PETERZANO, Simone

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 82 (2015)

PETERZANO, Simone

Maria Cristina Terzaghi

PETERZANO, Simone. – Figlio di Francesco di Maffeo (Petrò, I Peterzani tra Bergamo…, in corso di stampa), nacque a Bergamo molto probabilmente nel 1535, come si ricava dall’atto di morte del 1599, che lo dice di 64 anni «vel circa» (Miller, 2002, p. 157). L’origine bergamasca è attestata da una serie di carte d’archivio, che ricordano di volta in volta l’artista come «veneto» (così, ad esempio, in un contratto con la Fabbrica del duomo di Milano del 24 febbraio 1576, in Baroni, 1940, p. 173; o nell’Autoritratto in coll. privata romana del 1589, in cui compare la firma «SIMON PETERZANUS VENETUS TITIANI ALUMNUS FECIT MDLXXXVIIII»), oppure come originario di Bergamo (così in un atto stipulato con la chiesa milanese di S. Maria presso San Celso nel 1577, per il quale si confronti Pevsner, 1928-29, p. 288).

I documenti ultimamente rinvenuti da Gianmaria Petrò (I Peterzani tra Bergamo…, in corso di stampa) hanno fatto luce sulla famiglia dell’artista e sui suoi spostamenti tra Bergamo e Venezia, fugando i dubbi e le ipotesi, pur verosimili, che erano stati avanzati in precedenza, in particolare sul padre del pittore (Pevsner, 1928-29, p. 288; Bena, 2002, pp. 75 s., e 2005). Francesco di Maffeo Peterzano originario di Bergamo, risiedeva infatti a Venezia almeno dal 1541, dove esercitava la professione di orefice e dove si trovava ancora nel 1544, per morirvi entro il 1559 (Petrò, I Peterzani tra Bergamo…, cit.). A quanto risulta, Simone crebbe dunque nella città lagunare insieme ai fratelli Giacomo e Giovanni, sulla cui identità sappiamo solo che il primo era sacerdote, e lasciò Venezia al principio del 1561, mentre il secondo aveva una figlia di nome Lucrezia. Tali dati risultano particolarmente significativi poiché accreditano ampiamente l’ipotesi di un alunnato del pittore presso la bottega di Tiziano, di cui Simone si dichiarò sempre orgogliosamente discepolo, anche una volta giunto a Milano, come attestato in alcuni documenti (Baccheschi - Calvesi, 1978, pp. 474 s.; Miller, 1999, p. 105 doc. 6) e stando anche alle iscrizioni presenti nella Deposizione della chiesa milanese di S. Fedele («[S]IMON PETERZANUS / TITIANI AL[UMNUS]») e nel già ricordato Autoritratto.

Il legame con Tiziano, peraltro ripetutamente ribadito dalle fonti antiche (Lomazzo, 1590, 1973; Gigli, 1615), è inoltre inequivocabilmente segnalato dai riferimenti stilistici presenti soprattutto nelle prove giovanili di Peterzano.

L’avvio del percorso dell’artista è stato notevolmente chiarito a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, grazie agli studi di Mina Gregori (1991b e 1992), che per prima ha diffusamente ragionato sulle possibili connessioni di Peterzano con l’ambiente della pittura veneziana nella seconda metà del Cinquecento. Alla già nota Angelica e Medoro (Parigi, galerie Canesso; Damian, 2005), la studiosa ha proposto di aggiungere la bellissima Venere, Cupido e due satiri, all’epoca sul mercato antiquario e nel 1998 acquistata dalla Pinacoteca di Brera, e due Sacre Famiglie con angeli e santi, la prima passata in un’asta a Monaco nel 1967 (Gregori, 1992, p. 265 fig. 5) e la seconda in collezione privata (ibid., pp. 265-269 e fig. 7), raggruppando così un primo nucleo di opere che presentavano caratteri stilistici orientati verso la cultura figurativa lagunare in seguito ampliato dagli studi successivi.

Ancora alla fase veneta di Peterzano si ancorano alcune tele in precedenza attribuite a Parrasio Michiel, artista gravitante nell’orbita di Paolo Veronese: una Allegoria della Musica già a Parigi, presso la galerie Virginie Pitchal, con l’attribuzione all’artista veronesiano (Gregori, 1998), quindi ricondotta alla mano di Peterzano (Moro, 2000; Gregori, 2002; Dal Pozzolo, 2012a, 2012b), strettamente collegata a un dipinto di analogo soggetto conservato a Budapest (Szépümészeti Museum). A quest’ultimo, a sua volta passato sotto il nome di Michiel, e forse più opportunamente da ricondurre a Peterzano (Gregori, 2002; Dal Pozzolo, 2012a, pp. 16 s.; 2012b, p. 133), si aggiunge un terzo esemplare di dimensioni maggiori (Dal Pozzolo, 2012a, p. 47).

