CONTARINI, Simone

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 28 (1983)

CONTARINI, Simone

Gino Benzoni

Nato il 27 ag. 1563 a Rubiana, nel Padovano, da Giambattista (1531-1563) di Simone e Marietta di Alessandro Gritti, il C. ebbe una sorella, Chiara, sposa a Girolamo Zane di Bernardo e due fratelli, Alessandro, di cui si perdono ben presto le tracce, e Alvise (1559-1614), destinato a far proseguire la linea della famiglia e ad occuparsi dell'amministrazione dei beni di questa fra i quali figurano anche proprietà in Polesine. Morto tragicamente il padre poco dopo la sua nascita, il C. fu, comunque, accuratamente educato e perfezionò la sua istruzione frequentando nell'Ateneo patavino i corsi di filosofia morale di Giason de Nores, di filosofia naturale di Francesco Piccolomini, di matematica di Giuseppe Moletti.

Periodo di formazione nel quale affiora e si precisa la propensione - che accompagnerà il C. lungo tutto il corso dell'esistenza, anche !e, coi crescere degli impegni pubblici, con intensità calante; sì che il grosso del codice autografo marciano di duccentosessantotto carte contenente le sue Rime è, appunto, costituito da "giovenili et imperfette fatiche" - a fissare in versi non privi di sostenutezza e decoro emozioni e riflessioni svolte con movenze di contenuto e di forma riconducibili all'esempio di Celio Magno, il più autorevole rappresentante della temperie manieristica del tardo Cinquecento a Venezia. E non fortuitamente un sonetto del C. - unica attestazione contemporanea a stampa di un'inclinazione per il resto rigorosamente privata - figura in una raccolta di questo.

Al seguito, nel 1585, di Marino Grimani membro dell'ambasciata congratulatoria a Sisto V, il C. consegue, il 18 marzo 1589, il saviato agli Ordini. Eletto il 21 giugno 1597, rappresentante della Serenissima presso il duca di Savoia, per un triennio, dal giugno del 1598 al luglio del 1601, registra l'accidentato percorso che - tra le distruzioni della guerra e la desolazione della carestia e dell'epidemia, dopo un logorante andirivieni di proposte e controproposte, un'oscillazione pendolare di bellicosità e ragionevolezza - sbocca nel trattato di Lione e nel momentaneo acquietarsi di Carlo Emanuele I.

Colla mente "alleggerita" dalla fine del conflitto - così lo descrive il C. il 2 grugno 1601 -, tutto intento a pacifici propositi, vuole procedere alla "restauratione" dei "luoghi di delitia", vagheggia l'erezione d'una o floridissima accademia". Principe "picciolo di corpo" e "di animo... gigante" l'ammira il C. (un'ammirazione questa sua duratura e riflessa soprattutto nei suoi versi: sarà merito di Carlo Emanuele se l'Italia potrà essere "un giorno senza stranieri", positivo per la penisola il dinamismo del suo "invitto valor" purché si indirizzi contro la Spagna; è il duca sabaudo il custode dell'"honor" italico, il suscitatore dell'"ardir" sopito, ma non estinto, nella penisola), lungi dall'addebitargli la responsabilità delle spaventose condizioni in cui versa il "paese ... quasi tutto sconquassato dalla peste". Il C., che pure ha visto l'"horribile spettacolo" di tante "meschine genti semivive", che pur ha costatato il pauroso spopolamento di tanti "luoghi infetti" ed ha valutata l'"afflitione grandissima" dell'epidemia, anziché rapportare questa alla carestia e quindi alla guerra esiziale al raccolto, ne attribuisce la diffusione ora a finti mercanti venuti da Ginevra, ora ad ingordi "beccamorti", ora a generici untori in preda al "diabolico pensiero" d'arricchirsi rubando ai morti.

Partito, il 28 luglio 1601, da Torino, il C., nominato il 30 nov. 1600 ambasciatore in Ispagna, l'11 sett. 1601 è a Savona in attesa d'imbarco, e il 21 dicembre raggiunge la corte a Valladolid.

