Similitudine

Enciclopedia Dantesca (1970)

similitudine

Lucia Onder
Antonino Pagliaro

Il termine compare 26 volte nel Convivio, una volta nel Paradiso e una nella Vita Nuova.

Il valore più comune di " somiglianza " si registra in Cv IV XII 14 sì come è scritto: " Facciamo l'uomo ad imagine e similitudine nostra " (cfr. il luogo di Gen. 1, 26 " Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram "); II XV 1 Per le ragionate similitudini si può vedere chi sono questi movitori a cu'io parlo; III I 5 Ché con ciò sia cosa che intra dissimili amistà essere non possa, dovunque amistà si vede similitudine s'intende; e dovunque similitudine s'intende corre comune la loda e lo vituperio, e 7; I V 1, IV XXII 5 (due volte), XXIII 5.

Ancora in Vn XXIX 3 questo numero [il nove] fue ella [Beatrice] medesima; per similitudine dico, " per somiglianza, in quanto, come [D.] spiegherà, Beatrice è un miracolo, cioè un prodotto del Tre, che è la Santissima Trinità " (Sapegno).

In Pd XIV 7 ne la mia mente fé sùbito caso / questo ch'io dico, sì come si tacque / la glorïosa vita di Tommaso, / per la similitudine che nacque / del suo parlare e di quel di Beatrice: il movimento delle voci, di s. Tommaso che è nella ghirlanda che costituisce un cerchio e di Beatrice che è al centro del cerchio stesso, è simile, ha similitudine con i movimenti dell'acqua contenuta in un vaso percosso, che va dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro.

La parola è seguita dalla preposizione ‛ con ', che introduce il secondo termine di una comparazione: Cv II XIII 2 Dico che per cielo io intendo la scienza e per cieli le scienze, per tre similitudini [" ordini di somiglianze "] che li cieli hanno con le scienze massimamente (e ai §§ 3, 4 e 5 il termine ricorre tre volte, dove vengono chiarite tali somiglianze; ancora al § 6); XIV 2 Ed in questo ha esso [il cielo Stellato] grandissima similitudine con la Fisica; e ancora ai §§ 5, 8 e 9.

Con riferimento all'azione di una causa che imprime la sua impronta nell'effetto ‛ assimilandolo ' (per quanto è possibile e consentito dalla natura dell'effetto stesso e dalla sua disposizione a ricevere l'azione causale), il termine occorre nelle locuzioni ‛ ridurre ', o ‛ recare a s. ' (Cv III XIV 2 discendere la virtude d'una cosa in altra non è altro che ridurre quella in sua similitudine; sì come ne li agenti naturali vedemo manifestamente che... recano quelle a loro similitudine tanto quanto possibili sono a venire; ‛ reducere a s. ' occorre due volte ancora al § 3), o ‛ trarre a s. ' (§ 6 Dico adunque che la divina virtù sanza mezzo questo amore tragge a sua similitudine). In XV 17 D. afferma che la sapienza divina, il Verbo, venne a redimere gli uomini peccatori, in vostra similitudine venne a voi, assumendo così la forma umana e tutto ciò che essa comporta (cfr. Paul. Philipp. 2, 7 " in similitudinem hominum factus ").

Con il significato di figura retorica che mira a chiarire un concetto, presentandolo in parallelismo con un altro, in Cv III VIII 9 Li quali due luoghi [gli occhi e la bocca], per bella similitudine, si possono appellare balconi de la donna che nel dificio del corpo abita, e IX 4. V. oltre. Per la s. come figura retorica, v. oltre.

Retorica. - La similitudo nella retorica antica è considerata come un elemento dell'argomentatio, diretto, al pari dell'exemplum, o a fornire una probatio per una causa, oppure a fungere da ornatus. Essa è costituita da una collatio, cioè dalla comparazione di una cosa (oggetto o evento) con altra cosa simile, i cui caratteri più noti o più caratterizzanti valgano a illustrarla (" Conlatio est oratio rem cum re ex similitudine conferens ", Cic. Invent. I XXX 49). Il secondo termine, cioè quello al quale si fa riferimento per illustrare il primo, può essere conciso (per brevitatem), ma può anche allargarsi a una narratio o descriptio. L'analogia o affinità fra i due termini costituisce il tertium comparationis.

L'affinità o analogia tra due cose o eventi, che ne è condizione, pone la s. sulla stessa linea della metafora; ma tra le due figure esiste una notevole diversità, poiché, mentre la prima è soprattutto un fatto di linguaggio, la seconda è un fatto di poetica. Si suole dire che la metafora sia una sorta di s. accorciata, ma ciò non sembra esatto, poiché si tratta di modi espressivi che si pongono su piani diversi e, se mai, la metafora rappresenta un grado primario. Infatti, in essa il rapporto analogo tra i due termini si avvera tra significati, cioè tra ciò che si sa delle cose in quanto hanno un nome: il dato sensitivo viene richiamato sostituendo il segno, il cui noema risulta generico e la cui fonia è naturalmente arbitraria, mediante un altro segno in grado di ristabilire il contatto con la sfera sensitiva. Nella s., invece, si è fuori del linguaggio propriamente detto e l'analogia dà materia al raffronto fra cose. Essa si trova nello stesso solco della metafora, ma va al di là di essa, tanto da rendersi autonoma rispetto al primario impegno semantico al quale questa è legata: mentre nella metafora il riferimento al sensitivo si ottiene con il tramite del significato o componente semiotica del termine che si assume, nella s. si ha una vera e propria collatio di cose, nella quale il secondo termine, oggetto o evento, è esplicitamente proposto come chiarimento e illustrazione del primo.

Due aspetti particolari del rapporto tra metafora e s. si possono cogliere nell'uso dantesco: da una parte, quando dalla s. si sviluppa un discorso metaforico; dall'altra, quando un'apparente metafora non può essere intesa se non risolvendola in una s., cioè in una figura in cui il termine di confronto sia, come dato concreto, esplicitamente dichiarato.

