SIRACUSA

Enciclopedia dell' Arte Antica (1966)

Vedi SIRACUSA dell'anno: 1966 - 1997

SIRACUSA (Συρακούσαι; Syracusae)

G. V. Gentili
M. T. Currò Pisanò

L'antica città, sorta nella Sicilia sud-orientale, occupava oltre all'isoletta di Ortigia, lunga m 1500, larga in media m 6oo, delimitante a N il Porto Grande, anche una vasta area dell'antistante entroterra, che può corrispondere all'incirca all'area residenziale di S. nel suo sviluppo recente.

Fondata dal corinzio Archia (734 a. C.), sotto il governo oligarchico dei Gamori si abbellì di grandi monumenti architettonici e procedette sicura alla graduale espansione politica verso occidente (metà sec. VII a. C.fine VI), che la pose contro la potente Gela. Il tiranno gelese Ippocrate costrinse infatti i Gamori a rifugiarsi nella lontana Kasmenai (493), finché il nuovo signore di Gela, Gelone, della stirpe dei Dinomenidi, li restituì a S., che egli, avuta in consegna dal demos, scelse a sua capitale ed ampliò demograficamente con cittadini gelesi e con i vinti di Kamarina e di Megara Hyblaea. Con Gelone si inizia la politica di opposizione della civiltà greca alla invadente civiltà fenicia, che culmina con la disfatta cartaginese ad Himera (480). Non meno fortunato di Gelone è il successore Gerone, il quale nel mare di Cuma pone fine alla talassocrazia degli Etruschi (474). Momento splendido artisticamente è questa età per S., dove convengono i più grandi poeti del mondo greco. Con il breve malgoverno dell'usurpatore Trasibulo si spegne la gloriosa dinastia dei Dinomenidi e si instaura il governo democratico (466). La repubblica siracusana sostiene vittoriose lotte contro Etruschi, Siculi ed Agrigentini prima della sua più bella impresa, la tenace opposizione alle due spedizioni degli Ateniesi, che sono disfatti presso il fiume Assinaros (413). Un altro pericolo, l'avanzata punica da occidente (405), segna il tramonto della democrazia; si leva allora sull'orizzonte politico Dionigi ad opporsi alla invasione dei Cartaginesi che, dopo alterne vicende, sono sconfitti e costretti alla resa (397). Col suo tiranno S. raggiunge nuova estensione e nuovo splendore, e diventa la più grande città del mondo greco. Né vien meno alla sua gloriosa tradizione sia nell'età del restitutore della democrazia moderata, Timoleonte di Corinto, sia in quella del nuovo tiranno Agatocle che, da difensore della democrazia, si trovò padrone dello Stato, sia ai tempi del regno effimero di Pirro, sino all'età di Gerone II e dell'ultimo sovrano, Geronimo, il quale cade ucciso a Lentini tre anni prima della conquista romana di Siracusa (212). La storia della grande città greca, devastata ed immiserita, si confonde da questa data con le vicende politiche della provincia di Sicilia.

1. Topografia. - La città, sorta sull'isola di Ortigia, ove già esisteva un abitato indigeno e dove la Fonte Aretusa forniva possibilità di rifornimento idrico, si sviluppò fin dal sec. VII oltre l'istmo, sulla terraferma nel quartiere di Acradina, che ben presto dovette essere cinto di mura (Thucyd., vi, 3). I limiti dell'abitato dei secoli VII-VI, oltreché dalle ceramiche arcaiche esistenti sul terreno, vengono indicati dalle due grandi necropoli, quella del Fusco sulla via di Acre ad occidente dell'Acradina, e quella a N di detto quartiere, la quale dall'odierno viale P. Orsi e Ospedale Civile (ex Giardino Spagna), attraverso piazza della Vittoria, si stendeva almeno fino all'incontro di Via Enna con via Monte Grappa, con sepolture più meridionali finora riconosciute in via Eumelo e via Bainsizza. Allo sbocco dell'istmo, nel centro dell'Acradma, si sviluppa l'agorà. Una borgata staccata, la Polìchne, sorge al di là della palude Lisimelia o Siraca, alle foci dell'Anapo, attorno al tempio di Zeus (Olympieion). La prosperità della città è legata ai suoi sicuri porti naturali, il Porto Grande, chiuso dalla penisola del Plemmörion, e il porto piccolo o Làkkios, detto anche porto marmoreo. Ben presto si espande oltre la cerchia delle mura, ove si sviluppano intorno al santuario di Tyche l'omonimo quartiere, terzo in ordine cronologico, verisimilmente sull'altura sovrastante la borgata S. Lucia, con la sua necropoli arcaica gravitante sulla via per S. Panagia, e sullo scorcio del V sec. a. C. una borgata (προάστειον) fuori delle mura di Acradina (Diod., xiv, 63), primo nucleo dell'ultimo quartiere abitato di S., la Neàpolis, che nell'età ellenistica si estese su tutta l'area della necropoli arcaica settentrionale. La posizione strategicamente forte, e pertanto elevata, di Tyche è testimoniata dal fatto che vi convengono i Siracusani e contro Trasibulo (467-466; Diod., xi, 67) e contro i mercenari che da Gelone avevano avuto la cittadinanza, quando evidentemente la fortificano di mura dalla parte volta verso l'Epipole (463; Diod., XI, 73): la difesa viene propriamente fondata su un bastione naturale, il cosiddetto "muro di Gelone", regolarizzato dalla mano dell'uomo, che attraversa in senso S-N l'altipiano appoggiandosi ai valloni di S. Giovanni e di S. Panagia. Allorché gli Ateniesi, sbarcati a Tapso, occupano al vertice dell'Epipole l'Eurialo, ove più tardi sorgerà il Castello di Dionigi, e danno inizio all'assedio basandosi sui due forti da loro eretti, il Làbdalon ed il Kökìos, quest'ultimo da identificare forse nelle propaggini dell'Epipole sopra la cava del Fusco, i Siracusani uniscono all'Acradina per mezzo di una fortificazione, il colle Temenite (Thucyd., vi, 75), ove sorgeva l'antico tèmenos di Apollo, il santuario all'aperto messo in luce dai recenti scavi ad O del teatro greco, il cui ultimo muro di anàlemma ne invase parte dell'area. Negli ultimi anni del V sec. l'esperienza dell'assedio ateniese induce Dionigi a circondare l'altipiano della Epipole con una cinta di mura, culminante nel castello Eurialo, una delle maggiori opere difensive, con quella di Messene, del tempo antico, contro cui si infrange l'assedio cartaginese del 396 e che solo sarà espugnata per sorpresa e tradimento dai Romani di Marcello, che entrano in città dall'Exàpylon (le sei porte), da ricercarsi nel tratto corrispondente all'attuale Scala Greca. L'Epipole però non sembra mai essere stata abitata. Dionigi evacua la popolazione civile dall'Ortigia, che trasforma in fortezza e sua residenza, mentre abbellisce di monumenti cospicui (stoài, chrematistèria, Orologio solare, ecc.) l'Acradina e l'agorà, non lontano dalla quale sorge più tardi il ginnasio con la tomba di Timoleonte.

