SIMBOLI e ATTRIBUTI

Enciclopedia dell' Arte Antica (1966)

SIMBOLI e ATTRIBUTI

S. Donadoni
G. Garbini
R. Brilliant
A. Tamburello

I. Egitto. - II. Asia Anteriore. - III. Grecia e Roma. - IV. India. - V. Cina. - VI. Giappone.

I. Egitto. - In Egitto dalla più remota antichità vien trasmessa all'età storica una serie di segni o di oggetti ai quali viene dato valore convenzionale, spesso di ultima e non più esplicabile origine religiosa (mitologica o cultuale). La principale serie che possiamo seguire dall'età predinastica in poi è quella che in età storica designa le singole province egiziane (i "nômi"), ognuno dei quali ha un particolare S.: animale, pianta, oggetto naturale o manufatto, non sempre identificabile. Tali segni appaiono in un certo numero come "bandiera" di navi raffigurate su vasi fittili a Naqādah e, probabilmente, hanno già il significato sicuro per l'epoca più tarda. In molti casi, ma non in tutti, è evidente che c'è una relazione con la divinità delle singole città capitali dei nômi; e, in raffigurazioni arcaiche, alcuni di quei segni appaiono anche connessi con edifici che sono appunto i templi di tali divinità (così le frecce e lo scudo che appaiono come segno del nomo saitico, figurano come insegna di navi e son raffigurati in un edificio che va inteso come il tempio di Neith a Sais su un suggello protodinastico).

Questo nesso fra l'attributo divino, la divinità e il segno di ciò che con la divinità è geograficamente connesso è solo quel che a noi appare come il più antico impiego di S. in Egitto. Ma assai presto abbiamo un'altra serie di figurazioni a carattere simbolico: è quella che nasce - insieme? - con la scrittura geroglifica. La quale, per sua natura, facilmente è portata ad attribuire un valore particolare e "simbolico" a ideogrammi che debbano rappresentare concetti astratti o cose invisibili. La vela rappresenta il "vento", e perciò il respiro: avviene di trovare una piccola vela in mano a figurazioni di defunti, come garanzia della loro mantenuta (o rinnovata) capacità di respirare, e cioè di sopravvivere alla morte. Un caso come questo comporta un facile simbolismo, cui si potrebbero aggiungere altri esempî. In altri casi invece il procedimento sembra assai più complesso. Così uno scettro, che si legge sém, vuol indicare la "potenza"; un pilastro (?) che si legge ãã, vuole indicare la "stabilità"; una fune variamente annodata indica s3, la "protezione"; un altro scettro da leggere w3s, indica la "durata", e così via. Questi segni raffigurano oggetti di carattere sacro e dei quali talvolta si trova testimoniato il culto: si tratta di feticci - sembra - e il loro nome è quello di una loro particolare o predominante qualità. Quando li si raffigura si può anche dimenticare cosa essi siano: così il dd, "stabilità", probabilmente un pilastro, è inteso come la "spina dorsale di Osiris"; e la sua forma che in un esemplare arcaico è quella di un'alta base cilindrica sormontata da alcuni dischi più larghi, in tutta l'età seguente è invece determinata dalla rappresentazione bidimensionale di tale oggetto, e cioè una base rettangolare, traversata in alto da alcune strisce. E tale forma è usata anche quando dell'oggetto si hanno raffigurazioni a tutto tondo.

A questa serie si può forse aggiungere come qualcosa di ancora diverso l'uso di certi geroglifici il cui significato grafico è andato obliterato, e che valgono esclusivamente per quel che è il loro valore convenzionale. Quel che (forse) è la cinghia del sandalo significa la "vita" - e come tale il segno è regolarmente collocato come attributo in mano alle divinità (che talvolta lo danno a respirare a chi le adora) o può essere raffigurato che esce dai vasi della purificazione, a indicare che l'acqua che ne esce è, come dicono i testi, "acqua di vita".

Per ragioni diverse, dunque, si hanno segni che figurano nella scrittura e che possono valere al di fuori di ogni contesto, forniti di un loro autonomo e simbolico valore. Essi possono essere adoperati nella decorazione, alla quale è probabile che in origine siano adibiti con una finalità fra magica e augurale: le decorazioni con il segno della "stabilità" già nella "piramide" di Djoser (e l'uso si mantiene, aggiungendo la "durata", la "protezione", la "vita", per tutta la storia egiziana) vanno certo intese così.