Del primo aspetto si può vedere esempio nell'elogio di s. Domenico fatto da s. Bonaventura, nel quale l'energia fruttuosa spiegata dal santo è assimilata alla forza di un torrente che ha alimento dal premere di una profonda vena d'acqua: Pd XII 99 quasi torrente ch'alta vena preme (con tale immagine il poeta rende conto della forza interiore che muove l'azione del santo: questa interpretazione rende la s. dantesca più aderente alla sua probabile fonte, Is. 69, 19 " Venerit quasi fluvius violentus quem spiritus Domini cogit "). L'immagine del torrente continua a essere presente nel discorso metaforico, in cui D. dichiara i mali che egli combatté, le eresie che estirpò, gli ostacoli che vinse: e ne li sterpi eretici percosse / l'impeto suo, più vivamente quivi / dove le resistenze eran più grosse (vv. 100-102); infine, l'influenza benefica della sua opera è espressa con l'immagine dei molti rivi nei quali la corrente si divide, per irrigare e rendere fecondo l'orto cattolico: Di lui si fecer poi diversi rivi / onde l'orto catolico si riga, / sì che i suoi arbuscelli stan più vivi (vv. 103-105). Come si vede, la s. del torrente ha disteso l'analogia iniziale in un ampio discorso metaforico.

Altro effetto del legame funzionale tra s. e metafora si ha quando la tensione sintattica porta alla soppressione del segno introduttivo, riducendo formalmente in metafora ciò che, sostanzialmente, è una s., dal momento che non si tratta di espressione diversa (‛ allegoria ', secondo la terminologia vichiana) fondata sul rilievo di una particolare connotazione, bensì del riferimento a tutto l'oggetto di una situazione dinamica. Questo è il caso delle parole con cui, in If II 107 ss., Lucia invita Beatrice a soccorrere il suo fedele: non vedi tu la morte che 'l combatte / su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? Per intendere l'oscura frase, è necessario risolvere la s. contratta nel discorso apparentemente metaforico: " non vedi che la morte incombe su lui, come incombe su chi si trova (in una barca) su una fiumana nel punto in cui la corrente s'incontra con le onde del mare, e queste non riescono a soverchiarla? ".

Nella retorica medievale la s. è considerata come un espediente tecnico sorpassato, appena giustificabile presso gli antichi, indotti ad amplificare perché la materia che si offriva loro era scarsa. Matteo di Vendôme (Ars versificatoria IV 3-5) ammonisce: " Iuxta tenorem poeticae narrationis erit procedendum, tali quidem consideratione, ut quaedam collateralia quae non sunt de principali proposito, scilicet comparationes et poeticae abusiones et figurativae constructiones, modus temporum et syllabarum, non indicantur. Non quia comparationum inductio poenitus sit omittenda, sed parcius a modernis debet frequentari; poterit duci, quia scema deviat sine istis et nunc non erit hic de iis opus. Antiquis siquidem incumbebat materiam protelare quibusdam diversiculis et collateralibus sententiis, ut materiae penuria poetico figmento plenius exuberans in artificiosum luxuriaret incrementum. Hoc autem modernis non licet. Vetera enim cessavere nobis supervenientibus ". In effetti, nelle canzoni di gesta e nell'epica romanza e nella germanica ricorrono solo s. del tipo per brevitatem, mentre mancano le s. del tipo ‛ quadretto ', cioè quelle in cui il secondo elemento si presenta dichiarato nelle sue circostanze particolari, quasi come un breve ‛ episodio '.

D. conobbe la s. in Virgilio, Ovidio, Orazio e negli epici seriori e, certo, anche nei poeti della Scuola siciliana, dove ha piuttosto il carattere di ‛ parabola '. Ma, mentre nei classici la s. ha un carattere essenzialmente esterno e appartiene all'ornatus, la s. dantesca appartiene al genere della probatio. In essa prevale il fine strutturale, cioè un'esigenza di espressione, per la quale si colloca nella compagine narrativa con la stessa necessità con cui vi s'inserisce la metafora; e a questa si avvicina perché, a differenza della s. dell'epica antica, più che aspetto di una ‛ poetica ', è quasi, per la sua necessità, essa pure un fatto di linguaggio. Può dirsi, piuttosto, che in D. la s. si riporta a quella fase primaria, in cui il riferimento a un oggetto o fatto di analogia ha funzione espressiva e, investendosi dell'immediatezza della comunicazione, fa progredire la narrazione. Così appare in Eschilo (l'affinità della situazione stilistica in Eschilo e nella Commedia è rilevata da F.R. Earp, The style of Eschylus, Cambridge 1948, 170 ss. Sul carattere pittorico, esornativo in relazione alla seriorità della lingua della s. nell'Iliade, v. G.P. Ship, The language of similes in the Iliade, in Studies in the language of Homer, Cambridge 1953, 80). D'altra parte, le esigenze comunicative implicite nella materia dottrinaria e, comunque, astratta quasi costringono il poeta a servirsi della s. per rappresentare o precisare processi reali o postulati che sono, più o meno, fuori dell'esperienza comune.