Se uno splendido sviluppo prende la città al tempo di Gerone II, quando sorgono grandiosi monumenti, tra cui un Olympieion nell'agorà e la grande ara nella Neàpolis, e viene rifatto il teatro, una profonda decadenza, attestata anche da Cicerone (In Verr., iv, 53) tien dietro alla conquista romana. La città incomincia a rifiorire sotto Augusto per la deduzione di una colonia e si espande di nuovo sugli antichi quartieri tra i secoli I-II dell'Impero, quando è sede del propretore.

2. Architettura. - I più antichi monumenti architettonici di S. sono i resti dei templi dorici, della fine del sec. VII e degli inizî del VI, costruiti in pietra. La loro caratteristica è la prevalenza della lunghezza sulla larghezza nella pianta rettangolare e la pesantezza dell'elevato data dalle colonne tozze, dagli echini larghi e schiacciati e dall'epistilio possente. Se tali caratteristiche si possono cogliere con difficoltà nell'Olympieion della Políchne, mostrante ora solo due colonne, e se nell'Ortigia scomparve, con l'erezione del nuovo tempio, l'Athenaion anteriore ai Dinomenidi, l'Apollonion, che mostra tuttora i vetusti avanzi nell'angolo N dell'isola, è un documento prezioso per la ricostruzione di un tempio arcaico. Sullo stilobate di tre gradini, ove ad oriente è incisa l'iscrizione ricordante un architetto Kleo[.....]es, si leva il colonnato del periptero, con sei colonne sulla fronte e diciassette nei fianchi, che circonda la cella di pianta assai allungata con pronao in antis, preceduto però da avamportico e vestibolo, complesso attestante una fase di evoluzione del tempio dorico. La cella era divisa in tre navate da una doppia fila di più piccole colonne, disposte in due ordini, destinate a sorreggere il tetto. All'esterno, sopra le strutture lapidee culminanti con il fregio dorico, era un coronamento policromo di terrecotte architettoniche dipinte a fuoco, consistenti di due elementi, gèison e sima, questa ultima con gocciolatoi tubolari nei lati lunghi, con motivi decorativi nei vivaci colori usati nella ceramica corinzia bianco, rosso e nero. Come nell'Apollonion, lastre dipinte si sono trovate anche attorno all'Olympieion e nell'arcaico Athenaion, sotto quel nuovo piano che, religioso custode, vide sorgere, sugli inizî del sec. V, il tempio di pietra e di marmo del dinomenide Gelone. Se in esso la pianta si è uniformata alla tendenza classica, avvicinandosi al canone delle proporzioni dell'architettura dorica, che troverà qualche anno più tardi la sua perfezione estrema nel Partenone e nell'Hepbaisteion o Theseion di Atene, l'aspetto dell'alzato mantiene tuttavia quella pesantezza di proporzioni per mancanza di slancio delle colonne, da fare avvertire ancora un senso di arcaismo. Il tempio, sorto su uno stereobate a tre gradini e sostenuto da vespai praticabili, è un esastilo, periptero con 14 colonne sui fianchi; ha la cella rettangolare, i cui muri in struttura isodoma, si prolungano sia nella parte anteriore che posteriore terminando in ante comprendenti tra loro una coppia di colonne (pronao ed opistodomo in antis). Il fregio dorico a triglifi e metope lisce - egualmente privi di decorazioni plastiche erano i timpani dei due frontoni, e solo l'orientale aveva un grande scudo dorato, segno di sacrificio a Posidone non appena avvistato dai naviganti - era coronato da una cornice in marmo a becco di civetta con cimasa a teste leonine stilizzate, ed egualmente in marmo era la copertura di tegole. Ma prima della costruzione dell'Athenaion dinomenide, recenti reperti hanno svelato il tentativo dell'inserimento di un tempio ionico nella dorica S. vicino al predetto monumento (sotto l'area dell'odierno Palazzo Vermexio) sulla fine del sec. VI a. C. Oltre ai resti degli spianamenti in roccia per lo stereobate del tempio si sono raccolti infatti notevoli pezzi in calcare bianco pertinenti agli elementi del colonnato ionico (base asiatica a grande disco e largo toro a scanalature orizzontali, pezzi del fusto a profonde scanalature con spigolo vivo o tuttora in fase di sbozzo, grandi ovoli e volute del capitello), che ricordano l'Artemision di Efeso e che, nella Magna Grecia, fanno riandare al più evoluto tempio di Marazà di Locri (v.). Non meno rappresentativa dell'architettura religiosa è quella militare, che presenta nel suburbio il monumento unico nel suo genere e di grandiosa concezione strategica, il Castello Eurialo, sorto al vertice delle lunghissime mura di Dionigi, a dominio della valle dell'Anapo a S e della pianura della Targia a N.