Suo compito - al di là dell'usuale professione di "buona et sincera amicitia" da parte della Repubblica verso il re - "intendere le cose che si tratteranno", insistere perché i vicerè di Napoli e Sicilia siano tenuti a concedere "tratta de formenti" e possibilità di reclutamento di "soldati", manifestare preoccupazione nei confronti dei provocatorì atteggiamenti del conte di Fuentes (il quale anche se opera senza "ordine" regio, è pur sempre sostenuto dal Consiglio di Stato, ottiene somme destinate esclusivamente all'erezione dei suo minaccioso forte), protestare contro la "molestia" dei "corsari spagnoli". Vane, comunque, osserverà il pubblico storiografo Nicolò Contarini, le sue querimonie a quest'ultimo proposito: "riportò, al solito, parole senza più". Non c'è, di per sé, in Filippo III, re "cattolicissimo" devotissimo alla Vergine, "cattiva volontà" verso Venezia. Ma non c'è da attendersi "assistenza" dalle sue benevole propensioni, essendo succube sia del precettore (l'arcivescovo di Toledo Giron Garcia de Loaisa, vale a dire "il privato che lo governa") sia del duca di Lerma, che "risolve gli affari senza il concorso del consiglio di stato", cui restano solo quelli di "poco momento". Impensabile, costata il C., una coloritura filospagnola della neutralità veneta se non altro perché "sono tenuti i Veneziani per francesi in tutto". "opportuna, insinua il C., siffatta opinione: "in qualche modo" proprio la radicata convinzione che Venezia sia sbilanciata verso la Francia "serve" a che, da parte spagnola, "ci abbiano in maggior considerazione". Quanto alle paurose spese della Corona per fronteggiare la ribellione olandese, soccorrere l'Impero, fortificare il Milanese, il C., non senza malignità, dato che proseguono, osserva che il "segreto sta in ciò: che nessuno viene pagato".

Partito nell'autunno del 1604 dalla Spagna, il C., di nuovo a Venezia, vi è savio di Terraferma e senatore. Nel 1607 è incaricato con Pietro Duodo d'accogliere l'inviato straordinario spagnolo don Francesco de Castro e di predisporre "habitatione commoda" per il duca sabaudo e "la sua corte", nell'eventualità poi rientrata, d'un suo temporaneo insediamento, quale mediatore del contrasto veneto-pontificio; e nell'aprile del 1608 è, con Nicolò Molin e Francesco Priuli, "deputato", in occasione del rapido soggiorno lagunare dei principi sabaudi, ad o assisterli et accompagnarli". Il 30 nov. 1606 è eletto bailo a Costantinopoli.