Sono state quindi assegnate alla fase giovanile della carriera di Peterzano due redazioni del Concerto: una già a Chicago, presso l’Institute of Art, l’altra a Schwerin, presso lo Staatliches Museum (Gregori, 2002; Dal Pozzolo, 2012a, pp. 29 s.; Id., 2012b, pp. 159 s.). Ancora, strettamente in rapporto con la bottega di Tiziano appare il Satiro che abbraccia una baccante (già Detroit, Institute of Arts; Dal Pozzolo, 2012a, pp. 20 s.). A Peterzano sembra infine da restituire la Venere e Cupido di Copenaghen (Statens Museum for Kunst; Dal Pozzolo, 2012a, pp. 36 s.; Id., 2012b, pp. 167-169).

Per quasi tutte queste tele i riferimenti culturali alla cerchia di Tiziano e di Paolo Veronese appaiono quanto mai evidenti. Esse presentano inoltre un notevole interesse per il tema profano e amoroso assai diffuso in area veneta, che venne importato a Milano dall’artista e dovette costituire un precedente notevolissimo per il più illustre dei suoi allievi: il giovane Caravaggio.

A tutt’altri temi, ma ad analoghi riferimenti figurativi, rimontano la Madonna con Bambino tra i ss. Giovanni Battista e Antonio abate di grandi dimensioni in collezione privata, carica di suggestioni palmesche (Gregori, 2011), e un S. Girolamo penitente (Bollate, chiesa di S. Martino, ufficio parrocchiale; Baini, 2011), strettamente dipendente dal modello tizianesco, nel monastero dell’Escorial.

Non è facile, tuttavia, stabilire se tutti questi dipinti siano stati eseguiti da Peterzano ancora a Venezia, oppure appena insediatosi a Milano. A questo proposito è utile ricordare che, il 7 luglio 1663, un «Christo con Madalena e Marta et cinque altre mezze figure al naturale di Simone Peterzano, discepolo di Titiano, alto brazza 2 ½ et mezza quarta, largo brazza 3 et una quarta» figurava tra i dipinti un tempo «nello studio del Moro alla Zuecca, che ora si trovano presso l’Ecc.mo Ambroso Bembo», come si legge in una nota del mercante Bortolo Foresti alla corte di Mantova (Luzio, 1913; Baccheschi - Calvesi, 1978, p. 484). A Venezia dunque l’artista aveva eseguito Sacre conversazioni a mezze figure come quelle qui sopra elencate. A ogni modo, nella già ricordata Venere, Cupido e due satiri l’artista dimostra la fresca conoscenza della Venere del Pardo (Parigi, Louvre) di Tiziano, spedita a Filippo II nel 1564 (Gregori, 1991b), e dunque fino a questo momento si può forse ritenere che egli si trovasse ancora a Venezia.

A Milano fu eseguito il dipinto, già ricordato, con l’Angelica e Medoro, per il nobile Gerolamo Legnano, certamente prima del 1587 quando l’opera fu lodata da Lomazzo (1587, p. 107). E probabilmente la data del dipinto può essere collocata anteriormente al 1572, quando il pittore milanese divenne cieco, visto che ne dimostrava una conoscenza dal vivo (Fiorio, 2003, p. 82; Ead., in Simone Peterzano..., 2012, p. 46). Tenendo conto del fatto che il Legnano fece da garante alla stipula del contratto tra Peterzano e il monastero femminile milanese di S. Maurizio alla fine del 1572 (Miller, 1999, p. 92), è possibile immaginare che fu questa una delle prime tele eseguite all’indomani dell’arrivo dell’artista a Milano.

Difficile è capire per quali strade, ma l’8 novembre 1572, dunque, Peterzano era già al lavoro nel capoluogo lombardo, dove realizzava gli affreschi nella controfacciata della chiesa di S. Maurizio al monastero Maggiore. Il contratto e l’intera documentazione (Sannazzaro, 1989; Miller, 2002) hanno permesso di appurare, tra l’altro, che al momento dei primi accordi Peterzano era ancora cittadino veneto, mentre successivamente, entro il 15 maggio 1573, quando buona parte degli affreschi era già completata, era diventato anche cittadino milanese. Gli affreschi raffigurano: il Ritorno del figliol prodigo; la Benedizione di Isacco a Giacobbe; Gesù scaccia i mercanti dal Tempio e Mosè spezza le tavole della legge; nella lunetta al di sopra della porta si trovava una Pentecoste, oggi quasi interamente perduta. Anche prima dei documenti presentati da Sannazzaro nel 1989, gli affreschi, da Mongeri (1872) in avanti, erano stati invariabilmente attribuiti all’artista su basi stilistiche. Essi presentano tangenze notevoli con la pittura veneta di metà Cinquecento, rappresentando probabilmente una grossa novità all’interno del panorama artistico milanese, a quest’altezza saldamente ancorato a principi di tardomanierismo romanizzante.

