NERVOSO, SISTEMA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1993)

NERVOSO, SISTEMA

Giovanni Berlucchi
Stefano Ricci
Fabrizio Toccaceli
Claudio Massenti
Stefano Ricci

(XXIV, p. 609; App. II, II, p. 400; III, II, p. 239; IV, II, p. 567)

Neurofisiologia generale. − Ioni e molecole (il metodo del patch-clamping). − Le acquisizioni conoscitive riguardanti il piano ionico e molecolare dell'organizzazione nervosa sono dovute in gran parte all'avvento del metodo elettrofisiologico detto patch-clamping, ideato (1983) da B. Sakman ed E. Neher (per entrambi, v. in questa Appendice) per esaminare il comportamento di singoli canali ionici della membrana delle cellule eccitabili. L'utilizzazione combinata del patch-clamping e dei metodi approntati dalla biologia molecolare contemporanea per determinare la struttura di molecole complesse − tecniche degli anticorpi monoclonali (v. monoclonali, anticorpi, in questa Appendice) e della ricombinazione del DNA (v. virus, App. IV, iii, p. 831) − ha conferito una precisa identità fisica e un preciso meccanismo di funzionamento a strutture membranarie la cui esistenza era stata ipotizzata, ma mai dimostrata direttamente, dalle ricerche neurofisiologiche precedenti. Negli anni Cinquanta A. L. Hodgkin e A. F. Huxley avevano postulato, sulla base di misure di correnti transmembranarie effettuate sull'intero assone, la presenza di canali ionici selettivi per il sodio e per il potassio con apertura e chiusura controllate dal potenziale di membrana per la generazione del potenziale d'azione (v. App. III, ii, p. 239). La neurofisiologia degli anni Ottanta è stata in grado di analizzare al livello molecolare la struttura e il comportamento di questi canali ''elettrosensibili'' per il sodio e per il potassio, come anche di un canale elettrosensibile per il calcio. Questi ultimi canali sono presenti nei terminali presinaptici e hanno una funzione essenziale nella liberazione del trasmettitore sinaptico; essi inoltre possono essere presenti in altri punti della membrana di almeno alcuni neuroni e partecipare alla generazione del potenziale d'azione.

I tre canali elettrosensibili principali sono costituiti da proteine inserite a tutto spessore nella matrice fosfolipidica della membrana. Sia i canali per il sodio sia quelli per il calcio contengono quattro domini transmembranari, ciascuno dei quali contiene a sua volta sei eliche alfa. La struttura del canale per il potassio, molto più piccolo degli altri, è simile a quella di ciascuno dei domini esaelicoidali degli altri due tipi di canale. La posizione nella membrana della quarta elica nel canale del potassio e in ciascuno dei quattro domini degli altri due tipi di canale cambia a seconda del campo elettrico per la presenza di gruppi lisinici o argininici polarizzati positivamente. Vi sono elementi per ritenere che il canale per il potassio sia comparso per primo nell'evoluzione, e che i canali per il calcio e per il sodio siano evoluti per duplicazione ripetuta di un gene ancestrale responsabile della biosintesi del canale per il potassio (Catterall 1988).

Con la tecnica rivoluzionaria del patch-clamping si registrano le correnti che attraversano una porzione di membrana adesa alla punta di una micropipetta quando il potenziale transmembranario viene mantenuto costante a un valore prescelto o fatto variare fra valori ugualmente predeterminati. Le correnti registrate in queste condizioni sono portate da ioni che diffondono sotto l'azione delle rispettive forze in campo elettrochimiche lungo i rispettivi canali transmembranari. La porzione di membrana utilizzata per la registrazione è così minuscola (1÷10μ) e i canali ionici in essa contenuti sono così pochi, che è possibile studiare il comportamento di ogni singolo canale in base all'andamento della corrente che lo attraversa. Ogni singolo canale ionico elettrosensibile oscilla fra due stati, chiuso e aperto, la cui durata varia in modo continuo. In corrispondenza dell'apertura la conduttanza elettrica sale istantaneamente da 0 a un valore fisso tipico del canale, per riannullarsi istantaneamente in corrispondenza della chiusura. Gli stati di chiusura e di apertura corrispondono alle diverse configurazioni assunte dalle molecole proteiche dei canali in funzione della posizione nella membrana della quarta elica (il sensore di voltaggio). La configurazione molecolare prevalente in ogni dato istante è quella caratterizzata dalla minore energia libera (Sakman e Neher 1983).

La registrazione con il patch-clamping può essere effettuata lasciando la porzione membranaria in esame unita alla cellula di provenienza, ma elettricamente isolata dal resto della membrana, oppure dopo averla asportata completamente con lo strappamento. In questo secondo caso è agevole analizzare i canali ''chemiosensibili'', applicando direttamente alla faccia intra- o extra-cellulare del frammento di membrana sostanze chimiche appropriate. I canali chemiosensibili sono anch'essi costituiti da proteine integrali di membrana, e diventano pervi per modificazioni allosteriche delle loro molecole, indotte dalla formazione di legami fra agenti chimici specifici e recettori membranari associati o coincidenti con i canali stessi. Un canale chemiosensibile molto studiato è quello attivato dall'acetilcolina nella membrana post-sinaptica della sinapsi neuromuscolare (placca muscolare). Questo canale diventa permeabile simultaneamente agli ioni sodio e potassio quando molecole di acetilcolina si legano a siti specifici del canale (v. App. III, ii, p. 241; IV, ii, p. 569). Il canale è costituito da porzioni di cinque polipeptidi, due dei quali (alfa) sono identici fra loro e svolgono la funzione recettrice in quanto sono capaci di legare due molecole di acetilcolina per ciascuno (Changeux e Revah 1987). La modificazione sterica che apre il canale in conseguenza della formazione di legami fra l'acetilcolina e le subunità alfa è ancora sconosciuta.

Fino a poco tempo fa si riteneva che i canali ionici fossero o elettrosensibili o chemiosensibili. Come si vedrà più avanti, esistono anche canali, o meglio complessi canali-recettori, controllati sia dal potenziale di membrana che dalla formazione di legami chimici.

Sinapsi e fenomeni di neuromodulazione e di plasticità. - Rilevanti progressi sono stati compiuti nella conoscenza del funzionamento delle sinapsi, soprattutto per quanto riguarda l'identificazione dei trasmettitori e dei recettori sinaptici nel s.n. centrale e periferico. Le sostanze identificate con certezza come neurotrasmettitori includono, oltre all'acetilcolina e alle ammine dopamina, serotonina, adrenalina e noradrenalina, anche degli amminoacidi: l'acido glutammico e l'acido aspartico, trasmettitori eccitatori, e la glicina e l'acido gamma-amminobutirrico (GABA), trasmettitori inibitori. Assai importanti per la neurofisiologia sono le ricerche sui fenomeni della neuromodulazione e della plasticità sinaptica e sui loro meccanismi.

Il concetto di neuromodulazione è legato alla scoperta di sostanze che agiscono a livello sinaptico ma in modo diverso da quello dei trasmettitori. Una forma di neuromodulazione in senso lato ha carattere trofico. Nel corso dello sviluppo, molte popolazioni di neuroni perdono circa la metà dei loro componenti per un processo naturale chiamato ''morte neuronale precoce''. Sopravvivono solo quei neuroni che riescono a stabilire connessioni sinaptiche con le loro cellule bersaglio, e questo processo è controllato da sostanze secrete dalle cellule bersaglio stesse. Il peptide Nerve Growth Factor (NGF), inizialmente identificato come fattore cruciale dello sviluppo di neuroni del s.n. periferico, è in realtà presente anche nel nevrasse e potrebbe esercitare un'influenza trofica plasmatrice sulle connessioni sinaptiche dei circuiti encefalici, e quindi sulla sopravvivenza o morte precoce dei neuroni del s.n. centrale (Levi-Montalcini 1987). La funzione neurotrofica di altri peptidi isolati dal s.n. centrale, suggerita dalle loro azioni su neuroni in vitro, deve ancora essere confermata in vivo (Barde 1988). In senso più ristretto, il termine neuromodulazione denota la possibilità di modificare temporaneamente la trasmissione a livello di sinapsi già stabilizzate. Si ritiene che l'attività secretoria peptidergica riscontrabile in molti neuroni distribuiti nei vari livelli del nevrasse sia primariamente responsabile di questi fini effetti di neuromodulazione. Alcuni di questi neuropeptidi, come l'adiuretina, l'ossitocina, l'LHRH, il TRH e la somatostatina, possono essere liberati nel torrente circolatorio e allora hanno ben determinate azioni ormonali (v. neuroendocrinologia, in questa Appendice); questi stessi peptidi, e molti altri ancora, alcuni dei quali simili o identici per struttura molecolare a vari ormoni gastrointestinali, pancreatici e adenoipofisari, possono tuttavia anche essere secreti dai neuroni entro il tessuto nervoso stesso e fungere da neurotrasmettitori o da neuromodulatori.

La distinzione fra queste due classi di agenti chimici non è netta, ma ha rilevanza neurofisiologica. I neurotrasmettitori tipici esercitano influenze di rapida insorgenza e breve durata sugli elementi post-sinaptici perché modificano in modo diretto lo stato elettrico della loro membrana. Le azioni dei neuromodulatori tipici sugli elementi post-sinaptici sono sia elettriche che metaboliche, e sono relativamente lente e prolungate perché si esplicano in genere tramite l'intervento di secondi messaggeri intracellulari (ione calcio, nucleotidi ciclici). Queste azioni spesso non provocano risposte dirette degli elementi postsinaptici, ma modificazioni delle loro risposte ad altri agenti. Per es., i neuropeptidi potrebbero influenzare la secrezione del trasmettitore sinaptico e/o la sua azione postsinaptica, com'è suggerito dalle frequenti osservazioni immunoistochimiche della cosiddetta co-localizzazione di un neuropeptide e di un trasmettitore tipico nei terminali sinaptici di fibre nervose centrali e periferiche (Hökfelt e altri 1984). Tuttavia questa modalità d'azione deve ancora essere provata convincentemente dal punto di vista fisiologico.

Infine i rapporti spaziali fra neuroni peptidergici e neuroni bersaglio possono essere molto diversi da quelli tipici delle sinapsi: il peptide può essere secreto a notevole distanza dal neurone bersaglio, e raggiungerlo per diffusione nello spazio interstiziale e nei ventricoli (secrezione paracrina). Anche se è possibile che alcune sinapsi usino peptidi come veri e propri trasmettitori − per es. è accertato che un decapeptide simile all'LHRH media gli effetti sinaptici depolarizzanti prolungati esercitati dalle fibre pregangliari sui neuroni dei gangli simpatici degli anfibi (Kuffler e Sejnowski 1983) − i neuropeptidi agiscono molto più comunemente come modulatori. Vari neuropeptidi, presenti naturalmente o introdotti sperimentalmente in concentrazioni nanomolari nel tessuto nervoso, si sono mostrati capaci di modulare una vasta gamma di parametri fisiologici e psicologici, dalla sensibilità dolorifica alla pressione sanguigna, dalle sensazioni di fame e di sete al ciclo sonno-veglia, dal tono dell'umore alla memoria. Fra i peptidi più studiati come neuromodulatori sono l'angiotensina, implicita nel controllo della sete, la sostanza P, le endorfine e le encefaline, fra i cui presunti vari effetti sembra prevalere la modulazione della sensibilità dolorifica. Le endorfine e le encefaline sono dette ''sostanze oppioidi'' o ''morfine naturali del cervello'' per la loro alta affinità di legame con i recettori membranari di neuroni encefalici a cui si legano specificamente anche la morfina e altri oppiacei (Kosterlitz 1980).