Il carattere proprio della s. dantesca si manifesta bene quando il poeta riprende un motivo virgiliano. La s. delle gru in If V 46 ss. E come i gru van cantando lor lai, ha il suo precedente in Virgilio Aen. X 262 ss., dove il gridare dei Teucri viene illustrato con il richiamo al clamore che accompagna il volo delle gru: " Clamorem ad sidera tollunt / Dardanidae e muris... quales sub nubibus atris / Strymoniae dant signa grues atque aethera tranant ". Ma in D. il tertium comparationis non è il fatto acustico, come in Virgilio e già in Omero (Il. III 5 ss.), bensì l'ordine di volo; e il dato del clamore è appena accennato. Le anime nel cerchio dei lussuriosi sono trasportate dalla bufera e appaiono come una grande ondata di storni nel cielo invernale; sullo sfondo della massa anonima, o in seno a essa, si distingue una schiera di anime che avanzano in fila gettando alte grida come le gru. Prima è rilevato il dato acustico, E come i gru van cantando lor lai, ma immediatamente dopo viene fatto valere il dato visivo, cioè l'ordine di volo delle gru, un tratto che nel modello virgiliano non è nemmeno accennato: faccendo in aere di sé lunga riga. È questo il dato che ha maggiore rilievo ai fini narrativi; e, perciò, di prosieguo, nell'apodosi l'ordine è invertito: così vid'io venir, traendo guai, / ombre portate da la detta briga; il procedere in fila, da una parte, distingue dalla massa l'aristocrazia del peccato d'amore, coloro che per tale passione hanno perduto la vita; dall'altra, dà il modo a Virgilio di fare a D. una rassegna ordinata di tali personaggi rappresentativi della colpa (su Paolo e Francesca l'attenzione di D. sarà richiamata dal fatto che solo essi due si trovano insieme nella schiera). Mentre in Virgilio la s. risponde a un fine schiettamente poetico o, se si vuole, ‛ retorico ', in D. assume carattere funzionale, in quanto fornisce un elemento nuovo e molto importante nel decorso narrativo dell'episodio.

La stessa immagine delle gru ritorna nel Purgatorio, e vi è atteggiata in un modo piuttosto singolare, perché viene postulato per le gru un comportamento che non è proprio e specifico di tali volatili; le due schiere dei lussuriosi nel settimo girone si dividono come due schiere di gru che prendessero due direzioni diverse, l'una verso il nord per evitare il caldo, l'altra verso il sud per sfuggire il freddo: Pg XXVI 43 ss. Poi, come grue ch'a le montagne Rife / volasser parte, e parte inver' l'arene, / queste del gel, quelle del sole schife, / l'una gente sen va, l'altra sen vene. Al parallelismo reale fra le due schiere dei dannati e le schiere delle gru, fondato su dati sensitivi, l'ordine del volo e le grida, si aggiunge un tratto ipotetico, cioè la separazione delle gru in due schiere e la direzione di volo diversa. Si ha, in ultima analisi, quasi un'anticipazione di un dato di fatto narrativo, come in un racconto in cui il disegno illustrativo preceda il discorso e lo prepari. Qui, ancora più che nella precedente assunzione del canto V dell'Inferno, si palesa la funzione strumentale che viene attribuita alla s. delle gru, mentre essa, nella versione virgiliana come in quella omerica, è proposta soltanto per l'analogia acustica.

La s., per il fatto stesso di essere elemento costitutivo di un linguaggio che, sostanzialmente, può dirsi epico, appartiene a D. poeta e narratore. Nella realtà fantastica rappresentata D. è personaggio che compie, attento e dimesso, la sua grande esperienza attraverso il mondo oltremondano; come personaggio e con gli altri personaggi degl'incontri, egli è ‛ narrato ' dal poeta, il quale pone ogni cura nel dare una fisionomia il più possibile realistica, oltre che alle figure, agli eventi e al paesaggio. Appunto in tale sforzo di realismo s'inserisce la s., che il poeta compone attingendo al suo mondo memoriale, in cui il vissuto conserva i colori vividi e i contorni netti del reale.

In alcuni casi la s., più che al fine della probatio, cioè della conferma caratterizzante della situazione, obbedisce all'istanza del linguaggio, che di essa si avvale per una più precisa determinazione sensitiva di un significato. È questo il caso della s. di colori, la cui gradazione anche nell'uso comune viene indicata con riferimento a un oggetto che è tipicamente rappresentativo di essa: If XVII 62 ss. vidine un'altra come sangue rossa, / mostrando un'oca bianca più che burro; Pg IX 115 ss. Cenere, o terra che secca si cavi, / d'un color fora col suo vestimento; XIII 47 ss. guarda'mi innanzi, e vidi ombre con manti / al color de la pietra non diversi; Pd XXVII 28 ss. Di quel color che per lo sole avverso / nube dipigne da sera e da mane, / vid'io allora tutto 'l ciel cosperso. Il poeta aggiunge, a volte, una particolare nota sensitiva o affettiva. Basti richiamare la delicata s. con la quale, in Pg VIII 26 ss., è indicata la veste degli angeli che giungono alla valletta dei principi: Verdi come fogliette pur mo nate / erano in veste.

Il tertium comparationis, cioè l'analogia o simiglianza che è alla base della s., cerca conforto nell'omogeneità dei due termini, quando esso per sé non li impegni qualitativamente, cioè non è qualificante per sé stesso. Così per le s. di un numero si nota la tendenza a proporre la comparazione fra oggetti per qualche aspetto omogenei. In altre parole, poiché il numero si offre alla comparazione soprattutto come grande quantità misurabile, il poeta, fra gli oggetti e le situazioni che sono disponibili per essa, è attratto, per solito, da ciò in cui l'analogia è valida anche per altro aspetto. Così la quantità innumerevole delle fiammelle che popolano la bolgia degli orditori di inganni politici e guerreschi è resa mediante l'immagine della miriade di lucciole, che riempiono con i loro guizzi luminosi il buio di una valle: If XXVI 25 ss. Quante 'l villan ch'al poggio si riposa... Le orribili serpi che riempiono la bolgia dei ladri sono tante quanti sono i rettili di varie specie che infestano Libia e Etiopia: If XXIV 85 ss. Più non si vanti Libia con sua rena. Il numero degli spiriti che discendono lungo la scala sublime nella sfera di Saturno (Pd XXI 31 ss. Vidi anche per li gradi scender giuso / tanti splendor) è riportato a quello degli astri nel cielo. S'intende bene come la s. numerica non comporti un puro riferimento quantitativo, ma si compia in altre analogie oggettive, in quanto non la pura nozione astratta ha poeticamente valore, bensì la nozione per quanto sensitivamente significa nelle cose.