Nell’agosto del 1573 la decorazione doveva essere ultimata (Sannazzaro, 1989). Peterzano risulta al lavoro, in quell’anno, nella chiesa di S. Barnaba dove realizzò due grandi teleri collocati nelle pareti laterali del presbiterio, secondo la consuetudine veneta: la Vocazione dei ss. Paolo e Barnaba e i Ss. Paolo e Barnaba a Listri, il primo dei quali fu donato alla chiesa da Giovan Giacomo Teodoro Trivulzio, conte di Melzo, morto nel 1577 (Pevsner, 1928-29, pp. 285 s., sulla base delle indicazioni di Premoli, 1913).

La critica ha ribadito a più riprese il venetismo di queste prime prove milanesi dell’artista, dense di un intenso gusto per la narrazione corale e aneddotica, per il cromatismo vivace, sensibili al dato paesaggistico e ricche di una notevole capacità ritrattistica. Le tele di S. Barnaba, in particolare la Vocazione, presentano infatti molteplici riferimenti alla pittura di Tintoretto e di Veronese.

Il favore concesso dalla famiglia Trivulzio a Peterzano contribuì senza dubbio a immettere il pittore nel cuore della vita artistica milanese. Un documento per un affresco raffigurante il Miracolo dei pani e dei pesci, che doveva ornare il presbiterio dell’importante chiesa di S. Francesco Grande (oggi distrutta), testimonia infatti che il 21 maggio 1575, dunque a una data piuttosto precoce, Peterzano venne ingaggiato per quell’opera dalla ricca corporazione dei Mercanti dell’oro, dell’argento e della seta (Miller, 2002). Non è certo che egli abbia assolto il compito: le antiche guide menzionano un dipinto dello stesso soggetto, attribuendolo però ad Aurelio ed Evangelista Luini (Torre, 1674, p. 191; Latuada, 1738, pp. 244 s.).

L’intenso lavoro di quegli anni dovette indurre Peterzano a reclutare aiuti. Infatti, il 20 aprile 1575, stipulò un accordo con Francesco Alicati, impegnandosi a tenerlo a bottega. L’Alicati avrebbe dovuto specializzarsi nella realizzazione di motivi decorativi: «se exercere circa picturam ventalinarum ut vulgo dicitur ala arabesca», e Simone prometteva di insegnargli il ritratto (Pevsner, 1928-29, p. 288; Miller, 1999), un genere in cui evidentemente l’artista eccelleva, ma di cui sopravvive una sola testimonianza autonoma certa, nel celebre Autoritratto in collezione privata romana, datato 1589 (Calvesi, 2000), e forse un disegno raffigurante il Ritratto di s. Carlo Borromeo, che gli è stato da poco attribuito (Gnaccolini, 2009, p. 180 fig. 227).

Le fattezze dell’artista sono state giustamente riconosciute, inoltre, in un foglio conservato presso il Gabinetto disegni e stampe del Castello Sforzesco di Milano (inv. A 1717/479; Gnaccolini, 2009, p. 179 fig. 228) nell’organista del Concerto di Schwerin (Dal Pozzolo, 2012a, p. 50) e nel personaggio in veste nera con gorgiera e cappello in atto di affacciarsi nella tela raffigurante i Ss. Paolo e Barnaba a Listri (Valsecchi, 1971, p. 178). La predilezione per la raffigurazione della propria immagine all’interno di dipinti a tema sia sacro sia profano sembra dunque accompagnare soprattutto le prove giovanili di Peterzano, una pratica che avrebbe ereditato anche il più celebre degli allievi dell’artista, Michelangelo Merisi da Caravaggio.

