lo strato impiegatizio in rapida crescita - fu un importante campo di reclutamento per il fascismo. Dai suoi ranghi sono poi usciti, sinora, di preferenza democratici cristiani, ma anche aderenti alla socialdemocrazia (moderata), i quali hanno esercitato un ben determinato influsso sull'orientamento di questo partito. Non di rado i rappresentanti dell'ala destra all'interno dei partiti socialisti sono ex piccoli impiegati od operai che hanno progredito nella scala sociale, mentre i capi dell'ala sinistra provengono spesso dall'intellettualità e dalla borghesia. E come base di massa dell'ala destra troviamo proprio lo strato dei white-collar workers (inteso in senso ampio, sino ai funzionari). Non è facile, in genere, convincere questo strato della necessità di promuovere un programma di riforme radicali, di struttura. Esso è convinto che i partiti socialdemocratici siano necessari unicamente in quanto strumento utile per la correzione di taluni aspetti unilaterali (solo temporanei) del capitalismo, nonché come mezzo di difesa preventiva contro il temuto comunismo. Questo strato tende comunque in massima parte - almeno in tempi di congiuntura favorevole - a mantenersi apolitico, o almeno non è disposto a impegnarsi attivamente nel lavoro politico.

Gli interessi oggettivi dei membri di questo strato - che rientrano nella classe dei percettori di salari e stipendi - coinciderebbero interamente, sulla lunga distanza, con quelli degli altri percettori di salari, ma i loro interessi soggettivi, e i loro interessi immediati (a breve scadenza), si discostano in misura non indifferente da quelli dei lavoratori della produzione. Dinanzi all'ascesa materiale della manodopera industriale, questo strato si sente minacciato nella sua posizione speciale più di quanto non si senta incline a salutarla con soddisfazione. Il graduale eguagliamento dei diritti degli operai a quelli degli impiegati (in materia di ferie, assicurazioni, opportunità di consumo nel tempo libero) e il superamento, in parte già osservabile, degli stipendi dei semplici impiegati da parte dei salari più alti ha un effetto nocivo sulla solidarietà. A causa dell'indeterminatezza che caratterizza la categoria degli impiegati, il semplice fattorino e il commesso di un grande magazzino possono collocarsi nella stessa classe del direttore generale o dei membri del consiglio di amministrazione, e quindi, nella loro immaginazione, scavare un abisso tra sé e i lavoratori della produzione. Si aggiunga che - ancor più che nel settore della produzione - i posti malpagati nei gradi inferiori della gerarchia impiegatizia sono occupati da donne. Ora, le donne considerano spesso il proprio lavoro come un'occupazione temporanea, e definiscono la propria collocazione sociale in base alla professione del futuro marito piuttosto che in base alla loro attività del momento. Per questa ragione il grado di sindacalizzazione degli impiegati donne è in genere particolarmente basso. Al contempo, l'esistenza di impiegati subalterni di sesso femminile (dattilografe, stenotipiste, perforatrici) procura agli impiegati maschi la sensazione di godere di una posizione più elevata, in quanto essi hanno spesso (o si attribuiscono) nei confronti delle loro colleghe una certa limitata facoltà di impartire ordini. In tal modo, le donne svolgono spesso negli uffici un ruolo analogo a quello svolto nelle fabbriche dai lavoratori stranieri: indeboliscono la solidarietà dei salariati nel loro complesso, giacché i loro interessi (in quanto lavoratrici temporanee) non coincidono pienamente con quelli dei lavoratori permanenti; e d'altra parte la loro posizione subordinata all'interno della gerarchia (a onta dell'obbligo formale dell'eguaglianza - uguale salario per uguale lavoro - obbligo che però nella pratica non è pienamente realizzato in nessun luogo) suscita negli impiegati - e operai - maschi la sensazione (ingannevole) di godere di una posizione migliore, sensazione che contribuisce a tenerli nei ranghi.

Negli anni passati questa mentalità impiegatizia è stata già infranta in alcune imprese. Si è arrivati a scioperi comuni di operai e impiegati, e frequenti sono stati i casi di impiegati che hanno aderito al sindacato generale, anziché al proprio sindacato di categoria. Nelle rivendicazioni degli scioperi è stata esplicitamente accordata anche da impiegati (per es., tecnici di fabbrica) la precedenza agli interessi degli operai peggio pagati e, circa gli aumenti salariali, è stata adottata la richiesta di aumenti eguali (scartando quindi gli aumenti percentuali, che lasciano invariata la gerarchia salariale). Ma la solidarietà si è formata soprattutto nella rivendicazione della cogestione in materia di mutamenti da apportare al processo lavorativo (velocità della catena, pause, norme riguardanti l'intensità del lavoro, ecc.). Su questi punti i tecnici hanno riconosciuto la comunanza d'interessi con gli operai. Nella misura in cui le rivendicazioni operaie oltrepassano i problemi meramente salariali e investono i problemi della struttura e della direzione dell'azienda, è più facile che si formino posizioni comuni di operai e impiegati. Nelle generazioni più giovani, anche la preoccupazione per i problemi di status sembra in declino.