Anche in nozioni temporali e spaziali, come rapidità, ampiezza e simili, la s. è spesso determinata, per dire così, qualitativamente nel rapporto fra gli oggetti che si mettono a confronto. Ad esempio, la rapidità del mutamento del colore del cielo nel passaggio dalla sfera di Marte a quella di Giove è resa con l'immagine del ritornare immediato del colore naturale sul volto di una donna che è arrossita per subitanea vergogna: Pd XVIII 64 ss. E qual è 'l trasmutare in picciol varco / di tempo in bianca donna. La rapidità è in ambedue i termini nel mutamento del colore. Analogamente, in Pd XXIX 25 ss. E come in vetro, in ambra o in cristallo / raggio resplende, l'immediatezza con cui la mente divina trasmette il suo triforme effetto è resa con l'immagine del raggio che investe corpi trasparenti. La s. associa la nozione di ‛ simultaneità ' e quella di ‛ raggiare ' (ne l'esser suo raggiò insieme tutto, v. 29): la metafora (raggiò) si sviluppa in una s., in cui s'integra la nozione temporale. Ancora qualche esempio. La strettezza del passaggio, attraverso cui i due poeti raggiungono il primo balzo del Purgatorio, è riferita al piccolo varco nel recinto della vigna che il contadino chiude con le spine non appena l'uva comincia a maturare: Pg IV 19 ss. Maggiore aperta molte volte impruna / con una forcatella; la nozione di ‛ strettezza ' si attiva in quella di ‛ varcare ', che è pure il movimento in atto dei due poeti. Il paragone, che vuole determinare la profondità e ampiezza dei fori in cui i simoniaci sono conficcati con la testa all'ingiù, s'integra nel ricordo di un evento personale del poeta: in uno dei fori del bel san Giovanni, alle cui dimensioni è fatto riferimento, D. vide un giorno agitare le gambe un tale che, cadutovi dentro, vi stava capofitto: If XIX 16 ss. Non mi parean men ampi né maggiori / che que'...; questa immagine, il cui ricordo dette forse lo spunto all'idea del singolare contrapasso, integra icasticamente quella del simoniaco che si piangeva con la zanca (v. 45).

Vi sono vari modi o criteri per classificare le s., che nella Commedia appaiono in numero molto cospicuo (597, secondo la classificazione fatta da L. Venturi, Le similitudini dantesche, Firenze 1911³). Si può seguire, anzitutto, un criterio formale, secondo il modulo con cui viene introdotto il secondo elemento della comparazione. Quello più frequente è l'introduzione con come del secondo elemento o con mezzi analoghi: a guisa di, più che, così... come, quale, così, tal, tal qual, cotal qual, similmente, non altrimenti, non altrimenti... come, tanto che, come se, tanto, quasi, non diverso ... Più importante, dal punto di vista stilistico, è l'ordine con cui si susseguono i due termini della comparazione. Il secondo termine precede il primo nel maggior numero dei casi: come... così, siccome... sì, come... non altrimenti, quale... cotale. Talvolta esso assume la realtà viva di un fatto attuale. Così è la s. del nascere del sole per indicare l'apparizione di Beatrice nel Paradiso terrestre: Pg XXX 22 ss. Io vidi già nel cominciar del giorno / la parte orïental tutta rosata / ... la faccia del sol nascere ombrata / ... così dentro una nuvola di fiori / ... donna m'apparve. La vivezza memoriale dell'esperienza è esplicitamente rilevata nella s. del cielo che s'illumina di stelle, richiamata per indicare lo scintillio dei lumi celesti che segue al tacer dell'aquila: Pd XX 1 ss. Quando colui che tutto 'l mondo alluma / de l'emisperio nostro sì discende / ... lo ciel, che sol di lui prima s'accende, / subitamente si rifà parvente / per molte luci... / e questo atto del ciel mi venne a mente. Il termine di paragone è addirittura ipotizzato dal poeta quando vuole dare l'immagine dei ventiquattro splendori celesti, che si muovono in duplice danza con direzione inversa: sceglie un eguale numero di stelle nel cielo e le suppone aggruppate in nuove costellazioni. Poiché il modo è inusitato, il poeta esige che l'immagine suggerita sia ben ferma nella mente: Pd XIII 1 ss. Imagini, chi bene intender cupe / quel ch'i' or vidi - e ritegna l'image, / mentre ch'io dico, come ferma rupe, - / quindici stelle. A un'ipotesi il poeta ricorre per dichiarare il fulgore dell'anima di Giovanni Evangelista: se nel Cancro vi fosse uno splendore uguale, la notte ne sarebbe così illuminata da fare di tutto il mese un solo giorno: Pd XXV 100 Poscia tra esse un lume si schiarì / sì che, se 'l Cancro avesse un tal cristallo, / l'inverno avrebbe un mese d'un sol dì. La situazione ipotizzata ha talvolta un legame più stretto con l'esperienza. Nella s. che vuole rendere l'intensità del fumo, in Pg XVI 1 ss. Buio d'inferno e di notte privata / d'ogne pianeto, sotto pover cielo, / quant'esser può di nuvol tenebrata, / non fece al viso mio sì grosso velo / come quel fummo ch'ivi ci coperse, l'espressione buio d'inferno è la sottolineatura verbale di un'oscurità notturna sotto un cielo ottenebrato dalle nuvole.

Questo premettere una situazione di realtà fantastica terrena come immagine che rappresenti al vivo per s. la realtà oltremondana è un aspetto di quella rivendicazione di verità poetica, che D. costantemente proclama. L'invisibile diventa visibile.

