SISTEMA MONETARIO INTERNAZIONALE

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1994)

SISTEMA MONETARIO INTERNAZIONALE

Giuseppe Tullio

(App. IV, III, p. 345)

Un s.m.i. è un insieme di regole e norme, definite da trattati internazionali e integrate da convenzioni e usi accettati dai paesi che ne fanno parte, riguardanti i criteri di regolamento dei pagamenti internazionali, il grado di stabilità dei tassi di cambio fra le valute dei paesi membri e gli aiuti finanziari fra banche centrali o stati in caso di crisi di bilancia dei pagamenti. In un caso, quello del ''tallone aureo classico'' (classical gold standard), in vigore approssimativamente dal 1880 al 1914, le convenzioni e gli usi si radicarono talmente nella prassi dei governi che esso si può considerare uno dei s.m.i. meglio funzionanti, nonostante l'assenza di trattati che ne regolassero il funzionamento. Nel secondo dopoguerra invece, con il Sistema di Bretton Woods (1944-71) e con il Sistema Monetario Europeo, in vigore dal marzo 1979, la cristallizzazione delle regole in trattati ha preso il sopravvento sulle convenzioni e gli usi.

L'utilità e la necessità di un s.m.i. aumentano con la dimensione degli scambi commerciali fra i paesi e quindi con la specializzazione internazionale. Anzi un ''buon'' s.m.i. favorisce la specializzazione internazionale e quindi aumenta la ricchezza delle nazioni. L'iniziativa per la creazione di un s.m.i. nasce generalmente dal paese (o dai paesi) economicamente e politicamente dominante nell'economia mondiale (l'Inghilterra nel caso del tallone aureo, gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra), che ha il maggior interesse nella stabilità dei rapporti economici internazionali e nella prosperità delle nazioni attraverso la specializzazione internazionale. Come conseguenza i s.m.i. sono generalmente ''asimmetrici'', nel senso che un paese assume il ruolo di guida (''direttore d'orchestra'') con il vantaggio (per il paese guida) di trasferire sugli altri paesi membri quasi tutto l'onere dell'aggiustamento dei disavanzi di bilancia dei pagamenti e di trarre benefici dall'uso della propria moneta cartacea anche nel resto del mondo sia come riserva internazionale che, soprattutto, come mezzo di pagamento (il cosiddetto ''signoraggio''). Ma il grado di asimmetria dei sistemi monetari internazionali può variare di molto.

Il sistema di Bretton Woods in vigore dal 1944 al 15 agosto 1971 era basato da un lato sulla convertibilità del dollaro in oro consentita a tutti i governi membri (non ai singoli cittadini e alle imprese), garantita dal governo degli Stati Uniti e dalle sue enormi riserve auree (circa 25 miliardi di dollari nel 1949, scese poi a circa 11 nel 1971) e dall'altro sui cambi fissi, ma aggiustabili in caso di ''disequilibrio fondamentale'' della bilancia dei pagamenti. Esisteva quindi ancora fino al 1971 un legame, sia pure indiretto, fra la circolazione cartacea dei singoli paesi membri e l'oro, che rappresentava un'''ancora'' del s.m.i. e dei sistemi monetari nazionali. Il difetto principale del Sistema di Bretton Woods, intuito da Lord Keynes già al tavolo delle trattative nel 1944 ed esposto brillantemente da R. Triffin nel 1960, è consistito nella veloce diminuzione dal 1950 al 1971 del rapporto fra riserve auree statunitensi e debiti a breve in dollari degli Stati Uniti nei confronti dei paesi membri (le riserve internazionali in dollari di questi ultimi). Questi debiti a breve crescevano in concomitanza con la crescita del commercio mondiale e dell'economia mondiale, e quindi con un fabbisogno di riserve internazionali da parte dei paesi membri che non poteva essere soddisfatto dall'insufficiente produzione mondiale di oro. Con la caduta del rapporto, la fiducia nella convertibilità del dollaro in oro da parte degli Stati Uniti diventava sempre più debole, fino a indurre alcuni paesi particolarmente affezionati all'oro (per es. la Francia) ad accelerare le richieste di conversione. La crisi di fiducia verso il dollaro si acuì nella seconda metà degli anni Sessanta, per l'accresciuto impegno finanziario statunitense nella guerra del Vietnam e il finanziamento monetario dei disavanzi del Tesoro degli Stati Uniti.