A tali s., altri vanno aggiunti di più limitato significato, politico o geografico. Il sovrano, che è il cardine della società egiziana, è spesso in età arcaica rappresentato non in forma umana, ma come leone o toro (o, forse, falco): dalla raffigurazione di questo leone simbolico che allude a un personaggio umano nasce la figura della sfinge (v.), il cui carattere composito allude originariamente proprio a questo.

Tali S. sono facilmente spiegabili. Anche un S. politico è quello che indica i "nemici dell'Egitto", rappresentati come "nove archi": "nove" è un plurale di un plurale (il tre, plurale per eccellenza), e cioè la completa totalità; arco" l'arma barbarica di Semiti e di Nubiani. Tali "nove archi" vengono spesso raffigurati sotto i piedi delle statue regali, e con ciò si manifesta il carattere vittorioso del re (simili rappresentazioni in ambiente funerario sottolineano l'assimilazione dei singoli defunti al sovrano). Similmente, nelle statue regali sedute, ai due lati del trono è di regola raffigurata la "Unione delle Due Terre" che celebra la cerimonia con cui si commemora, all'inizio del singolo regno di ogni sovrano, il momento iniziale della storia dinastica: è il segno dell'"unione" (sm3) che intreccia una pianta di gigli e una di papiro, simbolo rispettivamente dell'Alto Egitto e del Delta. In età più recente, e con una mentalità di più ampio respiro imperialista, a tale S. si sostituisce quello della sm3 che unisce un asiatico e un negro.

Il giglio e il papiro sono s. geografici (che assumono anche precise formulazioni araldiche) di chiara natura. L'oriente e l'occidente, invece, hanno altri S. assai meno chiari: quello dell'oriente è di dubbia identificazione (una lancia? un lingotto di metallo?) quello dell'occidente comporta una penna di struzzo - forse una caratteristica del costume libico. (Tale penna - e non sappiamo perché - è anche usata come simbolo della "verità": ma sarà da considerarsi per ragioni connesse con il sistema della scrittura geroglifica: v. scrittura).

Con i s. sono strettamente connessi gli attributi. Essi spettano fondamentalmente alle divinità, al sovrano e a particolari personaggi. Taluni sono generici (così le divinità maschili portano uno scettro w3s, le divinità femminili uno scettro costituito da un fusto di papiro, con qualche eccezione). Altri sono particolari. Un elenco delle principali divinità che abbiano attributi caratteristici, è il seguente:

Amon: ha sul capo un modio con due alte penne verticali. Dalla nuca scende un'appendice lunga quanto il corpo. Talvolta il volto del dio è di colore azzurro.

Anubis: è connesso con un segno di una pelle di animale appesa a un palo (?) simbolo forse di un più antico dio Imy-wt, in seguito identificato con Anubis.

Atum: ha le corone regali, come sovrano.

Bastet: ha in mano un cestello e al braccio un'"egida".

Divinità solari: in genere, hanno capo di falco sormontato dalla immagine del disco solare con ureo.

Gēb: dio della terra ha sul corpo disegni di piante.

Ḥathür: ha corna di giovenca e disco solare fra le corna. Le è attribuito il sistro e il contrappeso della collana (menat).

Khnum: dio creatore ha il tornio da vasaio su cui plasma l'umanità.

Maat: ha la penna di struzzo che serve a scriverne il nome.

Min: ha come attributo un particolare edificio (probabilmente il suo tempio caratteristico) e una particolare pianta (lattuga?), e il flagello.

Mut: ha un'acconciatura a forma di avvoltoio (che è connesso con la grafia del suo nome).

Nefertum: originariamente un dio-fiore, ha come attributo un fiore.

Neith: ha come attributo arco e frecce.

Osiris: ha come attributo una particolare corona (3tf) con corna e piume, il pastorale e il flagello. Ad Abido è connesso con un feticcio che passa per il "reliquiario" della testa del dio.