A onta di questi accenni promettenti in direzione di una maggiore solidarietà di classe, non si può parlare, nei paesi industrialmente avanzati, di una classe lavoratrice unitaria e quindi di un movimento operaio che ne esprima gli interessi. In parte, le differenze di salario, di stipendio e di status vengono esplicitamente accentuate e potenziate dai vertici aziendali, onde frenare per questa via l'estendersi della solidarietà. La concessione di premi speciali, che rappresentano una gran parte delle entrate, oltre che da sprone all'intensificazione dei ritmi di lavoro serve anche a ricompensare la docilità e la passività. Per questa ragione, acquista un'importanza crescente il diritto d'intervento dei membri dei consigli di fabbrica (rappresentanti sindacali) i quali possono ostacolare una tale strumentalizzazione delle varie gratifiche aggiunte a salari e stipendi. Tuttavia, difficilmente la totalità dei percettori di salari e stipendi - almeno a scadenza non troppo lontana - potrà costituirsi in unità (cioè come una ‛classe unitaria e cosciente di sé'). Nel migliore dei casi può accadere che un partito operaio riformista (e nazionale) raccolga la maggioranza dei voti di questi settori dell'elettorato (ma, verosimilmente, neppure la metà dei voti degli impiegati). Poiché, d'altra parte, diminuisce al contempo la quota relativa degli operai impegnati nella produzione, la dinamica dello sviluppo industriale non è più destinata necessariamente (e spontaneamente) a procacciare ai partiti socialisti e operai, nei paesi industrializzati, nuovi (potenziali) elettori. Proprio per questo il ruolo della propaganda elettorale e dell'informazione diventa sempre più importante.

D'altro canto, per quanto riguarda il problema dell'interesse che obiettivi socialisti possono rivestire per i percettori di salari e stipendi, l'interrogativo se si tratti di lavoratori produttori di plusvalore ovvero di lavoratori pagati con reddito non ha un peso decisivo. Il confine tra i due gruppi è controverso e, spesso, è difficile determinarlo con precisione. A rigore, sono produttori di plusvalore soltanto gli operai e impiegati (ingegneri, ecc.) che costituiscono una parte del ‛lavoratore complessivo'. Al lavoratore complessivo appartengono tutti coloro - dal progettista al manovale - che partecipano alla produzione del plusprodotto; già i commercianti, i banchieri, i pubblicitari, gli esperti di marketing non sono più annoverabili nel lavoratore complessivo, e i loro salari e stipendi sono detratti dal reddito del capitale. Bisognerebbe quindi supporre che - nell'interesse dell'accrescimento del reddito del capitale - anche le loro remunerazioni siano mantenute basse. Ma, poiché le loro prestazioni sono (in un sistema capitalistico) assolutamente indispensabili per l'avvio della produzione, e d'altra parte la loro esistenza, oltre a ciò, può contribuire a rafforzare la stabilità politica, i loro servigi sono di norma ben ricompensati. In quanto però essi offrono le proprie prestazioni sul medesimo mercato del lavoro dal quale provengono anche i lavoratori produttivi (cioè i lavoratori che, appartenendo al lavoratore complessivo, producono plusvalore), si può supporre che pure i loro salari oscillino intorno al valore della merce forza-lavoro. Ora, se è vero che la loro esistenza, in quanto parte del carico generale costituito dai costi addizionali della valorizzazione del capitale, grava sulla base costituita dal lavoro produttivo nel suo complesso, per ciò che riguarda la loro posizione sociale essi sono invece dei venditori della propria forza-lavoro esattamente come i lavoratori produttivi. Economicamente, essi si trovano nella stessa situazione di quei percettori di salari, i quali come già in passato anziché produrre plusvalore siano al servizio diretto di persone benestanti e badino al loro comfort privato (in qualità di cuochi, autisti, giardinieri, ecc.). Il fatto che, in forza del sistema economico, essi siano pagati con reddito non è comunque attribuibile a una loro ‛colpa' personale. E se la prestazione di servizi personali a uno strato di privilegiati comporta spesso un adattamento mentale ai suoi valori (si pensi al servitore aristocratico, il butier inglese), difficilmente potrebbe dirsi lo stesso delle masse di impiegati che lavorano nelle agenzie pubblicitarie, nelle banche, nelle società di assicurazioni, ecc. Non si vede perciò per quale ragione essi non debbano solidarizzare con i lavoratori produttivi. D'altra parte, il confine è spesso problematico. Prendiamo il caso degli impiegati di un'agenzia pubblicitaria. In quanto questa vende a un'altra ditta la pubblicità (come merce o come servizio), si tratta certo di lavoro produttivo: il proprietario della ditta (il possessore del capitale) sfrutta la forza-lavoro (dei suoi disegnatori, autori di testi, ecc.) per ricavare un profitto (plusvalore) dalla vendita della merce così prodotta. Se invece si considerano gli impiegati nel reparto pubblicità di una società, possiamo almeno supporre che si tratti di lavoratori improduttivi, il cui salario viene pagato con reddito, viene cioè detratto dai profitti del capitale. Maggiore è il plusvalore che l'imprenditore spreme dai propri lavoratori (produttivi), e maggiore sarà la somma che potrà stornare per il proprio reparto pubblicità. In questo caso, si potrebbe quindi supporre che gl'interessi dei lavoratori di un'azienda e quelli dei pubblicitari impiegati nella stessa azienda siano in contrapposizione, mentre nel primo esempio erano in contrapposizione soltanto gl'interessi della ditta che forniva e quelli della ditta che comprava la pubblicità, com'è il caso di ogni rapporto di compravendita. In definitiva, si potrebbe quindi supporre che sia più facile sensibilizzare a obiettivi socialisti gl'impiegati di un'agenzia pubblicitaria indipendente che non gl'impiegati del reparto pubblicità di una società. Ma anche questa conclusione appare dubbia. Può ben darsi, infatti, che agli impiegati del reparto pubblicità il nesso tra aumento dei profitti del capitale e risparmio sui loro salari appaia molto più immediatamente chiaro che non agli impiegati di un'agenzia pubblicitaria indipendente.