Alla fine di settembre del 1608 s'imbarca e, toccate Curzola, Corfú e la Canea, s'insedia sul finire dell'anno nella carica detenendola per tre anni e mezzo validamente coadiuvato dal dragomanno Marcantonio Borisi, "assai male" servito invece da Simon Niholihi, "dragomanno più con le orecchie che con la lingua", sospinto da "gran colmo di debiti a molte disonestà". Rischiosissima per la vita stessa del C. la distruzione presso Paxo d'una galeotta (corsara a detta di Venezia, innocua e recante doni a detta dei Turchi) e la cattura dell'equipaggio. Con abilità ed energia egli, comunque, riesce a superare l'"asprissimo" contrasto sì che, il 17 apr. 1610, può inviare una lettera del sultano al doge ove si chiede la restituzione dei prigionieri impegnandosi nel contempo ad evitare ritorsioni e a rispettare i trattati. Vanto ulteriore del C. la destituzione di "cadì" ostili a Venezia, l'assegnazione del sangiaccato di Scutari a persona a questa grata, l'impiccagione del castellano di Corone e d'un favorito dell'ammiragho turco responsabili della morte del dragomanno Demetrio Bollani, lo strangolamento d'un conte dalmata "ribelle" a Venezia e divenuto "turco", il fatto che la sua veste di "console" sia valorizzata dalla preferenza accordata al suo giudizio anche da "forestieri" quando siano, in ambito civile, "attori" nei confronti dei sudditi veneti. Impotente invece di fronte all'aggressiva penetrazione commerciale inglese, non gli resta che constatare l'inarrestato calo della presenza mercantile veneziana in Levante. Scontato il suo giudizio negativo sul mondo ottomano: patrizio, è per lui inconcepibile una società senza "cognizione" di stirpe o di sangue nobile", ove "tutti hanno bassissimi natali", e - altro dato che lo sconcerta -, essendo "tutto" dei sultano, non hanno "propri redditi". Gente dalla "ribalda natura" la turca; satura d'"avarizia" e rigurgitante d'"oro" Costantinopoli, una città assatanata e insieme dalle seduzioni paradisiache, comunque esecrando concentrato d'ogni "vizio" dell'"universo". Maometto è liquidato quale "il scellerato", il "falso inventore" di "falsa" religione, bollata come "misto confuso di senso e ragion di stato". Oggetto di sprezzo impietoso i rinnegati, tra i quali abbondano i candiotti, già sudditi veneti, che a Costantinopoli campano meno miseramente che in patria quali marinai, bottai, calzolai, ortolani. Ciò non toglie il C. inveisca furibondo contro siffatta "specie di gente" immersa nel "senso" e nei "vizi", priva di "fede alcuna", giudicata la "peggiore" pure dai Turchi. Virulenta, altresi, l'avversione dei C. nei confronti degli ebrei, "odiosissima... falsa gente" dalla "pessima natura", "bugiarda nazione" che, a Costantinopoli presente in "grandissima quantità", s'è ovunque inserita - nei traffici, nei dazi, nelle forniture - con "utili smoderati", ingerendosi, pure, spudoratamente nelle "cose di stato". E "scelleratissima gente", insiste esagitato, "che quel più gabba che più di lei si fida". Poiché il grosso del loro spropositato arricchimento deriva dal commercio venetoturco, è "ben di dovere" che il Senato imponga il "cottimo" sulle merci destinate a Venezia provenienti "per via di terra" a Costantinopoli. intollerabile gli ebrei vi si sottraggano. scandaloso che, "per un poco di maggior guadagno", gli stessi mercanti di Venezia ricorrano a loro anziché ad operatori veneti. Sono trattati, protesta il C., come i "maggiori amici", mentre sono i "maggiori nemici" ché "non solo nel negozio ci tengono al di sotto", ma ci danneggiano politicamente ché da Venezia "scrivono e fanno sapere ai turchi i fatti della Cristianità", specie gli orientamenti e le decisioni del Pregadi.

Rientrato in patria il C. vi è consigliere e, per delibera senatoria del 25 ott. 1611 subentrato al defunto Federico Contarini nella "sopraintendenza" alle "statue ed... antichità" lasciate alla Repubblica dal patriarca d'Aquileia Giovanni Grimani, è "deputato", assieme al procurator e cassiere della procuratia de supra, Antonio Lando, d'inventariare la situazione dello "statuario" e dello "studiol giogelato con li cammei" bronzi ed altro costituenti, appunto, la raccolta Grimani.

Correva voce lo scomparso avesse, nell'allestire il museo, distratto e sottratto. Un'accusa eccessiva che l'accurata ispezione dei due ridimensiona: intatta, così la relazione dei C. e del Lando, la collezione di cammei e bronzetti, mentre mancano un piedistallo ed una mezza statua, sostituiti peraltro da una statua intera. Mancano pure un paio di quadri, anche questi sostituiti. Imputabile, dunque, Federico Contarini al più d'eccessiva disinvoltura, mossa, peraltro, da un misto d'esigenze di decoro e di scrupoli moralistici per cui da un lato ha preteso d'abbellire, dall'altro ha voluto eliminare un nudo imbarazzante.

Destinato, nel novembre del 1613, alla rappresentanza presso la Sede Apostolica, il nunzio a Venezia avverte preoccupatoche il C. è più guardingo, più diffidente, insomma "più intelligente" del predecessore Tommaso Contarini. In effetti, appena insediatosi a Roma, ove rimane dall'ottobre del 1614 alla primavera del 1617, il C. si sbarazza del personale di questo, ne licenzia lo staffiere giudicato, non a torto, una spia; e, nel 1616, accoglie con sospetto le rivelazioni e le avances dell'avventuriero francese Jacques Pierre, tutt'altro che convinto dalle sue proclamazioni d'affetto per la Serenissima.