Ptah: porta in mano il segno della "durata", della "stabilità" e della "vita" composti in uno scettro unico che gli è proprio. È raffigurato calvo e con una barba corta e diritta, in contrapposto a quella di tutti gli altri dèi, che è lunga è curva in avanti alla punta. In genere è raffigurato entro un naòs, e su un piedistallo di forma caratteristica.

Seth: ha come attributo il color rosso.

Èhu: ha una piuma (è il dio del "vuoto", dell'aria).

Sokaris: ha una speciale barca portata su una treggia.

Sopdu: ha barba all'asiatica e abito asiatico.

Thot (e Khonsu) hanno il disco lunare sul capo. Scriba degli dèi, Thot ha spesso tavoletta e calamo.

L'elenco potrebbe essere di molto aumentato: comprende solo gli attributi più particolari ed evidenti, e non tiene conto di quelli che son particolari iconografici. In particolare numerose e tipiche sono le corone.

Corone e scettri caratterizzano anche il sovrano, che ne ha di diverse a seconda della funzione che esplica e del profilo sotto cui è considerato (così c'è una corona d'Alto Egitto, "la bianca", e del Delta "la rossa", con un ben noto simbolismo dei colori), ecc. Il sovrano, del resto, mutua dagli dèi alcuni attributi: da Osiris ha così il flagello e il pastorale, dalle divinità solari l'ureo. Ha un particolare perizoma, e porta spesso una coda animalesca (di toro, o di lupo) resto di un costume caduto in disuso in epoca storica. Ha anche una barba posticcia, e un particolare copricapo (nms).

Caratteristiche di costume che tendono ad assimilare la regina a divinità femminili son frequenti specie nel Nuovo Regno. Ma anche fra i personaggi non regali ci sono attributi che indicano la classe o le funzioni. I nobili dell'età memfita portano in genere uno scettro sém in una mano e un bastone nell'altra. Spesso hanno una corta barba, che si manterrà anche in età più tarda. Nel Nuovo Regno i flabelliferi e i portastendardo - cariche assai ambite a corte - portano le insegne della loro funzione. In particolare vesti speciali hanno il visir, alcuni sacerdoti (fra i quali notevole il sem che porta sulla veste una pelle di pantera), i giudici che portano al collo l'insegna del loro grado.

Bibl.: K. Sethe, Urgeschichte und älteste Religion der Aegypter, Lipsia 1930, Par. 7-23 (tipologia e attributi divini); H. Kees, Aegypten (Kulturgesch. des Alten Orients, I), Monaco 1933, p. 315 ss. (per il simbolismo religioso); id., Der Götterglaube im alten Aegypten, Lipsia 1941, p. 145 (attributi); id., Bemerkungen zum Tieropfer der Aegypter und seine Symbolik, in Goett. Nachr. Phil.-hist. Kl., 1942, n. 2; id., Farbensymbolik, ibid., 1943; S. Schott, Symbol und Zauber als Grundform altaegyptischen Denkens, in Studium Generale, VI, 6, 1953, p. 278 ss.; R. T. Rundle Clark, Myth and Symbol in Ancient Egypt, Londra 1959.

(S. Donadoni)

II. Asia Anteriore. - La sostanziale autonomia della civiltà mesopotamica in epoca storica rispetto a quella egiziana, si rivela anche nel diverso atteggiamento manifestato dalle due culture nei riguardi del simbolismo. La ricchezza dei S. egiziani, rivelatrice di una vivacità fantastica che si potrebbe riportare alla componente africana della civiltà faraonica, contrasta nettamente con l'assenza pressoché totale di s. nella civiltà sumerica dove, al processo di astrazione che sta alla base di una concezione simbolica, si oppone un'aderenza al dato sensibile quale appare evidente, ad esempio, nel sistema di scrittura la quale, del resto, a differenza di quanto avviene in Egitto, non fornisce alcun segno grafico al repertorio simbolistico. Il vasto repertorio figurativo, geometrico e naturalistico, che caratterizza la produzione artistica della Mesopotamia preistorica e protostorica e dal quale deriva forse qualche segno di scrittura (Goff), può essere considerato solo in parte veramente simbolico (e anche in tal caso difficilmente documentabile come tale), mentre per il resto si tratta della formazione di un repertorio iconografico che si stabilisce con valore di segno più che di immagine. La stessa regalità non assumerà mai in Mesopotamia un segno che ne esprima simbolicamente la natura, come avviene invece non soltanto in Egitto, ma anche in uno stato di regalità "laica" come quello hittita.