Nel complesso, a me sembra che il processo di informazione e di presa di coscienza - il quale prende le mosse dalla circostanza che, in una società capitalistica, chiunque non disponga di mezzi di produzione propri è costretto a vendere la propria forza-lavoro a un proprietario di mezzi di produzione - sia perfettamente in grado non solo di far emergere l'affinità di situazione di tutti i percettori di salari e stipendi (sia che forniscano un lavoro produttivo per il capitale sia che forniscano servizi - pagati con reddito - necessari per la sua valorizzazione), ma anche di persuadere della necessità di un controllo collettivo sui mezzi di produzione (aziende) e sull'economia.

Gli impiegati e i funzionari che, nei paesi capitalistici organizzati secondo il modello dello stato assistenziale, svolgono già oggi mansioni di pubblico interesse (insegnanti, medici, operatori sociali, ecc.) potrebbero sin d'ora sentirsi ‛parte' di una società socialista (da espandere ulteriormente in futuro) e trovare in ciò motivazioni per il proprio impegno. Una società socialista non muterebbe se non in misura minima la loro situazione.

Una volta Gramsci ebbe occasione di affermare che una rivoluzione socialista è più facile che avvenga in un paese sottosviluppato (come la Russia) anziché in un paese industrialmente avanzato, ma che l'edificazione di una Società socialista è invece, in un paese sottosviluppato, assai più difficile. Circa i paesi dell'Europa occidentale e del Nordamerica, è quindi sempre vero che in essi è difficile trovare solide maggioranze per una rivoluzione socialista o per radicali riforme di struttura; ma, una volta ottenute tali maggioranze, l'edificazione della nuova società sarebbe relativamente più agevole. La causa maggiore di questa difficoltà - oltre ai già menzionati mutamenti sociali strutturali degli ultimi decenni - sta nel potere dei mass media e nell'influsso ideologico che la mentalità capitalistica (economica) esercita sulla generalità della popolazione. Di tale influsso abbiamo già parlato in relazione al pericolo rappresentato dalla concentrazione della stampa e dal predominio delle opinioni conservatrici nei mass media. Devo qui tornare nuovamente su questi problemi in relazione alla questione della possibilità di una transizione pacifica. Il predominante influsso di una ‛mentalità capitalistica', o comunque di un atteggiamento di fondo che per principio si rifiuta di mettere in questione il capitalismo, non può essere spiegato soltanto in base a iniziative dirette e consapevoli dei manipolatori di opinioni. Esso risale a una formazione ideologica che deriva direttamente dalle condizioni di vita. L. Althusser ha dunque certamente ragione quando parla dell'inevitabilità dell'ideologia (nozione che peraltro, egli estende a torto alla società socialista del futuro, liquidando con ciò il carattere critico della teoria marxiana dell'ideologia). Ogni acquisto in un grande magazzino, ogni uso di una merce oltre a soddisfare certi bisogni, indotti dalla pubblicità implica anche una tacita complicità con il sistema economico. Nell'acquisto di merci, il bisogno delle quali sia stato indotto dalla pubblicità, emerge una (anche se temporanea) soddisfazione che, esperita come temporanea felicità, convoglia le speranze verso una futura maggiore felicità legata alla sfera di un futuro maggiore consumo. Dominato dalle categorie del consumo, il lavoratore per l'innanzi ancora stretto da vincoli di solidarietà con i suoi compagni di lavoro si trasforma in un individualista mosso dall'egoismo. Attraverso un maggior consumo, fonte di prestigio, egli cerca di differenziarsi dai suoi vicini. La lotta concorrenziale, che va sempre più scomparendo dalla sfera della produzione, dove è sostituita da accordi di cartello e da trusts in grado di dominare il mercato, ribolle tanto più violenta tra i consumatori, isolati dal proprio egoismo e passivizzati dalla propria spinta al consumo. Ogniqualvolta viene pubblicizzato un qualche prodotto viene al contempo pubblicizzato il sistema, che fornisce tali prodotti e con essi la felicità, la gioia di vivere, ecc. Persino l'aggressività contro il ‛capo', sempre latente nelle aziende, viene posta dalle agenzie pubblicitarie al servizio dell'aumento dei consumi: vidi una volta a New York la réclame di una compagnia aerea, che consisteva in un impressionante manifesto in stile pop, recante la scritta: ‟Come diventa piccolo il tuo capo, quando lo vedi dal finestrino di uno dei nostri Boeing jumbo jets!". La moderna psicologia della pubblicità adatta perfettamente gli annunci alla situazione psicologica dei potenziali condumatori. Persino l'impulso alla ribellione viene integrato nel sistema costituito dalla soddisfazione dei bisogni attraverso le merci. Da lungo tempo i pubblicitari abili hanno saputo porsi sul terreno della subcultura della ribellione giovanile, trasformando la protesta contro il mondo del consumo in nuovi articoli di consumo: si vendono a caro prezzo jeans che sembrano già frusti, e si confezionano con toppe ‛vestiti eleganti', che soltanto chi abbia almeno un reddito medio si può permettere!