Certo la S. Sede ha nel C. un interlocutore agguerrito e, in cuor suo, ostile. Non a caso una lettera anonima cerca d'intimorirlo: "ne gli offici e trattationi de negoci habbia rispetto di non offender prelati". Una minaccia che turba il C., ma non l'ammorbidisce, non lo rende più conciliante. "È cervello molto rivoltoso e avversissimo e che non ha ragione principale che quella di stato", scriverà di lui - in una lettera del 6 ott. 1617 al nunzio a Parigi Bentivoglio - il card. Scipione Borghese. "Quel che importa più - precisa il cardinale - è che lo si ha per uno dei fautori di fra Paolo". È vero: l'attestano le trentasci lettere inviategli a Roma da Sarpi tra il 3 gennaio e il 13 dic. 1615, dalle quali appare evidente non solo come il C. ricorra al servita sicuro d'averne "piena et soda relatione" quando gli necessita "informatione", ma come, altresì, al di là dell'"avviso fruttuoso", egli s'attenga alla ricca strumentazione argomentativa (ulteriore rispetto alle ufficiali istruzioni senatorie) suggeritagli dal Sarpi. Sì che le missive di questo - di cui il C., per meglio servirsene, condensa sul retro il contenuto: "circa la giurisdizione di Aquileia", "circa la causa del Martinelli", "Aquileia e Ceneda", "come il principe possa licentiar dallo stato... ogni persona ecclesiastica", "circa il frate veronese sententiato dai frati alla galera", "circa i patti della repubblica co' ferraresi in proposito della tratta del cav. Marin Contarini" - diventano la fonte ispirativa d'una linea di fermezza, approvata dal Sarpi ("ella ha fatto compito officio di ottimo difensore", l'elogia) e pure confortata dalle lettere, indirizzate al C. dal 23 genn. 1615 all'11 nov. 1616, del giureconsulto udinese Servilio Treo, un fervido sostenitore della sovranità statale svolgentesi piegando istituti e situazioni alla supremitas del principe.

Attento osservatore - non gli sfugge l'arrivo, nell'ottobre del 1615, di un ambasciatore giapponese dal "volto... quadro, raso di barba"; avverte, il 27 febbr. 1616, come il S. Uffizio abbia chiamato a render "conto" delle sue "opinioni... nuove" e stridenti con la "scrittura" proprio "quel Galileo... che già lesse" a Padova -, il C., nel contempo, s'adopera per suscitare l'indignazione di Paolo V contro i t rubarnenti et assassinii" degli Uscocchi, per guadagnarlo alla tesi della necessità d'un loro forzoso trasferimento lungi dal mare, per convincerlo della legittimità della guerra contro gli Arciducali. Ma senza successo. Deve, semmai, replicare alle veementi proteste pontificie per i massicci arruolamenti, da parte di Venezia, di milizie non cattoliche. È sua impressione il papa non ami la "libertà" di Venezia, sia, al pari della Spagna, soddisfatto nel saperla logorata dalle spese e dai dispendi bellici. Al più - di fronte all'evidenza delle provocazioni antiveneziane da parte spagnola colle simultanee pressioni sul confine occidentale del governatore di Milano Pedro Alvarez de Toledo e le violazioni della giurisdizione A4riatica volutamente architettate dal vicerè: di Napoli duca d'Ossuna -, Paolo V si limita a generici auspici di pace. Ma è vano il C. s'ingegni di dimostrare'come l'appoggio finanziario fornito dalla Spagna all'arciduca Ferdinando, il protettore di "publici ladri" quali gli Uscocchi, rientri in un disegno mirante a scalzare Venezia per poi eliminare la "libertà" di tutta la penisola, sì che gli Spagnoli possano "farsi... monarchi et absoluti dominatori di essa". Inutile, altresì, che, nel maggio-luglio del 1617, prima di rientrare a Venezia, il C. si fermi a Firenze, Urbino, Modena, Parma e Mantova per sollecitarne i principi ad una dichiarazione filoveneziana e, quindi, antiasburgica o. quanto meno, per ottenerne la concessione all'arruolamento di truppe per la Serenissima. Tutti, tranne Cesare d'Este, si ritraggono impauriti, si dicono impossibilitati a "muoversi" pei vincoli degli "interessi con la casa d'Austria".

