MARTINEZ, Simone

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 71 (2008)

MARTINEZ, Simone

Tommaso Manfredi

– Nacque a Messina il 28 ott. 1689 da Francesco, argentiere, e da Natalizia Juvarra, sorella dell’architetto Filippo e dello scultore in argento Francesco Natale, che a quel tempo dirigeva la bottega di argentiere ereditata dal padre Pietro (Molonia, 2005). Qui dall’età di sette anni, dopo la morte del padre, il M. ebbe la sua prima formazione come scultore in terracotta e in argento, a stretto contatto con lo zio Filippo che, dopo l’iniziale apprendistato come argentiere, si era rivolto allo studio della pittura e dell’architettura.

Tramite l’ambito familiare dei due fratelli Juvarra e di alcuni loro amici e collaboratori, come il pittore Antonio Filocamo, perfezionatosi a Roma, il M. fu educato a una concezione pluridisciplinare dell’arte figurativa aggiornata rispetto ai canoni romani del disegno, grazie alla mediazione di Paolo Filocamo, fratello di Antonio, e dello stesso Filippo Juvarra, presenti a Roma, rispettivamente dal 1703 e dal 1704. In questo senso il ritorno di Juvarra a Messina tra la metà del 1705 e l’inizio del 1706 fu determinante nella crescita artistica e nelle ambizioni del M., che seguì lo zio a Roma con l’obiettivo di confrontarsi, primo della famiglia, con l’insegnamento ufficiale della scultura presso l’Accademia di S. Luca (Manfredi, I Martinez a Roma, 2005, testo cui far riferimento, se non altrimenti specificato, per l’attività romana del M.; mentre per quella torinese si veda Dardanello, S. M. e lo studio di scultura a Torino, 2005). Dall’appartamento del doratore concittadino Giacomo Passalacqua, al terzo piano di una casa appartenente ai Borghese in via dei Leutari, dove abitò fino al 1713 e che aveva già accolto Antonio e Paolo Filocamo, il M. condivise le vicende della folta comunità messinese insediatasi nella città pontificia a seguito della repressione spagnola del 1678 e della crisi economica successiva al terremoto del 1693, accanto allo zio Filippo e al concittadino Giovanni Francesco Pellegrini, ingegnere teatrale del cardinale Pietro Ottoboni, conosciuto a Messina nel 1702.

Nell’Accademia di S. Luca, essendo già munito di una solida formazione di base, il M. esordì direttamente nella seconda classe del concorso clementino di scultura del 1706, che richiedeva l’esecuzione di un bassorilievo in terracotta sul soggetto della Sepoltura dei Curiazi, ottenendo il primo premio (ex aequo con il romano Carlo Monaldi) il 5 maggio 1707.

L’opera del M. dimostra tanto l’influenza della tecnica esecutiva di Francesco Natale Juvarra, specializzato proprio nella realizzazione di bassorilievi, quanto dell’ariosa composizione scenografica di Filippo, particolarmente riguardo all’ambientazione prospettica degli elementi architettonici del sepolcro e della piramide-obelisco ricorrenti nei suoi coevi disegni a carattere antiquario. Al contempo essa segnava la prima affermazione ufficiale a Roma di questa particolare accezione pluridisciplinare della scuola di scultura messinese ribadita dal contemporaneo successo di Paolo Filocamo e di Pietro Passalacqua, giovane studente in architettura figlio di Giacomo, premiati nel concorso clementino dello stesso anno rispettivamente, con il secondo posto nella prima classe di pittura e con il primo nella terza classe di architettura. Insieme con gli stessi Filocamo e Passalacqua, il M. formava peraltro un cenacolo, che si nutriva indirettamente dell’indagine critica condotta sull’arte e sull’architettura romana da Filippo Juvarra.

Sempre più introdotto nell’ambiente artistico romano e in quello dell’Accademia di S. Luca, dove grazie allo zio Filippo (nominato insegnante del corso di architettura civile il 26 apr. 1707), probabilmente frequentò gli scultori Pierre Legros e Lorenzo Ottoni, il M. coronò la sua formazione con la vittoria nella prima classe di scultura del successivo concorso clementino assegnatagli (ex aequo con Agostino Masucci) il 19 apr. 1708, per un bassorilievo sul soggetto di Accio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco (ubicazione ignota). Benché evidentemente fosse stato riconosciuto il suo talento nella modellazione plastica in senso generale, la figura professionale del M. coincideva ancora soprattutto con quella specifica di «scultore in argento», come risulta dai censimenti parrocchiali nei quali era definito «argentiere» o «orafo».