È una costruzione in ben squadrati conci di pietra, in qualche caso bugnati, preceduta, nel breve istmo che la collega al colle di Belvedere, da tre fossati con stretti passaggi e da un quarto laterale per una difesa manovrata, che aveva il suo appoggio nelle macchine da lancio avanzate sul rivellino tra il secondo e terzo fossato. Il castello protende innanzi ai cinque poderosi torrioni uno sperone a prora di nave per chiudere poi una vasta area rettangolare, il mastio, comunicante ad E per una stretta porta con una più vasta area trapezoidale, che racchiude tre grandiose cisterne per conserva d'acqua, ed apre nella possente muraglia l'ingresso dall'Epipole. Dal vertice N si stacca il muro di cinta, che subito piega ad imbuto, per proteggere una porta a trìpylon, preceduta da muri di sbarramento disposti a baionetta, onde costringere gli assalitori attraverso tortuosi passaggi obbligati ad esporsi alle offese dei difensori del castello e del minore fortilizio, che, di fronte al primo, si leva in pianta trapezoidale sul fianco N del trìpylon. Una rete di passaggi sotterranei collega le varie parti del castello e questo col fortino.

Tale meraviglioso dispositivo si presenta così omogeneo e semplice nell'insieme da far noverare il suo ideatore tra i più grandi architetti militari dell'antichità.

Allo stesso complesso di opere militari dovute a Dionigi appartiene l'arsenale, cui si sogliono attribuire scarsi avanzi sulle rive del porto piccolo.

Il lavoro di intaglio nella roccia, che ammiriamo nell'Eurialo, si ritrova nella vasta rete di acquedotti, certo risalenti in parte già al sec. V, principale dei quali è il Galermi, che porta l'acqua dalla media valle dell'Anapo fino al Temenite.

L'estrazione della pietra per le costruzioni urbane a mezzo di cave, spinte in profondità più che in superficie, crea le grandiose "latomie" (lithotomìai), ampie voragini adibite fin dal sec. V come prigioni, dove furono rinchiusi anche gli Ateniesi del disfatto esercito di Nicia. La ricerca della pietra migliore negli strati più profondi fa sì che queste cave si stendano in vasti ingrottamenti, in parte oggi crollati, di cui sono testimonianze le scenografiche Grotte dei Cordari e l'Orecchio di Dionigi, celebre per i suoi fenomeni acustici e per le leggende intorno ad esso fiorite fin dal Seicento.

Ma architettonicamente la più grandiosa creazione d'intaglio è il teatro, accolto nel roccioso pendio meridionale del Temenite. Di esso la tradizione ricorda come architetto un certo Damokopos, detto Myrilla, dell'età dei Dinomenidi. Qualche studioso (Anti) ha voluto riconoscere in questo teatro, più che in altri teatri del mondo ellenico, le testimonianze di un tipo arcaico, in cui la pianta, anziché circolare, sarebbe stata poligonale, seguendo la cavea l'andamento trapezoidale dell'euripo, il cui antico canale sarebbe quello tuttora esistente nel piano d'orchestra. A questo proposito giova però ricordare i resti di un dispositivo di thèatron a gradinata rettilinea, riconosciuto di recente non lungi dal grande teatro circolare, a S-O del tèmenos di Apollo, cui va strettamente ricollegato e che potrebbe essere visto come un primo apprestamento stabile di gradinata per un limitato numero di spettatori. Ritornando al grande teatro, il monumento, quale oggi noi l'ammiriamo, è quello che fu stabilito in età ellenistica da Gerone II, modificato dai successivi adattamenti intervenuti nell'età romana.

La grandiosa cavea semicircolare accoglie in nove cunei le gradinate, orizzontalmente attraversate da un solo passaggio (precinzione o diàzoma), con alta parete corniciata, sulla quale i nomi incisi degli dèi olimpi e dei sovrani siracusani servivano all'indicazione dei varî settori per la distribuzione dei posti. I seggi nobili (proedria) erano quelli della prima fila, intorno all'orchestra, da cui erano separati per mezzo dell'euripo circolare. L'orchestra era accessibile ai cori per mezzo dei due ingressi (pàrodoi) laterali alla scena, già dal sec. IV fiancheggiata da due profonde scenoteche tagliate nella roccia, conservanti sul piano le tracce di rotaie per i rulli che permettevano un rapido cambiamento scenico. La scena ellenistica era di tipo classico con parete di fondo ornata da colonne, ed in qualche parte da Cariatidi e forse in origine aveva due corpi avanzati (parascenia) ai lati del palcoscenico (logèion o pulpitum), più tardi probabilmente rettilinea con pulpitum a semicolonne sulla fronte. Le trasformazioni, che in età romana adattano il teatro greco a teatro romano, investono in parte la cavea, nella quale si pratica un secondo più piccolo diàzoma, mentre sono modificati i seggi inferiori, arretrandoli e rivestendoli di marmi. L'avanzamento sull'area d'orchestra della scena, costruita alla romana con aulaea antistanti, ed allungata tanto da invadere le antiche pàrodoi, obbliga a ricavare i passaggi all'orchestra nelle ali estreme della cavea per mezzo di due androni coperti (criptae), sui quali si posero i tribunalia. Altri adattamenti alla scena ed al piano di orchestra furono attuati da Nerazio Palmato nel III sec. d. C. Questo teatro è altamente suggestivo, oltre che per la sua mole architettonica, per i ricordi che come quello di Dioniso ad Atene suscita nel campo dell'arte teatrale. Sulle sue diverse scene, passarono le commedie di Epicarmo, Formide e Deinoloco, le tragedie di Frinico e del primo dei tre massimi poeti drammatici, Eschilo, che nobilitò di sua presenza il teatro, e nell'età ellenistica si succedettero le azioni tragiche di Sosifane e Sositeo e degli altri poeti della "Pleiade tragica" accanto alle commedie del più grande autore fliacico, Rintóne.