Il dilemma fra finanziamento dei commerci mondiali con riserve in dollari (l'unica strada percorribile dal momento che la produzione aurea era insufficiente) e il venir meno della fiducia nella convertibilità del dollaro in oro, è noto sotto il nome di ''dilemma di Triffin''. A dire il vero esisteva una terza via per ovviare al crescente fabbisogno di riserve internazionali, la creazione dal nulla di mezzi di pagamento internazionali da parte di un organismo sovranazionale come il Fondo Monetario Internazionale (FMI), accettati da tutti i governi membri. Ciò avrebbe trasformato il FMI in una vera Banca Centrale Mondiale sottraendo agli Stati Uniti il potere di creare la moneta mondiale (il dollaro), il potere d'influire sull'inflazione e sulla congiuntura mondiale, e i vantaggi derivanti dal signoraggio (v. sopra). Si capisce allora perché i molteplici tentativi d'imboccare questa terza via, iniziati da Keynes stesso come capo della delegazione inglese al tavolo delle trattative nei primi anni Quaranta e ripresi poi a partire dagli anni Sessanta, non portarono a grandi risultati (v. App. IV, iii, p. 346).

Il s.m.i. che abbiamo oggi è basato più che mai sul dollaro statunitense, nonostante il fatto che il cambio del dollaro fluttui liberamente nei confronti delle altre principali valute dal 15 agosto 1971 e che la convertibilità del dollaro in oro sia stata rescissa unilateralmente dal presidente R. Nixon alla stessa data. La dichiarazione d'inconvertibilità segnò la fine del Sistema di Bretton Woods in vigore dalla conclusione della seconda guerra mondiale. Il fatto che il s.m.i. si basi sul dollaro significa che esso è la valuta maggiormente accettata a livello mondiale nel regolamento dei pagamenti internazionali e quella maggiormente usata dai governi per gli interventi sul mercato dei cambi, anche se negli ultimi decenni il marco tedesco, lo yen giapponese e il franco svizzero hanno accresciuto il loro peso.

Il tentativo del dicembre 1971 di ristabilire i cambi fissi fra le principali valute (accordi smithsoniani) fallì nel febbraio-marzo 1973, quando le principali valute furono lasciate fluttuare più o meno liberamente. Da allora il s.m.i. si è sfaldato lasciando il posto a un grado di cooperazione fra le politiche economiche dei principali paesi assai variabile nel tempo, a una gestione comune delle situazioni di crisi con il contributo del FMI, a cambi molto instabili, a enormi deviazioni dei cambi dai livelli di equilibrio e a disavanzi delle partite correnti senza precedenti. I due shock petroliferi del 1973-74 e del 1979-80, l'enorme crescita della spesa pubblica in molti paesi, le politiche ''reaganiane'' degli inizi degli anni Ottanta e la crisi del debito dei paesi in via di sviluppo hanno contribuito in misura significativa a trasformare un sistema, che pur con i suoi difetti era sempre un sistema, quasi in un ''non-sistema''. Se da un lato i disturbi sopra ricordati hanno portato a disavanzi senza precedenti delle partite correnti di molti paesi e perfino del paese a valuta di riserva (per quasi tutti gli anni Ottanta e ancora nel 1994 gli Stati Uniti avevano grandi disavanzi correnti, in media superiori al 3% del PIL dal 1986 al 1988), dall'altro lato la solidarietà internazionale e la flessibilità dei cambi − quest'ultima adoperata come strumento di aggiustamento delle bilance correnti − hanno svolto un ruolo positivo.

Per quanto riguarda la prima, il FMI è intervenuto di frequente con consistenti aiuti resi possibili anche dall'aumento delle risorse messe a sua disposizione. Sono da ricordare a questo proposito i programmi di assistenza all'Italia e al Regno Unito dopo la prima crisi petrolifera, che ebbero come effetto anche quello di accrescere il prestigio del FMI presso i paesi in via di sviluppo. Nell'ambito dei programmi di assistenza il FMI ha sviluppato e messo in pratica l'importante concetto di ''condizionalità'' consistente nel concedere i prestiti in tranches successive, l'erogazione di ognuna delle quali è sottoposta alla condizione del previo raggiungimento da parte del paese di obiettivi temporali stabiliti nel programma (crescita contenuta del credito o della moneta, riduzione del disavanzo pubblico, ecc.).