Il termine ''plasticità'' è generalmente riservato alle modificazioni adattative del s.n. acquisite con l'apprendimento. In accordo con un'ipotesi storica della neurofisiologia, alcune ricerche contemporanee hanno dimostrato inequivocabilmente la possibilità di ricondurre la plasticità nervosa a modificazioni più o meno stabili della trasmissione sinaptica e ai conseguenti cambiamenti di funzionamento dei circuiti neuronali. Il successo di queste ricerche si spiega in buona parte con l'impiego sistematico di circuiti nervosi analizzabili in dettaglio perché costituiti di pochi neuroni. Un s.n. relativamente semplice, fornito direttamente dalla natura, è quello del mollusco marino Aplysia californica che comprende poche migliaia di neuroni (Kandel e altri 1987). Il comportamento di questo mollusco include alcune forme elementari di apprendimento (v. anche memoria: Neurobiologia, in questa Appendice) che sono peraltro comuni anche ai vertebrati: a) la riduzione dell'intensità della risposta a stimoli che perdono significato perché si ripetono monotonamente (assuefazione, habituation); b) l'aumento della reattività generale susseguente alla ricezione di un singolo stimolo molto intenso e potenzialmente dannoso (sensibilizzazione); c) il trasferimento di una risposta da uno stimolo all'altro per una ripetuta, sistematica associazione temporale fra i due stimoli (condizionamento associativo classico).

Queste tre forme di plasticità comportamentale si manifestano chiaramente negli schemi di reazioni della retrazione della branchia respiratoria suscitate nell'Aplysia dalla stimolazione tattile di un organo emuntorio, il sifone, o da forti stimolazioni meccaniche o elettriche della testa o della coda. Kandel e altri (1987) sono riusciti ad ascrivere questi fenomeni comportamentali a precise modulazioni della trasmissione sinaptica chimica fra i neuroni di senso che raccolgono gli stimoli provenienti dal sifone e i neuroni motori che fanno contrarre i muscoli della branchia. Tutte le suddette modulazioni dipendono in definitiva da variazioni graduate della liberazione di trasmettitore sinaptico da parte dei terminali presinaptici dei neuroni di senso, causate a loro volta da modificazioni molecolari dei canali ionici presenti nella membrana dei terminali stessi. In accordo con un principio generale del funzionamento dei neuroni, la liberazione di trasmettitore da parte di un terminale sinaptico dipende dall'ingresso di ioni calcio nel terminale attraverso canali membranari specifici che si aprono in risposta al potenziale d'azione. La stimolazione tattile ripetitiva del sifone causa la diminuzione assuefativa della retrazione della branchia riducendo, probabilmente tramite la chiusura di canali ionici specifici della membrana, l'ingresso di calcio nel terminale presinaptico durante il potenziale d'azione, e pertanto anche la liberazione di trasmettitore e l'eccitazione sinaptica dei neuroni di moto. Nella sensibilizzazione, lo stimolo sensibilizzante, per es. una forte pressione sulla coda, induce un ritorno al valore di base dell'intensità, previamente attenuata per meccanismo abituativo, della risposta di retrazione branchiale al toccamento del sifone. L'effetto si spiega con l'aumento della liberazione di trasmettitore da parte del terminale del neurone di senso, e di conseguenza dell'eccitamento sinaptico del neurone di moto; e tale aumento è dovuto al fatto che alcuni interneuroni attivati dallo stimolo sensibilizzante causano nei terminali presinaptici dei neuroni di senso, tramite una sinapsi chimica asso-assonica, la chiusura di canali ionici per il potassio che partecipano normalmente alla ripolarizzazione della membrana a ogni potenziale d'azione. In conseguenza di ciò la durata dei potenziali d'azione che raggiungono il terminale presinaptico si allunga, e l'ingresso di calcio nel terminale aumenta. Legandosi a recettori specifici nella membrana del suddetto terminale, il trasmettitore della sinapsi asso-assonica − che potrebbe essere la serotonina o un neuropeptide − dà origine a una sequenza di eventi che inizia con l'attivazione dell'enzima adenilciclasi, prosegue con l'aumento dell'AMP ciclico citoplasmatico, e culmina con la mobilitazione di una chinasi proteica capace di chiudere i canali per il potassio. Nel condizionamento associativo si osserva un aumento al di sopra dei valori basali dell'intensità della risposta di retrazione branchiale alla stimolazione tattile del sifone se a ogni toccamento viene fatto seguire sistematicamente un forte stimolo della testa o della coda. Il toccamento del sifone funge pertanto da stimolo condizionato e la stimolazione intensa della testa o della coda funge da stimolo incondizionato. Anche in questo caso l'allungamento del potenziale d'azione nel terminale presinaptico del neurone di senso è l'evento elettrofisiologico cruciale, e anche in questo caso esso è dovuto a una chiusura dei canali del potassio per azione di una chinasi proteica attivata dall'AMP ciclico. A sua volta l'aumento di concentrazione dell'AMP ciclico dipenderebbe da una convergenza degli effetti degli stimoli condizionato e incondizionato su un'adenilciclasi soggetta a un'attivazione da parte della proteina regolatoria calmodulina legata al calcio (Kandel e altri 1987).

Le modificazioni di reattività descritte sopra hanno durata breve. Per es., l'aumento della risposta di retrazione branchiale alla stimolazione tattile del sifone causato da un singolo stimolo sensibilizzante della testa o della coda dura qualche minuto e non richiede la sintesi proteica. Se tuttavia si somministra per ore una serie di questi stimoli sensibilizzanti, l'intensificazione della risposta di retrazione branchiale si protrae per giorni o settimane, a patto che la sintesi proteica non sia bloccata. Si può pertanto parlare, per analogia con i fenomeni della memoria dei vertebrati, di sensibilizzazione a breve e a lungo termine. La sensibilizzazione a lungo termine dipende, come la sensibilizzazione a breve termine, da un aumento della trasmissione sinaptica fra neuroni di senso e neuroni di moto, e il locus specifico delle due classi di fenomeni è quindi lo stesso. Tuttavia, l'aumento della liberazione di trasmettitore sinaptico per la chiusura dei canali del potassio nel terminale del neurone di senso non è la sola modificazione sinaptica che si associa alla sensibilizzazione a lungo termine. In concomitanza con questa si osservano infatti anche la formazione di contatti sinaptici addizionali fra neuroni di senso e neuroni di moto, nonché un aumento del numero delle zone attive, cioè dei siti obbligati di liberazione del trasmettitore sinaptico, nei terminali dei neuroni di senso. A differenza dei fenomeni a breve termine, che in definitiva si basano su modificazioni configurazionali di proteine già presenti nella membrana e nel citoplasma degli elementi presinaptici, le suddette alterazioni prettamente strutturali indotte negli elementi sia pre- che postsinaptici dalla sensibilizzazione a lungo termine comportano indubbiamente la sintesi di nuove proteine, e pertanto richiedono un intervento attivo del genoma (Kandel e altri 1987).

Nei mammiferi, meccanismi sinaptici di plasticità nervosa comparabili a quelli dell'Aplysia californica sono attualmente oggetto di numerose ricerche eseguite in vitro su fettine di ippocampo o di neocorteccia. Il fenomeno fondamentale è il potenziamento a lungo termine, scoperto da Bliss e Lomo (1973) nel cervello intatto, che consiste in un aumento persistente per ore e addirittura giorni della risposta elettrofisiologica delle cellule ippocampali a singoli stimoli afferenti, indotto da brevi stimolazioni ad alta frequenza della stessa o di altre vie afferenti. Un elemento essenziale per l'induzione del potenziamento a lungo termine è un complesso membranario formato da un recettore per il glutammato e l'N-metil-D-aspartato (recettore NMDA) e da un canale specifico per lo ione calcio. Questo canale ionico è sia elettro- che chemiosensibile: esso si apre infatti solo quando un agonista specifico si lega al recettore e simultaneamente la membrana si depolarizza. L'ingresso di calcio attraverso il canale ionico causato dalla precisa associazione temporale fra depolarizzazione e formazione del legame chimico darebbe inizio a una serie di eventi, in parte simili a quelli descritti per l'Aplysia, che facilitano la trasmissione sinaptica. Come nell'Aplysia, questa facilitazione iniziale è basata su eventi biochimici, mentre il suo successivo mantenimento a lungo termine sembra richiedere anche modificazioni strutturali di elementi postsinaptici come le spine dendritiche (Brown e altri 1988). Il potenziamento a lungo termine e i recettori NMDA a esso così strettamente collegati non si riscontrano solo nell'ippocampo ma anche in altre parti del nevrasse, e in particolare nella neocorteccia. L'analogia di questo fenomeno elettrofisiologico con i fenomeni comportamentali dell'apprendimento e della memoria è molto suggestiva, ma i collegamenti funzionali fra le due classi di fenomeni devono ancora essere definiti con precisione.

Neuroni: nuove tecniche di studio e relative acquisizioni. - Considerevoli apporti sono venuti alla neurofisiologia dalle moderne tecniche di iniezioni intracellulari di sostanze che permettono di visualizzare tutte le parti di singoli neuroni e di determinare i loro rapporti sinaptici con altri neuroni o con cellule non nervose (v. nervoso, sistema: Anatomia, XXIV, p. 645). Ma le tecniche principali con cui la neurofisiologia continua ad analizzare la partecipazione di determinati neuroni al funzionamento integrato del s.n. sono quelle tradizionali delle lesioni e delle registrazioni elettrofisiologiche.

Secondo un credo storico della neurofisiologia, per comprendere le funzioni normali del s.n. bisogna analizzarne le alterazioni indotte da lesioni sperimentali o cliniche. L'analisi dei deficit causati da lesioni di regioni circoscritte del s.n. è sempre stata ed è tuttora una guida insostituibile per la localizzazione delle funzioni normali. Tuttavia l'interpretazione degli effetti delle tipiche lesioni ischemiche, meccaniche o elettrolitiche presenta sempre la difficoltà di distinguere le alterazioni dovute all'asportazione dei neuroni della regione lesa da quelle dipendenti dall'interruzione delle fibre di passaggio. La neurofisiologia contemporanea ha eliminato questa difficoltà d'interpretazione con le lesioni chimiche eseguite con l'iniezione locale di eccitotossine (Coyle 1987). Le eccitotossine sono così chiamate perché esercitano allo stesso tempo azioni eccitanti e tossiche sui neuroni. Esse comprendono sostanze chimiche che, avendo una struttura simile a quella del trasmettitore eccitatorio acido glutammico, si legano a recettori di membrana dotati di affinità per detto trasmettitore, ma diversi dai recettori NMDA menzionati in precedenza. La formazione di legami fra questi recettori e le eccitotossine, fra cui le più usate sono l'acido cainico, l'acido quisqualico e l'acido ibotenico, produce una depolarizzazione intensa dei neuroni associata a effetti tossici letali. Questi sono riconducibili sia a un intenso ingresso intracellulare di ioni e acqua nei neuroni, causa di rigonfiamento acuto dei neuroni, sia a un'attivazione di proteasi da parte degli ioni calcio penetrati nel neurone, causa di autolisi cellulare. Poiché i recettori per le eccitotossine sono presenti nella membrana del soma e dei dendriti dei neuroni, ma non degli assoni, le fibre di passaggio della regione sottoposta all'iniezione di eccitotossine rimangono intatte, mentre vengono distrutti i neuroni il cui soma è ubicato nella regione stessa. Il metodo delle lesioni chimiche con eccitotossine viene attualmente impiegato su vastissima scala; fra i molti risultati importanti a cui esso ha portato si può menzionare l'identificazione di funzioni differenziate nelle varie aree visive della corteccia dei primati (v. per es. Newsome e Pare 1988).