Poco, architettonicamente, può dirci il monumento religioso ellenistico, coevo al teatro, l'Ara di Gerone: il lungo basamento a gradini intagliati nella roccia sosteneva il muro della pròthysis e l'alzato dell'ara, che avevano un coronamento superiore a fregio dorico con ricca cornice, ornata sull'altare da teste leonine stilizzate. L'Ara prospettava su una grande piazza porticata, ricordante le piazze delle città dell'Asia Minore, riferibile però ad età augustea. L'età imperiale romana, oltre alle modifiche apportate al teatro greco per una funzionalità più consona ai tempi mutati, non manca di arricchire S. di nuovi edifici per lo spettacolo. Il primo di questi, che per la presenza di statue di togati e di matrone romane con le alte acconciature flavio-traianee, e per l'uso nelle vòlte di materiale leggero (pomici) è da porsi tra il I e II sec., è un piccolo teatro marmoreo, interamente costruito in elevato, con fronte scenica a nicchie e sfondo architettonico sfruttante il prospetto posteriore di un tempietto di tipo italico su alto podio con cella secondo il gusto adrianeo coperta a volta. Un quadriportico dietro la scena, nella cui area centrale è sita l'ara, viene a costituire quasi il témenos del tempietto oltre che la porticus post scaenam. Questo complesso, che viene a fondere il sistema planimetrico del teatro di Pompeo con quello del Portico di Ottavia racchiudente un'area sacra, è comunemente noto col nome di ginnasio, che i vecchi topografi volevano identificare con quello in cui sorgeva la tomba di Timoleonte (Diod., XIX, 6; Plut., Timol., 39).

Probabilmente in età severiana sorse per i ludi gladiatorî e le cacce (venationes) l'anfiteatro, che fu scavato per gran parte sul pendio del colle in modo da ridurre notevolmente la costruzione lapidea del muro perimetrale in regolari conci a spigoli smussati, mentre altre strutture di sostegno intorno all'arena sono in opera reticolata. Degli spazî destinati alle gradinate restano le sezioni inferiori (maenianum medio ed imo) col terrazzo per i seggi riservati alle autorità (podium) separato dalla conistra da un alto muro con marmoreo pluteo recante le iscrizioni latine e greche a designare persone, cui i posti erano destinati.

Tutt'in giro all'arena era scavato un fossato (euripus), su cui si innalzava la rete a protezione dai salti delle belve, e nel mezzo era una lunga fossa, trasformata in grande vasca in età tarda, comunicante con l'ingresso meridionale all'arena e destinata ai servizî e alle attrezzature degli spettacoli, mentre da essa, per uno stretto passaggio verso occidente, si portavano i caduti fuori dell'anfiteatro (porta libitina). Mirabile e semplice insieme è la distribuzione degli accessi che, dall'esterno per mezzo di scale, raggiungevano con disposizione alternata tre corridoi interni coperti a vòlta di calcestruzzo, disimpegnanti, per mezzo di stretti passaggi aperti nelle gradinate, i tre meniani e la superiore galleria, di cui oggi non restano che rocchi di colonne: lateralmente ai due ingressi all'arena altre scalinate adducevano all'ambulacro inferiore, mentre scalette agli estremi del corridoio sotto il podio raggiungevano i suoi seggi.

Minori resti architettonici di età imperiale si hanno nel marmoreo portico corinzio eretto nei pressi dell'antica agorà e negli avanzi di terme della borgata di S. Lucia, in cui i topografi volevano riconoscere il palazzo di Agatocle (exakontaklìne), mentre all'architettura funeraria repubblicana e del primo Impero si riportano i colombarî a facciata rupestre della necropoli dei Grotticelli.

3. Arti figurative. - Attraverso le sculture superstiti si può seguire lo sviluppo plastico nell'antica Siracusa. Il più antico documento statuario è la poderosa testa modiata di divinità femminile, da Laianello, scolpita con vigore e crudezza realistica nel bianco calcare del Plemmirio. Appare in essa evidente l'influenza ellenica di quell'arte scultorea, che prese il nome da Dedalo, il mitico creatore del Labirinto, e le cui mosse sono forse da ricercare appunto in Creta. Questa durezza di modellato persiste con l'arte dorica, che crea nel sec. VII i poderosi acroteri fittili, cavalieri e sfingi bifronti, restituiti dall'Apollonion e dall'Athenaion, nonché la placca decorativa d'un frontone di edicola del santuario di Atena, presentante in un rapido e vigoroso modellato la Gorgone in volo nell'arcaico schema di corsa laterale. Ma l'aspro vigore dorico si mitiga già sugli inizî del V sec. per gli influssi stilistici insulari e più direttamente della fiorente scuola di Chio, che dà alla città corinzia il torso della Nike, probabile acroterio del tempio dinomenide, ed il Koùros dal sottile panneggio. E sempre nell'ambito della corrente ionica si muovono alcune statue di Kòrai, purtroppo assai mutile, e il prototipo statuario, che richiama lo schema dell'Artemide da Pompei, di quell'Atena armata, agile ed elegante nel celere passo, che compare più tardi negli stateri di Agatocle e nelle monete di Pirro, e nella quale il Pace inclinava a riconoscere la riproduzione della dea dell'Athenaion.