Anche la raffigurazione della divinità obbedisce ad un criterio di concretezza: per gran parte della loro storia i Sumeri dettero ai loro dèi un aspetto completamente antropomorfo; il significato simbolico connesso alle raffigurazioni, perlopiù di animali, attestate specialmente nella glittica arcaica, va riportato infatti nell'ambito delle raffigurazioni mitologiche, essenzialmente non dissimili, a parte i tipi iconografici, da quelle che troviamo in Egitto. Numerosi furono invece gli attributi che accompagnavano le figure divine e che servivano a individuarle quando la loro personalità non era rivelata da atteggiamenti peculiari. Vediamo così Utu, il sole (v. shamas), accompagnato da un toro, a volte androcefalo; Enki (v.), il dio delle acque, con rivi che gli spuntano dalle spalle ed entro i quali talvolta guizzano dei pesci; Inanna (v. ishtar), dea della fecondità, dell'amore e della guerra, con elementi vegetali o armi che le spuntano dalle spalle o con un grappolo di datteri in mano. Tutte le divinità, inoltre, sono caratterizzate come tali dalla tiara a corna. Accanto a questi attributi, che possono considerarsi secondari in quanto acquisiti col progressivo caratterizzarsi delle diverse figure divine (attributi non sempre facilmente individuabili ed ancor più difficilmente riferibili a specifiche divinità), ne esistono altri che appaiono più intimamente legati alla natura originaria delle divinità. Così manna, ad esempio, appare raffigurata, sia in scene di carattere liturgico sia, cosa ancor più significativa, nel pittogramma che ne rende graficamente il nome, da uno o da due fasci di canne, legate e incurvate superiormente: sono gli stipiti della capanna di canne, dell'ovile, che rivelano un altro aspetto originario, di carattere pastorale questa volta, della complessa personalità della dea. Forse a questo periodo protostorico (inizio del III millennio a. C.) risale un simbolo che più tardi comparirà sempre in rapporto con Inanna-Ishtar, la rosetta, presente nelle raffigurazioni dei sigilli di Uruk connesse con manna e con una divinità maschile (forse Dumuzi; v. tammuz). Poiché d'altra parte il simbolo grafico sumerico an, generalmente interpretato come una stella, va probabilmente messo in relazione con la parola an contenuta nel nome della dea (manna, da Ninannak "signora dell'an"; v. ishtar), sembra legittimo supporre che il valore originario di an fosse non la stella bensì, coerentemente con la primitiva natura agricola e pastorale di manna, l'elemento vegetale che si presenta come una rosetta.

Nella seconda metà del III millennio a. C. la situazione muta, per una duplice serie di cause, storicamente forse connesse tra loro: la prevalenza politica dei semitici Accadi e la penetrazione in Mesopotamia di aspetti culturali tipici dei cosiddetti "Popoli dei monti" (Bergvölker). Tra i diversi caratteri che i Semiti impressero, trasformandola, alla civiltà sumerica, sul piano storico-religioso vanno segnalate una certa tendenza alla astralizzazione delle divinità (vedi il caso di Inanna-Ishtar) ed una progressiva spersonalizzazione di queste. Di conseguenza, la presenza di S. astrali, che si nota per la prima volta in questo periodo, accanto alle figure divine, costituisce l'inizio di un processo che porterà ad una sempre maggiore importanza del S. sulla raffigurazione antropomorfa, pur senza giungere mai ad una totale scomparsa di quest'ultima. Di origine asianica è invece l'attribuzione alla divinità di un determinato animale che ne esprime la natura e l'accompagna nelle raffigurazioni. Di qui la frequente comparsa del leone in connessione con Inanna-Ishtar (v. vol. iv, figg. 279, 280) e, più genericamente, di animali reali o fantastici nella glittica di questo periodo.