Un problema irrisolto della neurofisiologia riguarda il modo in cui il s.n. costruisce la rappresentazione del mondo esterno e delle possibili azioni dell'organismo su di esso. Questo problema è stato affrontato tradizionalmente con lo studio delle correlazioni fra l'attività di singoli neuroni, le stimolazioni ambientali e le risposte comportamentali dell'animale. Esperimenti di questo genere, eseguiti soprattutto su animali liberi di muoversi, hanno considerevolmente ampliato la comprensione dei meccanismi nervosi elementari della percezione, dell'attenzione intensiva e selettiva, dell'apprendimento e della memoria, e del controllo intenzionale della motilità (Mountcastle 1986). Specificamente, le registrazioni elettrofisiologiche hanno comprovato l'esistenza di singoli neuroni che rispondono selettivamente a stimoli semplici, per es. a luci colorate o a suoni costituiti da toni puri. Ma esse hanno anche comprovato l'esistenza, per lo meno nei primati, di singoli neuroni che rispondono selettivamente a stimoli ambientali complessi, oppure che si attivano sistematicamente quando l'animale sta per compiere un determinato movimento.

La prima osservazione di singoli neuroni selettivamente reattivi a stimoli naturali complessi avvenne nel 1972, quando C. G. Gross e altri descrissero alcuni neuroni della corteccia inferotemporale del macaco che rispondevano solo a stimoli visivi rappresentati da una mano scimmiesca o da una faccia umana. Lo scetticismo con cui fu inizialmente accolta questa descrizione ha oggi ceduto definitivamente il passo alla convinzione che, per lo meno nella corteccia dei primati, esistono neuroni attivati selettivamente dalla presentazione alla vista o ad altre modalità sensoriali di stimoli con configurazione molto complessa. Anche sul versante motorio, per es. nell'area premotoria 6 del macaco, è stata dimostrata una relazione sistematica fra l'attività di singoli neuroni e l'esecuzione da parte dell'animale di atti diretti a uno scopo (Rizzolatti e Gentilucci 1988). Secondo H. B. Barlow (1985) l'attività di singoli neuroni dei centri cerebrali superiori è adeguata a rappresentare eventi significativi del mondo esterno e a innescare le reazioni comportamentali corrispondenti. Ciascun atto percettivo avrebbe il suo corrispettivo specifico nell'attività di un'ampia classe di neuroni agli alti livelli del s.n., i cosiddetti neuroni cardinali; ma, essendo la classe organizzata in parallelo, ciascuno dei suoi neuroni cardinali sarebbe in grado, da solo, di rappresentare l'oggetto percepito e di produrre la risposta comportamentale appropriata. Una capacità ''decisionale'' per il controllo dei movimenti oculari a livello di singoli neuroni è stata riscontrata in un'area visiva mediotemporale nel macaco (Newsome e altri 1989).

Altri ritengono invece che anche i neuroni apparentemente molto selettivi per stimoli complessi rispondano in realtà a un'intera gamma di stimoli, e non a uno stimolo solo. Per es., la risposta dei neuroni specifici per le facce non si restringerebbe a una sola faccia, ma piuttosto alla categoria degli stimoli ''facce'' in genere, e sarebbe spiegata dall'importanza dell'espressione facciale nella comunicazione sociale dei primati (Perrett e altri 1987; Rolls 1987; Desimone e Ungerleider 1989). Per chi nega la selettività assoluta di risposta dei singoli neuroni, ogni evento od oggetto sarebbe rappresentato nel s.n. non dall'attività parallela di singoli neuroni, ma dall'attività integrata di gruppi organizzati di neuroni. In quest'attività integrata un'autentica specificità per l'oggetto o l'evento rappresentato si potrebbe riscontrare nella risposta combinatoria del gruppo, se si potesse registrare simultaneamente da tutti i suoi neuroni, ma non nella risposta dei singoli neuroni che lo costituiscono.

Al momento la disputa fra le ipotesi che sostengono il ruolo rappresentativo dei singoli neuroni e quelle formulate in termini di combinazioni neuroniche è completamente aperta. Potrà forse contribuire a risolverla la simulazione dei circuiti nervosi con le cosiddette reti neurali (v. in questa Appendice), circuiti artificiali a molti strati con organizzazione in parallelo e capacità adattative (Sejnowski e altri 1988; Douglas e Martin 1990). Rispetto ai calcolatori digitali tradizionali, organizzati in serie, queste reti artificiali organizzate in parallelo hanno proprietà più simili a quelle del cervello, ma al momento le analogie fra di esse e i veri circuiti neuronici sono ancora assai scarse. Ciò nonostante, la loro utilità potenziale per la neurofisiologia non deve essere sottovalutata.

Organizzazione modulare e organizzazione diffusa dei circuiti neuronici. - Una costruzione modulare è costituita dalla giustapposizione di molteplici unità relativamente indipendenti, identiche o simili per struttura e funzionamento. È possibile intravvedere nell'organizzazione di alcune porzioni del nevrasse una certa rispondenza al principio della modularità. Per es., nell'organizzazione della corteccia cerebrale ricorrono ripetutamente aggregati di neuroni, disposti verticalmente a tutto spessore nella corteccia, che meritano per certi aspetti la denominazione di moduli. Vi sono due tipi di aggregati funzionali verticali. Un primo tipo è rappresentato da un circuito canonico che si ripete in tutte le aree della corteccia, indipendentemente dalle loro differenziazioni citoarchitettoniche e funzionali, ed è caratterizzato da uno schema fisso di connessioni eccitatorie e inibitorie intracorticali e da uno schema altrettanto fisso di entrate e uscite. Le connessioni inibitorie intracorticali sono assicurate dai neuroni stellati non spinosi (circa il 20% della popolazione totale) che usano l'acido gamma-amminobutirrico (GABA) come trasmettitore. Le connessioni eccitatorie intracorticali sono assicurate dai rimanenti neuroni, piramidali e stellati spinosi, la maggior parte dei quali usano il glutammato o l'aspartato come trasmettitori. Le afferenze del secondo e del terzo strato formano le proiezioni cortico-corticali, mentre quelle del quinto e del sesto strato sono dirette a centri sottocorticali. Le afferenze talamiche terminano prevalentemente nel quarto strato, quelle troncoencefaliche nel primo (Rakic e Singer 1988; Douglas e Martin 1990).

Nel secondo tipo di aggregato verticale di tipo modulare i neuroni sono accomunati da proprietà fisiologiche identiche o simili, tipiche dell'area a cui i neuroni appartengono. Per es., nella corteccia visiva primaria del macaco si trovano colonne di dominanza oculare, colonne specifiche per l'orientamento e colonne specifiche per il colore. I neuroni appartenenti a una colonna di dominanza oculare rispondono esclusivamente o predominantemente a stimoli visivi presentati a un determinato occhio; e le colonne per cui è dominante l'occhio destro si alternano con le colonne per cui è dominante l'occhio sinistro. In una colonna specifica per l'orientamento, tutti i neuroni rispondono selettivamente a stimoli luminosi allungati aventi lo stesso orientamento, e le colonne selettive per stimoli orientati verticalmente si alternano con quelle selettive per stimoli orientati orizzontalmente e con quelle selettive per ciascuno di tutti i possibili orientamenti obliqui. Nelle colonne specifiche per il colore, i neuroni sono sensibili alla lunghezza d'onda degli stimoli visivi, ma non alla loro configurazione o al loro orientamento nello spazio (Hubel 1982, 1988). Nella corteccia motoria la prova dell'esistenza di colonne è data dal fatto che una stimolazione elettrica molto localizzata eseguita con un microelettrodo inserito verticalmente nella corteccia tende a eccitare lo stesso muscolo o lo stesso gruppo di muscoli, indipendentemente dalla profondità intracorticale dell'elettrodo. Invece, se il microelettrodo viene inserito nella corteccia lungo una traiettoria obliqua il muscolo eccitato cambia a seconda del punto stimolato, perché il microelettrodo passa da una colonna all'altra (Asanuma 1989). Nella corteccia somatosensitiva vi sono colonne separate di neuroni reattivi rispettivamente a stimoli tattili superficiali, a stimoli pressori profondi e a stimoli articolari (Mountcastle 1988).

Due metodi nuovi della neurofisiologia sono stati impiegati per dimostrare l'esistenza delle colonne corticali: la marcatura dei neuroni con 2-desossiglucosio radioattivo e quella con coloranti, sensibili al voltaggio. Il metodo del 2-desossiglucosio, ideato da L. Sokolov (1977), è basato sul fatto che se s'introduce nel tessuto nervoso questa molecola simile al glucosio, i neuroni la captano come il glucosio, ma non riescono a metabolizzarla. La captazione del glucosio e del 2-desossiglucosio da parte dei neuroni aumenta durante l'attività, ma mentre il glucosio viene completamente metabolizzato, il 2-desossiglucosio si accumula entro i neuroni, e il suo accumulo intracellulare è proporzionale al grado di attività. Se s'inietta 2-desossiglucosio radioattivo in un animale anestetizzato mentre viene sottoposto a una stimolazione visiva intensa e prolungata con stimoli aventi tutti lo stesso orientamento, i neuroni delle colonne sensibili a questo orientamento saranno più attivi dei neuroni delle altre colonne e pertanto incamereranno più 2-desossiglucosio. Fette della corteccia visiva di questo animale impressionano per contatto una pellicola fotografica in corrispondenza delle colonne corticali attivate dalla stimolazione visiva, intensamente radioattive, ma non in corrispondenza delle colonne non stimolate, che hanno accumulato molto meno materiale radioattivo. Si ottiene così una visualizzazione, una ''fotografia'', della distribuzione nella corteccia visiva delle colonne sensibili all'orientamento usato per la stimolazione. Naturalmente l'esperimento può essere eseguito, con uguale successo, con altri tipi di colonne nella corteccia visiva stessa, o in altre aree corticali, purché si riesca ad attivare selettivamente il tipo di colonna che si vuole mettere in evidenza (Hubel 1988).

L'altro tipo di marcatura si effettua versando sulla corteccia di un animale anestetizzato una sostanza colorata che si lega alla membrana dei neuroni e che è sensibile al potenziale elettrico della membrana stessa: se la membrana si depolarizza, la sostanza cambia colore. Poiché l'attività dei neuroni comporta la depolarizzazione della membrana, il cambiamento di colore è più manifesto laddove ci sono più neuroni attivi. Il cambiamento è piccolo, ma può essere rilevato efficacemente con tecniche televisive sulla superficie del cervello intatto in vivo. Un determinato tipo di colonne può così essere evidenziato somministrando all'animale stimoli in grado di attivare specificamente i neuroni di tali colonne (Blasdel e Salama 1986).

Nei sistemi neuronici a proiezione diffusa mancano i requisiti dell'organizzazione modulare. La maggior parte di questi sistemi prende origine da neuroni del tronco dell'encefalo e si distribuisce in modo relativamente non selettivo a strutture diencefaliche e telencefaliche, specialmente alla corteccia cerebrale. In genere ciascuno di questi sistemi è caratterizzato dal fatto che i suoi neuroni usano un determinato trasmettitore. S'identificano così sistemi dopaminergici, noradrenergici, acetilcolinergici, serotoninergici con possibili azioni differenziate sulla corteccia e su centri sottocorticali (Bloom 1988). Almeno alcuni di questi sistemi sembrano avere normalmente la funzione di apportare il trasmettitore ai neuroni bersaglio senza alcun rapporto definito di connessione sinaptica, secondo la modalità di secrezione paracrina già menzionata a proposito dei neuropeptidi.