Nel 1710 sposò la figlia quattordicenne di Giacomo Passalacqua, Giovanna (Manfredi, 1989 e 2000). A questa data era già avvenuto l’ingresso dello zio Filippo al servizio del cardinale Pietro Ottoboni come scenografo teatrale (nell’estate del 1709) e il suo conseguente trasferimento da via dei Leutari in un appartamento del palazzo Ornani in piazza Navona destinato da Ottoboni a ospitare parte della sua corte, insieme con l’«ingegnere» Pellegrini (Id., 1995). L’arrivo in tale appartamento, tra la primavera del 1712 e quella del 1714, dei familiari di Juvarra dalla Sicilia, compreso il fratello Francesco Natale, coincise con il trasferimento del M. a Messina con la moglie Giovanna e il figlio Francesco (la primogenita Anna, nata nel 1711, era morta infante), probabilmente per rilevare la conduzione della bottega degli Juvarra (Id., 2005, p. 160).

Raggiunto a Messina alla metà di luglio del 1714 da Filippo Juvarra e da Pietro Passalacqua il M. poté assistere al prologo dell’ingaggio dello zio da parte del nuovo re di Sicilia Vittorio Amedeo II di Savoia e alla sua partenza per Torino alla fine di agosto, probabilmente insieme con lo stesso Passalacqua. Seguì la nascita del suo terzo figlio, che fu chiamato Filippo in onore dello zio e che morì poco dopo il battesimo avvenuto il 22 sett. 1714 (ibid.).

La permanenza nella città natale, documentata per l’ultima volta il 18 luglio 1716 (data del battesimo del figlio Carmine, anch’esso morto infante: ibid.) e priva di riscontri di carattere artistico, si rivelò solo un intermezzo nella vita professionale del M., giacché il 25 nov. 1717 come «lavorante in Roma da molti anni» ebbe facoltà di presentare la «prova» per l’aggregazione all’università degli orefici, che gli consentì di conseguire la patente di argentiere il 30 genn. 1718 (Bulgari). Così a partire da quell’anno egli poté aprire una bottega con l’insegna della Madonna di Loreto in via del Pellegrino, andando ad abitare nell’appartamento soprastante.

Nonostante la perdurante assenza di notizie sulla sua attività artistica, il fatto che nel 1721 il M. fosse stato nominato terzo console dell’università degli orefici ne attestava un notevole prestigio presso i colleghi romani (ibid.). Una prima prova di ciò è costituita da un contratto stipulato dal M. il 5 nov. 1722 con i padri camilliani di S. Maria Maddalena, per l’esecuzione del perduto paliotto d’argento dell’altare maggiore della loro chiesa con scene della Festa nella casa di Simone il fariseo, ultimato nel 1725 (Mortari; Montagu, 1996, p. 241 n. 109), e, forse, del grande ostensorio in bronzo dorato e pietre conservato nella stessa chiesa, attribuitogli su base stilistica (Dardanello, 2005, p. 200).

L’appartenenza al ristretto circolo artistico dei fratelli Juvarra consentì al M. di godere della loro rete di protettori e committenti. In questo contesto si collocavano alcuni consistenti lavori di argenteria saldatigli dalla corte pontificia nel 1726-27 (Bulgari) e la costituzione come suo garante di Francesco Natale in occasione di alcune commesse ricevute dalla rappresentanza diplomatica a Roma della corte portoghese di Giovanni V di Braganza (Manfredi, 2005, p. 193). Nel frattempo le potenzialità della sua bottega familiare andavano accrescendosi anche grazie all’apporto dei figli Francesco e Giacomo (nato a Roma nel 1718), nonché dei nipoti Andrea e Francesco, figli del fratello Antonio, che lo avevano raggiunto a Roma da Messina, rispettivamente, nel 1722-23 e nel 1729-30 (Id., 2001 e 2005, p. 194).