Nel giro di pochi anni Peterzano continuò la propria ascesa nell’ambito della più illustre committenza milanese. Il 26 febbraio 1577, infatti, «Simone veneto» risulta tra gli artisti chiamati a collaudare gli Angeli in marmo nel coro del duomo (Baroni, 1940, p. 173; Arslan, 1960, p. 44 nota 19), e lo stesso anno ricevette la commissione per l’Annunciazione destinata al seminario Maggiore della città, poi passata alla sede (dello stesso Seminario) di Venegono Inferiore, ora al Museo diocesano di Milano, opera che fu saldata nel 1578 (Baroni, 1940, p. 179 nota 1; Terzaghi, 2011, con bibliografia).

Il tema dell’Annunciazione fu trattato almeno altre due volte nel percorso dell’artista a distanza di anni: intorno al 1583 in S. Maria della Passione (per la datazione anticipata e la committenza di Giovanni Angelo Crenna: Bora, 1981), dove la tela è ricordata come autografa dell’artista da tutte le guide antiche a partire da quella di Carlo Torre (1674, p. 315), e una seconda volta nell’oratorio di S. Matteo alla Banchetta (tela proveniente dalla pieve di Rogorbella e pagata dalla Fabbrica del duomo di Milano nel 1596; Morassi, 1934-35, p. 115; Arslan, 1960, p. 99).

Accostando i tre dipinti si nota il progressivo allontanarsi dell’artista dai modelli veneti, che sono molto presenti nella prima delle tele, caratterizzata dai riferimenti a Tiziano, e che si fanno meno insistenti nelle altre due, dove l’artista raggiunge un linguaggio pittorico più monumentale e scultoreo, mostrandosi concentrato sulla rappresentazione della figura umana e meno incline all’ambientazione paesaggistica della scena.

È possibile istituire un parallelismo tra queste tre trattazioni del medesimo soggetto e la meditazione di Peterzano intorno a un altro tema a lui caro, che dovette assicurargli una certa fama: la Deposizione di Cristo nel sepolcro. Anche in questo caso sono noti a oggi tre esemplari: il primo, firmato «SIMON PETERZANVS TITIANI DISCIPVLVS» si trova nella chiesa di S. Fedele a Milano, ma proviene dalla cappella della Veronica in S. Maria della Scala; il secondo, spesso giudicato opera di bottega, si trova nella prepositurale di S. Vittore a Varese; il terzo, recentemente apparso sulla scena degli studi, è conservato nella chiesa di S. Giorgio a Bernate (Agosti - Stoppa - Tanzi, 2012, pp. 38 s.). Anche in queste tre opere si assiste al passaggio da modi più liberi e ‘veneteggianti’ a formule accostabili al più schietto romanismo, come nella pala di Bernate, che dovrebbe risalire alla metà degli anni Ottanta (sulla vicenda: Fiorio, 2003, p. 89; Agosti, 2012, pp. 38 s.).

Ancora al 1577 risale il contratto con i fabbricieri di S. Maria presso San Celso, una delle principali fondazioni milanesi, in base al quale l’artista avrebbe dovuto realizzare entro un anno e sei mesi, «assai meglio ch’alcuna altra […] opera fatta […] sin a quest’hora in questa città», le ante dell’organo raffiguranti esternamente la Natività della Vergine, e all’interno lo Sposalizio della Vergine e l’Assunzione (Pevsner, 1928-29, p. 288). Citati dalle guide milanesi fino a Francesco Bartoli (1776, p. 189), i dipinti risultano oggi perduti. Dell’artista sopravvive però nella stessa chiesa una Madonna con Bambino, copia dell’immagine miracolosa che sta all’origine della fondazione della chiesa stessa. Allo stesso momento sembra risalire anche la Pentecoste già in S. Paolo Converso e oggi nella chiesa milanese di Sant’Eufemia (Fiorio, 1989, pp. 62 s.).

L’anno dopo Peterzano firmò l’accordo per quella che si sarebbe rivelata l’impresa di maggior impegno nella sua prolifica carriera: la decorazione del coro della certosa di Garegnano a Milano (Baroni, 1940, p. 174; Baroni, 1968; Gregori, 1973; Fiorio, 2003). I padri certosini vollero stipulare i patti in modo molto dettagliato. Il 31 ottobre 1578 «Simon Petrozanus de Ticiano pictor» si impegnava a dipingere nel catino absidale la Crocifissione al centro e ai lati la Madonna e S. Giovanni Evangelista. Sempre ad affresco Simone avrebbe dovuto eseguire inoltre otto Profeti, otto Sibille, gli Evangelisti e Angeli con i simboli della Passione che circondano l’Eterno nell’oculo della volta. Oltre a questi affreschi, Peterzano decorò le pareti del presbiterio con due grandi scene: l’Adorazione dei Magi sulla parete destra e l’Adorazione dei pastori a sinistra; ancora, eseguì tre dipinti su tela raffiguranti la Resurrezione, la Madonna con Bambino e i ss. Ugo, Ambrogio, Giovanni Battista e Bruno, e l’Ascensione, tutti e tre, questi ultimi, collocati nell’abside e ricordati nel contratto, senza tuttavia che venga specificata la diversa tecnica (Fiorio, 2003, p. 85, ha perciò ipotizzato l’esistenza di un ulteriore contratto, ma nessuna carta è sinora emersa in tal senso). Il tempo di esecuzione previsto dal contratto era di un anno e quattordici mesi. Tutta la decorazione fu ultimata il 3 settembre 1582, quando le opere vennero collaudate da tre degli artisti più in vista di Milano: Vincenzo Seregni, architetto di fiducia dei certosini, i pittori Aurelio Luini e Giovanni Battista Ferrari (Baroni, 1968, p. 17).