È in questi sistemi che hanno avuto qualche successo i recenti tentativi di trapianto di neuroni encefalici fetali in animali adulti al fine di sostituire neuroni corrispondenti persi a causa di una lesione. Per es., il trapianto di neuroni dopaminergici fetali della sostanza nera nel corpo striato di ratti adulti esercita effetti benefici sui sintomi causati in questi ratti da una precedente lesione della sostanza nera, perché i neuroni trapiantati ristabiliscono in qualche modo la regolazione dopaminergica dei neuroni dello striato, normalmente dipendente dalle proiezioni nigro-striatali. Gli studi neurofisiologici devono ancora chiarire se tale regolazione sostitutiva dipenda da una semplice modulazione sinaptica paracrina, o da un'azione trofica, o dalla incorporazione dei neuroni trapiantati come elementi pre- e postsinaptici in circuiti organizzati (Bjorklund e altri 1987).

Sistemi per il controllo di macrofunzioni (movimento e visione). − Nello studio del controllo del movimento, la neuroanatomia e la neurofisiologia contemporanee hanno identificato tre grandi sistemi di proiezione dai centri motori encefalici ai motoneuroni dei nervi cranici e spinali (sistemi motori dell'encefalo, Kuypers 1989): il sistema laterale, comprendente la componente crociata del fascio cortico-spinale e il fascio rubro-spinale; il sistema mediale, comprendente i fasci interstizio-spinale, tetto-spinale, reticolo-spinale, vestibolo-spinale e la componente non crociata del fascio cortico-spinale; il sistema per il controllo diffuso dell'eccitabilità motoneuronale, comprendente i fasci ceruleo-spinale e rafe-spinale. Il fascio cortico-spinale con le sue componenti crociata e non crociata è sinonimo di fascio piramidale; i fasci del secondo gruppo, con l'esclusione della componente non crociata cortico-spinale, costituiscono le vie extra-piramidali. Solo una minoranza delle fibre dei sistemi motori dell'encefalo termina a contatto con i motoneuroni poiché nella maggior parte dei casi il rapporto si stabilisce tramite interneuroni. Le influenze del gruppo laterale si esercitano in modo predominante sui motoneuroni dei muscoli degli arti, soprattutto distali, dal lato opposto a quello della loro origine encefalica. Le influenze del gruppo mediale si esercitano in modo predominante sui muscoli assiali e sui muscoli prossimali degli arti da entrambi i lati. Le influenze del gruppo per il controllo diffuso dei motoneuroni sono, appunto, diffuse.

Secondo Kuypers (1989) il sistema mediale è un sistema motorio filogeneticamente antico, destinato al controllo dei movimenti di tutto il corpo, come la locomozione e l'orientamento, dei movimenti degli arti integrati con aggiustamenti posturali del corpo (come per es. i movimenti di raggiungimento manuale), dei movimenti respiratori, del mantenimento della postura eretta. Il fascio rubro-spinale, appartenente al sistema laterale, aumenta la capacità di finezza dei movimenti mediati dal gruppo mediale e vi aggiunge la capacità di eseguire movimenti indipendenti delle estremità, specialmente delle loro parti distali. La componente crociata del fascio cortico-spinale o piramidale aggiunge ulteriormente forza, velocità e destrezza alla motilità, e soprattutto fornisce la capacità di eseguire movimenti altamente frazionati come i movimenti delle singole dita. È assai probabile che quest'ultima capacità dipenda dalla componente cortico-motoneuronica del fascio piramidale, ossia da quelle sue non numerose fibre (≈10%) che contraggono un rapporto sinaptico diretto con i motoneuroni dei muscoli distali degli arti (Porter 1985). Ciò è suggerito dal fatto che nel macaco la componente cortico-motoneuronica e la capacità di muovere separatamente le singole dita si sviluppano parallelamente nel corso del primo anno di vita; e dalla presenza accertata di una componente cortico-motoneuronica del fascio piramidale solo in quei mammiferi dotati di un controllo motorio individuale delle dita (procione, varie specie di primati).

La cooperazione del sistema mediale e del sistema laterale è ben dimostrata dall'analisi dei substrati anatomo-fisiologici di un movimento volontario come il raggiungimento e la prensione di un oggetto sotto il controllo della vista. Il sistema mediale è in grado di generare, oltre che la postura corporea generale appropriata al compito, la traslazione accurata del braccio e della mano verso l'oggetto; ma il controllo della posizione delle singole dita durante l'avvicinamento finale e la combinazione dei movimenti digitali differenziati necessari alla prensione dell'oggetto richiedono l'intervento del sistema laterale. Il sistema diffuso per il controllo dell'eccitabilità motoneuronale determina le modificazioni generali dell'attività motoria legate a fattori motivazionali, emozionali e attenzionali, nonché al ciclo sonno-veglia.

Sulla base di queste e altre conoscenze si può affermare che la massima parte dei movimenti richiede l'intervento integrato di più sistemi motori, e si può tranquillamente abbandonare il concetto classico che collega la motilità volontaria con il fascio piramidale e la motilità involontaria con le vie non piramidali. La coordinazione fra sistema mediale e sistema laterale può avvenire anche grazie a meccanismi corticali, poiché le stesse aree della corteccia, in parte addirittura gli stessi neuroni, che proiettano al fascio cortico-spinale, proiettano anche alle stazioni troncoencefaliche da cui prendono origine le altre vie motorie discendenti. Il sistema diffuso di controllo dell'eccitabilità motoneuronale è a sua volta controllato dal sistema limbico. L'esperienza clinica ed esperimenti eseguiti sia sull'uomo che sugli animali indicano che la progettazione dei movimenti, come anche il loro controllo in corso di svolgimento, sono affidati a un sistema diffuso che include i gangli della base, il cervelletto, la corteccia parietale posteriore, la corteccia prefrontale, l'area motoria supplementare e l'area premotoria (Brooks 1986; Bock e altri 1987).

La visione (v. in questa Appendice) è uno degli argomenti preferiti di studio della neurofisiologia per la sua predominanza sulle altre modalità di senso, ben espressa da due semplici fatti anatomici: nell'uomo, come negli altri primati, i tre milioni di fibre dei nervi ottici sono il doppio del totale delle fibre afferenti di tutti gli altri sistemi di senso; e più di un terzo della neocorteccia consiste di aree con funzione esclusivamente visiva. Le ricerche moderne hanno messo in evidenza due caratteristiche dei sistemi visivi dei mammiferi superiori, precedentemente ignorate. Queste sono la differenziazione anatomo-funzionale delle cellule ganglionari della retina, i cui prolungamenti vanno a costituire i nervi ottici, e la molteplicità delle aree corticali deputate alla visione. Le cellule ganglionari della retina del macaco, e probabilmente di tutti i primati incluso l'uomo, si distinguono soprattutto in base alla capacità di rispondere a stimoli colorati. Una popolazione è caratterizzata dalla sua reattività differenziale alle diverse lunghezze d'onda e dalla sua eccellente capacità di risoluzione spaziale degli stimoli (cellule cromatiche A). A questa popolazione cromatica si contrappone una popolazione di cellule ganglionari B, di maggiori dimensioni, acromatiche in quanto incapaci di modulare le proprie risposte alla luce in base alla lunghezza d'onda, ma dotate di ottime capacità di risoluzione temporale. Livingstone e Hubel (1988) hanno differenziato le cellule ganglionari A e B del macaco in base a quattro parametri: cromaticità (90% delle cellule A sono cromatiche, 100% delle cellule B acromatiche); acuità (i campi recettivi delle cellule A sono due o tre volte più piccoli di quelli delle cellule B, e pertanto si può ritenere che il sistema A abbia una maggiore acuità del sistema B); contrasto (le cellule B sono più sensibili delle cellule A a stimoli di basso contrasto); velocità (le cellule B rispondono agli stimoli luminosi più rapidamente ma in maniera più transitoria delle cellule A, e pertanto sono probabilmente più adatte a rilevare stimoli in movimento). La presenza di popolazioni di neuroni retinici differenziati serve a distribuire lungo canali distinti delle vie ottiche la trasmissione di diverse categorie di informazioni visive, ed è una premessa necessaria per l'esistenza e per l'elaborazione separata di queste categorie nei centri encefalici.

Tanto il corpo genicolato laterale quanto almeno alcune porzioni della corteccia con funzioni visive presentano segregazioni basate sulle suddivisioni constatabili a livello retinico. Una siffatta segregazione è molto manifesta nel corpo genicolato laterale del macaco, dove i sei strati di questa struttura sono divisi in quattro strati dorsali, a piccole cellule, e due ventrali a grandi cellule. Le terminazioni delle fibre delle piccole cellule ganglionari retiniche cromatiche A sono limitate ai quattro strati parvocellulari, mentre le grandi cellule acromatiche B proiettano ai due strati magnocellulari oltre che al corpo quadrigemino anteriore e al pretetto. Le proiezioni delle cellule del corpo genicolato laterale del macaco, tanto degli strati magnocellulari che di quelli parvocellulari, terminano pressoché esclusivamente nell'area visiva primaria (area striata, area visiva 1 - V1 - o area 17). Dall'area V1 si diramano poi diverse proiezioni che raggiungono direttamente o indirettamente molte altre aree visive − circa 25 per emisfero − ubicate nei lobi occipitale, parietale e temporale. L'identificazione di ciascuna di queste aree corticali come un'entità funzionale visiva è basata su caratteristiche cito- e/o mieloarchitettoniche, sulla natura e sull'organizzazione delle afferenze da centri sottocorticali innervati dalla retina e/o da altre aree corticali visive, e sulla presenza di neuroni che reagiscono a stimoli visivi appropriati e sono quasi sempre disposti secondo un'organizzazione retinotopica. È presumibile che il numero di aree visive corticali sia ancora più elevato nel cervello umano, e che l'espansione della neocorteccia tipica dei cervelli a maggiore complessità sia avvenuta nell'evoluzione principalmente per l'aumento del numero di aree corticali deputate a funzioni visive. Nell'area V1 esistono popolazioni distinte di neuroni deputate a smistare selettivamente ad altre aree visive le informazioni ricevute da diverse categorie di cellule del corpo genicolato laterale.

In sintesi si possono identificare tre vie al servizio di altrettanti flussi di informazioni differenziate (Livingstone e Hubel 1988; Desimone e Ungerleider 1989): a) un flusso di informazioni provenienti dalle cellule ganglionari retiniche B e dagli strati magnocellulari del corpo genicolato laterale viene smistato dall'area V1, sia direttamente che tramite altre aree visive del lobo occipitale, ad aree visive del lobo temporale medio e del lobo parietale posteriore; b) un secondo flusso di informazioni, provenienti dalle cellule ganglionari retiniche A e dagli strati parvocellulari del corpo genicolato laterale, viene smistato da popolazioni neuronali specializzate dell'area V1 a popolazioni ugualmente specializzate di altre aree occipitali e da queste alle aree visive del lobo temporale inferiore; c) un terzo flusso, risultante dalla convergenza di afferenze magno- e parvocellulari dal corpo genicolato laterale su popolazioni neuronali dell'area V1 diverse da quelle menzionate con i primi due flussi, è diretto anch'esso ad altre aree visive occipitali e temporali inferiori.