Il criterio più ovvio per una classifica delle s. nella Commedia è quello di distinguerle secondo i vari campi dai quali è attinta la materia del raffronto. Questo criterio è stato seguito da L. Venturi nella rassegna che abbiamo sopra ricordato; e ha il pregio di contribuire alla biografia poetica dell'artista, in quanto scopre il mondo delle sue esperienze. Da un lato, risulta illuminata la sua posizione nei confronti del mondo della natura e di quello degli uomini; dall'altro, le s. di origine colta e letteraria aprono uno spiraglio sulla formazione intellettuale e su indirizzi e predilezioni nei confronti della tradizione colta.

Delle s. che appaiono nella Commedia, la maggior parte si riferisce a dati sensitivi e reali legati con fenomeni della natura, il cielo, il sole, l'aurora, la luna, le stelle, il vento, il fuoco, l'acqua, la neve, la terra, le piante, i fiori, gli animali, la luce, i colori, oppure ad aspetti concreti dell'uomo, alla sua vita fisica, alla sua attività relazionale, ai suoi affetti; anche le nozioni di tempo e di spazio sono riportate sempre a fatti dell'esperienza sensitiva. Solo un decimo delle s. ha come termine di riferimento un dato propriamente culturale, solitamente ricavato dalla Sacra Scrittura e, non meno, dalla mitologia antica. Occorre precisare che, fra i due campi, quello dell'esperienza diretta e quello culturale, non c'è differenza circa il grado di verità, poiché nel secondo caso la verità è garantita dall'autorità della tradizione.

Riprova di ciò si ha nella pari misura di credibilità, che viene postulata per s. derivate dai diversi campi per illustrare uno stesso episodio; ma, certo, i riferimenti a dati culturali non possono competere per vivezza rappresentativa con quelle che sono il frutto di un'esperienza propria. Variamente efficaci sono, ad esempio, le tre s. dalle quali è ravvivata l'inusitata vicenda di cui è protagonista Vanni Fucci e della cui rappresentazione il poeta fa dichiaratamente una prova di bravura.

La prima fa riferimento alla prassi della scrittura al fine di indicare un gesto che si compie molto rapidamente; gli antichi commentatori rilevarono il motivo della scelta delle lettere i e o: basta per esse un solo tratto di penna (" sono due lettere che si scrivono più tosto che tutte le altre, in una tratta ", osserva il Buti). Così, immediatamente dopo la trafittura del serpente, il dannato si accese e bruciò, riducendosi in cenere.

L'immagine delle ceneri, che si raccolgono in massa per moto spontaneo, viene illustrata con il mito prettamente letterario e largamente diffuso della fenice, che dopo cinquecento anni s'incenerisce e rinasce. Le concordanze verbali rendono probabile che il poeta abbia tenuto presente il carme attribuito all'apologista Lattanzio che tratta del mitico uccello, assunto nel simbolismo cristiano. Ma circa la caratterizzazione di esso (erba né biado in sua vita non pasce, / ma sol d'incenso lagrime e d'amomo, If XXIV 109-110) e la modalità della morte e della rinascita, il modello è Ovidio nel libro XV delle Metamorfosi. La rievocazione dantesca conserva fedelmente i toni e i colori assunti dal mito nella tradizione poetica.

L'atteggiamento del dannato, che, tornato alla sua figura, si alza dal mucchio di cenere in cui si era dissolto, è reso icastico dalla s. dell'ammalato di epilessia che si riprende dopo essere caduto a terra privo di coscienza in preda a un attacco del suo male. L'uomo che ritorna in sé, intanto che si alza, è colto in tratti di vivo realismo: egli si guarda intorno, ancora tutto confuso (smarrito, come perduto a sé stesso) a motivo della dura sofferenza subita (angoscia), e nel guardare sospira; il respiro è, insieme, indizio del ritorno alla vita e del sollievo che vi si congiunge: palesemente il poeta associa con la perdita della coscienza una sofferenza quasi mortale.

Il giro della s. si conchiude con l'affermazione della perfetta aderenza della realtà immaginata con quella dell'esperienza vissuta: tal era 'l peccator levato poscia, If XXIV 118). Invece, la s. della fenice non ha bisogno alcuno di conferma, tanta è l'autorità del mito. Ma nelle due s., questa ripresa fedelmente dalla tradizione letteraria, l'altra frutto di osservazione diretta, si ha la misura di quanto più alto sia l'apporto dell'esperienza sensitiva nei confronti della suggestione letteraria.

L'origine colta della s. favorisce, a volte, una deviazione, per la quale la soggettività del narratore s'ingerisce indebitamente nella realtà rappresentata, turbando con elementi di razionalità la natura schiettamente sensitiva dell'immagine. Si considerino le due s. con le quali viene illustrata la visione della bolgia degli orditori di inganni politici e guerreschi (If XXVI): una a rendere l'immagine della bolgia fitta di luci, l'altra quella del guizzare rapido della fiamma che veste il singolo dannato. La prima è attinta dall'esperienza diretta della natura, e l'immagine delle lucciole s'integra nella rappresentazione della sera agreste estiva. Essa mette in rapporto due atteggiamenti di visione: quello del contadino, che, guardando una bella valle, scorge miriadi di lucciole senza poter essere certo del luogo in cui si trovano, giacché il buio toglie il senso della profondità; e quella del visitatore, che, giunto al culmine del ponte, getta uno sguardo nella bolgia e la vede fitta di piccole luci mobili: If XXVI 25 ss. Quante 'l villan ch'al poggio si riposa / ... vede lucciole giù per la vallea, / forse colà dov'e' vendemmia e ara: / di tante fiamme tutta risplendea / l'ottava bolgia. La s. è pienamente obiettivata nei suoi termini; persino la determinazione temporale è data con due perifrasi, le quali si pongono nell'ambito dei fatti che misurano il tempo del contadino: l'estate è indicata mediante la maggiore lunghezza della giornata, a sua volta rilevata nella più lunga presenza del sole come forza amica personificata (colui che 'l mondo schiara); l'avvento della sera è indicato come la fine del regno della mosca e l'inizio di quello della zanzara (come la mosca cede a la zanzara): due fatti di viva esperienza campestre.