Il ‛velo' dei salari, che così a lungo è servito come mezzo per celare la situazione di sfruttamento presente nel rapporto di lavoro, conserva ancora la sua efficacia. Quanto più i sindacati riescono ad avvicinare effettivamente i salari al valore della merce forza-lavoro, tanto più il salario appare plausibilmente come la ricompensa adeguata alla prestazione fornita. E quanto meno trasparente diventa per i singoli la prestazione complessa del lavoratore complessivo e il suo rapporto con i lavoratori parziali, tanto meno la teoria del plusvalore si accorda con la loro esperienza immediata. Soltanto nelle aziende minori lo sfruttamento è ancora a portata di mano, ma qui spesso il rapporto personale con l'imprenditore maschera di nuovo i rapporti economici.

Il mutamento graduale dei rapporti di forza tra lavoratori e magnati del capitale ha procurato ai lavoratori - come mostra l'esempio svedese - condizioni di vita e di lavoro notevolmente migliori; esso reca però con sé necessariamente il pericolo che il fervore riformista s'illanguidisca prima di raggiungere il suo obiettivo: ‟Se le cose ci vanno tanto bene sotto il capitalismo, perché mai dovremmo aspirare al socialismo?". In ogni caso, è ben certo che il socialismo burocratico di Stato di tipo sovietico non appare più desiderabile.

7. Necessità di argomenti morali a favore del socialismo

Da qualunque lato si cominci l'analisi, si arriva sempre alla conclusione che oggi la società democratica e socialista non rappresenta più, per la maggioranza della popolazione, l'unico e necessario strumento per la realizzazione dei suoi interessi materiali. Se può ancor oggi sussistere, anche obiettivamente, una convergenza tra interessi dei percettori di salari e stipendi e una futura società socialista, difficilmente sarà possibile realizzare la solidarietà dei lavoratori (al di là dei confini nazionali, ma anche all'interno delle singole nazioni) ricorrendo esclusivamente ad argomenti poggianti sull'interesse. Mentre al tempo di Marx e di Engels l'illustrazione degli interessi dei lavoratori bastava a convincerli della necessità del socialismo e dell'internazionalismo, oggi questo non è più pensabile. E se allora gli argomenti morali avevano un carattere utopico - quando non erano al servizio della perpetuazione del sistema sociale costituito -, oggi gli argomenti morali sono diventati pressoché indispensabili per la fondazione del socialismo. Per questa ragione anche il ruolo, all'interno del movimento operaio, dei cristiani impegnati nella rivoluzione sociale, è destinato in futuro a crescere. Per costoro, l'esigenza di una solidarietà fraterna non rappresenta semplicemente un modo di dare espressione a interessi oggettivi ma anche, al contempo, un imperativo cristiano. D'altra parte se oggi, a poco a poco ma sempre più chiaramente, emerge il ruolo degli argomenti e dei moventi di ordine morale, ciò non significa necessariamente una rottura con la tradizione. Da lungo tempo, anche se inconsci e nascosti dall'ideologia materialistica del tempo, impulsi morali erano all'opera nel movimento operaio. Numerosi intellettuali di famiglie borghesi hanno aderito al movimento operaio per ragioni di questa specie, anche se ritenevano sconveniente riflettere sulle proprie motivazioni. Marx, Engels, O. Bauer, Lenin provenivano tutti dalla borghesia e avrebbero senz'alcun dubbio potuto costruirsi una carriera anche all'interno della propria classe. Essi optarono per il movimento operaio perché avvertivano la necessità di un mutamento sociale; e avvertivano tale necessità perché li muoveva a sdegno la miseria di massa nel capitalismo industriale. Questo, almeno, era il punto di partenza del loro impegno; in seguito, le loro riflessioni teoretiche non conservavano più alcun legame diretto con queste motivazioni. Marx condannava il socialismo moralistico non perché fosse morale, ma perché non produceva altro che una fraseologia sentimentale destinata, in quanto tale, a rimanere senza conseguenza alcuna.