Il mutamento che si verifica nell'intima struttura della civiltà mesopotamica col venir meno, anche dal punto di vista etnico, dei Sumeri e con la progressiva prevalenza culturale del nord del paese, più aperto alle correnti iraniche ed anatoliche, si riflette nell'impiego sempre più esteso di s. in rapporto o in sostituzione della divinità e nella comparsa, verso la metà del II millennio a. C., di rappresentazioni simboliche, sia pure soltanto nell'ambito della vita religiosa. La prima tendenza si afferma specialmente nella Babilonia cassita, dove i kudurru (pietre di confine) appaiono ricoperti di rilievi raffiguranti i s. delle divinità che devono garantire il rispetto dei confini stessi; sui kudurru è eccezionale la presenza di una divinità femminile antropomorfa. Vere rappresentazioni simboliche sono invece quelle dell'albero della vita stilizzato, che nell'Assiria del I millennio a. C. diventa poco più che un motivo ornamentale, e quella del pilastro celeste, diffuso specialmente nell'ambiente mitannico. In questi motivi, e in particolare nel secondo, va probabilmente individuata una corrente culturale iranica; nell'Iran, infatti, i S. ebbero un'importanza e una diffusione maggiori che nella vicina Mesopotamia, come si vede ad esempio nel motivo del pinnacolo a scalini, attestato già nel III millennio fino in India. Ancorché non del tutto precisabile, il significato simbolico e religioso di questo motivo appare certo per la sua presenza su edifici sacri e su altari assiri della fine del II e del I millennio a. C.; a coronamento delle mura cittadine, dipinti in giallo e blu, i pinnacoli a scalini hanno valore apotropaico.

Nel periodo finale della civiltà mesopotamica si accentua una certa differenziazione tra il N e il S del paese. In Assiria, dove il senso religioso non sembra andare oltre un formalismo strettamente legato agli interessi politici dei sovrani, si nota una marcata indifferenza per i motivi iconografici religiosi, per lo meno nell'arte di ispirazione ufficiale; persiste la tradizione dell'antropomorfismo, ma le divinità sono raffigurate in modo pressoché uniforme, individuate soltanto dagli attributi o dagli animali che le accompagnano (cfr. i rilievi di Maltaya); le divinità maschili hanno quasi tutte in mano un bastone e un cerchio, motivi che fanno la loro prima comparsa in epoca neosumerica; non si respinge però l'uso esclusivo dei s., probabilmente dovuto a influenza babilonese, a volte riuniti insieme sulla sommità di stele commemorative; né mancano, infine, specie in ambiente provinciale siriano, le raffigurazioni di divinità in piedi sopra animali. Nelle arti minori compaiono motivi simbolici, come l'albero e la coppia di cervi variamente affrontati, di non chiaro significato; l'origine di questo secondo motivo è iranica. In Babilonia gli interessi teologici di una potente casta sacerdotale si affiancano ad una cultura assai più raffinata di quella assira. Alla tendenza all'aniconismo di tradizione cassita si oppone l'atteggiamento arcaistico che ripropone le iconografie antropomorfe delle divinità di età neosumerica e paleobabilonese. L'aspetto sostanzialmente metafisico della speculazione religiosa si manifesta comunque nelle forme simboliche delle divinità, raffigurate preferibilmente per mezzo dei loro animali (Porta di Ishtar a Babilonia), e nella comparsa di un motivo chiaramente simbolico come quello della lotta di un genio alato con due animali fantastici, che ritroviamo anche nella glittica assira. I mostri uccisi dai sovrani achemènidi su rilievi persepolitani si pongono sulla scia di questa tradizione iconografica e costituiscono, insieme al vasto repertorio simbolistico (rosette, pinnacoli a scalini, disco alato) largamente profuso nella città sacra degli Achemènidi, la più chiara espressione del simbolismo politico e religioso della cultura mesopotamica.