Nel 1730, quando la sua presenza è registrata per l’ultima volta in via del Pellegrino, prima del trasferimento nella vicina parrocchia di S. Biagio della Pagnotta, il nucleo familiare del M. era composto, oltre che da lui, dalla moglie Giovanna, dalla madre Natalizia, dalla sorella Antonia, dai figli Francesco, Giacomo, Francesca, Filippo (nato a Roma nel 1721), Maria e Anna Maria, dai nipoti Andrea e Francesco e dal «fattore» Pompeo d’Alatri (Roma, Arch. stor. del Vicariato, S. Lorenzo in Damaso, Stati delle anime, 1730, c. 19).

Fu nuovamente grazie all’influenza dello zio Filippo, presente a Roma dalla metà di febbraio alla fine di agosto del 1732, che il M. poté entrare a far parte del gruppo di scultori coinvolti nella grande commessa delle cinquantotto statue in marmo destinate a ornare la basilica di Nostra Signora e S. Antonio di Mafra voluta dal re Giovanni V di Portogallo e seguita a Roma dal suo ambasciatore fra José Maria de Fonseca d’Evora e a Lisbona da José Correia de Abreu, funzionario della segreteria di Stato (Montagu, 1995; Vale), tutti personaggi noti a Juvarra.

Il M. realizzò la statua di S. Tommaso d’Aquino (alta m 2,5 circa) posta nella cappella delle Sante Vergini che, pur mostrando l’inevitabile influenza della tradizione più aulica rappresentata dalla serie degli apostoli nella basilica lateranense e in particolare delle statue di C. Rusconi e di Legros, se ne distingueva per la più sottile ricercatezza del modellato superficiale e per la minore enfasi della posa concentrata soprattutto nell’espressiva protensione del braccio destro: peculiarità, in parte riconducibili alla sua prima formazione di argentiere che ormai legittimavano il suo accesso nella prima fascia degli scultori in marmo operanti a Roma. Anche se come «scultore in argento» continuava a ricevere importanti incarichi come quello di esecutore, al posto del collega Ludovico Barchi, della serie dei «piatti di s. Giovanni», che in base alle volontà testamentarie del cardinale Lazzaro Pallavicini ogni anno era donata dalla sua famiglia ai granduchi de’ Medici in occasione della festa di S. Giovanni Battista, patrono di Firenze (Montagu, 1996, pp. 96, 113 s., figg. 178 s.; Manfredi, 2005, pp. 195-197). Nei piatti in argento sbalzato donati nel 1732 e nel 1734 da Nicolò Pallavicini al granduca Gian Gastone de’ Medici, rispettivamente con soggetto Papa Leone X che ordina la costruzione della Santa Casa di Loreto e Papa Pio IV che ordina la costruzione del porto di Complì il M. aggiunse al motivo centrale, ideato dal pittore C. Chiari, un’articolata decorazione del bordo per la prima volta connotata da una certa autonomia formale che lo affrancò dal ruolo di semplice esecutore, nel primo caso con le quattro Virtù cardinali alternate alle armi Medici e Pallavicini e nel secondo con una omogenea alternanza di stemmi e simboli araldici.

Il definitivo salto di qualità professionale come scultore in marmi coincise con la commessa dell’apparato decorativo dell’altare di S. Giuseppe nella chiesa di S. Teresa a Torino, affidatagli direttamente a Roma nel 1732 da Juvarra, incaricato della progettazione dell’opera dalla regina di Sardegna Polissena Giustina d’Assia-Rheinfels Savoia, grazie alla quale egli entrava nell’élite degli scultori attivi per i Savoia a Roma, composta da Legros, Giovanni Baratta, Bernardino Cametti e Agostino Cornacchini (Dardanello, 1989 e 2005, pp. 200-210; Gritella, 1992; Manfredi, 2005, pp. 196, 198).

Il 6 dic. 1733 il gruppo centrale con S. Giuseppe e il Bambino doveva essere pressoché ultimato, giacché in quella data il cardinale Alessandro Albani, protettore del Regno di Sardegna presso la corte pontificia, si dichiarava pronto ad adoperarsi «perché lo scultore Simon Martines possa spedire la nota statua di S. Gioseppe» (Baudi di Vesme, p. 658). Attraverso la riuscita combinazione del sofisticato modellato dei volti peculiare dell’argentiere, del diffuso e preciso contrappunto chiaroscurale dei panneggi e del controllato equilibrio dei riflessi, l’opera mostrava una sua identità originale rispetto al sintetismo allora in voga tra i più giovani scultori attivi a Roma.