Per quanto riguarda la flessibilità dei cambi dopo il 1973, sotto l'influenza di autorevoli contributi accademici (per es. M. Friedman 1951) si credette dapprima che essa potesse conciliare il raggiungimento degli obiettivi economici interni (bassa inflazione, piena occupazione) con quelli esterni (equilibrio delle bilance dei pagamenti). L'esperienza mostrò, invece, che in assenza di sufficiente coordinamento delle politiche economiche fra i principali paesi, le oscillazioni dei cambi risultavano troppo elevate e tali da mettere in serio pericolo la libertà degli scambi internazionali, uno dei presupposti della crescente prosperità economica del periodo post-bellico e la stessa sopravvivenza dell'industria (per es. negli USA e nel Regno Unito nella prima metà degli anni Ottanta). Nonostante i pericoli insiti nelle eccessive deviazioni dei cambi dal livello di equilibrio, le svalutazioni si sono rivelate molto efficaci nel ridurre i disavanzi correnti, soprattutto se accompagnate da adeguate misure di contenimento della domanda aggregata (per es. l'Italia dopo il settembre 1992, quando la lira si svalutò del 30% circa rispetto al marco tedesco). Nel caso degli Stati Uniti, quando dal marzo 1985 iniziò il forte deprezzamento del dollaro le partite correnti hanno reagito con una certa lentezza, per una serie di motivi sui quali non è il caso di soffermarsi qui, ma la svalutazione si rivelò anche in quel caso efficace.

Vari tentativi e proposte di riportare un certo ordine nel sistema dei cambi si sono susseguiti, ma senza mai dar luogo ad assetti stabili e duraturi. Fa eccezione il Sistema Monetario Europeo (v. in questa Appendice), un accordo regionale entrato in vigore nel marzo 1979, che ha registrato un notevole successo nello stabilizzare i cambi e l'inflazione all'interno dell'area fino alla crisi dei cambi del settembre 1992. Nonostante il suo relativo successo, l'esperienza dello SME è generalmente considerata dagli esperti ''non estendibile'' a tutto il mondo industrializzato perché manca la volontà di coordinare le politiche economiche come in Europa e perché il grado di apertura commerciale con l'estero degli USA, dal Giappone così come dall'Europa intera verso l'esterno, è molto basso. Una proposta d'introdurre regole che garantissero una maggiore stabilità dei cambi, ma senza tornare all'eccessiva rigidità di Bretton Woods, è quella delle ''zone obiettivo''. Esse consistono in una banda larga (fra ±5 e ±10%) intorno a parità centrali aggiustabili al variare dell'inflazione relativa e di altre variabili macroeconomiche fondamentali (Williamson 1985). Questa proposta ha sempre trovato l'opposizione di principio degli Stati Uniti e del Regno Unito. L'atteggiamento statunitense è leggermente mutato con gli accordi del febbraio 1987, detti del Louvre. Con essi i principali paesi industrializzati si sono impegnati a coordinare più strettamente le loro politiche economiche al fine di mantenere i cambi stabili intorno ai non meglio definiti livelli raggiunti a quella data. Ma gli accordi del Louvre rimangono solo un primo, fragile passo verso un s.m.i. basato su cambi più stabili.

Un altro importante problema irrisolto, che rafforza il giudizio che l'attuale s.m.i. sia un ''non-sistema'', riguarda la definizione di uno o più strumenti di liquidità internazionali che risultino accettabili da tutti i paesi e di regole adeguate per la loro creazione. Il Diritto Speciale di Prelievo (DSP), un paniere di cinque valute creato nel 1967, è rimasto uno strumento di riserva marginale, nonostante si siano susseguite varie ''allocazioni'' in sede FMI.

Oltre ai pericoli protezionistici derivanti dalle eccessive oscillazioni dei cambi, e inflazionistici o deflazionistici derivanti dall'assenza di regole riguardanti la creazione di liquidità internazionale, esiste un terzo problema: quello del debito estero di numerosi paesi in via di sviluppo. Esso incrina la stabilità del sistema bancario internazionale e rallenta lo sviluppo economico mondiale per effetto delle politiche restrittive che i paesi indebitati sono costretti a seguire. Un ruolo importante nel contenere quest'ultimo pericolo è stato svolto dal FMI, che ha fatto da catalizzatore nel processo di ristrutturazione del debito nell'ambito di programmi di aggiustamento da parte dei paesi debitori. Va menzionato inoltre il Piano Baker dell'ottobre 1985, che prevedeva concessioni di nuovi crediti ufficiali e privati e dava maggior rilievo all'adozione di riforme strutturali nei paesi debitori piuttosto che a politiche di contenimento della domanda. Nonostante questi sforzi anche questo problema rimane irrisolto, anche se negli ultimi anni la situazione è migliorata.

Bibl.: R. Triffin, Gold and the dollar crisis, New Haven 1960; W.M. Scammel, International monetary policy, Londra 1965; M. Friedman, The case for flexible exchange rates, in Readings in economics, a cura di P. Samuelson, New York 1973 (19511); R.I. Mc Kinnon, An international standard for monetary stabilization, Institute for International Economics, Washington, marzo 1984; J. Williamson, The exchange rate system, ivi, giugno 1985; International monetary issues after the Cold War: A conversation among leading economists, a cura di R. Hinshaw, Baltimora e Londra 1993; J.A. Frankel, On exchange rates, Cambridge (Mass.) 1993.