La necessità obiettiva della transizione al socialismo è oggi ravvisabile - come abbiamo già accennato - nel fatto che la dinamica cieca dell'anarchica produzione capitalistica conduce negli Stati industrializzati alla distruzione della biosfera e nei paesi in via di sviluppo alla miseria di massa. Obiettivamente, è oggi interessato a questa transizione un numero d'uomini maggiore di quanto sia mai accaduto in passato, ma la motivazione soggettiva non è più suscitabile sollecitando in particolare una presa di coscienza degli interessi di classe del proletariato industriale. Per importante che sia tuttora la riflessione sul carattere di merce della propria forza-lavoro, maggior rilievo sembra avere la solidarietà, moralmente fondata, di tutti i lavoratori e la preoccupazione per le generazioni future.

Già nel periodo classico del capitalismo, per il singolo lavoratore che aderiva alle organizzazioni del movimento operaio le motivazioni morali erano importanti. Proprio i futuri capi provenienti dalla classe operaia avrebbero potuto altrettanto bene far carriera - individualmente - nel quadro dell'ordinamento sociale costituito anziché mettersi a lavorare in un'organizzazione destinata a rimanere per lungo tempo discriminata e sottopagata. Evidentemente, essi hanno anteposto alla propria ascesa isolata e personale la solidarietà con la classe e con la sua emancipazione futura. Naturalmente questo esempio è un po' artificioso, e può anche darsi che la possibilità obiettiva di un'ascesa individuale mancasse del tutto; rimane in ogni caso il fatto che tali scelte erano reali. Oggi comunque, quando le differenziazioni all'interno della classe operaia e del ceto impiegatizio si sono fatte assai più articolate, e l'illusione di avere opportunità di carriera si nutre di possibilità effettive, è necessaria una motivazione morale molto più forte per aderire a un movimento operaio che promuova riforme radicali (o la rivoluzione). In paesi come gli Stati Uniti, l'interesse economico privato sembra essere così predominante - anche tra i sindacalisti - che difficilmente motivazioni del genere potranno avere importanza. Ma in paesi come l'Italia, nei quali la crescita dell'economia capitalistica presenta difficoltà strutturali, le condizioni sono certamente diverse. In questi paesi, affluiscono ai partiti rivoluzionari persino elementi di origine piccolo-borghese e piccolocontadina. Negli Stati industrialmente avanzati e relativamente prosperi, come gli Stati Uniti e la Germania Federale, la mentalità centrata sull'interesse economico privato è invece penetrata così profondamente nello stesso movimento operaio che solo forti contromotivazioni morali possono ricacciarla indietro. Non è quindi un caso se un militante come E. Eppler, che trae la sua ispirazione dal cristianesimo evangelico, si colloca all'ala sinistra della socialdemocrazia tedesca.

Gli argomenti morali sono quelli che nel modo più diretto e lampante conducono dalla prospettiva egoistica dell'uomo privato (e del consumatore) verso la solidarietà con la società nel suo insieme (e in particolare con i suoi membri più svantaggiati: lavoratori stranieri, minorenni, malati di mente, pensionati, ecc.). Poiché questi settori della popolazione sono quelli che nello Stato assistenziale burocratico-capitalistico sopportano sempre i pesi maggiori, e d'altra parte è loro negata la possibilità di realizzare i propri interessi particolari, la soluzione può venire soltanto da uno spirito di solidarietà, che si ponga in consapevole conflitto con la dominante mentalità capitalistica, egoisticamente rivolta all'interesse privato.

Ma gli argomenti morali - come abbiamo visto - giocano un ruolo considerevole anche nel problema della politica dello sviluppo. In una Terra che diventa sempre più piccola, anche gli abitanti dei paesi più lontani sono diventati nostri vicini, in particolare se consideriamo che il loro benessere e il loro disagio sono determinati in misura non indifferente dal nostro sistema economico. Sono stati i paesi industrializzati a imporre loro uno sviluppo unilaterale, ed è perciò solo questione di giustizia aiutarli oggi a superare questa unilateralità e a edificare un ordinamento economico che risponda ai loro propri bisogni.