Se i ricordati con i monetali ci soccorrono nella ricostruzione di un tipo statuario perduto, seguendo la prima monetazione siracusana troviamo lo sviluppo logico della plastica, che affina le primitive teste doriche della kòre dietro l'influenza ionica, la quale trasfonde in loro grazia e sorriso; mentre, nel celebre damaretèion, ionico-attica è la snella e nervosa eleganza della quadriga, tale da non sfigurare accanto alle più belle creazioni ceramiche a figure nere. Ché del resto qualità attiche, e fors'anco eginetiche, si incontrano in pezzi statuarî, quali la piccola Atena in subitaneo moto. Ma il sostrato dorico non mai si spense appieno; ché riappare nella piccola peplophòros, non senza un influsso ionico-attico; ed il carattere dorico su una base realistica si ritrova ancora nella marmorea grondaia dell'Athenaion ornamento architettonico, che modella severe teste leonine dall'aspetto angoloso, con occhio sinuosamente allungato, e dalle fauci spalancate al ruggito, con una stilizzazione a ciocche decise del folto pelame della giubba; formalmente e stilisticamente queste teste richiamano quelle affini, ma più colossali, del lato S del tempio di Imera. Se dobbiamo lamentare la perdita dell'idolo di Zeus Eleuthèrios, creato nello stesso torno di tempo e di cui una eco può essere offerta dalla testa delle monete di età timoleontea, il ritorno alla prevalenza del gusto dorico nel periodo anteriore alla metà del V sec. sempre nei conî, trova un innegabile dato di fatto nei tipi femminili dai profili netti e taglienti e dalle austere acconciature delle chiome girate in sù o raccolte in groppo all'occipite oppure nascoste sotto una pesante cuffia (sàkkos), stretta da più giri di nastro.

Della statuaria successiva alla metà del V sec. si è perduto ogni esempio, poiché le statue di bronzo che erano venute abbellendo l'agorà di S., furono distrutte nella restaurazione della democrazia di Timoleonte. Cosicché anche per questo periodo, che tocca pure gli inizî del IV sec., ci soccorre la monetazione ad indicarci l'indirizzo artistico dominante, che permane formalmente il dorico, ma ad esso trasfonde nuova linfa vitale l'influenza dell'arte attica, che vanta in questa età Fidia. È il momento dello stile florido nell'incisione dei conî, che crea accanto a quegli stupendi tipi, tradizionalmente vecchi ma affinati al tratto dell'arte ateniese, composizioni nuove ed originali: l'Aretusa di Kimon (v.) dalle chiome strette nel ricamo di una reticella, ed il volto florido, con i riccioli che salgono liberi, dell'Aretusa di Euàinetos (v.) nei decadracmi forse emessi a ricordo della vittoria sugli Ateniesi; la testa di Kòre di prospetto di Eukleidas (v.), e quella di Kimon che rivela indubbie qualità fidiache. E Phrygillos ed Eumenes e Sosion (v.) e molti altri maestri incidono nei tondelli monetali dei capolavori. Ma, gioiello di meravigliosa creazione plastica è il vivace gruppo di Eracle e il leone negli stateri di Euainetos, indubbiamente la personalità artistica più individuale ed attiva, che incide anche gemme come Phrygillos, e forse altri maestri del conio. Accanto alle creazioni monetali, sullo scorcio del sec. V e nel successivo, fiorisce una serie di statuine fittili, modesti ex voto, rappresentanti in genere l'Artemide in figura d'amazzone cacciatrice e la Demetra ieraticamente panneggiata, interessanti più per la tipologia che per lo stile, poiché questa coroplastica siracusana rimase lontana dalla grande arte, pur risentendo di volta in volta di accenti fidiaci, post-fidiaci e prassitelici. Ma l'influsso fidiaco permane nei frammenti di stele marmoree funebri con scene di congedo. Il gusto artistico di S. è ormai avviato a seguire l'evoluzione plastica dell'arte greca del IV sec. e dell'ellenismo, accogliendo dopo Fidia, gli insegnamenti dei grandi artisti Skopas, Prassitele e Lisippo: ché formalmente prassitelico è il Satiro in riposo; mentre l'irrequietezza e lo slancio lisippeo si colgono nella nota statuina di Eracle, che richiama lo schema dell'Agias di Delfi, ed alla stessa tendenza stilistica del grande scultore Sicionio, oltre che alla sua predilezione nel riprodurre gli animali, fa pensare la stasi, colma di vita, dell'eneo ariete, superstite di una coppia simmetrica, tecnicamente ottenuto col sistema della cera perduta. Derivati dalle stele sepolcrali attiche del IV sec. sono i quadretti a rilievo che durante l'età ellenistica erano incassati nelle nicchie aperte sulle balze siracusane; opere di mediocri artefici, dure nell'intaglio e non immuni da ingenuità, rappresentano figure di guerrieri, a cavallo o al fianco di esso, o figure muliebri in lunga veste, reggenti il simbolico corno dell'abbondanza: dato il carattere religioso e funerario di questi rilievi, è da vedere, nei personaggi rappresentati, dei defunti eroicizzati. Ma pur attraverso questo eclettismo artistico, fino ad Agatocle e Iceta, ed ancora con Pirro trova favore la tendenza stilistica dei grandi maestri monetieri, e particolarmente di Euainetos, il cui tipo di Aretusa viene addirittura largamente copiato nella monetazione di questi sovrani, accanto a nuove mirabili creazioni, quale il tipo di kòre; ed il persistente influsso eveneteo si può ancora riconoscere in taluno di quei grandi busti fittili di Demetra o Kore, conservanti traccia della originaria policromia, e riferibili appunto alla fine del sec. IV-inizî III, recentemente restituiti dal suolo di Siracusa. Parallelo a questo filone artistico, che si va gradatamente affievolendo, compare il gusto crescente ellenistico, sempre meglio delineandosi di stile e forme alessandrini, fino a trionfare appieno con Gerone II per gli stretti rapporti del principe con la corte dei Tolemei. E secondo l'uso già invalso nel mondo ellenistico, ecco comparire anche sulla monetazione siracusana il ritratto del sovrano, e quello della regina Filistide con un modellato morbido, vibrato, di poco rilievo, e con un senso veristico pur attraverso l'intonazione idealizzata. Né diverso aspetto iconografico avranno avuto quelle immagini di bronzo di Gerone, dedicate in Olimpia e ricordate dalla tradizione letteraria (Paus., vi, 12, 4) come opere dello scultore siracusano Mikon, figlio di Nicerato. L'arte ellenistica di S. ha il suo capolavoro nella Venere Callipige, magnificata forse oltre misura. Poiché se è perfetta la modellazione, con tenui passaggi dei piani ed un morbido sfumato del nudo in contrasto con la conca sinuosa del manto gonfiato dal vento dietro le belle gambe con ombre profonde, il marmo non è che una delle tante rielaborazioni ellenistiche, con un accento vieppiù sensuale nel gesto pudico, della Afrodite Cnidia di Prassitele, ed è simile nello schema generale e nel ritmo alla Venere Medici. Altro originale ellenistico è un torsetto di fanciullo, ancora inedito, dal modellato realistico nella turgida contrazione del ventre in uno sforzo teso. Formalmente ellenistici, per quanto ormai di età romana, sono la grande testa di Zeus, derivata da un prototipo della scuola dell'asiatica Pergamo, la copia del noto Pescatore del Vaticano, le statue di Asklepios e di Igea e l'Hades-Serapis, che manifesta tendenze alessandrine. L'iconografia romana risente l'influsso dell'arte aulica e metropolitana; frammenti di ritratti di Augusto e di Caligola, teste di personaggi ignoti, di matrone dalle caratteristiche acconciature ci fanno seguire l'evoluzione del ritratto imperiale dal I al III sec. d. C., mentre non manca qualche torso loricato di età flavia accanto alle più numerose statue municipali di togati, che decorarono i luoghi pubblici di ogni centro romanizzato.