Come ha ripetutamente rilevato la critica (su tutti Baroni, 1944; Gregori, 1973; Baccheschi - Calvesi, 1978; Fiorio, 2003), gli affreschi di Garegnano costituiscono uno snodo interessantissimo e una sorta di punto di non ritorno all’interno del percorso stilistico di Peterzano. Se nelle scene più narrative, come quelle realizzate ai lati del presbiterio, ricorrono ancora soluzioni paesaggistiche più libere, dalla cromia accesa e vivace, nel resto dei dipinti di Garegnano, il tono accostante e la freschezza immediata – apprezzabile anche in altre opere quali gli affreschi di S. Maurizio e le tele in S. Barnaba – nel resto dei dipinti si raggela per lasciare il posto a soluzioni tardomanieriste e romaniste desunte dalla pittura della bottega dei Campi, di Aurelio Luini e di Giovanni Ambrogio Figino. Peterzano sembra infatti adeguarsi principalmente ai modelli che circolavano tra gli artisti milanesi controriformati e accordare il proprio passo alle nuove esigenze che Carlo Borromeo, soltanto pochi mesi prima che il pittore firmasse il contratto con i certosini, aveva ampiamente delucidato nelle Instructiones Fabricae et Suppellectiles Ecclesiasticae pubblicate nel 1577, ed evidentemente immediatamente recepite dai certosini, che ne fanno esplicita menzione nel contratto, e dal loro pittore.

A proposito delle fonti figurative dell’artista è possibile notare come la Resurrezione presenti nella zona inferiore derivazioni piuttosto puntuali dalla celebre Conversione di s. Paolo di Taddeo Zuccari in S. Marcello al Corso a Roma. Un viaggio alla volta della città eterna era stato in passato ipotizzato dalla critica, che lo fissava al periodo tra il 1585 e il 1590, quando sembravano assenti documenti milanesi sull’artista (Calvesi, 1954, p. 115 e Id., 1971, pp. 125-127), ma in seguito è stato decisamente smentito (Berra, 2005, pp. 210 s. e Id., 2009, pp. 37 s.). Al solo artista (Calvesi, 1954, p. 115, per primo, e poi Dell’Acqua, 1957, p. 719), con l’aiuto di Caravaggio (Calvesi, 1971, pp. 125-127; Baccheschi - Calvesi, 1978, p. 532; Calvesi, 2011a, 2011b), o addirittura al solo Caravaggio (Strinati, 2011), è stata accostata la tavola con la Flagellazione in S. Prassede a Roma, unica eventuale traccia di un suo viaggio nell’Urbe, attribuzione che a ogni modo appare insostenibile poiché incongrua con il resto del suo catalogo (numerose le voci discordanti, per le quali si veda l’elenco stilato da Calvesi, 2011b, pp. 103 s., e inoltre Fiorio, 2003, p. 50). È ormai assodato che nel 1587 Peterzano fu chiamato a intervenire nella Madonna del Rosario di Frassineto Po iniziata da Pellegrino Tibaldi (Natale, 1988), una circostanza che documenta la presenza di Peterzano al Nord, almeno a questa altezza cronologica, e il suo inserimento nell’entourage della pittura milanese più vicina ai gusti di Carlo Borromeo, futuro santo. Anche volendo ipotizzare che Peterzano si fosse recato a Roma per breve tempo, il soggiorno romano andrebbe comunque immaginato dopo l’impresa di Garegnano (prima di quella data egli è fittamente documentato a Milano) e prima del 1587. Va quindi ricercata un’altra via attraverso la quale Peterzano poté conoscere le novità artistiche capitoline, forse individuabile nella circolazione di stampe e incisioni.