Quanto siano insufficienti, in questo campo, le considerazioni centrate unicamente sulla politica e sui sistemi sociali, si può forse dedurre dal modello dei rapporti esistenti tra gli Stati che si definiscono socialisti. Anche se in questi Stati si continua a parlare pubblicamente di aiuti reciproci disinteressati, ciò che di fatto prevale è sempre l'interesse nazionale dei singoli Stati, e specialmente quello del partner di volta in volta più forte. Di fronte ai desiderata cinesi gli esperti sovietici argomentarono nel modo seguente: ‟L'odierno tenore di vita della popolazione sovietica è il frutto dell'accumulazione primitiva socialista, che ai nostri popoli è costata molti sforzi, fatica e disagi. Perciò non vediamo assolutamente perché dovremmo sentirci obbligati - senza una contropartita adeguata - a innalzarvi al livello di sviluppo da noi raggiunto". Ad argomenti analoghi potrebbero naturalmente ricorrere anche gli Stati capitalistici. Pure la Russia zarista, la cui eredità territoriale è stata raccolta quasi interamente dall'Unione Sovietica, era un paese capitalistico, e dallo sfruttamento coloniale dei suoi territori asiatici (e della Cina) traeva sovraprofitti considerevoli. Sebbene questa situazione vantaggiosa sia andata in parte perduta con la guerra mondiale e la guerra civile, storicamente incontriamo qui una ‛colpa' analoga a quella della Germania, che è stata anch'essa esclusa, dopo il 1918, dal novero delle potenze coloniali. Ora l'Unione Sovietica non ha affatto rinunciato ai suoi territori coloniali (che, nella valutazione di Lenin, costituivano ancora il secondo complesso di territori coloniali dopo quello britannico). La costruzione della federazione delle repubbliche sovietiche (con il diritto teorico alla separazione) è servita a metterle tutte saldamente sotto l'egemonia russa, senza che per questo si dovesse rinunciare al preteso internazionalismo e alla pretesa distruzione dell'impero zarista, prigione dei popoli.

Ma le motivazioni morali mi sembrano necessarie soprattutto perché - almeno negli Stati industrializzati - occupano la scena, in quanto soggetti attivi della formazione di movimenti socialisti promotori di riforme radicali, piuttosto elementi provenienti dall'intellettualità, dalla piccola borghesia e dalla manodopera qualificata che non elementi provenienti da quei gruppi marginali che oggi sopportano i pesi maggiori del sistema economico. Nè le donne sottopagate nelle aziende nè i lavoratori stranieri nè gli invalidi o i sofferenti di disturbi psichici possono - senza aiuto e senza una guida - organizzare efficacemente la propria difesa contro il sistema economico. Essi possono essere bensi alleati, ma non soggetti del movimento politico. Qualcosa del genere potrebbe dirsi del Terzo Mondo nei suoi rapporti con le metropoli industrializzate. L'analogia tra il rapporto Terzo Mondo-Stati industrializzati e quello classe operaia-capitalisti nelle prime fasi dello sviluppo capitalistico non regge a una verifica. Con l'eccezione di poche materie prime, che in effetti si trovano prevalentemente nel Terzo Mondo (petrolio greggio - almeno sinora - e qualche altra), non si può assolutamente parlare di una totale dipendenza delle nazioni industrializzate dalle esportazioni del Terzo Mondo. Un embargo sulle esportazioni, pertanto, non potrebbe avere le stesse conseguenze di uno sciopero generale della classe operaia. Paesi industrialmente avanzati e ricchi (come gli Stati Uniti, il Canada, la Nuova Zelanda, l'Australia, ma anche la Francia) possono per esempio esportare grandi quantità di generi alimentari e di foraggio. Oltre a ciò, alcuni di essi dispongono di petrolio greggio (Stati Uniti, Canada, Australia), oro, diamanti, cobalto, cotone, ecc. I più moderni metodi di estrazione consentono loro di diventare concorrenti temibili dei paesi in via di sviluppo. Per questa ragione non è possibile, in molti settori della produzione di materie prime, la costituzione di un fronte unitario. È vero che il superamento della dipendenza del Terzo Mondo dalle metropoli capitalistiche è in qualche modo facilitato dalla concorrenza che oppone queste ultime agli Stati comunisti ma, dinanzi alla supremazia tecnologica degli Stati Uniti, del Giappone e dell'Europa, ciò non è sufficiente. La via più sicura sembra essere quella degli sforzi per superare la fase della ‛monocultura', la quale ha come effetto la totale dipendenza dalle oscillazioni sul mercato mondiale dei prezzi di un solo prodotto (o di pochi), e lo sviluppo di una produzione che riesca a coprire il fabbisogno il più possibile con le forze interne. Su questa strada, gli aiuti economici disinteressati, cosi come li ho caratterizzati sopra, posso no arrecare un aiuto considerevole e accelerare lo sviluppo. Ora, la concessione di tali aiuti difficilmente potrà essere ottenuta unicamente dagli sforzi di questi paesi, mentre pressioni adeguate potranno rendere l'opinione pubblica consapevole della loro urgenza e daranno forza alla voce degli uomini politici delle metropoli che si battono per quest'obiettivo. Ma la motivazione di questi ultimi e dei loro seguaci potrà essere data soltanto dall'imperativo morale della solidarietà internazionale: dall'aspirazione cioè a una condizione di benessere internazionale che vada al di là della semplice assenza di guerra.