Alla larga messe delle sculture non corrisponde altrettanta documentazione pittorica. Del genere decorativo è la pittura sulla ceramica siracusana. Nel sec. VII a. C. la pedissequa imitazione dello stile protocorinzio nel vasellame minore non impedisce la interessante creazione dei grandi crateri del tipo del Fusco, nei quali la decorazione è più libera, adattata alla vasta superficie, con una sintassi di gruppi di tratti paralleli disposti in tutti i sensi e di più rari elementi curvilinei, riquadranti spesso un pannello ornato con motivo animale. Nel secolo successivo la produzione si limita al piccolo vasellame con decorazione ormai pressoché limitato a cerchi o bande, imitando i prodotti corinzî più semplici, quali gli sköphoi neri ornati da fasce orizzontali. Dopo una lunga stasi, la ceramica siracusana riprende sugli inizî del sec. IV, evidentemente in età dionigiana, con la produzione vascolare a figure rosse di imitazione attica, rappresentando uno dei filoni della ceramica italiota: alla scuola siracusana si attribuisce infatti tutta una classe, soprattutto crateri a calice, assegnati ai Pittori di Dirce e Chequer e ai loro seguaci. Questa produzione decade sullo scorcio del secolo uniformandosi per stile a quella dell'Italia meridionale, quando più rari si fanno i vasi figurati e quando si produce il piccolo vasellame a vernice nera con un disegno policromo sovrappinto molto originale, imitante lo stile di Gnathia. Nel sec. III a. C. ad una decorazione più sobria si associa talora il rilievo, particolarmente nel tipo della coppa ad emblema. Del genere della pittura maggiore, ben poco può dirci quel tegolo, coronamento di cippo, nel quale sul fondo scuro, originariamente rosso od azzurro, spiccano due uccelli chiari, forse palmipedi. Ed un motivo puramente decorativo è la pittura floreale che si stende sulla superficie inferiore di un'edicoletta a mensola. Evanide sono le figurine già dipinte negli esili cippi della necropoli ellenistica, mentre restano scarse tracce delle scene figurate che richiamano talora schemi presenti nella stele di Pagasae, entro qualcuno dei quadretti del culto degli heroes incavati nella roccia e superstiti nell'ara di Gerone e nell'anfiteatro. Nessuna grande composizione figurata compare nei mosaici romani, che presentano unicamente gli ovvî schemi geometrici. Una sola pittura della tarda romanità (IV sec. d. C.) si impone per la sua conservazione, la composizione funeraria dell'ipogeo Arangio, che presenta il defunto a banchetto, circondato da due servi, in un giardino fiorito di rose e ravvivato da uccelli: la tecnica affrettata e la linearità del disegno, basato fondamentalmente sul rendimento del netto contorno, fanno attribuire l'opera ad un artigiano, legato alla tradizione locale, della quale più ampie testimonianze sono rese dalle coeve pitture catacombali.