Se la scarsa diffusione dei s. in Mesopotamia rispecchia un preciso atteggiamento spirituale, il loro più esteso impiego nelle culture dell'Anatolia e della regione siropalestinese si risolve, in ultima analisi, in un segno di minore originalità da parte di queste ultime. La fonte primaria del repertorio simbolistico in tali regioni è costituita dall'Egitto, com'è del resto ovvio. Nell'Anatolia del II millennio a. C. si afferma una serie di s. connessi con la monarchia; se l'aquila bicipite appare una creazione originale, il cosiddetto "simbolo cappadocio" rappresenta una stilizzazione, in senso geometrico, dello scarabeo alato egiziano, mentre l'emblema reale che accompagna le raffigurazioni dei sovrani hittiti è costituito da un disco alato, di evidente derivazione egiziana, sorretto lateralmente da due caratteristici pilastri di origine siriana settentrionale (mitannica). In quest'ultima regione, dove si incontrarono popolazioni e culture di diversa origine che giunsero a creare un tipo di civiltà abbastanza definito e originale, non soltanto si incontra il già ricordato pilastro, con significato cosmico, ma si elabora un particolare tipo iconografico divino che raggiunge, come si è visto, anche la Mesopotamia: la divinità in piedi su un animale che ne esprime le caratteristiche. Siamo, con ciò, nel campo degli attributi divini, che non giungeranno mai a sostituire l'immagine antropomorfa e che mostrano una sostanziale indipendenza dal repertorio mesopotamico; tra i più caratteristici sono la folgore a tridente, l'ascia o la mazza del dio della tempesta, lo specchio circolare con impugnatura della sua paredra femminile.

La ricettività e la superficialità della rielaborazione concettuale e iconografica della Siria sono largamente dimostrate dal largo uso di motivi simbolici di origine egiziana nella decorazione dei sigilli, sia del II sia del I millennio: ma si tratta d'impiego poco più che ornamentale, tant'è vero che non sembra trovare un corrispondente nelle arti maggiori. Solo le stele fenicie, nel II non meno che nel I millennio a. C., presentano superiormente il disco alato di origine egiziana. Una maggiore sensibilità per la raffigurazione simbolica compare nell'ambiente israelitico, a partire dal VII sec. a. C. Parallelamente all'affermarsi delle tendenze religiose che predicavano l'aniconismo, troviamo nella glittica una serie di s.: lo scarabeo alato, egiziano, che dopo un breve periodo di resa naturalistica passa ad assumere una forma piuttosto schematizzata, che cederà il posto, verosimilmente in rapporto alla riforma religiosa di Giosia re di Giuda (620 a. C.), ad un più astratto disco alato nel quale alcuni hanno voluto vedere il rotolo della Legge. Solo in epoca ellenistica compare a Gerusalemme la stella a cinque punte (il cosiddetto "scudo di Salomone").

Nell'ambiente fenicio e punico godono ampia diffusione, specialmente nella seconda metà del I millennio a. C., alcune raffigurazioni simboliche, quali il disco alato, il crescente lunare, per lo più con le punte rivolte verso il basso e con un disco al centro, il pinnacolo a scalini di derivazione assira. Lo sviluppo religioso in senso trascendente, accompagnato sul piano iconografico dalla prevalenza del s. sull'immagine, trova un'ultima ed imponente esemplificazione nella Cartagine degli ultimi secoli (a partire dal V sec. a. C.). La trasformazione religiosa che porta alla nascita del culto di Tanit "Faccia di Ba῾al" è caratterizzata anche dal formarsi di una ricca serie di s., di cui i due più caratteristici sono il cosiddetto "s. di Tanit" (un triangolo sormontato superiormente da un cerchio e da una sbarra orizzontale dalle estremità rivolte verso l'alto) e un disegno a forma di caduceo, probabile s. di Ba῾alammon; altri s. presentano figure geometriche quali la losanga e l'ellisse. Il significato e l'origine di questi s. punici restano tuttora sconosciuti. Più tardi ricompaiono figurazioni simboliche naturalistiche, come la mano aperta, il cavallo, la palma, la barca, ecc.; questo ritorno ad una concezione meno astratta viene confermato dal fatto che lo stesso "s. di Tanit" acquista talvolta aspetto antropomorfo.