Il S. Giuseppe e il S. Tommaso per Mafra, ultimato quasi contemporaneamente, attrassero l’attenzione sul M. perfino da parte di un personaggio notoriamente poco vicino a Juvarra e ai suoi protetti come Alessandro Galilei, che lo coinvolse nei suoi due grandi cantieri: la nuova facciata della chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini e la cappella Corsini nella basilica di S. Giovanni in Laterano.

Per la facciata di S. Giovanni dei Fiorentini, tra il 1734 e il 1735, il M. eseguì la statua di S. Pietro Igneo (Moschini), che per la sua collocazione sulla balaustra del corpo laterale sinistro, presenta tratti fortemente chiaroscurali e accentuati espressivamente in funzione della vista da sotto in su. Per la cappella Corsini nel 1734 fu uno degli artefici delle decorazioni di contorno in stucco con la collaborazione del figlio Francesco, a nome del quale come «scultore di statue di stucco» risultano pagamenti per le due Beatitudini in marcato altorilievo poste ai lati della finestra della parete sinistra, sopra la statua di Clemente XII, connotate da una nuova sensibilità per l’ariosità delle pose e la resa plastica del drappeggio, nonché per i modelli delle teste di cherubino e dei due angeli reggenti lo stemma dei Corsini che ornano la cancellata (Carafa; Manfredi, 2005, p. 197; Dardanello, 2005, pp. 199 s.). Questi ultimi furono saldati a Francesco per conto del M., sotto il cui nome risulta solo un pagamento diretto, nell’agosto 1734, per i bassorilievi del coretto di S. Andrea Corsini, a dimostrazione dell’apporto significativo svolto dal figlio nella produzione, e forse anche nelle scelte estetiche, della bottega di famiglia.

Il 22 genn. 1736 il M. partì da Roma per trasportare e porre in opera a Torino il gruppo del S. Giuseppe. L’esecuzione delle opere scultoree di contorno aveva subito un’interruzione probabilmente a causa della morte della regina Polissena, avvenuta il 13 genn. 1735, e del successivo cambiamento del progetto dell’altare da parte di Juvarra che investiva anche l’apparato scultoreo. Il progetto è documentato da un disegno per le pareti laterali datato 8 febbr. 1735, poco prima della partenza dello zio per Madrid, dove morì il 31 genn. 1736 senza aver potuto vedere l’opera finita. Questa comunque ottenne il gradimento di Carlo Emanuele III, il quale il 22 marzo seguente nominò il M. regio «scultore in marmi», esaudendo probabilmente un desiderio del suo defunto architetto.

Il 10 apr. 1736 a Torino stipulò il contratto per il completamento dell’apparato scultoreo dell’altare di S. Giuseppe riguardante soprattutto il coronamento, per la spesa complessiva di 9100 lire. Si trattava dell’esecuzione delle statue della Carità, con due putti, e della Fede, con un putto, in marmo di Carrara, nonché di «due altri putti, ò sian Angeli dello stesso marmo pel frontespicio interno di detto Altare con sei Teste di Cherubini, e nuvole di simil marmo, adornate esse nuvole di raggi di legno dorati» (Tamburini; Dardanello, 2005, p. 206), aggiunti nella seconda versione del progetto juvarriano, che nelle spettacolari soluzioni di retroilluminazione si confrontava con l’altare berniniano di S. Teresa in S. Maria della Vittoria attraverso la mediazione delle sperimentazioni prospettiche di Andrea Pozzo, al quale si accordava sostanzialmente un disegno esecutivo dello stesso M. allegato al contratto. Tali opere, secondo gli accordi contrattuali, venivano eseguite nella sua bottega romana, che continuava a produrre anche argenterie: il suo bollo è stato rilevato infatti in un reliquiario datato 1736 nella chiesa di S. Chiara in Assisi (Bulgari); e nella seconda metà del 1737 il figlio Francesco, che condivideva con il M. l’attività di argentiere, fu retribuito per l’esecuzione di «ornati d’ottone» nella confessione di S. Lorenzo in Damaso trasformata da Domenico Gregorini e Pietro Passalacqua per conto del cardinale Ottoboni (Schiavo). Francesco dovette svolgere tale attività anche una volta giunto a Torino, visto che il padre se ne fece garante, nel 1743, nell’atto della sua aggregazione tra i mastri orafi e argentieri (Bargoni).