Bibl.: F. S. Cavallari, C. Cavallari, A. Holm, Topografia archeologica di Siracusa, Palermo 1883; F. S. Cavallari, Appendice alla topografia di Siracusa, Torino 1891; L. Mauceri, Guida di Siracusa, Siracusa 1897; R. Koldewey-O. Puchstein, Die griechischen Trempel in Unteritalien und Sicilien, Berlino 1899; P. Orsi, L'Olympieion di Siracusa, in Mon. Ant. Lincei, XIII, 1903, c. 369-392; E. Mauceri, Siracusa, Palermo 1908; id., Siracusa e la valle dell'Anapo, Bergamo 1909; L. Mauceri, Il Castello Eurialo; piano generale delle rovine e ricostruzione secondo i rilievi, Roma 1912; P. Orsi, Gli scavi intorno all'Athenaion di Siracusa, in Mon. Ant. Lincei, XXV, 1918, coll. 353-752; G. E. Rizzo, Il teatro greco di Siracusa, Milano-Roma 1923; L. Mauceri, Il Castello Eurialo nella storia e nell'arte, Roma 1928; H. Bulle, Untersuchungen an griechischen Theatern, Monaco 1928; F. Fabricius, Das antike Syrakus, Lipsia 1932; B. Pace, Arte e civiltà della Sicilia antica, voll. I-IV e particolarmente vol. II, Milano 1938; A. D. Trendall, Paestan Pottery, Londra 1936; G. Cultrera, L'Apollonion-Artemision di Ortigia in Siracusa, in Mon. Ant. Lincei, XLI, 1951, c. 701 ss.; C. Anti, Teatro antico di Siracusa, Firenze 1948. V. inoltre gli articoli: in Antike Plastik, Walther Amelung zum 60. Geburtstag, Berlino 1928, IV, p. 168-175; Antiquity, VI, 1932, pp. 261-275; Archiv. Stor. per la Sicilia Orientale, XXXI, 1935, pp. 101-107; IV, s. a., VII, 1954, fasc. I-III, p. 51 s.; Ath. Mitt., XXVI, 1901, pp. 9-32; Boll. d'Arte, IV, 1910, p. 201; XLVII, 1962, p. i ss.; Festschrift für H. Kiepert, 1898, pp. 197-206; La Sicilia artistica ed archeologica, I, 1887; II, 1888; III, 1889; Not. Scavi a partire dal 1877 e ss.; Rend. Accad. Lincei, 5a serie, VI, 1897, pp. 301-312; Rev. Arch., 3a ser., XXVIII, 1896, pp. 355-358; s. 5a, XXXIII, 1931, p. 234 ss.; Mon. Ant. Lincei, XXVIII, 1922, col. 521 ss.; Dioniso, N. S., 15, 1952, p. 122 ss.; La Giara, n. speciale Ass. P. I. Reg. Siciliana, 1951-55, p. 375 ss.; Arch. Anz., 1954, col. 598 ss.; Archiv. Stor. Siracusano, a V-VI, 1959-1960, p. 6 ss.

Per la numismatica: A. Holm, Storia della Sicilia nell'Antichità, III, p. II, trad. it., Torino 1906; B. W. Head, Historia Numorum, Oxford 1911, p. 171 ss.; A. J. Evans, Syracusan Medaillons and their Engravers, Londra 1892; A. du Chastel de la Howardrie, Syracuse, ses monnaies d'argent et d'or, ecc., Londra 1898; Th. Tudeer, Die Tetradarachmenprägung von Syrakus, Berlino 1913; E. Boehringer, Die münzen von Syrakus, Berlino 1929; A. Gallatin, Syrakusan Dekadrachms of the Euainetos Type, Cambridge 1930; G. E. Rizzo, Monete greche della Sicilia, Roma 1946; ved. anche gli articoli in: Dedalo, II, 1923, p. 21; Archiv. Stor. Siciliano, XLIV, 1924, p. 414 s.; Rassegna numismatica, XXVII, 1930; XXXI, 1934.

(G. V. Gentili)

Museo Archeologico Nazionale. - Costituitosi sulla fine del sec. XVIII come raccolta vescovile, ad opera di Mons. G. B. Alagona, divenne Museo Civico nel 1809, inaugurato il 20 aprile del 1811, nei locali della biblioteca del Seminario. Per il continuo accrescersi del materiale, a spese del Municipio di S., di fronte al Seminario nella piazza del Duomo, lì dove era un cadente convento, nel 1876, su progetto di L. Mauceri, fu iniziata la costruzione di un edificio che doveva costituire il nuovo Museo Archeologico. Esso fu dichiarato Nazionale nel 1878, ma la sua inaugurazione ufficiale avvenne solo nel 1884.

Primo direttore fu F. S. Cavallari che, con la sua attiva collaborazione, accrebbe le collezioni. Gli successe nel 1895 P. Orsi (v.) il quale, con scavi sistematici apportò nuove cognizioni nel campo dell'archeologia siracusana e siciliana in genere. Nel 1935 gli successe G. Cultrera e nel 1942 L. Bernabò Brea che, nel 1948, subito dopo le vicende belliche, riuscì a riaprire al pubblico alcune sale del museo in una nuova e più razionale sistemazione, successivamente ampliandolo con altri locali al piano superiore, su vecchi progetti del Mauceri. Malgrado ciò, per i continui rinvenimenti meritevoli di esposizione, si è sentita la necessità di progettare la costruzione di un nuovo Museo Archeologico, che sorgerà nel parco della villa Landolina.

L'attuale museo si compone di due piani: nel superiore (21 sale) il materiale in prevalenza ceramico è esposto secondo un criterio storico-topografico. Nel piano inferiore (13 sale) sono invece raccolte solo alcune classi di materiali (epigrafi, terrecotte architettoniche, sculture).

Al piano superiore, la sezione preistorica permette di tracciare un profilo della preistoria in Sicilia, sia nel Paleolitico Superiore, in cui la vita nelle caverne è accompagnata da manifestazioni di una fiorente industria litica, sia nel Neolitico, caratterizzato dall'esigenza di riunirsi in comunità: Stentinello, Matrensa, Megara Hyblaea sono i principali villaggi preistorici sud-orientali attraverso i quali è possibile studiare le culture indigene (v. sicilia) (cfr. la bella coppa da Megara Hyblaea decorata a tre colori con motivo a fiamma, vol. ii, fig. 64). Dell'età dei metalli è la ceramica dipinta, nero su rosso, di Serraferlicchio e quella, bruno su giallastro, di Castelluccio, delle necropoli sicule costiere di Cozzo Pantano e di Tapso, dove ritroviamo ben rappresentate le importazioni dal mondo miceneo, accoppiate alla locale ceramica. Il passaggio dall'Età del Bronzo all'Età del Ferro si rileva invece nelle necropoli montane: Pantalica e Cassibile sono le più importanti, con tombe a grotticella scavate nella roccia. È qui che il bronzo si afferma sempre più costituendo anche elemento di abbigliamento: specchi, fibule, ecc. Successivamente viene adoperato come scambio monetale sotto forma di rudimentali lingotti a forma di focacce: un grandioso ritrovamento in contrada Mendolito, presso Adrano (sec. VIII a. C.), comprendente anche numerose lame, cinturoni, fibule, ecc., ne ha dato la sensazionale scoperta.