L'esistenza di tre flussi di informazioni visive in partenza dall'area V1 è stata accertata grazie a una combinazione di metodi istochimici ed elettrofisiologici. Nell'area V1 sono presenti aggregati verticali di neuroni ricchi di enzima citocromossidasi, che sono sensibili al colore o alla luminanza degli stimoli, ma non al loro orientamento (colonne selettive per il colore). Le cellule sensibili alla luminanza hanno caratteristiche tali da far ritenere che siano informate almeno in parte dal sistema magnocellulare; quelle sensibili al colore sono alimentate dal solo sistema parvocellulare, in modo da preservare le informazioni relative alla lunghezza d'onda. Esistono poi aggregati verticali di neuroni molto sensibili all'orientamento di linee di separazione fra due zone di campo visivo illuminate con luminanze diverse, oppure con lunghezze d'onda diverse ma alla stessa luminanza (colonne selettive per l'orientamento). Poiché questi stessi neuroni non sono capaci di discriminare le diverse lunghezze d'onda, si ritiene che le loro afferenze dal sistema parvocellulare, altamente cromatico, siano fatte confluire in maniera utile per rilevare qualsiasi bordo definito dal contrasto fra due colori diversi, ma inadatta all'identificazione dei colori ai lati del bordo (Livingstone e Hubel 1988).

Ungerleider e Mishkin (1982) hanno ipotizzato che la visione sia servita da due sistemi neuronali differenziati: un sistema ventrale, diretto dall'area V1 verso il lobo temporale inferiore, deputato al riconoscimento dell'identità degli oggetti (che cosa?); e un sistema dorsale, diretto dall'area V1 verso il lobo parietale, deputato alla percezione spaziale e al controllo delle prestazioni visuomotorie (dove?). Infatti le lesioni della corteccia inferotemporale, punto di arrivo del sistema ventrale, danneggiano gravemente la capacità di discriminare gli oggetti in base alla loro forma o al loro colore, ma lasciano inalterata la percezione spaziale. Invece le lesioni del lobo parietale posteriore, stazione terminale del sistema dorsale, alterano la percezione di relazioni spaziali, per es. la capacità di giudicare quale di due oggetti identici è più vicino a un punto di riferimento, ma non la discriminazione degli oggetti. Questa distinzione, peraltro piuttosto grossolana, è applicabile anche all'uomo in quanto i disturbi dell'analisi visuospaziale sono maggiormente collegati a lesioni occipito-parietali, mentre i disturbi agnosici a lesioni occipito-temporali (Damasio e altri 1989). Nuove tecniche di analisi dell'attività integrata del cervello sono indubbiamente necessarie per una conoscenza più dettagliata dei differenti contributi delle varie aree corticali ai processi della visione.

Nuovi approcci all'analisi strumentale dei substrati nervosi dei processi cognitivi. - La neurofisiologia può avvalersi attualmente di metodi nuovi che permettono di esaminare direttamente, e in modo non invasivo, l'attività del s.n. nel suo insieme in individui sani durante processi cognitivi. Si utilizza il computer per ricostruire con grande precisione immagini anatomiche del cervello e per distinguere le aree più attive da quelle meno attive, in modo da correlare quadri specifici di distribuzione dell'attività con stati comportamentali o mentali altrettanto specifici. Lo studio del flusso sanguigno regionale permette di misurare il grado relativo di attività di una regione cerebrale perché questa è proporzionale alla quantità di sangue che perfonde l'area stessa nell'unità di tempo. L'aumento del flusso sanguigno regionale in un'area attiva è causato dall'azione vasodilatatrice dei cataboliti prodotti durante l'attività nervosa, e può essere misurato dall'esterno del cranio dopo somministrazione di sostanze radioattive, come lo xenon 133, che entrino nel circolo sanguigno encefalico.

La tomografia a emissione di positroni (PET; Raichle 1983) è una tecnica di visualizzazione della distribuzione in sezioni scelte dell'encefalo di un radionuclide emettente positroni. Dalle sezioni può essere ricostruita automaticamente un'immagine tridimensionale. La tecnica è simile, in linea di principio, all'autoradiografia quantitativa, ma ha l'enorme vantaggio di poter essere utilizzata in vivo. Con l'impiego di diversi traccianti essa ha permesso di esaminare vari aspetti dell'attività nervosa regionale, di cui i più importanti per la fisiologia sono il flusso sanguigno, misurato con acqua o anidride carbonica marcate, il consumo di ossigeno, misurato con ossigeno marcato, il consumo di glucosio, misurato con 2-desossiglucosio marcato, la sintesi proteica, misurata con aminoacidi marcati, e la densità e la distribuzione di recettori cellulari per trasmettitori sinaptici centrali come la dopamina, la serotonina, l'acetilcolina, ecc. Della proprietà del 2-desossiglucosio di essere captato ma non metabolizzato dai neuroni, si è già detto a proposito della marcatura delle colonne corticali.

Sia l'esame del flusso regionale che quello dell'attività metabolica hanno messo in evidenza quadri specifici di attivazione corticale durante prestazioni cognitive complesse.

Uno svantaggio di entrambi i metodi è che un determinato stato funzionale dev'essere mantenuto a lungo per determinarne il corrispettivo cerebrale, e pertanto entrambi i metodi sono inadatti, almeno per il momento, a identificare le organizzazioni dell'attività nervosa corrispondenti, per es., a una rapida decisione o a una subitanea reazione emotiva. L'andamento sistematico dell'attivazione di alcune aree corticali in corrispondenza dell'elaborazione di piani motori (Roland e altri 1980), o di discriminazioni o ricordi di determinati oggetti (Roland e altri 1989), o del riconoscimento visivo di parole (Petersen e altri 1988), o dell'attenzione selettiva ad attributi elementari dello stimolo visivo (Corbetta e altri 1990), non lascia dubbi, tuttavia, che l'esplorazione delle basi nervose della mente può essere e sarà fortemente aiutata da queste tecniche in un futuro non lontano (v. anche mente: Neuroscienze e modelli della mente, in questa Appendice).

La risonanza magnetica nucleare è una tecnica che fornisce immagini dell'encefalo vivente aventi una definizione pari a quella di preparati anatomici fissati. L'immagine viene ricostruita utilizzando i segnali emessi in un campo magnetico costante da nuclei atomici − in genere d'idrogeno − in risposta a un breve impulso di onde radio. L'importanza della risonanza magnetica nucleare per la neurofisiologia è legata alla possibilità, che essa offre, d'identificare in vita lesioni circoscritte dell'encefalo e di correlarle con la sintomatologia del paziente. Per es., è stato possibile dimostrare in tre pazienti, con gravi disturbi amnesici ma intelligenza conservata, un'atrofia selettiva, con riduzione volumetrica di circa il 50% rispetto ai valori normali, della formazione ippocampale da entrambi i lati (Press e altri 1989). Questo reperto rafforza l'ipotesi, derivata da esperimenti su primati non umani, secondo la quale la formazione ippocampale, che include la fimbria, il giro dentato, l'ippocampo proprio e il subiculum, è essenziale per la deposizione degli engrammi mnestici nella neocorteccia (Mishkin e Appenzeller 1987). In altre ricerche su pazienti epilettici trattati con la sezione chirurgica delle commessure cerebrali, la risonanza nucleare magnetica ha permesso di collegare la persistenza di alcune specifiche capacità di comunicazione interemisferica con la presenza di alcune fibre callosali intatte, inavvertitamente risparmiate durante l'operazione. Osservazioni simili consentono di assegnare a porzioni definite del corpo calloso la funzione di trasferire fra gli emisferi determinate categorie di informazioni sensoriali e cognitive (Gazzaniga 1988).

Il futuro della neurofisiologia. - Il programma fondamentale della neurofisiologia − la formulazione di una teoria generale del funzionamento integrato del s.n. − si compirà quando la neurofisiologia riuscirà a collegare concettualmente fra di loro, grazie a una convergente riduzione teoretica (Churchland 1986), i vari livelli dell'organizzazione nervosa, qui passati brevemente in rassegna. Le espansioni degli orizzonti conoscitivi della neurofisiologia dovranno avvenire sia verso la biologia molecolare, sia verso la scienza cognitiva, cioè la scienza dei processi mentali intelligenti, naturali e artificiali (Posner 1989). La scienza cognitiva considera sia il cervello che il computer come sistemi fisici che generano comportamenti intelligenti grazie alla loro capacità di operare in vari modi su simboli. Si può rifiutare l'asserzione secondo cui la cognizione è letteralmente una specie di computazione, ma non si può negare l'evidenza delle forti analogie e corrispondenze fra l'architettura funzionale (i livelli astratti di organizzazione) del computer e quella presuntiva della mente e del cervello: analogie e corrispondenze sorprendenti, le quali sussistono indipendentemente dal fatto che il programma del computer rappresenti un deliberato tentativo di imitazione artificiale di qualche attività dell'intelletto umano, o miri semplicemente a risolvere un problema in modo efficace ma non volutamente ispirato all'intelligenza naturale (v. anche intelligenza artificiale, in questa Appendice).

Sia nell'organizzazione del cervello che in quella del computer si può distinguere il piano astratto delle operazioni sui simboli e dei programmi che le controllano (software) da quello concreto delle entità fisiche − neuroni, transistor, chips, ecc. − in cui programmi e operazioni si materializzano (hardware). Il piano astratto e il piano concreto costituiscono livelli diversi della realtà che, pur essendo strettamente concatenati, possono essere analizzati del tutto indipendentemente l'uno dall'altro. Tuttavia, mentre le basi fisiche delle operazioni del computer sono completamente note, per lo meno a chi lo ha costruito, i substrati nervosi delle attività mentali sono ancora in gran parte sconosciuti. La scienza cognitiva può guidare efficacemente le ricerche neurofisiologiche in questa terra incognita proponendo teorie-ponte che permettano di stabilire nessi correlativi o causali fra gli eventi cerebrali e quelli mentali.

A sua volta la neurofisiologia è in grado di scoprire organizzazioni nervose con attività prettamente cognitive, la cui architettura funzionale può essere confrontata con quella dei sistemi intelligenti artificiali. Lo stato attuale dei rapporti fra la neurofisiologia e la scienza cognitiva è ancora embrionale, ma ricco di promesse. Alla certezza diffusa che la comprensione dei processi mentali dovrà avvalersi, in ultima analisi, di interpretazioni che chiamino in causa precisi meccanismi cerebrali, si associa peraltro la convinzione che almeno per il momento l'analisi del pensiero umano possa procedere solo con teorie di livello intermedio, formulate in termini psicologico-informatici anziché neurofisiologici. D'altra parte abbiamo visto come i neurofisiologi, che tradizionalmente hanno sempre considerato il pensiero come un prodotto dell'attività cerebrale praticamente inaccessibile ai loro metodi di studio, comincino oggi ad affrontare il problema dei substrati nervosi della cognizione con mezzi tecnici ben più potenti che in passato. I processi decisivi nell'analisi dei rapporti fra mente e cervello e nella formulazione di una teoria generale del s.n. dipenderanno, più che da un singolo approccio, dall'attacco combinato con più metodi da parte di più discipline, fra cui assieme alla neurobiologia molecolare e all'intelligenza artificiale, la neurofisiologia dovrebbe occupare un posto di primo piano.

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Neurofisiologia speciale: v. emozione: Strutture neurofisiologiche delle emozioni, in questa Appendice.

Fisiopatologia e clinica. - I progressi che si sono realizzati in questi ultimi anni nelle varie branche delle scienze biologiche e nella stessa patologia, associati al perfezionamento degli strumenti diagnostici, hanno consentito modifiche nella configurazione nosografica di determinate malattie e talora una sostanziale modifica delle specifiche concezioni etiopatogenetiche: ne sono significativi esempi le sindromi qui di seguito esposte.