Frattanto il M. andava predisponendo il suo definitivo trasferimento a Torino, rinunciando anche alla carica di sindaco dell’università degli orefici assegnatagli il 21 giugno 1737, perché in procinto di assentarsi da Roma per molti anni al servizio del re di Sardegna (Bulgari).

Il trasporto a Torino del restante apparato per l’altare di S. Giuseppe avvenne entro il mese di marzo del 1738. Il 22 aprile il M. ricevette il saldo dell’importo complessivo di 7645 lire, benché i lavori di finitura, compresa la messa in opera dei piccoli gruppi di cherubini eseguiti a Torino, proseguissero per tutta la primavera. Il 12 giugno 1738 Carlo Emanuele, ratificandone la nomina a scultore regio, lo pose a capo del nuovo regio studio di scultura, con l’incarico di sovrintendere alla produzione degli apparati scultorei di commissione reale, all’approvigionamento dei marmi e alla formazione dei «giovani», assegnandogli uno stipendio annuo di 3000 lire (più 500 per la manutenzione degli attrezzi) e un rimborso straordinario di 1000 lire per le spese affrontate per trasferire la famiglia da Roma a Torino (Baudi di Vesme, pp. 658 s.).

Il M. strutturò il regio studio di scultura come una estensione della sua bottega familiare, con una prevalente attività di équipe che impedì ai numerosi collaboratori di emergere come singole personalità artistiche. Tra questi i figli Francesco e Giacomo documentati tra i «giovani e lavoranti», rispettivamente dal 1739 e dal 1740 (ibid., p. 659), i collaboratori romani Ceccardo Valli e Bartolomeo Solari, il parente Antonio Martinez, che rimase per quasi quarant’anni nel ruolo di «giovane» all’interno dello studio (ibid., pp. 656, 659) e, ancora, Giuseppe Plura. D’altra parte questo sistema di conduzione familiare conferì alla produzione dello studio una qualità omogenea che secondo quanto probabilmente aveva prefigurato lo stesso Juvarra consentì di liberare i Savoia dalla dipendenza verso commesse esterne.

In questo contesto l’attività dominante dello studio di scultura riguardò l’esecuzione di ogni tipo di sculture ed elementi decorativi in marmo per la Regia Galleria, ovvero la Galleria della regina poi nota come Galleria del Beaumont. In particolare dal 1741 il M. curò la modellazione in marmo bianco di Valdieri delle quattro statue delle Stagioni (1741) e quella degli altrettanti rilievi allegorici dei Quattro Elementi (1739-41) trasposti fedelmente dai modelli in stucco conservati nella villa d’Agliè a Torino (Dardanello, 2005, pp. 215-222).

Le sole opere riconducibili alla diretta cura del M. presenti nella Galleria sono le sei tavole in bardiglio di Valdieri sostenute da coppie di putti, messe in opera nel 1754, illustrate nell’album di disegni composto dall’architetto regio Benedetto Alfieri nel 1763 (ibid., pp. 222, 225). Invece le opere principali, che riflettevano l’iniziale programma edonistico di celebrazione del regno di Carlo Emanuele III come età dell’oro, non vi trovarono posto, sostituite dopo la metà del secolo dal ciclo delle statue e dei rilievi antichizzanti disegnato e scolpito dai fratelli Ignazio e Filippo Collino. I rilievi dopo essere transitati al castello di Rivoli, furono reimpiegati nella sala del trono della regina in palazzo reale; le statue furono collocate prima nella venaria reale, nella nuova manica interposta tra la reggia e la cappella di S. Uberto, poi, intorno al 1810, nell’attuale sede nei giardini reali (Cornaglia, 1992 e 1994). Se nei rilievi si può riscontrare una precisa continuità con l’aggraziato e antiretorico figurativismo mostrato a Roma negli stucchi per la cappella Corsini, nelle statue è denotato chiaramente il tentativo da parte dei Martinez di superare definitivamente l’eredità del classicismo romano a vantaggio di un diffuso senso di naturalezza consono al soggetto e particolarmente congruente al virtuosismo dimostrato nel vibrato trattamento delle superfici e nella dinamica postura delle figure nello spazio, frutto combinato della maturazione di un percorso creativo originale e della percezione dialettica degli influssi del rococò francese che permeavano l’ambiente torinese.