Ranuccio Farnese, il più servile colla Spagna, invia addirittura Giorgio Lampugnano a Venezia perché informi dettagliatamente il marchese di Bedmar del "negotiato passato" tra lui e il C., il quale ultimo aveva, a sua volta, informato il Senato come il duca dì Parma l'abbia inondato di complimenti dandogli, però, ben "poca soddisfattione" quanto al "negotio". Certo i principi italiani offrono uno spettacolo di squallida subalternanza. Ciò malgrado il C. si consola verseggiando: l'Italia può "scotter... le sue gravi some"; se si affida a Carlo Emanuele vedrà risorgere "più Rome". Di fatto Pietro di Leiva ha potuto catturare presso Zara due galeazze veneziane cariche di merce; un episodio gravissimo che però - per quanto il C. s'affanni perorante - non guadagna alla Repubblica l'allarmata solidarietà delle corti.

A Venezia, d'altronde, viene accettata, per volontà del settore più moderato della classe dirigente, la pace stipulata a Parigi e a Madrid nel settembre del 1617, cui s'adatta pure la parte più pugnace del patriziato imponendo, però, il richiamo ed esigendo un'esemplare puniiione di Ottaviano Bon e Vincenzo Gussoni, rispettivamente ambasciatore straordinario e ordinario in Francia, rei d'aver debordato - nella sottoscrizione dei trattato - dai "comandamenti" pubblici. E, nella preoccupazione ciò non venga inteso come affronto alla mediazione francese, il C. viene eletto ambasciatore straordinario a Luigi XIII, il quale, in effetti, sentendosi responsabile della disavventura di Bon e Gussoni, riuscirà ad ottenere il "condono" della pena, dopo aver seccamente fatto fermare dal governatore di Lione il C. in quella città.

"Dunque sono prigione", esclama il C. nell'apprendere la disposizione regia; "così comanda il re", ripete il governatore, soggiungendo - per tranquillizzare l'angosciata o amaritudine" dei C. - che sarà, comunque, "dolce prigionia e breve". Il C., informa il nunzio Bentivoglio, è considerato "nemico" di Bon; ad evitare che venga a Parigi "a far l'arrogante" il momentaneo divieto di proseguire il viaggio suona evidente ammonizione. Occorre l'esplicita rinuncia, da parte veneziana, all'incarcerazione dei suoi due precedenti rappresentanti perché la situazione si sblocchi e il C. possa raggiungere, il 10 genn. 1618, Parigi ove è ricevuto in udienza il 22. Suo impegno fugare ogni ombra di dissapore e nel contempo ricordare come l'Ossuna, lungi dal restituire "le galere e gli altri vascelli coi carichi", abbia "tirate le suddette" navi "in terra" vendendone "tutti i capitali" sì da disporre di grosse somme che utilizza a Madrid "per invigorirvi i suoi fautori" e, grazie a loro, ottenere di proseguire "la guerra" con Venezia e, anche, suscitare ostilità nei confronti della Francia. Instancabile il C. nell'additare il pericolo costituito dai "maligni sensi" suoi e del governatore di Milano - procura, osserva Bentivoglio, "di riempir ogni cosa di sospetto e gelosia e di metter in mala fede gli Spagnuoli", specie questi due "ministri" -, nel contrastare le "lusinghe" ispaniche assecondate dai gesuiti e avvalentisi delle disponibilità del duca di Luynes o per arrivare eziandio al re", resta peraltro - rimarca compiaciuto Bentivoglio - "molto scornato" per aver ingenuamente prestato fede ai progetti antispagnoli del corsaro Lansac, il quale scialacqua allegramente le "300 doppie" anticipategli. Un grosso smacco, in realtà, e anche una grossa perdita finanziaria per il C. che, sempre a detta di Bentivoglio, dato il modestissimo tenor di vita, pare "sordidissimo uomo" e viene chiamato "l'ambasciatore della pistola" a causa della pretesa - è inconcepibile per il nunzio abituato ai fasti romani il rigoroso uso dei pubblico denaro - non si spenda più d'una "pistola", vale a dire una "doppia" spagnola, al giorno per il ménage domestico. "Egli non ha se non due cavalli, e non ha altri che il segretario... di persone da comparire", si scandalizza Bentivoglio, cercando di screditare anche così - falsa invece la voce da lui stesso divulgata il C. sia un assiduo frequentatore di prostitute - un uomo che sente avverso, che il card. Borghese gli dipinge privo di "timor di Dio", nutrito di "pessime massime" derivantigli dalla "pratica frequente" con ugonotti. Ma, al di là della "spilorceria estrema" imputatagli da Bentivoglio, il C. sa essere fiero e veemente nella fermezza delle sue convinzioni. Le esprime con tono fermo, con voce possente, specie quando la scoperta della presunta congiura di Bedmar avvalora la tesi della perfidia dei ministri spagnoli in Italia (ma il C. deve pure, non senza imbarazzo, giustificare i modi spicci con cui a Venezia si sono "fatti morire... sudditi" francesi, "senza... processi, precipitosamente" senza darne "notizia" al re). "Si gonfia e si accende" si che sembra voler "non negoziare, ma fare a pugni con chi negozia"; "grida e non parla, quando negozia". Così Bentivoglio, convinto, al pari di altri, sia una "stravaganza" la pretesa veneziana, sostenuta dal C., che l'uscita degli Spagnoli dal Golfo debba essere accompagnata dall'"espressa dichiarazione" di "non entrarvi" più.