Bibl.: K. Frank, Bilder und Symbole babylonisch-assyrischer Götter, Lipsia 1906; E. Unger, in M. Ebert, Reallexikon der Vorgeschichte, IV, 2, Berlino 1926, pp. 428-40, s. v. Göttersymbole; E. Douglas Van Buren, The Rosette in Mesopotamian Art, in Zeitschrift für Assyriologie, N. S., XI, 1939, pp. 99-107; id., Symbols of the Gods in Mesopotamian Art, Roma 1945; M. Hours Miédan, Les représentations figurées sur les stèles de Carthage, in Cahiers de Byrsa, I, 1950, pp. 15-150; G. A. Wainwright, The Cappadocian Symbol, in Anatolian Studies, VI, 1956, pp. 137-143; M. Weippert, Gott und Stier, in Zeitschrift des Deutschen Palästina-Vereins, LXXVII, 1961, pp. 93-117; B. L. Goff, Symbols of Prehistoric Mesopotamia, New Haven 1963.

(G. Garbini)

III. Grecia e Roma. - Lo studio del simbolo nell'arte greca e romana negli ultimi cento anni è stato sollecitato, nel pensiero occidentale, da successivi sviluppi manifestatisi nelle ricerche mitologiche dell'antropologia della metà del XIX sec., nelle investigazioni psicologiche del Freud, dello Jung e dei loro seguaci e nel profondo interesse per la speculazione epistemologica fra i filosofi di questo secolo. Il primo di questi movimenti incoraggiò gli studî enciclopedici di Creuzer, Bachofen e Overbeck, e culminò nelle dettagliate compilazioni descrittive di Goblet d'Aviella, J. G. Frazer, A. B. Cook e dei molti collaboratori del Lexikon del Roscher. Queste descrizioni di tipi iconografici, utili ancora oggi, segnano l'applicazione dei metodi scientifici alla documentazione tipologica e costituiscono una verifica delle fonti letterarie ed artistiche già in precedenza raccolte dagli eruditi del Rinascimento, come per esempio, Vincenzo Cartari nel suo volume Immagini degli dèi degli antichi. Mentre questi dotti cercavano di isolare, identificare e descrivere i s. antichi con straordinaria proprietà, i loro successori nutrirono un interesse più profondo per il significato dei s., i loro scopi, le loro forme; per la loro interpretazione essi si riallacciarono a tecniche analitiche fornite dalla filologia classica da un lato e dalle teorie psicanalitiche dall'altro. Più recentemente, l'interesse iconografico nelle pubblicazioni di K. Kerenyi, R. Bianchi Bandinelli, G. Ch. Picard, R. P. Hinks, G. Hanfmann, A. Alföldi, H. P. L'Orange, A. Grabar, E. Kantorowicz, ha dimostrato una più profonda ricerca per la sottile definizione del simbolico, una maggiore consapevolezza delle trasformazioni cui un s. è sottoposto nel tempo e nelle circostanze del suo impiego, ed una accresciuta sensibilità verso i modi nei quali un s. è creato ed inserito nella cultura di una intera società. Molti di questi indirizzi contemporanei si possono trovare negli studî di E. Goodenough le cui ricerche sul simbolismo giudaico del periodo classico mostrano chiaramente quanto sia importante un accurato studio delle fonti ed un'analisi capillare dei motivi che portano alla vera valutazione di qualsiasi simbolo.

Cosa dunque è un s. e come può esso nell'arte classica, essere distinto da un attributo, un emblema, un segno o una allegoria? Il s. definisce o rivela aspetti della realtà che non possono essere descritti o esposti in altra forma, e la forma stessa, isolata e convenzionale è usata in un modo che implica che l'oggetto o l'immagine dipinta non vale di per se stessa ma rappresenta metaforicamente un concetto o una credenza più grande cui esso allude. Il passaggio tra questa forma speciale, o s., ed il suo significato, è l'allusione simbolica; la portata e la complessità della allusione determina se il s. è limitato nelle sue funzioni e perciò diventa segno, emblema, attributo o è esteso e combinato con altri s. a formare un'allegoria. La dimensione del riferimento simbolico è poi misurata dalla distanza concettuale tra l'immagine ed il suo soggetto, e più diretto e categorico è il riferimento, più limitato è il contenuto simbolico di quella immagine. Così, a seconda delle circostanze in cui viene usato, il disco dorato può essere considerato segno del globo solare o attributo di dèi e re, s. della illuminazione datrice di vita; la sfera globulare può essere un segno del mondo, un attributo di regalità, un simbolo di potere temporale; la croce, un segno di Cristo, un emblema cristiano, un simbolo della Passione. Quale che sia il riferimento, sia la forma del s., che il suo contenuto sono creati dall'uomo.