La seconda s. è costituita dall'episodio biblico del rapimento del profeta Elia su un carro di fuoco, sotto gli occhi del suo discepolo Eliseo: E qual colui che si vengiò con li orsi (vv. 34 ss.). Anche qui i termini sono le due visioni: da una parte, quella di Eliseo, che segue con lo sguardo il carro di fuoco su cui si trova il profeta; dall'altra, la visione di D.; ma questa è già oggettivata, come cosa veduta, ed è investita da un pensiero che dà ragione della s., al di là del puro dato sensitivo. Infatti, è detto che ogni fiamma si muove per la cavità della bolgia come la fiamma sola veduta da Eliseo; ma nessuna mostra quello che ha nascosto dentro e ogni fiamma si porta via, sottraendolo alla vista (ché nessuna mostra 'l furto, / e ogne fiamma un peccatore invola, vv. 41-42), un dannato, così come il carro fiammeggiante si portò via il profeta.

Come si vede, la s. non riguarda solo il comportamento della fiamma quale risulta alla vista, bensì anche il fatto che ogni fiamma nasconde un'anima dannata, così come la fiamma lontana nascondeva Elia agli occhi di Eliseo. Interviene, dunque, in essa, oltre al dato sensitivo, un'informazione, un sapere riflesso: è palese che il poeta si serve della s. biblica per comunicare che dentro ogni fiamma c'era un dannato. Dall'esperienza diretta difficilmente gli si sarebbe offerta una s. atta ad avvalorare il dato istoriale della fantasia. Ma come faceva il pellegrino D. a sapere che dentro ciascuna fiamma c'era un dannato? A sanare questa incongruenza narrativa è dedicato il chiarimento dei vv. 50-51 già m'era avviso / che così fosse, e già voleva dirti.

Un altro criterio di raggruppamento sistematico delle s. dantesche è quello fondato sulla diversa natura del primo termine, cioè del dato che la s. è chiamata a porre in evidenza nei suoi particolari caratteri. Atteggiamenti corporei e stati d'animo, aspetti particolari del paesaggio, caratterizzazione sensitiva di cose e di eventi, obiettivazione analogica di nozioni astratte, costituiscono ampie sezioni, nelle quali trova posto questo aspetto tipico della creatività dantesca.

Un numero assai cospicuo di s. è costituito da quelle nelle quali una particolare circostanza di comportamento o di coscienza si rifà a un analogo atteggiamento umano assunto come tipico. Sono le s. del tipo attento si fermò com'uom ch'ascolta (If IX 4).

Un siffatto modulo è usato ora per indicare un atteggiamento del corpo alquanto inconsueto (ad esempio, e aggrappossi al pel com'om che sale, If XXXIV 80), ora, soprattutto, per rilevare l'atteggiamento del corpo in relazione a uno stato o attività della coscienza (lf XIII 45 stetti come l'uom che teme; XV 44 'l capo chino / temea com'uom che reverente vada; Pg II 11 come gente che pensa a suo cammino, / che va col cuore e col corpo dimora). Di questo tipo è chiaro esempio la s. di If I 22 ss. E come quei che con lena affannata, / uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l'acqua perigliosa e guata, / così l'animo mio; oppure, Pg IX 41 ss. diventa' ismorto, / come fa l'uom che, spaventato, agghiaccia. Talvolta, la s. serve a tipizzare un processo puramente interiore: ad esempio, Pg IX 64 ss. A guisa d'uom che 'n dubbio si raccerta / e che muta in conforto sua paura, / poi che la verità li è discoperta, / mi cambia' io.

Il modulo ha il suo precedente in Virgilio Aen. II 379 ss. " Improvisum aspris veluti qui sentibus anguem / pressit humi nitens trepidusque repente refugit / attollentem iras et caerula colla tumentem; / haud secus... ", ed è frequente nei poeti della Scuola siciliana: cfr. Iacopo da Lentini Maravigliosamente 4 ss. " Com'om che pone mente / in altro exemplo pinge / la simile pintura, / così, bella, facc'eo "; vv. 28 ss. " Al cor m'arde una doglia, / com'om che ten lo foco / lo suo seno ascoso / ... similemente eo ardo "; Troppo son dimorato 27 " Com[e] quelli ca cerca ciò che teme ". Spesso la s. assume il carattere della parabola: Mazzeo di Ricco Sei anni ho travagliato 24 ss. " ché l'omo ch'è malato, / poi che torna in sanare, / lo male c'ha passato / e lo gran travagliare, / tut[t]o met[t]e in obria ". Ma l'uso assai largo che ne è fatto nella Commedia attesta che esso risponde a un'esigenza intrinseca al rappresentare dantesco; è il modo del conoscere che detta la legge del suo obiettivarsi. Quasi che la realtà fantastica si offra alla visione della mente come immagine tenue di colori e di rilievi, il poeta, nell'esprimerla, interviene vigorosamente su essa, imprimendole i tratti incisivi di un'esperienza reale precisa e sicura. In ciò gli soccorre una disponibilità memoriale di notazioni, incomparabile per vastità e penetrazione.