Tornato a Venezia all'inizio del 1619, il 30 ott. 1620, con 630 voti a favore e 257 contrari, è eletto procurator di S. Marco de supra; e, nella primavera del 1621, si reca, insieme a Francesco Erizzo, in ambasciata straordinaria all'imperatore Ferdinando II, uomo ostentatamente devoto e totalmente succube della Spagna al punto che l'ambasciatore di questa, il conte d'Oflate, detiene "più tosto il titolo di dittatore", non senza danno per Venezia ché la "buona volontà" imperiale è annullata dalla "pessima dispositione" di questo. Di nuovo ambasciatore straordinario in Spagna, con Girolamo Soranzo, tra l'autunno del 1621 e la tarda primavera del 1622, 10 è pure - rifiutata per questo l'elezione del febbraio del 1623 a provveditore generale in Terraferma -, dalla fine del 1624 al luglio del 1625, a Costantinopoli ove ottiene, il 20 apr. 1625, da parte del sultano Murad IV, un firmano confermante i trattati veneto-turchi e si adopera perché al pascià di Buda sia ingiunto di concedere il "passo" e di "facilitar le levate" in "Bossina" per conto di Venezia. perché sia possibile arruolare "qualche numero di cavalleria" nelle terre del "principe valaco" e sia, comunque, assicurata "la licenza di transito libero per li stati otthomani ad ogni sorte di nacione che venghi per ... servicio" della Serenissima.

Dopo una breve pausa lagunare il C. deve nuovamente mettersi in viaggio, ché, eletto il 25 sett. 1625 ambasciatore straordinario in Francia per sollecitarne l'ìmpegno antispagnolo, parte alla fine di ottobre e, toccando Brescia, Zurigo e Lione, arriva a Parigi il 3 genn. 1626 ritardando sino al 20 il pubblico ingresso, quando ormai, a sua insaputa, l'accordo franco-ispano è pressoché giunto allo stadio definitivo. Sicché, con veemenza, sin dalla prima udienza denuncia la "libidine" del re Cattolico "di farsi", occultando la brama di dominio col "manto della religione" e cosi guadagnandosi i "favori" romani, - "assoluto signore, assoluto monarca del mondo". Ne va perciò bloccata la prevaricazione in Valtellina: "la grande virtù" e "potenza" di Luigi XIII debbono arginare e ricacciare "il corso e l'orgoglio di questo infesto, rovinoso torrente".