8. Socialismo e pace mondiale

Già Kant faceva risalire la guerra al conflitto di interessi particolari. In verità, egli aveva in mente unicamente i signori feudali e assolutisti, e credeva che con l'introduzione della democrazia in tutto il mondo si sarebbe potuta instaurare la ‛pace perpetua'. Va però detto che Kant riteneva estremamente lunga e per nulla certa una siffatta evoluzione verso la pace perpetua. La storia ha poi dimostrato come anche le democrazie siano perfettamente capaci di condurre guerre sanguinose: è infatti possibile, eccitandone i sentimenti, fornire motivazioni adeguate agli eserciti popolari e, d'altra parte, non sempre il popolo giudica in modo razionale e illuminato dei suoi interessi reali. Il nazionalismo ha reso possibile il collegamento tra democrazia e guerra, riuscendo con successo a mascherare gli interessi effettivi - di minoranze - che stanno dietro alle guerre offensive. Da ciò si è frettolosamente concluso che le democrazie sono di necessità bellicose e, dal fatto che le guerre degli eserciti nazionali moderni (dalla levée en masse di Napoleone) sono di solito notevolmente più sanguinose delle guerre dinastiche condotte dai principi assolutistici, si è tratto un ulteriore argomento contro la democrazia. In realtà, la pace è naufragata sullo scoglio non già della democrazia, ma di una democrazia imperfetta e disinformata. Se si fosse avuta un'effettiva informazione dell'opinione pubblica e una concreta discussione degli interessi della maggioranza della popolazione, difficilmente governi sottoposti al consenso popolare sarebbero stati in grado di scatenare guerre.

La critica socialista alla democrazia non mira alla sua abolizione, ma alla sua attuazione concreta. Essa si sforza cioè di demolire gli influssi diretti e indiretti che rappresentanti di interessi particolari (specialmente la lobby degli armamenti ed eventualmente delle alte sfere militari) esercitano sul governo e sul parlamento o, almeno, di assoggettare tali influssi a controllo. È legittimo chiedersi se ciò sia in genere possibile senza una socializzazione della produzione degli armamenti. Oltre a ciò, i socialisti (sin dal piano di Jean Jaurès per una armée nouvelle) hanno sempre propugnato la costituzione di una milizia popolare, cioè di un esercito che sia costituito dalla totalità dei cittadini abili alle armi e che, già per questa ragione, non tolleri di essere adoperato per scopi di repressione politica all'interno. D'altra parte, una milizia siffatta costituirebbe anche per gli Stati vicini una certa garanzia che non si intraprenderebbero guerre offensive. In tempi recentissimi, teorici che s'ispirano alle dottrine del Mahatma Gandhi e di altri difensori della civil disobedience o della passive resistance hanno ulteriormente elaborato l'idea di una milizia popolare socialista. Per garantirsi da un attacco di sorpresa dall'esterno basterebbe addestrare il popolo ai metodi della difesa civile; si otterrebbe per questa via il risultato di eliminare completamente la minaccia dei vicini e di svolgere così una notevole funzione protettiva, in quanto ogni potenziale aggressore sa in anticipo che dovrebbe fare i conti con una resistenza sotto forma di guerriglia partigiana.

Di importanza decisiva è il fatto che, con la liquidazione degli interessi particolari (di singoli settori dell'industria, come l'industria degli armamenti, ma anche, in certe circostanze, di settori interessati a certi territori oltremare o desiderosi di garantire i propri investimenti oltremare), i possibili motivi di una guerra offensiva vengono a cadere. Con l'estensione del socialismo nel mondo le guerre tra Stati scomparirebbero automaticamente. I conflitti d'interesse tra i popoli, infatti, si verificano solo finché è possibile che all'interno dei singoli Stati risultino preponderanti gli interessi di minoranze: già nel Manifesto comunista del 1848 si diceva: ‟Con l'antagonismo delle classi all'interno delle nazioni scompare la posizione di reciproca ostilità fra le nazioni" (v. Marx-Engels, 1848). È vero che anche questa prognosi sembra ormai essere stata confutata dalla storia, al pari di quella di Kant, che fu ripresa da W. Wilson nel 1917 e rinnovata da F. D. Roosevelt nel 1944. Neppure il socialismo ha portato la pace mondiale, e neppure la ‛patria del socialismo', come l'Unione Sovietica orgogliosamente si chiamava, ha rinunciato alle guerre offensive: la guerra finno-sovietica ha rappresentato la prima deviazione dalla regola, e in seguito gli interventi in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia (1968), come anche i numerosi e sanguinosi incidenti di frontiera sull'Ussuri hanno mostrato - anche ammettendo che i vari casi richiedano analisi diverse - che l'Unione Sovietica è perfettamente capace di azioni militari aggressive.