A Garegnano, per esplicita volontà contrattuale, Peterzano poté servirsi di due aiuti. La bottega del pittore andava dunque accrescendosi insieme alla sua fama, documentata anche da un ingaggio per il collaudo dei dipinti di Valerio Profondavalle (il pittore fiammingo Valerius Diependale) nel palazzo ducale di Milano (oggi perduti), che l’artista, in qualità di pittore tra i più illustri della città, fu chiamato a stimare insieme ad Aurelio Luini e ad Alessandro Pobbia nel 1585 (Morassi, 1934-35, pp. 103 s.). All’epoca era ormai incluso nella squadra di Peterzano il giovanissimo Caravaggio. Risale infatti al 6 aprile 1584 il contratto in base al quale Michelangelo Merisi, fanciullo di dodici anni o poco più, entrava come apprendista nella famiglia di Simone che, in cambio di ventiquattro scudi d’oro l’anno, si impegnava a fornirgli vitto e alloggio per quattro anni e a insegnargli il mestiere di pittore in modo che egli fosse poi in grado di esercitare autonomamente la professione (Pevsner, 1927-28). Da documenti rinvenuti in seguito possiamo stabilire che Merisi rimase nella bottega di Peterzano per tutto il periodo concordato (è ritornato più volte sul tema Giacomo Berra, da ultimo nel 2011).

Il rapporto di Peterzano con Caravaggio, acclarato fin dagli anni Venti del secolo scorso, ha certamente contribuito alla fortuna moderna di Simone, la cui figura è stata più volte indagata nel tentativo di comprendere i lasciti nei confronti della pittura di Merisi (a partire da Pevsner, 1927-28; Longhi, 1928-29; Calvesi, 1954). Dal punto di vista della dipendenza da modelli di Peterzano in senso stretto, i ricordi più vicini sono stati giustamente individuati nel ciclo di Garegnano (Gregori, 1973, p. 17; Fiorio, 1974, pp. 96 s., figg. 21-22) – in particolare nelle Sibille e negli Evangelisti, modello rispettivamente per il Bacchino malato della Galleria Borghese e per la prima versione del S. Matteo e l’angelo nella cappella Contarelli – e nella Deposizione di S. Fedele, da cui Caravaggio desunse la posa drammatica del braccio di Cristo nella tela di analogo soggetto oggi alla Pinacoteca Vaticana. Molto significativa pare dunque la presenza, tra i precedenti della pittura di Merisi, della tela di Peterzano alla storica esposizione The age of Caravaggio, che consacrò la fortuna americana dell’artista (Fiorio, 1985) e immise per la prima volta lo stesso Peterzano in un circuito di studi internazionale (per un aggiornamento bibliografico sul problema si vedano ora le schede delle opere di Peterzano presenti alla mostra Gli occhi di Caravaggio…, 2011, pp. 160-173).

Nel tentativo di sviscerare il complesso problema della giovinezza di Merisi, la critica ha poi rivolto la sua attenzione al cosiddetto Fondo Peterzano, un importante nucleo di disegni, conservato al Civico Gabinetto dei disegni del Castello Sforzesco di Milano, che raccoglie la produzione grafica dell’artista, e nel quale si è tentato di rintracciare le tracce del passaggio di Caravaggio nella bottega del pittore.

Per comprendere i termini della questione è bene interrogarsi sulla provenienza del Fondo. Nel 1924 le Civiche Raccolte d’arte di Milano acquistarono due volumi rilegati presumibilmente alla fine del Seicento (un totale di 2611 fogli), di proprietà della fabbriceria di S. Maria presso S. Celso, l’importante santuario milanese per il quale aveva lavorato lo stesso Peterzano (Dallai, in Simone Peterzano..., 2012). Questi due volumi in formato ‘stragrande’ sono stati molto verosimilmente identificati con quelli appartenuti allo scultore milanese Annibale Fontana (1540-87). Essi comprendevano disegni dello stesso Fontana e di artisti suoi contemporanei e probabilmente amici, forse successivamente utilizzati come materiale didattico per l’Accademia di S. Luca che aveva sede di fronte al santuario (Dallai, in Simone Peterzano..., 2012, p. 37). Tali volumi, una volta confluiti presso le Civiche Raccolte d’arte, furono smontati per volontà dell’allora direttore Giorgio Nicodemi. Il nome di Simone Peterzano non apparve tra gli artisti individuati in quella occasione, ma emerse invece nel 1943 (ibid., p. 39), quando, a seguito degli studi di Costantino Baroni, gli furono assegnati un numero consistente di fogli. Entro la metà degli anni Cinquanta del Novecento, infatti, esistevano presso il Gabinetto un preciso inventario e una campagna fotografica che riguardavano 1270 fogli classificati come provenienti dalla bottega di Peterzano (sulla vicenda si veda ora Rossi, in Simone Peterzano..., 2012, pp. 16 s.). Gli studi successivi hanno comunque notevolmente circoscritto il nucleo dei disegni realmente riferibili a Peterzano e alla sua bottega (per Bora, 2004, p. 24, circa duecento, per Gnaccolini, 2009, p. 179, circa seicento). La catalogazione del fondo, appena ultimata dal Museo in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma Tre, ha portato all’individuazione di circa quattrocento fogli ascrivibili a Peterzano e al suo entourage (Rossi, in corso di stampa). Tra gli allievi non si riesce però a individuare la mano di Caravaggio, come invece ha tentato di provare, con toni clamorosi e accenti roboanti, un’esigua minoranza della critica più recente (Giovane Caravaggio..., 2012), la quale, a fronte della giusta prudenza di alcuni studiosi (Bora, 2002; Bober, in Simone Peterzano..., 2012), ha preteso che cento dei fogli suddetti appartenessero alla mano di Merisi.