Attacchi ischemici focali. - In questi ultimi tempi ha acquistato un particolare interesse nosografico una sindrome neurologica di origine vascolare (emorragica o ischemica, rispettivamente per rottura od occlusione di un'arteria), comunemente denominata ictus cerebrale per le modalità della sua insorgenza e per le altre sue più salienti caratteristiche: inizio improvviso, sintomi e segni neurologici quasi sempre esclusivamente focali, decorso rapido, prognosi talvolta infausta con possibilità di esito letale nelle 24 ore, talvolta meno severa con sequele di differente entità (v. anche cervello, IX, p. 829, e per le alterazioni circolatorie, p. 842). L'ischemia cerebrale, oltre a rappresentare la causa più frequente (80÷85%) degli ictus cerebrali, può dar luogo a un quadro clinico particolare, l'Attacco Ischemico Transitorio (o TIA, Transient Ischemic Attack), definibile come una sindrome clinica consistente in un deficit neurologico focale, a inizio improvviso, i cui sintomi scompaiono completamente in meno di 24 ore.

Nell'ambito dell'ischemia cerebrale, una semplice distinzione tra TIA (deficit, come si è detto, completamente risolto in meno di 24 ore) e ictus (deficit che perdura più di 24 ore) appare assolutamente inadeguata. Infatti un deficit neurologico su base ischemica può risolversi completamente anche dopo 24 ore (TIA protratto o RIND, Reversible Ischemic Neurologic Deficit; ictus minore), oppure − pur essendo permanente − non produrre una rilevante disabilità nel paziente (ictus parziale o ictus maggiore non disabilitante). Al di là quindi di scelte di nomenclatura, o di riferimenti anatomopatologici (ischemia senza infarto, infarto asintomatico), ciò che appare realmente importante ai fini pratici è la distinzione tra eventi ischemici che producono una disabilità sostanziale, e quindi un handicap residuo, ed eventi che si risolvono (più o meno rapidamente, più o meno completamente), rappresentando però un importante campanello d'allarme per il paziente, che evidentemente rischia di soffrire di nuovi, più gravi disturbi vascolari, a livello non solo cerebrale, ma anche cardiaco. Questa condizione di ''preavviso di rischio'' è definita da alcuni come minaccia di ictus. La separazione degli attacchi ischemici cerebrali in queste due categorie (ictus maggiore e minaccia di ictus), oltre che fondata sul piano etiopatogenetico ed epidemiologico (per es., non ci sono differenze in termini di fattori di rischio e di prognosi tra TIA e ictus minori), è corretta dal punto di vista operativo: infatti nel primo caso è necessario privilegiare l'assistenza in fase acuta, mentre nel secondo prevale l'attenzione alle misure di prevenzione secondaria.

Se ci si rifà alle definizioni sopra riportate, e si escludono quindi tutti quegli eventi non focali (vertigini, lipotimie, ecc.) che fin troppo spesso vengono erroneamente attribuiti a ischemia cerebrale, l'incidenza di ictus ischemico in Italia può essere calcolata intorno a 1,5/1000 abitanti/anno, e quella dei TIA pari a 0,65/1000 abitanti/anno. Questa incidenza cresce notevolmente col crescere dell'età media della popolazione presa in esame, ed è proprio l'età che va considerata come il principale fattore di rischio per l'ischemia cerebrale. Quanto al sesso, esiste un minimo aumento del rischio relativo per gli uomini, quantificabile in un valore di 1,25 circa. La mortalità a 30 giorni dall'ictus ischemico non supera il 15%, mentre circa il 50% dei pazienti sono ancora disabili dopo 6 mesi. In caso di minaccia di ictus, il rischio di recidiva (in assenza di trattamento) è di circa il 10% all'anno, e di pari entità sembra essere il rischio d'infarto cardiaco.

L'etiopatogenesi dell'ischemia cerebrale, e dell'infarto che ne può conseguire, può essere così schematizzata: a) aterotromboembolia a partenza dai vasi epiaortici (nella razza bianca, più spesso extracranici): tale meccanismo embolico è responsabile di circa il 50% degli eventi; b) embolizzazione dal cuore: la fibrillazione atriale, le lesioni cardiache postinfartuali, le valvulopatie e le cardiomiopatie dilatative possono tutte complicarsi con un'embolia cerebrale; si stima che il 25% circa degli ictus ischemici siano cardiogeni; c) infarti lacunari: tale patologia, dovuta a occlusione per degenerazione lipoialinotica dei piccoli vasi penetranti dell'encefalo, è responsabile di almeno il 20% degli eventi; d) altre cause: il restante 5% circa può essere determinato da arteriti, malattie della coagulazione, dissezioni vascolari traumatiche, e altre, più rare cause. Si comprende quindi facilmente come le malattie ischemiche cerebrali riconoscano gli stessi fattori di rischio propri delle affezioni arteriosclerotiche: ipertensione arteriosa, diabete, fumo di sigarette e, in misura minore, dislipidemia.

Sul piano clinico è utile distinguere sintomi sicuramente riferibili a un'ischemia in territorio carotideo (per es. un'afasia), sintomi sicuramente riferibili al territorio vertebrobasilare (per es. un deficit di un nervo cranico con emiparesi controlaterale), e sintomi di origine non certa (per es. un'emianopsia); per convenzione, un'emisindrome motoria e/o sensitiva viene riferita al territorio carotideo, anche se è teoricamente possibile che un'emiparesi sia causata da un'ischemia del mesencefalo o del ponte, entrambi irrorati dal sistema vertebrobasilare.

La semplice diagnosi clinica, basata sulla raccolta attenta dell'anamnesi di un deficit focale, consente una corretta diagnosi di malattia vascolare cerebrale in una percentuale superiore al 95% dei casi. Tuttavia la differenziazione tra ischemia ed emorragia richiede l'esecuzione di una tomografia computerizzata (TC), non oltre le due settimane successive all'evento.

Infatti dopo questo termine le emorragie più piccole possono già essere state riassorbite e l'immagine tomografica che ne risulta è indistinguibile da quella di un'ischemia. Analogo ruolo può svolgere la risonanza magnetica, che ci si augura divenga più accessibile e meno problematica relativamente all'interpretazione di determinate immagini ''patologiche''. In questi pazienti vanno eseguiti anche uno screening ematochimico e uno cardiologico, per i motivi sopra riferiti. L'utilità delle indagini vascolari non invasive (Doppler ed ecodoppler) va valutata caso per caso, tenendo conto delle prospettive terapeutiche. L'angiografia, che va eseguita per via arteriosa, preferibilmente con tecnica ''digitale'', è da riservare ai pazienti candidati a un intervento chirurgico. La terapia della fase acuta di un ictus ischemico maggiore consiste prevalentemente in misure di ordine generale (corretto posizionamento, prevenzione dei decubiti e delle contratture mediante mobilizzazione precoce, prevenzione anche farmacologica delle tromboflebiti, corretta alimentazione e idratazione, controllo ed eventuale trattamento di patologie cardiopolmonari concomitanti); solo in casi selezionati può essere indicato un trattamento antiedema con diuretici osmotici, mentre sicuramente inefficace, e forse dannoso, è il trattamento steroideo. Nessuna terapia farmacologica si è fino a oggi dimostrata di beneficio nel trattamento acuto dell'ischemia cerebrale; nuove possibilità sono però in corso di verifica sperimentale (fibrinolitici, bloccanti dei recettori del glutammato, acido acetilsalicilico, eparina).

La terapia della minaccia di ictus è in realtà una prevenzione secondaria, volta − come si è detto − a prevenire sia l'ictus devastante, sia l'infarto cardiaco, che rappresenta la più comune causa di morte di questi pazienti. Oltre al controllo dei fattori di rischio vascolare, è indicato un trattamento con farmaci antipiastrinici per diminuire la probabilità di recidive emboliche a partenza dai vasi epiaortici. Dei molti farmaci proposti, fino a oggi solo l'aspirina e la ticlopidina si sono dimostrate sicuramente efficaci. In pazienti con fibrillazione atriale (nei quali è più verosimile un'embolia cardiogena), l'uso di anticoagulanti orali riduce notevolmente il rischio di recidive; non si hanno invece dati sull'efficacia degli anticoagulanti in pazienti con ritmo cardiaco normale. In caso di stenosi carotidea ispilaterale ai sintomi, con riduzione del lume superiore al 70%, l'intervento chirurgico di endoarteriectomia è notevolmente efficace nel ridurre il rischio di recidive; mancano a tutt'oggi dati certi sull'indicazione all'intervento in pazienti con stenosi di grado minore o in caso di lesioni asintomatiche. La soluzione a questi problemi non potrà che venire dai risultati dei numerosi studi internazionali in corso. Per le unità cerebro-vascolari (UCV) v. neurochirurgia, in questa Appendice.

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Encefalopatia Epatica. - L'Encefalopatia Epatica (EE) è una complessa sindrome neurologica, di natura tossico-dismetabolica, che si osserva nelle forme gravi d'insufficienza epatica acuta o, più spesso, cronica. Sul piano clinico, essa si manifesta con diversi sintomi di depressione del s.n. centrale, che decorrono in modo variabile e possono progredire fino al coma (coma epatico). Essendo in sostanza dovuta al passaggio nella circolazione sistemica di sangue portale (cioè di sangue refluo dall'intestino) non sufficientemente depurato dal fegato, l'EE viene anche comunemente denominata encefalopatia porto-sistemica.

Nessuno dei sintomi dell'EE è assolutamente specifico, poiché ciascuno di essi può riscontrarsi, da solo o in combinazione, anche in altre forme di encefalopatia metabolica diffusa. Nel complesso, tuttavia, il quadro clinico dell'affezione è piuttosto caratteristico. Nell'EE cronica, le prime manifestazioni cliniche, non sempre immediatamente riconosciute, sono costituite da sottili modificazioni della personalità e del tono dell'umore (depressione e apatia o, all'inverso, euforia e irritabilità). Anche le alterazioni della sfera intellettiva sono inizialmente vaghe, limitandosi a disturbi dell'attenzione e a transitorie difficoltà di concentrazione. Col progredire dell'affezione, compaiono le prime turbe dello stato di coscienza (sonnolenza, inversione del ritmo sonno-veglia), associate a varie disfunzioni neuromotorie, tra le quali è caratteristico un particolare tipo di tremore ad ampie scosse, evidente soprattutto alle estremità superiori, denominato flapping tremor o tremore epatico.

Tale sintomatologia, in sé reversibile, può decorrere anche per lunghi periodi in modo fluttuante, con alterne fasi di remissione e recrudescenza. Tuttavia, per la natura evolutiva delle epatopatie di base, il quadro neurologico, con il tempo, tende ad aggravarsi. Si ha così un ulteriore deterioramento delle funzioni intellettive (ridotta capacità analitica, disorientamento spaziotemporale, disturbi della memoria, della grafia e della parola) e di quelle neuromotorie (iperreflessia, atassia, fascicolazioni muscolari, rigidità), mentre la sonnolenza progredisce lentamente in torpore e letargia. Si può instaurare, infine, uno stato di coma, dapprima superficiale e poi profondo, con completa abolizione della coscienza, scomparsa di ogni risposta agli stimoli dolorosi e postura decerebrata. L'esame elettroencefalografico, che talvolta risulta indicativo già nelle prime fasi dell'EE, mostra costantemente, negli stadi successivi, alterazioni aspecifiche diffuse (onde δ, ampie, di bassa frequenza e sincrone), inizialmente prevalenti nei lobi frontali, in seguito estese anche alle regioni encefaliche posteriori.

Il quadro clinico dell'EE acuta è per molti aspetti analogo a quello delle forme croniche, distinguendosene soprattutto per la frequente comparsa di deliri, per l'evoluzione particolarmente rapida e per l'elevata mortalità a breve termine. Essendo causata da fenomeni di necrosi epatocitaria massivi, ma limitati nel tempo, l'EE acuta, diversamente dalle forme croniche, può, quando venga superata la fase critica, regredire in modo completo e definitivo.