Infatti, il richiamo alla realtà umana non coglie solo atteggiamenti comuni nel comportamento umano (come colui che nove cose assaggia, Pg II 54; come persona in cui dolor s'affretta, X 87, e simili), ma riporta a situazioni particolari, alla cui base c'è una esperienza di cose umane vividamente caratterizzata dall'acutezza dell'osservazione e dalla vivacità degli stimoli e delle impressioni. Basterà ricordare il modo incisivo con cui viene reso e quasi scolpito l'incontro con i violenti contro natura in If XV 16 ss.; una prima s. rileva l'attenzione generica di chi, allo scarso lume della nuova luna, cerca di riconoscere la persona in cui s'imbatte: e ciascuna / ci riguardava come suol da sera / guardare uno altro sotto nuova luna; l'altra precisa lo sforzo del vedere nel modo con cui un vecchio sarto dalla vista indebolita stringe le palpebre e aguzza la vista per poter infilare il filo nell'ago: e sì ver' noi aguzzavan le ciglia / come 'l vecchio sartor fa ne la cruna. L'immagine del vecchio artigiano è quasi un avvio a quella di ser Brunetto, il vecchio maestro che subito prende il campo nella realtà della rappresentazione. In Pg XII 127 ss., la sorpresa e il gesto spontaneo con cui D. accoglie la notizia che uno dei sette P era raso dal suo volto, sono ‛ realizzati ' mediante la s. di colui che dai gesti degli altri apprende di avere sulla testa cosa che egli non può vedere: Allor fec'io come color che vanno / con cosa in capo non da lor saputa, / se non che ' cenni altrui sospecciar fanno; / per che la mano ad accertar s'aiuta, / e cerca e truova e quello ufficio adempie / che non si può fornir per la veduta. La s. motiva interiormente il gesto e lo accompagna, definendolo nella sua concretezza.

La s. dantesca tratta dal mondo umano ha il carattere e la pienezza delle cose esperite. La calca delle anime in attesa che stringono il visitatore chiedendo suffragi, e l'avanzare a fatica di lui, che promette a questo e a quello, sono rese visive nella s. famosa del vincitore nel giuoco della zara, intorno a cui, mentre si allontana, fanno ressa i postulanti: Pg VI 1 ss. Quando si parte il gioco de la zara; certo, una scena vista nella vita cittadina. Il compiacimento e il triplice abbraccio di s. Pietro al ‛ baccelliere ' D., che ha dimostrato la perfezione delle sue conoscenze teologiche, si concretano nell'immagine del signore che abbraccia affettuosamente il servo che gli ha portato buone novelle: Pd XXIV 148 ss. Come 'l segnor ch'ascolta quel che i piace, / da indi abbraccia il servo. La s. è quasi preparata dalla qualifica di ‛ barone ' data all'apostolo (E quel baron, v. 115). L'avventura celeste dell'uomo è riportata a termini umani dalla sua stretta realtà fantastica e quasi si ‛ socializza ' nella concreta storicità del confronto.

É, certo, mirabile il modo con cui il poeta riesce a fermare in un preciso riferimento i moti più delicati dell'animo femminile e i loro riflessi. Beatrice, all'udire l'invettiva di s. Pietro contro Bonifacio VIII, pur essendo del tutto estranea alle colpe di questo, tradisce il suo imbarazzo e il suo disagio, come per un'involontaria complicità: Pd XXVII 31 ss. E come donna onesta che permane / di sé sicura, e per l'altrui fallanza, / pur ascoltando, timida si fane, / così Beatrice trasmutò sembianza. S'intende bene come la teologia, scienza delle cose divine, non sia responsabile del decadere della Chiesa per colpa del suo più alto esponente; ma essa non può rimanere indifferente dinanzi alle storture e ai peccati di un mondo con il quale è solidale.

Quanto alla caratterizzazione del dato strutturale, paesistico dell'oltretomba, spesso l'analogia che la effettua s'inquadra nel ricordo di un'esperienza che la coglie al centro di tutta una situazione. Come esempio tipico si potrà assumere il panorama dell'arsenale di Venezia, fervido di opere, che contorna l'immagine della pece bollente nelle caldaie, evocata a illustrazione della pegola, nella quale sono immersi i barattieri: If XXI 7 ss. Quale ne l'arzanà de' Viniziani / bolle l'inverno la tenace pece... A volte l'analogia è precisata e corretta e contribuisce così al progresso del discorso. Le tombe scoperchiate in cui sono puniti gli eresiarchi evocano la visione dei sepolcreti di Arli e di Pola (If IX 112 ss. Sì come ad Arli, ove Rodano stagna); ma il poeta sente il bisogno di precisare la s. in base alla propria impressione: lo spettacolo dei sepolcri degli eresiarchi è assai più doloroso, a motivo delle fiamme sparse che arroventano gli avelli (salvo che 'l modo v'era più amaro, v. 117).

Come gli elementi del paesaggio, così l'evento di cui il poeta si vede protagonista o spettatore si chiarisce e precisa mediante riferimenti a dati di viva esperienza. La rapidità con cui il barattiere Ciampolo si tuffa nella pece, rubando il tempo al diavolo che gli era volato contro per afferrarlo prima che s'immergesse, diventa tutt'uno con quella dell'anatra che, tuffandosi di botto nell'acqua, si sottrae all'assalto del falcone: If XXII 130 ss. non altrimenti l'anitra di botto, / quando 'l falcon s'appressa, giù s'attuffa. A sua volta, il volo del falcone viene precisato nel suo virare dal pelo dell'acqua con la rappresentazione del modo con cui il diavolo torna su dopo il colpo mancato: quelli andò sotto, / e quei drizzò volando suso il petto (vv. 128 ss.).

L'esatta interpretazione dei riferimenti esige, ovviamente, la conoscenza di quei dati precisi di osservazione che erano disponibili per il poeta; mancando questa condizione, la lettura viene a trovarsi di fronte a problema più o meno arduo. Si possono ricordare le molte interpretazioni che sono state date della s. del volo del falcone, che rende l'immagine della discesa di Gerione nella cavità infernale (If XVII 127 ss.). Il falcone fa innumerevoli giri quando sale per allargare sempre più il suo campo visivo e discende direttamente sulla preda o al richiamo; epperò, quando è stato tenuto assai sulle ali (è frase tecnica: ch'è stato assai su l'ali) dal cattivo falconiere, discende a giri lenti. Qui si può richiamare la qualifica del serpentello nella bolgia dei ladri (If XXV 84 livido e nero), che è stata lungamente dibattuta in vario senso, poiché è sfuggito che i due aggettivi riflettono l'immagine del rettile eretto: in tale posizione la parte che striscia sul terreno, ‛ livida ', diventa visibile a chi si trova di fronte; come gran di pepe si riferisce solo alla qualifica di nero.