Al di là del problema Caravaggio, Peterzano si rivela comunque in queste prove un abile ed esperto disegnatore, ed è stato possibile nel tempo rintracciare anche un buon numero di studi preparatori per dipinti noti, che costituiscono una fonte preziosa per seguire l’iter ideativo del maestro (la prima a occuparsi sistematicamente del Fondo fu Maria Teresa Franco Fiorio nel 1974; si consultino, dopo Fiorio, Bora, 2002, e Gnaccolini, 2009, e ora, per un’aggiornata sintesi, il catalogo della mostra Simone Peterzano..., 2012).

Negli anni Ottanta del Cinquecento, a ridosso e contemporaneamente al ciclo di Garegnano, Peterzano eseguiva l’Assunzione della Vergine collocata nella sesta cappella a sinistra della chiesa milanese di S. Maria della Passione, in seguito al lascito testamentario di Maffeo II Pirovano scomparso nel 1580 (Baroni, 1940, pp. 179, 187).

Allo stesso periodo sembra rimontare anche la bellissima Natività con s. Antonio da Padova, un Santo papa e un Santo vescovo della chiesa pavese di S. Maria di Canepanova (già nota a Longhi, 1928-29, ed. 1968, p. 131).

Caravaggio era uscito solo da pochi mesi dalla bottega di Peterzano (ma poteva esservi rimasto come collaboratore: Berra, 2009, p. 38) quando questi ricevette la commissione per il dipinto che raffigura la Madonna con Bambino e i ss. Francesco e Margherita per la chiesa di S. Vito al Pasquirolo, oggi parte della Quadreria dell’Arcivescovado di Milano, il cui contratto venne siglato con Cesare Rusca, priore della Confraternita del Ss. Sacramento, il 26 settembre 1589. Il denaro per la costruzione e la decorazione di una cappella all’interno della chiesa proveniva da Cesare Bossi, secondo un testamento stilato otto anni prima. La scelta del pittore dovette dunque essere attribuibile a Rusca. Bossi tuttavia aveva espressamente stabilito l’iconografia della pala: «una Madona con il Figliolo in brazo, et da una parte Santo Francesco et dall’altra Santa Margarita in piedi, et la Madona asentada sopra una sedia eminente con li gradi convenienti» (Montagna, 1963). L’incorniciatura fu commissionata al celebre intagliatore Virgilio del Conte nel febbraio del 1590 e indorata pochi mesi dopo da Giannantonio Monza (ibid.). All’epoca il dipinto era molto probabilmente terminato, e vi è chi ha immaginato che Caravaggio, residente nel 1591 nella stessa parrocchia, abbia potuto mettervi mano (Berra, 2005 e 2009). L’impaginazione della pala, con la Madonna in posizione eminente e i due santi disposti ordinatamente ai lati era stata comunque già sperimentata da Peterzano nelle tele di Garegnano e costituisce una costante delle Sacre Famiglie dell’artista, che qui si elencano in un possibile ordine cronologico: la Madonna con Bambino e ss. Sebastiano, Francesco, Rocco e Giuseppe della chiesa delle agostiniane di Como, proveniente dal convento di S. Bonaventura (databile al principio del nono decennio del XVI secolo); la Madonna con Bambino e le ss. Chiara, Radegonda e Caterina d’Alessandria, ora nella chiesa di S. Maria della Passione, ma proveniente dal convento di S. Radegonda, databile intorno alla seconda metà del nono decennio del Cinquecento (Baccheschi - Calvesi, 1978, p. 533; per i disegni preparatori: Bora, 1981, pp. 120, 127); la Madonna del Latte con i ss. Pietro Paolo, Giuseppe, Elisabetta e s. Giovannino, degli stessi anni, nella chiesa barnabita di S. Maria del Carrobbiolo a Monza (segnalata per primo da Bora, 1981, p. 127, quindi studiata da Frangi, 1993, insieme all’altra tela peterzaniana, la Gloria di Ognissanti, ora in sagrestia, ma proveniente dalla medesima cappella); il S. Ambrogio fra i ss. Gervasio e Protasio, realizzato da Peterzano per l’altare di S. Ambrogio nel duomo di Milano tra il 1592 e il 1594 e ora alla Pinacoteca Ambrosiana (per i documenti: Morassi, 1934-35, p. 104; Arslan, 1960, p. 98; Valsecchi, 1971, pp. 178 e 183; Baccheschi - Calvesi, 1978, p. 475).