Fuor di metafora il C. chiede il rispetto della lega con Venezia: "senza intervallo, indugio o dimora... in conformità... dell'accordato e dell'alleanza giurata", il grosso delle "forze" francesi penetri - assieme alle sabaude e venete - nel Milanese. È l'occasione fornita dalla "fortuna" - che, immagine memore di Machiavelli, porge al re "la chioma in mano" - dell'agognato "abbattimento" dei dominio spagnolo. Sguaini Luigi XIII, dunque, "la spada". Focosi incitamenti accolti con un certo imbarazzo, che insospettisce il Contarini. Comunque, mentendo spudoratamente, lo si tranquillizza: "certo" non sono in corso e trattationi" separate con la Spagna spergiura la regina madre; "non c'è nessuna trattatione" ribadisce Schomberg; "non si concluderebbe niente senza prima partecipare alla Repubblica" ripetono unanimi i ministri. Più falso di tutti Richelieu che, il 3 marzo, incalzato dalle domande del C., risponde: "credete... non vi è cosa d'alcuna sodezza..., se vi fosse alcuna cosa..., l'haverebbe fatta Sua Maestà partecipare alla Repubblica s. Di lì a due giorni c'è - vera mazzata per il C. e, poi, per il Senato, ove quando l'apprende, il 28 marzo, "si voltorono tutti... contro i francesi, disgustatissimi dei loro procedere" - la pace di Mongon, comunicata, peraltro, al C. quale "capriccio" del Du Fargis, l'ambasciatore francese a Madrid, col quale il re sarebbe sdegnatissimo. Ma il C. finalmente si rende conto della slealtà con la quale Venezia è stata ingannata, come si sia giurata "una cosa" facendone nel contempo "un'altra". È adiratissimo nei confronti di siffatto "modo, stranamente nuovo" di concepire l'alleanza ricorrendo a "stratagemma" ammissibile, al più, "fra nemici". Né valgono a scalfirne l'amara delusione le considerazioni via via fattegli da Richelieu, il quale, in settembre, gli fa notare come, in fin dei conti, la pace sia stata utile anche a Venezia: era impossibile, argomenta il cardinale, "far la guerra fuori, se altri ce la voleva far in casa"; a Mongon "abbiamo ottenuto - insiste - quello che volevamo", cioè "gli Spagnuoli fuori della valle, i passi nostri. Non vi contentate?" A parziale risarcimento s'aggiunge, da parte di Luigi XIII, la ratifica, il 15 ottobre, della convenzione grazie alla quale garantisce per dieci anni - ma non a tempo indeterminato come il C. avrebbe voluto - alla Serenissima il passaggio "des gens de guerre par... pays des Grisons". Troppo poco per il C., che nel frattempo non ha avuto nemmeno la soddisfazione di veder elirninato il transfuga veneto Angelo Badoer, che tanto ha armeggiato, al soldo di Roma, per l'accordo franco-ispano: troppo maldestro il sicario assunto dall'ambasciatore veneto a Torino ("in simili casi - sentenzia il C. - non si ha a tirar la rete senza esser certi di coprirne l'uccello"), mentre la precipitosa fuga di Badoer gli toglie la "speranza di poter", occupandosene personalmente, "fare alcun bene". L'operazione - suggerisce - va, comunque, ritentata in Italia ove di tali "servitii... tutto il giorno se ne veggono riuscire". Non sarà. si augura, "difficile" eseguirvi "questa buon'opera". Profondamente "stanco", intimamente ferito dalla doppiezza francese, venute meno le speranze d'una vigorosa lotta contro il dominio spagnolo in Italia, ringrazia - così scrive il r dicembre al Senato - Dio che l'arrivo dei rappresentante ordinario gli permetta di lasciare Parigi "perché io - visto che nelle "negotiationi" non c'è più "la fede", è impossibile "il candore" - non ci habbia a crepare".

Rientrato, questa volta definitivamente, a Venezia ove gode di rilevante prestigio - non a caso ha già ottenuto voti nei conclavi per l'elezione dogale del settembre 1623 e del dicembre 1624 ("è stimato di valore - informa in quest'occasione il nunzio -, ma cervello gagliardo e perciò non molto grato") ed ancora ne avrà in quello del gennaio 1630 -, si ha l'impressione l'esperienza francese .abbia depresso i suoi ardori di risolutiva guerra antiasburgica.

