Sindacalismo

Dizionario di Storia (2011)

sindacalismo


Dottrina e prassi politico-economica di varia matrice ideologica e culturale, finalizzata all’organizzazione dei lavoratori in sindacato alla cui azione è affidata la tutela dei diritti e degli interessi comuni del gruppo, della categoria e della classe dei lavoratori (operai e, generalmente, lavoratori dipendenti). Nato in seno al movimento operaio e affermatosi progressivamente in tutti i Paesi sviluppati a partire dalla prima fase della loro industrializzazione moderna, il s. si è variamente configurato, nelle diverse aree geografiche, sulla base delle differenti situazioni politico-economiche, ma anche in relazione ai rapporti con i partiti politici operai (➔ ). La prima espressione teorica che individuò nei principi e nella prassi sindacale una sfera autonoma e specifica si definì tra il 1850 e la fine del sec. 19° nelle complesse trasformazioni del tradeunionismo inglese. I capisaldi fondamentali del s. erano la preminente funzione di resistenza conflittuale al capitalismo e la sua natura essenzialmente economica e collettiva. Le due forme d’azione tipiche del tradeunionismo erano, dunque, lo sciopero e la contrattazione collettiva. Da queste premesse scaturì poi negli anni Novanta un’ulteriore fondamentale acquisizione: la stessa necessaria azione di rappresentanza e tutela politico-legislativa del movimento operaio si poteva tradurre in pratica solo attraverso la formazione di un partito politico espressione del movimento sindacale (➔ ). La teoria del s. tradeunionistico postulava una concezione dicotomica della struttura sociale ed economica e fu organicamente esposta negli scritti di S. e B. Webb, venendo a costituire il maggior punto di riferimento per tutte le altre riflessioni sul sindacato che si diffusero mano a mano in Francia e poi in Germania. Sulla scia della critica marxiana dell’economia capitalistica e della teoria del rapporto tra struttura sociale e potere politico affermatasi nella socialdemocrazia tedesca, venne elaborata una dottrina sindacale nella quale concorrevano, come elementi costitutivi, la delimitazione delle attività sindacali alla sfera dei rapporti di lavoro e l’assegnazione al partito politico di una superiore funzione di ispirazione generale e di guida nelle lotte per la trasformazione delle condizioni materiali e dello Stato. L’attività sindacale era ridotta a mezzo per trasferire e far maturare tra i lavoratori una coscienza politica che trovava nel partito e negli intellettuali il naturale e superiore bacino di formazione e di elaborazione. In questa dottrina i contrasti tra lavoratori e capitalisti apparivano colmabili in via economica con continue transazioni alternate a prove di forza, mentre erano insanabili sul piano politico e conducevano a una frattura radicale fra due diverse concezioni della storia, del diritto, della società, della cultura. Sul piano teorico, le concezioni comuniste del sindacato che si diffusero successivamente si possono considerare una variante della concezione del rapporto partito-sindacato tipica della teoria della socialdemocrazia tedesca. Radicalmente diverso e, per molti aspetti, specularmente opposto fu il sistema del . Ancora all’interno della concezione della separazione degli interessi tra lavoratori e classe borghese si collocò la dottrina del s. riformista. Anch’essa assegnava al sindacato un ruolo centrale nel passaggio a un sistema economico-sociale più favorevole alle classi lavoratrici; anch’essa riteneva che il compito politico dei partiti fosse estrinseco e limitato a un sostegno legislativo delle conquiste ottenute dall’organizzazione sindacale. A differenza di quella dei sindacalisti rivoluzionari, però, tale dottrina era contraria alla rottura del sistema capitalistico, ritenuto modificabile con una pressione graduale dei lavoratori (riforme economiche e politico-legislative) rivolta a consolidare i miglioramenti salariali e normativi nel lungo periodo. Attraverso la forza e la disciplina sindacale, i lavoratori potevano aspirare a un progressivo controllo del sistema economico e a una lenta erosione delle sue contraddizioni: sottosalario, sovrapproduzione, eccessiva concentrazione, irrazionale utilizzo delle risorse, alternanza di ipersviluppo e crisi distruttive del ciclo economico. Su presupposti ideologici completamente diversi si collocò, invece, il s. corporativista, sia cattolico sia fascista, che muoveva dal principio della possibilità e della necessità di realizzare la collaborazione tra le classi. Con la diffusione del capitalismo fordista e con l’affermazione in Occidente, dopo il 1945, dei principi politico-costituzionali dello Stato democratico, si è verificato un declino dell’elaborazione teorica sul sindacato; da allora la riflessione sul rapporto tra imprenditoria e lavoratori è ricaduta prevalentemente nell’ambito delle cosiddette relazioni industriali. Un sistema di relazioni industriali basato su un’espressione relativamente libera delle forze sindacali e su un ampio intervento dello Stato in campo economico e sociale aveva cominciato a svilupparsi a partire dagli anni Venti. Esso comportava, fra l’altro, il riconoscimento reciproco, da parte dei lavoratori e degli imprenditori, delle rispettive rappresentanze, la definitiva stabilizzazione della procedura contrattuale, l’assunzione da parte dell’autorità pubblica di funzioni di arbitrato nei conflitti di lavoro e di indirizzo nell’evoluzione dei rapporti tra dinamica contrattuale, strategia imprenditoriale e politica economica e occupazionale. Questo sistema, intimamente connesso con il fenomeno del fordismo, si era fondato sull’accresciuto potere d‘acquisto dei salari e sul conseguente incremento della domanda: si delineava così un comune interesse dei lavoratori e degli imprenditori allo sviluppo della produzione e, pur rimanendo materia di conflitto la definizione delle condizioni salariali, normative e occupazionali, si configurava la possibilità di uno scambio tra incrementi di produttività e aumenti retributivi. Questo modello di relazioni industriali, la cui diffusione si accompagnò all’integrazione del movimento operaio nei sistemi politici occidentali e all’introduzione del welfare state, è stato rimesso in discussione, a partire dagli anni Settanta, con l’emergere della crisi fiscale dello Stato e dei limiti ecologici dello sviluppo, in concomitanza con un netto rallentamento della crescita economica internazionale. Si è aperta così una nuova fase, genericamente definita postfordista, che ha contribuito a ridefinire in modo sostanziale spazi e ruoli del movimento dei lavoratori e del sindacato. In particolare, i processi di decentramento produttivo, di mondializzazione dell’economia, di aumento della flessibilità nell’organizzazione del lavoro, connessi anche con l’avvento dell’informatica, hanno ridotto la concentrazione operaia nelle grandi industrie e favorito la diffusione di condizioni lavorative precarie, mentre si è verificata una notevole crescita della disoccupazione tecnologica. In un tale contesto, che ha esercitato effetti negativi sul potere contrattuale dei lavoratori, a una diminuzione dell’intervento pubblico nell’economia si è accompagnata una tendenza al ridimensionamento del ruolo del s. e della funzione mediatrice dello Stato.

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