Tra la fine del nono e l’inizio dell’ultimo decennio del XVI secolo si colloca inoltre il Battesimo di Cristo, ora nella chiesa di S. Carlo al Corso di Milano, ma proveniente dalla distrutta S. Maria dei Servi.

La tela è esemplare della fortuna critica di Peterzano. Essa era infatti nota alla letteratura ottocentesca come opera dei fratelli Campi (Borroni, 1808), per poi essere attribuita a Peterzano da Roberto Longhi (1928-29, p. 312) che vi leggeva riferimenti precisi ad Antonio Campi, ma anche alla cultura figurativa del Cinquecento bergamasco e bresciano tra Giovan Battista Moroni e Alessandro Bonvicino, detto il Moretto. In questo senso lo studioso non collocava il dipinto troppo avanti nel percorso di Peterzano, pensandolo comunque eseguito nei primi anni del nono decennio del Cinquecento, così come Baroni (1944, p. 305) e più recentemente Bandera (1994, p. 170), che collegava stilisticamente il dipinto all’Orazione nell’Orto dell’Arcivescovado di Milano, eseguita su modello di quella di Antonio Campi nella stessa sede. La lettura dell’opera di Peterzano proposta da Calvesi (1954, p. 121) inserisce invece il dipinto nella produzione degli anni Novanta, a causa della gamma cromatica raggelata e della stesura smaltata e controllata, un’opinione che pare più condivisibile e che consente di annoverare il dipinto tra i capolavori tardi dell’artista.

L’ultima impresa impegnativa affrontata dal maestro furono gli affreschi della cappella di S. Antonio per la chiesa di S. Angelo (Calvesi, 1954). L’artista era già intervenuto nella chiesa alla fine dell’ottavo decennio del Cinquecento, licenziando per la cappella del transetto destro, dedicata alla Sacra Famiglia e a s. Caterina – per volontà di Francesco Besozzo, che a tal fine lasciò un legato nel 1579 –, il bellissimo Sposalizio mistico di s. Caterina, ora in sagrestia (Santagostino, 1671, 1980). Per la cappella di S. Antonio, che una lapide del 1591 attesta eretta e decorata da Cesare Fossati (Mosconi - Olgiati, 1962), Peterzano eseguì l’intera decorazione a fresco con Storie della vita del Santo; Profeti; Angeli con simboli della Passione e Padri della Chiesa, incorniciati da notevoli stucchi parzialmente dorati. È interessante notare come in questi dipinti l’artista confermi il proprio stile ormai attestato su rigide soluzioni romaniste, lasciando largo spazio agli aiuti. Mani diverse da quella del maestro emergono in particolare dallo studio di alcuni fogli e disegni preparatori conservati nel già ricordato Fondo Peterzano (Simone Peterzano…, 2012, pp. 108 s., p. 124), alcuni già pubblicati (Calvesi, 1954), altri segnalati da Edi Baccheschi (in Baccheschi - Calvesi, 1978, p. 528).

Peterzano lavorò fino a pochi anni prima della morte per la prestigiosa Fabbrica del duomo di Milano, come documentano i pagamenti per le già ricordate pale di S. Ambrogio, collaudata nel 1594, e Annunciazione ora nell’oratorio di S. Matteo alla Banchetta, saldata nel 1596.

Morì il 6 novembre 1599 nella parrocchia di S. Giorgio al Pozzo Bianco a Milano, dove risiedeva: «Ex febre acuta vel epilepsia (…) sine pestis suspicione», come attesta l’atto di morte (Miller, 2002, p. 158 nota 3).

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