Le malattie del fegato che possono causare la comparsa di un'EE sono numerose e di varia natura, comprendendo epatiti virali, cirrosi, epatopatie alcoliche, epatopatie da farmaci, intossicazioni da funghi, infiltrazioni neoplastiche e altre forme ancora. In tutte queste condizioni, si ha un'insufficienza epatica sostanzialmente dovuta a una riduzione dell'attività e/o del numero degli epatociti. A ciò può sommarsi (tipicamente nella cirrosi) un ostacolo al flusso intraepatico del sangue venoso proveniente dall'intestino, cosicché tale sangue viene parzialmente deviato in circoli collaterali e quindi sottratto all'azione depuratrice normalmente svolta dal fegato. Qualunque sia l'epatopatia di base, la patogenesi dell'EE appare dovuta a sostanze azotate neurotossiche che, prodotte o trasformate dalla flora microbica del colon, passano dall'intestino nella circolazione portale, sfuggono al filtro epatico insufficiente, guadagnano la circolazione generale, superano la barriera ematoencefalica e raggiungono infine il s.n. centrale, in vario modo interferendo con le sue funzioni.

Tra le suddette sostanze neurotossiche, la maggiore importanza è stata tradizionalmente attribuita all'ammoniaca (NH3) originata dal catabolismo proteico intestinale. Infatti, in condizioni fisiologiche, l'ammoniaca viene neutralizzata (mediante conversione in urea) a opera del fegato, cosicché nell'insufficienza epatica si produce un sensibile aumento della concentrazione di NH3 nel sangue (iperammoniemia) e, quindi, nell'encefalo. Nei tessuti di quest'ultimo, l'ammoniaca inattiva la pompa neuronica deputata all'estrusione dalle cellule dello ione Cl, con ciò inducendo, a seconda delle circostanze, fenomeni di eccitazione ovvero di depressione della funzione nervosa. Per quanto rilevante, il ruolo patogenetico dell'ammoniaca nell'EE non appare assoluto ed esclusivo, anche perché non è sempre dimostrabile una stretta correlazione tra livelli ammoniemici e gravità delle manifestazioni cliniche.

Un altro possibile fattore patogenetico dell'EE è rappresentato da particolari squilibri aminoacidi. Per la precisione, nell'insufficienza epatica, in seguito a complesse alterazioni metaboliche, aumenta la concentrazione plasmatica degli aminoacidi aromatici (AA), cioè della tirosina, della fenilalanina e del triptofano, mentre diminuisce quella degli aminoacidi ramificati (AR), costituiti da valina, leucina e isoleucina. Il diminuito rapporto plasmatico AR/AA si traduce in un'aumentata diffusione degli AA all'interno del s.n. centrale, con conseguenti disturbi della neurotrasmissione. Si ritiene in particolare che gli AA fungano da precursori per la sintesi di falsi neurotrasmettitori (per es. l'octopamina), capaci d'inibire, con meccanismo competitivo, la fisiologica neurotrasmissione noradrenergica e dopaminergica.

Un terzo fondamentale aspetto patogenetico dell'EE, particolarmente studiato negli ultimi anni, concerne le alterazioni della neurotrasmissione inibitoria mediata dall'acido γ-aminobutirrico (GABA). In effetti, le principali manifestazioni cliniche dell'EE (inibizione motoria e depressione dello stato di coscienza) appaiono assai simili a quelle causate, nell'animale da esperimento, da un aumento (farmacologicamente indotto) del tono GABAergico. Reciprocamente, un'aumentata attività GABAmimetica è ben dimostrabile nei modelli sperimentali dell'EE (conigli o ratti con insufficienza epatica fulminante indotta con particolari sostanze epatossiche).

È stato prospettato che l'incremento del tono GABAergico alla base dell'EE possa dipendere da un'aumentata densità, nel s.n., degli specifici recettori cellulari per il GABA (GABAA−R), ovvero da un'aumentata concentrazione cerebrale di composti GABAmimetici provenienti dall'intestino. In realtà, numerose osservazioni cliniche e sperimentali hanno recentemente permesso di accertare che l'ipertono GABAergico presente nell'EE è, almeno in buona misura, dovuto ad accresciute concentrazioni, nel s.n. centrale, di agonisti benzodiazepinici capaci d'interagire con i recettori GABAA−R e di aumentarne l'affinità per il GABA.

Ciò spiega, tra l'altro, la nota ipersensibilità ai tranquillanti benzodiazepinici nei pazienti con insufficienza epatica. L'origine dell'eccesso di benzodiazepine naturali che caratterizza l'EE non è stata ancora chiarita. In linea teorica appare comunque ipotizzabile sia una sintesi ex novo da parte di cellule umane non identificate, sia un'introduzione di precursori benzodiazepinici con alcuni alimenti (cereali, patate, funghi, fagioli), sia, infine, una produzione di benzodiazepine da parte della flora microbica intestinale. In tutti e tre i casi, naturalmente, l'accumulo ematico e tessutale delle sostanze dipenderebbe da una difettosa eliminazione delle stesse da parte del fegato.

A parte i casi, attualmente limitati, in cui è possibile ricorrere a un intervento radicale come il trapianto di fegato, il trattamento dell'EE non dispone di rimedi etiologici, ma si avvale piuttosto di una serie di misure patogenetiche tese a evitare o a ritardare l'evoluzione del quadro morboso verso una condizione di coma irreversibile.

Tali misure possono essere schematicamente riassunte:

a) nella prevenzione o rimozione dei vari fattori precipitanti del coma epatico, essenzialmente costituiti da: infezioni, emorragie gastroenteriche (da ipertensione portale e/o deficit coagulativi), sovraccarichi proteici alimentari, assunzione di alcol, tranquillanti o ipnotici, insufficienza renale, squilibri elettrolitici (da diarrea, vomito, paracentesi evacuative, abuso di diuretici);

b) nella restrizione o nella temporanea eliminazione delle sostanze azotate contenute nella dieta e, in particolare, delle proteine animali;

c) nella riduzione della formazione e/o dell'assorbimento intestinali di metaboliti azotati encefalotossici e, in primo luogo, dell'NH3; ciò può essere ottenuto tramite varie combinazioni di: clisteri evacuativi; somministrazione di antibiotici attivi sulla flora microbica intestinale, come neomicina e paromomicina; somministrazione di particolari disaccaridi (lattulosio, lattitolo) capaci di abbassare il pH del colon e di modificare la composizione e/o il metabolismo della flora batterica in esso presente;

d) nella correzione dello squilibrio aminoacidico, che è manifestazione tipica dell'insufficienza epatica (diminuito rapporto AR/AA), tramite la somministrazione per via endovenosa di AR;

e) nella somministrazione di antagonisti benzodiazepinici (flumazenil), capaci di neutralizzare l'eccesso di benzodiazepine che caratterizza l'affezione. L'impiego di tali antagonisti, anche se molto promettente, non costituisce ancora un trattamento standard.

Data l'efficacia soltanto relativa delle misure terapeutiche attualmente disponibili, la prognosi dell'EE riflette sostanzialmente quella dell'epatopatia che ne è alla base, ed è quindi, nella maggior parte dei casi, sfavorevole a medio o lungo termine.

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Encefalopatie Subacute Spongiformi. - Le Encefalopatie Subacute Spongiformi (ESS), ovvero malattie da prioni, costituiscono una categoria di malattie trasmissibili che impegnano, sia pure in dimensioni differenti, la patologia umana e quella veterinaria. Nell'ambito veterinario ne sono colpiti gli ovini (le pecore molto più frequentemente delle capre), i bovini, i visoni, i cervi, gli alci e i criceti; queste malattie sono ampiamente diffuse in Europa, in Asia e nelle Americhe, mentre l'Australia, la Nuova Zelanda e il Sud Africa ne sono indenni, grazie alle tempestive e drastiche misure protettive adottate alle prime avvisaglie della loro infiltrazione. Il tributo umano a queste malattie è di gran lunga più modesto, essendo rappresentato dal kuru (v. veterinaria, App. IV, iii, p. 818; virus: Patogenesi delle infezioni virali, App. IV, iii, p. 833), i cui focolai sembrano orientati verso l'estinzione, e da forme sporadiche, quali la malattia di Creutzfeldt-Jakob (v. encefalopatie, App. III, i, p. 546) e la sindrome di Gerstmann-Sträussler-Scheinker.

Il loro accostamento in un unico gruppo di malattie risale a data relativamente recente e ha tratto una prima origine dalla dimostrazione di una sostanziale affinità tra una malattia che colpisce l'uomo, il kuru, e lo scrapie, una malattia che colpisce le pecore e che è a distribuzione considerevolmente più ampia. Negli ultimi anni questa interpretazione unitaria si è particolarmente accentuata, e questa volta sul piano etiopatogenetico, grazie allo sviluppo della sperimentazione sul prione (v. in questa Appendice), iniziata nei primi anni Ottanta da S. B. Prusiner, che ha portato a individuare in questa particella proteica l'agente etiologico di tali malattie.

Lo scrapie ("grattamento") ha questa denominazione perché la malattia fa insorgere nella pecora un prurito quanto mai vivace che la spinge a strofinarsi energicamente contro qualsiasi struttura a tipo di pilastro verticale le capiti a tiro. Dopo una fase iniziale con tremore, la malattia evolve verso una progressiva atassia e un profondo deterioramento delle funzioni cerebrali, e culmina nell'esito letale. Una prima ricerca sulla sua origine virale risale al 1899, a opera di C. Besnoit, che in effetti riuscì a trasmettere la malattia a una pecora mediante l'inoculazione di materiale cerebrale prelevato da un animale affetto da scrapie. Purtroppo il successo fu messo in mora: la malattia fu ritenuta spontanea per la brevità (sei mesi) del periodo d'incubazione; si dovette aspettare il 1936 con gli esperimenti di J. Cuillé e Pl. Chelle, che ne hanno confermato la trasmissibilità, seguiti da quelli (ugualmente positivi agli effetti della natura infettiva di un particolare tipo della malattia) che ne hanno provato la trasmissibilità anche ad animali di specie diversa, topo compreso.

Il kuru (termine che nell'idioma locale significa ''tremore'') è stato osservato in una zona della Nuova Guinea, dove, almeno allora, era praticato il cannibalismo rituale. La malattia, dopo un periodo prodromico caratterizzato da tremori ostacolanti la motilità e da altri sintomi di contorno (instabilità emotiva con scoppi di risate alternati a crisi di pianto), è dominata da un'atassia cerebellare, che finisce col rendere il paziente incapace sia di muoversi sia di mantenere la stazione eretta, e lo conduce a morte nel giro di un anno o, solo in determinati casi, di due anni.

La rassomiglianza tra scrapie e kuru fu segnalata da W. J. Hadlow nel 1959, e probabilmente in seguito a tale informazione D. C. Gajdusek (v., App. IV, i, p. 890) concentrò la sua attenzione sullo studio comparato delle due malattie e cominciò a tentare la trasmissione del kuru ad animali da esperimento, giungendo nel 1965 a pianificare sullo scimpanzè l'osservazione prolungata dell'incubazione successiva all'inoculazione intracerebrale di una sospensione di materiale prelevato dal cervello di individui deceduti per kuru: al termine di un'incubazione durata 20 mesi ottenne nello scimpanzè lo sviluppo di un processo identico a quello osservato nell'uomo. Esperimenti successivi furono orientati alla trasmissione della malattia ad altre specie di animali e all'individuazione delle caratteristiche del virus, o, per condividere le perplessità attuali, di quelle del materiale infettante.