Lo si arguisce dall'argomentazione con la quale, all'addensarsi delle nubi della tempesta mantovana, sostiene, nel 1628, in Senato - di contro a Domenico da Molin - la linea della più circospetta estraneità al prossimo conflitto. Per opporsi, osserva, alla prepotenza spagnola, alla "tumida" e proterva "potenza" imperiale occorre "forza pari a quella che si dovrebbe reprimere". Non c'è da contare sulla lealtà francese. Il duca sabaudo, col suo ultimo, voltafaccia, non è più il "magnanimo Allobrogo" delle sue rime, al quale gli o alteri figli d'Italia possano affidare il comando della lotta contro la "tedesca rabbia", contro "l'orgoglio hibero". Venezia non Può fronteggiare gli Asburgo. Donde l'invito a non esporre a rovinosi rischi la sua "libertà", ad evitare "dichiarationi", "impegni" e soprattutto "guerre".

Più volte savio del Consiglio (nel 1627, 1632, 1633; ed è in tale veste che vuole dai rettori di Padova la sollecita istruzione d'un "diligentissimo processo" sulla clamorosa effirazione del sepolcro petrarchesco ad Arquà) il C. è, via via o contemporaneamente, provveditore sopra i monasteri, provveditore alla Sanità, provveditore sopra l'Affrancazione dei monti, nonché alla fabbrica di palazzo ducale e sopra la tassa straordinaria, due volte savio all'Eresia, esecutore sopra la Bestemmia, inquisitore in Zecca, preposto alla "provision de' salari" della cancelleria ducale, riformatore allo Studio di Padova. Di un certo rilievo., nel marzo del 1630, il provveditorato, assieme a Girolamo Comer e Antonio Barbaro, "sopra la fortificatione" di Vicenza sentita quanto mai urgente nell'aggravarsi del conflitto mantovano. Decretata dal Senato, il 22 ott. 1630, in ringraziamento dell'afflevolirsi della peste - durante la quale il C. rimane coraggiosamente in città - l'erezione d'una "magnifica" chiesa in onore della Vergine, il C., con Pietro Bondumier e Giovan Marco Molin, è eletto, il 24, al "carico di propore il luogo e il modello". È dietro consiglio dei tre che il Senato delibera, il 23 novembre, la costruzione - avviata con la posa della prima pietra del 1° apr. 1631 - sia realizzata nella punta estrema dei sestiere di Dorsoduro su terreno del seminario patriarcale.

Operosa, dunque, e insieme connotata da un'accentuazione devota - riflessa nelle rime, confermata dal testamento dei 2 dic, i 630 nel quale si augura Dio plachi lo "sdegno prodotto dall'iniquità mia" - l'ultima fase dell'esistenza del Contarini. Ed è sintomatico che, morto il 7 maggio 1631 il patriarca Giovanni Tiepolo, figuri tra gli aspiranti alla successione. "Rotto da gli anni, e dai dolori oppresso", ormai agogna la "fida stanza" dell'eterno, invoca il "porto" della "santa magion" celeste. Il C., che nelle liriche giovanili ha cantato "il guardo, il riso, il parlar dolce honesto", i "capei d'or disciolti al sole", "l'aurato passo" di maliose parvenze femminili - tra le quali, è indicativo, ricorre una Laura -, sembra quasi ricalcare l'itinerario del canzoniere petrarchesco. L'"alma" già "sviata" da "erranti desii", già sospinta "dietro a' sensi", ripudia, alfine, i "mal saggi pensier", s'aggrappa - coll'approssimarsi della morte - alla "santa mercé di Dio": voglia il "celeste pastor" indicare il giusto "sentier" alla "smarrita pecorella", accolga il "re del ciel" il figliuol prodigo "misero" e pentito. Religiosità e artificio letterario si mescolano sul finire dell'esistenza del C. che ai suoi versi tiene molto se ad essi dedica le ultime parole dei testamento, laddove raccomanda a Pietro e Simone, i figli dei fratello Alvise suoi eredi, "la custodia" del "libro giallo con le cordelle cremesine e gialle" che li raccoglie, "per fame quello che a Dio piacesse et da lor due si trovasse bene".

Afflitto "gravioribus artuuni doloribus et ventriculi debilitate", dopo cinque mesi di "febre", il C. muore a Venezia Pii genn. 1634 e viene sepolto nella chiesa dei Frari.

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