Una funzione, per la quale la s. dantesca più si lega e fa corpo con il tessuto narrativo, è quella che mira a rendere apprendibile o, comunque, chiara, mediante il riferimento a un fatto di esperienza, una nozione astratta, come una norma etica o un sapere scientifico.

Nella tradizione classica la s. è quasi esclusivamente diretta a illustrare una situazione particolare mediante un dato di fatto avvertito come tipico nell'esperienza comune o nell'uso letterario, ed è assai raro il caso che essa sia addotta a illustrare un fatto di ordine generale, una norma etica o un pensiero astratto. Nei poemi omerici si può ricordare come unica la splendida s. delle foglie, con cui è illustrata la caducità rinnovantesi delle generazioni umane.

Nella Commedia qualche s. sembra si ponga in tale solco. Così quelle che si riferiscono alla caducità della fama: Pd XXVI 137 ss. ché l'uso d'i mortali è come fronda / in ramo, che sen va e altra vene; Pg XI 115 ss. La vostra nominanza è color d'erba, / che viene e va. I riferimenti con i quali è illustrata la labilità del ricordo per chi non ha in vita conseguito fama (If XXIV 50 ss. cotal vestigio in terra di sé lascia, / qual fummo in aere e in acqua la schiuma) riportano a precedenti biblici (Sap. 5, 15 " spes impii tanquam lanugo est, quae a vento tollitur, / et tanquam spuma gracilis, quae a procella dispergitur, / et tanquam fumus, qui a vento diffusus est, / et tanquam memoria hospitis unius diei praetereuntis "; Os. 10, 7 " quasi spumam super faciem aquae ", e altrove).

La s. a chiarimento di nozioni di carattere etico e, perciò, generali è frequente nella Scrittura (Ps. 1, 3 " Et erit tamquam lignum, quod plantatum est "); e altrettanto frequente è la parabola di tipo metaforico (Ps. 7, 16 " Lacum aperuit et effodit eum / et incidit in foveam quam fecit "). A questo tipo di parabola si riportano alcune s. dantesche di contenuto sentenzioso. Basterà ricordare Pd XVI 70 ss. e cieco toro più avaccio cade / che cieco agnello; e molte volte taglia / più e meglio una che le cinque spade; Pg XXX 118 ss. Ma tanto più maligno e più silvestro / si fa 'l terren col mal seme e non colto, / quant'elli ha più di buon vigor terrestro.

Come vera e propria necessità di espressione, la s. appare nei casi in cui l'intuizione astratta trova in un'immagine concreta un tramite necessario di comunicabilità. Il caso si pone, anzitutto, per l'istanza di rappresentare esperienze sensitive rare; si pensi, per ricordarne una certo fra le più belle, alla s. con cui, in Pd XXIII 25 ss., il poeta rende l'immagine del viso di Beatrice splendente di letizia: Quale ne' plenilunïi sereni / Trivïa ride tra le ninfe etterne.

La nozione di volontà viene resa, in Pd IV 77 ss., con l'immagine del fuoco: ma fa come natura face in foco, / se mille volte vïolenza il torza. Alla s. con il fuoco il poeta ricorre anche per rendere la natura dell'amore, in Pg XVIII 28 ss. Poi, come 'l foco movesi in altura / per la sua forma ch'è nata a salire / là dove più in sua matera dura, / così l'animo preso...

L'idea del costituirsi dopo la morte di un corpo umano fatto d'aria, ma fornito di tutte le facoltà sensitive, è illustrata mediante la comparazione al fenomeno affascinante dell'arcobaleno, in Pg XXV 91 ss. E come l'aere, quand'è ben pïorno, / per l'altrui raggio che 'n sé si riflette, / di diversi color diventa addorno; / così l'aere vicin...

All'immagine dell'arcobaleno, seguita da quella del fuoco, D. ritorna in Pd XXXIII 115 ss., per cercare di esprimere la visione ineffabile di Dio: Ne la profonda e chiara sussistenza / de l'alto lume parvermi tre giri / di tre colori e d'una contenenza; / e l'un da l'altro come iri da iri / parea reflesso, e 'l terzo parea foco / che quinci e quindi igualmente si spiri.

Se si considerano i due criteri di classificazione delle s., ai quali si è sopra accennato, nel loro reciproco rapporto, è ovvio che l'uno e l'altro appaiono pienamente validi per la stessa biunivocità che la comparazione comporta, e che essi, integrandosi, concorrono a dare un'immagine compiuta della funzione poetica assolta dalla figura. Ovviamente, il carattere biunivoco della s. fa sì che si riscontri una connessione di campi. Ciò rende conto del fatto che, ad esempio, le s. con animali prevalgono nell'Inferno e le s. con fenomeni celesti abbiano prevalenza assoluta nel Paradiso.

Se si tiene conto del disuso in cui il modulo era caduto e dei modelli che si ponevano al poeta, la s. in D. appare formula quasi spontanea e, certo, originalissima di discorso poetico: essa è un aspetto del realismo che contrassegna il linguaggio dantesco come sostanziale istanza di concretezza. Il mondo poetico che tendeva all'obiettivazione linguistica era una trasfigurazione fantastica di esperienze di vita e di cultura, la quale esigeva riconoscimento come verità assoluta. La necessità di esprimere comportava il riferimento a dati esperiti, che potessero fare assumere quel mondo irreale, come realtà vissuta. La s. costituisce uno dei più importanti mezzi d'intervento sull'immagine al fine d'inciderne più nettamente i contorni e di approfondirne i rilievi con tutti i riferimenti sensitivi e affettivi che l'esperienza vi unisce. La sua funzione è, inoltre, esaltata dalla necessità di dare consistenza di simboli e d'immagini reali a sentimenti e idee, dottrine e teorie, così che anche l'astratto diventi realtà viva nello spazio poetico.

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