Derivazione della civiltà di Pantalica è quella del Finocchito, dal nome della principale necropoli, sviluppatasi contemporaneamente all'età della fondazione delle colonie greche. I materiali restituiti testimoniano la forte influenza del popolo corinzio su quello siculo.

Altro periodo importante, seguibile attraverso i reperti conservati nel museo, è quello della fondazione delle colonie greche nella Sicilia orientale (Siracusa, Megara Hyblaea, Gela, ecc.). La produzione attica è particolarmente rappresentata dalle grandi necropoli di Gela, Camarina, ecc.

Nella sezione topografica l'esposizione dei materiali consente di studiare in quale misura la colonizzazione greca ha influito nei varî e piccoli centri dell'interno della Sicilia: Terravecchia di Grammichele, Monte S. Mauro, Monte Casale, Adrano, Paternò, ecc. Da Palma Montechiaro provengono i ben noti xòana arcaici in legno (VI sec. a. C.), rari esemplari del genere.

Singolare ed interessante è pure la collezione dei materiali ellenistici di Centuripe, con vasi con motivi plastici e l'uso di una ricca policromia (rosa, celeste, oro, ecc.).

Una selezione di piccole opere in bronzo è riunita in una unica vetrina: degna di attenzione è la statuetta di efebo, proveniente da Adrano, capolavoro della toreutica del V sec. a. C., rispecchiante le opere della grande statuaria (v. vol. i, fig. 108).

Al piano inferiore notevolmente importante per lo studio della topografia siracusana è il complesso dei rinvenimenti nell'area dell'Athenaion: dalle terrecotte architettoniche di un tempio pre-dinomenico, alle grondaie a testa leonina dall'Athenaion del V sec. a. C.

Alle terrecotte architettoniche del VI sec. a. C. è dedicata una intera sala con i reperti della zona sacra di Gela.

Riguardo alla statuaria greco-arcaica, essa è rappresentata da pochi esemplari, il più importante dei quali è il famoso koùros proveniente da Megara Hyblaea, recante incisa sulla gamba una iscrizione del dedicante: il medico Sambrotidas (vol. iv, fig. 1155). A questa città è pure legata la statua di kourotròphos, in calcare (vol. iv, fig. 1153), opera d'arte indigena del VI sec. a. C.

Il periodo ellenistico-romano è rappresentato da comuni tipi statuarî che rispecchiano i mutati gusti del tempo, con banali raffigurazioni di muse, divinità varie e successivamente di matrone, togati, ecc.

Pezzo principe dell'arte paleocristiana è il sarcofago di Adelfia, rinvenuto nella catacomba siracusana di S. Giovanni, opera del IV sec. d. C., recante su due registri scene del Vecchio e Nuovo Testamento.

Notevole la raccolta dei ritratti che raffigurano personaggi romani: unico ritratto greco è una copia del Platone.

Alla sezione epigrafica è dedicata una sala dove spiccano per interesse le iscrizioni in greco-arcaico ed in siculo.

Di recente costruzione sono i locali che accolgono la sezione numismatica, di notevolissimo interesse. Iniziata nello scorso secolo dal canonico Lentinello, si è venuta ad accrescere, per rinvenimenti o acquisti, con esemplari, talvolta unici, che concorrono a formare forse il più ragguardevole medagliere esistente per quanto riguarda la numismatica siceliota, studiabile attraverso le emissioni delle colonie greche in Sicilia. La recente donazione del marchese Gagliardi, comprendente una pregiata collezione di capolavori monetali battuti nella Sicilia e nella Magna Grecia, verrà ad arricchire il patrimonio del museo.

Bibl.: Per la storia del museo: B. De Martinez La Restia, in Archivio storico per la Sicilia Orientale, 1955-56, p. 94 ss. Vecchie guide: E. Mauceri, Breve Guida del Regio Museo Archeologico di Siracusa, 1914; G. Libertini, Il Regio Museo Archeologico di Siracusa, 1929; S. L. Agnello, Guida Breve del Museo Archeologico di Siracusa, 1948. Per l'attuale sistemazione del museo: L. Bernabò Brea, in Sicilia, Guida d'Italia, T. C. I., ed. 1953, p. 554 ss. Riproduzioni, e descrizioni dei più importanti pezzi archeologici in Sicile Grecque, Parigi 1955 (foto De Miré); L. Bernabò Brea, Musei e Monumenti in Sicilia, Novara 1958; L. von Matt, Das antike Sizilien, Zurigo 1959 (in ital., ed. Stringa 1960). Per il periodo preistorico: L. Bernabò Brea, La Sicilia prima dei Greci, Milano 1958 (con bibl. preced.). Per le collezioni ceramiche, fondamentali sono gli scritti di P. Orsi relativi alle diverse necropoli: Siracusa, Fusco, in Not. Scavi, 1893, p. 445 ss.; ibid., 1895, p. 109 ss.; ibid., 1897, p. 471 ss. Siracusa, Giardino Spagna, ibid., 1925, p. 176 ss. e p. 296 ss.; Megara Hyblaea, in Mon. Ant. Lincei, I, 1892, c. 689 ss.; Gela, ibid., XVII, 1906, c. i ss., e XIX, 1908, c. 89 ss.; Camarina, ibid., IX, 1899, c. 201 ss. e XIV, 1904, c. 757 ss. Bibl. specifica e più recente si trova nelle voci relative alle città. Per il complesso dell'Athenaion di S.: P. Orsi, in Mon. Ant. Lincei, XXV, 1959, c. 353 ss.; per le terrecotte architettoniche di Gela: L. Bernabò Brea, in Annuario Atene, XXVII-XXIX, 1949-51, p. 7 ss.

(M. T. Currò Pisanò)