Ma la realtà delle guerre condotte dagli Stati democratici può tanto poco confutare l'importanza della democrazia per garantire la pace, quanto scarsa è la forza probatoria degli esempi summenzionati. È vero che nell'Unione Sovietica non esistono interessi commerciali legati agli armamenti; esiste però un'oligarchia dominante, la quale s'identifica con l'influsso militare e politico dell'Unione Sovietica su scala mondiale, e sente inoltre se stessa - come da sempre ogni governo di una grande potenza - quale garante della pace mondiale. Ma un simile sentimento non può essere altro che una sincera autoillusione ideologica o una maschera cinica. Se abbiamo poc'anzi criticato la democrazia bellicosa e nazionalistica per la sua ingiustizia sociale e per l'influsso che interessi particolari esercitano sulla formazione della volontà politica, dobbiamo ora rivolgere la nostra censura al socialismo burocratico per l'insufficiente democraticità delle sue fondamenta. Il socialismo potrebbe essere bensì la base e il garante di un ordinamento mondiale pacifico, ma soltanto se fosse strutturato democraticamente. Una società nella quale non vi fossero più conflitti di classe e interessi privilegiati di minoranze, e vi fosse invece un'efficiente democrazia con libere elezioni e libero accesso alle candidature, con libere discussioni di orientamenti e progetti politici diversi, con una libera stampa e un'informazione radiotelevisiva ampia e obiettiva: una società siffatta sarebbe certamente la custode della pace e dell'amicizia tra i popoli. A essa basterebbe - sino a quando continuassero a sussistere Stati potenzialmente aggressori - una milizia popolare dotata di armamenti sufficienti per infliggere a qualsiasi nemico, in caso di attacco di sorpresa, perdite tali da fargli ritenere saggio rinunciare all'intervento. E questa società non avrebbe bisogno di armi offensive (so bene che questa distinzione è diventata oggi tecnologicamente obsoleta, ma una milizia popolare farebbe comunque a meno di ogni specie di armi pesanti; prescindo qui dalla possibilità di una distruzione reciproca in seguito all'uso delle armi nucleari, le quali accrescono ulteriormente l'irrazionalità della corsa agli armamenti e si prestano eccellentemente a legittimare gli immensi sforzi compiuti per mantenere o - il più delle volte - per restaurare un ‛equilibrio' che si presuma alterato): l'irradiazione, su scala mondiale, dell'influsso che eserciterebbe un simile paese (certamente contrassegnato da un grado altissimo di prosperità) costituirebbe il suo più efficace strumento politico.

9. Conclusione

Non sempre le prospettive ultime implicite in una politica socialista sono presenti a tutti gli uomini politici socialisti (e socialdemocratici), né tutti le hanno ben chiare in mente. È da esse soltanto, tuttavia, che le fatiche dei riformisti come le aspirazioni dei rivoluzionari possono trarre il proprio significato, che è quello di fare della Terra un luogo in cui i cittadini degli Stati - e gli Stati stessi - possano vivere in pace, in cui non ci sia né sfruttamento né dominio, e in cui, infine, ciascuno possa - con l'aiuto di tutti gli altri - sviluppare onnilateralmente le proprie disposizioni naturali e ricavar piacere dalle proprie occupazioni. L'immagine di questa società futura e degli uomini che in essa vivranno emancipati è come un mosaico composto di un'infinità di tessere. I socialisti non credono ch'essa possa essere tradotta in realtà ‛d'un colpo' e le deformazioni degli Stati a socialismo burocratico li hanno confermati in questa convinzione. Là dove urge la miseria, bisogna dapprima fare rotta verso mete meno auguste. Sempre - però - si dovrà aver cura di mantenere aperta la strada verso ulteriori riforme, di impedire la formazione di una nuova oligarchia (sia essa reclutata su basi economiche o su basi politiche e ideologiche) e, infine, di preservare la possibilità di ritornare sugli errori compiuti per correggerli. Contro la pretesa all'infallibilità, che caratterizza parecchie élites comuniste, bisogna sempre ricordare le profetiche parole che Marx scriveva nel 1852: ‟Le rivoluzioni borghesi, come quelle del secolo decimottavo, passano tempestosamente di successo in successo; i loro effetti drammatici si sorpassano l'un l'altro [...]. Ma hanno vita effimera, presto raggiungono il punto culminante: e allora una lunga nausea si impadronisce della società, prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei risultati del suo periodo di febbre e di tempesta. Le rivoluzioni proletarie, invece, quelle del secolo decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompono a ogni istante il loro proprio corso; ritornano su ciò che sembrava già cosa compiuta per ricominciare daccapo; si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi; sembra che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte a esse; si ritraggono continuamente, spaventate dall'infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano Hic Rhodus, hic salta! Qui è la rosa, qui devi ballare!" (v. Marx, 1852; tr. it., pp. 491-492). Il socialismo riformista può essere una strada verso quella difficile, lunga e complicata rivoluzione che Marx aveva in mente. Non è di certo, comunque, un vicolo cieco nel quale il processo di emancipazione sia condannato ad arrestarsi (v. anche comunismo e marxismo).

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