L’ultima grande impresa dello studio di scultura condotta sotto la direzione del M. fu la fontana dei Tritoni nei giardini reali, eseguita entro il 1758 in base a un «modello in grande» presentato nel settembre 1753 a Carlo Emanule III e collocato provvisoriamente sul sito nel luglio 1757 (Dardanello, 2005, pp. 222-226).

Scontando forse l’eredità formale del progetto elaborato fin dal 1749 del regio «scultore in bronzi» Francesco Ladatte, presentato in due modelli al re senza successo l’anno seguente, il M. non riuscì a controllare la grande scala della composizione incentrata sulla distesa gestualità della Nereide generatrice del movimento reclinante all’indietro dei due Tritoni, trovandosi privato della possibilità di dispiegare le sue peculiari doti di raffinato cesellatore di contrappunti nelle larghe abbozzature dei corpi e degli elementi naturalistici, risultanti come masse interdipendenti e troppo subordinate agli effetti dinamici dei giochi d’acqua, attivati dal «macchinista» Francesco Matthej nel 1763 e oggi non più in uso.

Al di là di queste opere emergenti l’attività dello studio di scultura diretto dal M. per commesse statali a Torino e nel territorio piemontese non è registrata nei documenti, con alcune eccezioni come il tronetto e il tabernacolo dell’altare maggiore della chiesa di S. Maria al Monte dei cappuccini, eseguiti nel 1753 su disegno di Alfieri (Bellini, pp. 203 s.; Dardanello, 2005, pp. 226 s.), e il collaudo effettuato nello stesso anno dell’urna in argento del beato Angelo realizzata da Ladatte e Andrea Boucheron per il santuario della Madonna degli Angeli a Cuneo (Bellini, p. 204; Dardanello, 2005, p. 317).

Sul piano più strettamente privato legato all’appartenenza alla Confraternita torinese della Ss. Annunziata, della quale fecero parte anche i figli Francesco e Giacomo (intendenti delle fabbriche nel 1764: Gulmini, 1993, p. 114), il M. contribuì con due sculture in marmo alla costruzione dell’altare maggiore della chiesa omonima da lui stesso finanziato il 18 genn. 1761 come amministratore del sodalizio insieme con l’impresario scalpellino Giovanni Battista Parodi: un medaglione ovale racchiuso entro una cornice con cherubini sopra il tabernacolo, raffigurante la Sacra Famiglia a rilievo piuttosto alto, un tondo inserito al centro del paliotto con un’Annunciazione a rilievo molto basso (Gulmini, 1990 e 1993; Dardanello, 2005, pp. 228-231). Quest’ultima opera in un contesto più raccolto e dimesso rispetto alle committenze regie diede modo al M. nella fase conclusiva della sua carriera di riproporre temi e tecniche assai simili a quelli degli esordi da scultore-argentiere, come nella figura del s. Giuseppe che stabilendo un evidente parallelo con la precedente statua sull’altare della chiesa di S. Teresa fissava in una poetica personale ormai anacronistica una delle ultime significative testimonianze di una carriera che il M. protrasse al servizio dello Stato sabaudo fino a poco prima della sua morte.

Il M. morì a Torino il 6 apr. 1768, tre anni dopo avere dettato le sue ultime volontà il 25 sett. 1765 (ibid., p. 226).

A ulteriore testimonianza della posizione raggiunta dal M. a Torino si può addurre il fatto che, nel 1760, ben sedici suoi familiari, oltre a quelli impiegati nello studio di scultura, erano stipendiati o sovvenzionati dallo Stato: tra questi, i figli Filippo e Giovanni Battista, i nipoti Simone, ventiduenne, «giovane argentiere», Bernardo, apprendista argentiere che nel 1763 avrebbe richiesto l’ammissione nella corporazione, e il diciassettenne Giuseppe, «studente di misure» presso il misuratore generale Giovanni Battista Ferroggio (ibid., p. 213). Giuseppe nel 1782 fu l’autore del rifacimento della chiesa di S. Anna a Biella (Guagno), che con il suo moderato aggiornamento della tradizione si poneva in evidente continuità con la cifra artistica del defunto architetto regio Francesco Martinez.

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