Sul piano istopatologico le lesioni che si osservano sono esclusivamente degenerative e limitate al s.n. centrale, con maggior prevalenza nella materia grigia che nelle formazioni mieliniche. Quelle responsabili dell'aspetto spugnoso assunto dal tessuto che ne è coinvolto, e che sono menzionate nella denominazione tassonomica, sono costituite da vacuoli endocellulari, che si formano in prossimità delle sinapsi e per la cui genesi è in questione un'alterazione della permeabilità della parete citoplasmatica: possono raggiungere dimensioni di un certo rilievo, perché all'originale tendenza a ingrandirsi associano quella ad aprirsi nei vacuoli vicini. Pari importanza nel quadro istopatologico hanno la vistosa proliferazione della neuroglia astrocitaria, la distruzione delle cellule neuronali e, soprattutto, la comparsa di un'amiloidosi con produzione di fibrille e di placche, che hanno posto il problema del confronto con le analoghe formazioni che si osservano nella demenza tipo Alzheimer; le quali ultime, però, sono risultate differenti per alcune caratteristiche strutturali e perché, diversamente da quanto succede nell'encefalopatia spongiforme, non si trasmettono da soggetto a soggetto.

Malattia di Creutzfeldt-Jakob. - Fu descritta nel 1921 da A. Jakob come peculiare forma di demenza presenile, con qualche affinità per un analogo caso descritto in precedenza da Creutzfeldt (onde l'eponimo consacrato autorevolmente da W. Spielmeyer). È una forma che insorge nel presenium, o pressappoco, ed è caratterizzata da un deterioramento neurologico e mentale di notevole grado, che consente, però, al paziente una prolungata sopravvivenza sia pure su un livello puramente vegetativo; spesso si accompagnano manifestazioni cliniche particolari, che consentono la distinzione di differenti sindromi (G. Alemà, A. Bignami). I reperti istopatologici e la comprovata caratteristica di trasmissibilità autorizzano l'inquadramento di questa malattia nelle encefalopatie spongiformi. Caratteristiche sostanzialmente analoghe a quelle della malattia di Creutzfeldt-Jakob presentan le sindromi di Gerstmann-Sträussler-Scheinker.

Bibl.: C. Besnoit, La tremblante ou nevrite périphérique enzootique du mouton, in Rev. Vet., 24 (Tolosa 1899), pp. 265-77 e 333-43; J. Cuillé, Pl. Chelle, La maladie dite tremblante du mouton est-elle inoculable?, in Comptes Rendus Acc. Sc., D, 203 (Parigi 1936), pp. 1552-54; Id., Investigations of scrapie in sheep, in Veter. Med., 34 (1939), pp. 417-18; W. J. Hadlow, Scrapie and kuru, in Lancet, 2 (1959), pp. 289-90: D. C. Gajdusek, Journals 1954-1983, 34 voll., Bethesda 1959-83: D. C. Gajdusek, C. J. Gibbs jr, Trasmission of the two subacute spongiform encephalopathies of man (Kuru and Creutzfeldt-Jakob disease) to New World monkeys, in Nature, 230 (1971), pp. 588-91; D. C. Gajdusek, Subacute spongiform encephalopathies transmissible cerebral amyloidosis caused by unconventional viruses, in B. N. Fields, N. Knipe, Virology, vol. 2, New York 19902; G. Collinge et al., Prion dementia without characteristic pathology, in Lancet, 336 (1990), p. 7; C. Weissmann, A unified theory of prion propagation, in Nature, 352 (1991), p. 679; D. C. Gajdusek et al., Real and imagined clinicopathological limits of prion dementa, in Lancet, 341 (1993), p. 127; J. T. Hughes, Prion diseases, in Brit. Med. Journal, 306 (1993), p. 288.

Leucodistrofie. - Con il termine leucodistrofie si indicano alcune affezioni ereditarie, nelle quali un difetto nel processo di sintesi della mielina causa una demielinizzazione progressiva, a distribuzione simmetrica, con parziale interessamento degli assoni, conservazione dei corpi cellulari e assenza di qualsiasi reazione infiammatoria. Il quadro clinico comune a queste affezioni comprende demenza progressiva, spasticità, segni cerebellari, deficit sensitivi e visivi. Le moderne tecniche di neuroimaging (per es. risonanza magnetica) consentono di evidenziare una diffusa demielinizzazione del s.n. centrale.

In passato le leucodistrofie sono state classificate sulla base di alcune caratteristiche specifiche, di ordine istopatologico e clinico, cui oggi possiamo aggiungere dati di ordine genetico e metabolico; anche utilizzando tutti questi criteri, rimane tuttavia ancora un piccolo gruppo di affezioni eterogenee (da qualcuno definite leucodistrofie sudanofile od ortocromatiche, sulla base di taluni aspetti istopatologici), che si preferisce oggi raggruppare sotto la dizione di leucodistrofie non classificate.

Si tratta di malattie non frequenti; ogni medico dovrebbe tuttavia considerarle nella diagnosi differenziale di una forma involutiva in un bambino o in un giovane adulto, sia perché sono attualmente disponibili mezzi diagnostici abbastanza accurati (tanto sul piano morfologico, quanto su quello biochimico), sia perché per alcune di queste forme è oggi proponibile un intervento terapeutico.

In tre forme di leucodistrofia è stato individuato un preciso difetto enzimatico: la leucodistrofia metacromatica, la leucodistrofia con cellule globoidi (Malattia di Krabbe), e la adrenoleucodistrofia.

La leucodistrofia metacromatica è la forma più comune (incidenza di un caso ogni 40.000 nascite); il difetto enzimatico, che si trasmette in maniera autosomica recessiva, riguarda l'enzima arilsulfatasi A, che converte il sulfatide, importante componente della mielina, in cerebroside. Il conseguente accumulo di sulfatidi rende la struttura molecolare della mielina instabile, e quindi più suscettibile alla distruzione. È inoltre possibile che l'accumulo di sulfatidi danneggi direttamente la oligodendroglia e i neuroni. Si conoscono diverse forme di leucodistrofia metacromatica: esse vengono sostanzialmente distinte a seconda dell'età d'insorgenza, che può variare dal primo anno di vita all'età adulta o matura.

Nella forma infantile il bambino è normale alla nascita, ma tra i 12 e i 18 mesi perde le capacità motorie fin lì acquisite, con debolezza muscolare, ipotonia, dismetria, disturbi dell'eloquio e della deglutizione, atrofia ottica. Il decesso si verifica dopo pochi anni. Nella forma giovanile i sintomi hanno inizio tra i 4 e i 21 anni; i segni premonitori sono spesso rappresentati da labilità emotiva e diminuito profitto scolastico. Successivamente compaiono incoordinazione di tipo cerebellare e segni piramidali con risposta plantare estensoria, ma riflessi propriocettivi ridotti agli arti inferiori. I pazienti affetti dalla forma adulta presentano inizialmente difficoltà di concentrazione, amnesie, sintomi similschizoidi, euforia, depressione. Assai infrequenti le crisi convulsive. Questa forma può iniziare a qualunque età, anche se con maggior frequenza prima dei 35 anni; la durata media della malattia è di circa 15 anni.

Taluni autori descrivono anche una quarta forma di leucodistrofia metacromatica, a inizio infantile, in cui si associano segni cutanei (cute ispessita e secca), sordità, pectus excavatum ed epatosplenomegalia. Si ritiene che in questa forma sia carente un attivatore dell'arilsulfatasi A.

I reperti neuropatologici caratteristici sono rappresentati da una diffusa demielinizzazione e dall'accumulo di granuli ''metacromatici'' (cioè che assumono un colore diverso da quello del colorante usato nella preparazione istologica); tali granuli possono essere ritrovati anche in altri tessuti (nervi periferici, tubuli renali, colecisti). La diagnosi, suggerita dal quadro clinico e dai reperti strumentali (specie RM), può essere confermata dalla marcata riduzione dell'attività arilsulfatasica nei leucociti, nelle urine o nei fibroblasti. Occorre peraltro precisare che un'attività enzimatica ridotta, fino al 50%, può essere riscontrata anche in persone normali, che non svilupperanno la malattia. Pertanto, quando questo test viene usato per la diagnosi prenatale su cellule di liquido amniotico, è necessario conoscere il livello di attività enzimatica nei genitori per escludere la possibilità che il feto abbia ereditato soltanto la caratteristica di ''bassa attività''.

Di recente, il trapianto di midollo osseo è stato utilizzato, con apparente successo, in una bambina affetta da leucodistrofia metacromatica: la progressione della malattia sembra essere stata bloccata, e la RM ha mostrato normalizzazione del segnale da aree precedentemente patologiche. Solo futuri studi potranno verificare la reale efficacia di questo approccio terapeutico, per il quale sembra peraltro essenziale una precocissima diagnosi.

La leucodistrofia a cellule globoidi è clinicamente simile alla forma precedente: inizia di solito più precocemente, ha un decorso più rapido e un interessamento periferico più marcato. Il difetto enzimatico riguarda l'enzima galattocerebrosidasi, con conseguente accumulo di galattosilsfingosina, che inibisce la funzione mitocondriale, ed è quindi citotossica. Non si conosce il gene responsabile di questa malattia, e nessuna terapia si è dimostrata efficace.

Il termine adrenoleucodistrofia sta a indicare il contemporaneo interessamento delle ghiandole surrenali e del s. nervoso. Si conoscono due forme di adrenoleucodistrofia: una è a trasmissione recessiva, legata al sesso (X-linked), l'altra, a inizio nel periodo neonatale e a decorso più grave, è autosomica recessiva. Il difetto enzimatico consiste nell'impossibilità di metabolizzare mediante beta-ossidazione gli acidi grassi a lunga catena, che si accumulano quindi nei tessuti e nel plasma, ove se ne può eseguire la determinazione. La sintomatologia, che inizia nella seconda infanzia, è caratterizzata da anomalie comportamentali, deficit visivo, disturbi dell'equilibrio, segni piramidali e, tardivamente, convulsioni. Il deterioramento neurologico si associa, dopo qualche tempo, all'insufficienza surrenalica. Nella variante adrenomielodistrofica, invece, i segni neurologici (paraparesi spastica e polineuropatia) sono preceduti dall'insufficienza surrenalica.

Il trattamento ormonale corregge il deficit surrenalico, ma non il quadro neurologico. Recentemente è stato proposto un trattamento dietetico, con acidi grassi monoinsaturi, che ha portato alla riduzione degli acidi a lunga catena nel plasma e a un rallentamento dell'evoluzione della malattia; tale approccio terapeutico va tentato il più precocemente possibile in tutti i pazienti affetti da adrenoleucodistrofia.

Delle altre affezioni classificate nel gruppo delle leucodistrofie citeremo per completezza la malattia di Pelizaeus-Merzbacher, legata a un difetto nel cromosoma X; la malattia di Alexander, con megalencefalia, e la malattia di Canavan, anch'essa con megalencefalia e associata a un'aumentata escrezione urinaria di acido N-acetilaspartico.

Bibl.: P. Introzzi, Trattato italiano di medicina interna, Firenze 19742, pp. 1008-32; H. Moser et al., Adrenoleukodistrophy: elevated C26 fatty acid in cultured skin fibroblasts, in Ann. Neurol., 7 (1980), p. 542; R. Eldridge et al., Hereditary adult-onset leukodistrophy simulating chronic progressive multiple sclerosis, in New England Journal Medicine, 311 (1984), p. 948; L.P. Rowland, Merrit's textbook of neurology, Filadelfia 19898, pp. 513-16; R. Adams, M. Victor, Principles of neurology, New York 19935, pp. 799-849.

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