Un segno può essere definito come un riferimento diretto ad un concetto molto limitato, un disegno con significato chiuso, che serve per comunicare identificazioni e semplici distinzioni. Quei segni che rappresentano entità politiche, sociali e religiose, ed evocano direttamente la cosa, il corpo o la categoria al posto delle quali essi stanno, sono chiamati emblemi; in particolare rientrano in questo gruppo disegni monetali, insegne militari e stendardi.

Diversamente dal segno o dall'emblema che può stare da solo, l'attributo è un s. particolare che ha vita solo in stretta relazione con una figura divina o umana e ne indica l'identità, la sua storia, il suo potere ed il suo ruolo. Un attributo, perciò, diventa parte accessoria della rappresentazione stessa, in modo tale che senza di essa l'identificazione della figura può essere alterata. Questa associazione è così stretta che il solo attributo, per esempio la dava o la pelle leonina di Eracle, può servire ad evocare tutta intera la figura, e così esso esiste autonomamente come S. del dio e della sua potenza, per un processo di estensione reso possibile dalla familiare conoscenza dell'attributo. Con ulteriore estensione, quando un s. rappresenta un'idea complessa, altamente astratta di ampia implicazione come Amore, Morte, Tempo, Fertilità, il S. può essere designato allegorico (v. allegoria). Quando alcuni s. sono combinati in una singola composizione o quando i diversi elementi di un'idea elaborata sono resi dall'azione concertata di un numero di figure, dove l'azione stessa è costruita, sia come apparente realtà che come metafora, allora si ha un'allegoria. In questa maniera infatti sono espressi in forma artistica i temi della Nascita Divina, Regalità Cosmica, Salvazione, Apoteosi, Calunnia, ecc.

1. Arte greca. - Il linguaggio simbolico dell'arte greca fu straordinariamente vario nei suoi aspetti e consciamente applicato a diversi scopi, ma esso non è stato mai sottoposto ad un'esauriente, sintetica analisi. I problemi di descrizione e spiegazione sono resi più difficili dalla tendenza degli artisti greci ad amalgamare e riunire nelle loro invenzioni, le forme simboliche. I loro disegni racchiudevano le tradizioni di culture non greche del litorale mediterraneo, con particolare preferenza per i motivi egiziani e del Vicino Oriente nelle composizioni di arte ellenistica. Lo studio di questi fenomeni è stato ristretto all'esame approfondito di un tipo limitato (come nel magistrale studio su Zeus di A. B. Cook e negli articoli del Lexikon del Roscher) o all'ampia revisione di un tema generale selezionato (come negli studî carismatici di F. Taeger) o alla presentazione di un tipo emblematico (come nei lavori numismatici di B. V. Head e P. Gardner) o all'esame di un motivo compositivo (come nella classica interpretazione dei gesti di K. Sittl: v. schemata). L'unico tentativo per una comprensiva analisi del simbolismo greco si deve ricercare nella breve dissertazione di Janet M. Macdonald che ha tentato di classificare i tipi e gli usi di motivi simbolici nell'arte greca e di stabilire un metodo di notevole valore.

Possiamo dividere i s. nell'arte greca in tre gruppi: s. che esprimono qualche idea di magia; s. usati per oggetti concreti; s. che riguardano idee astratte o emozioni. I s. espressi attraverso disegni magici, presentano una stretta associazione tra l'immagine ed il suo significato, e perciò una limitata capacità di riferimento simbolico, dato che l'immagine e il suo potere sono quasi coesistenti. Si tratta di s. primitivi e talismanici che appaiono comunemente sotto l'aspetto di mano apotropaica, occhio profilattico sulle navi e sulle coppe, gorgonèion sui recipienti per il vino e sugli scudi dei guerrieri, serpente nei monumenti votivi e sepolcrali, riproduzioni di organi sessuali, offerte votive di braccia, gambe, orme di piedi, ecc. ed amuleti di vario genere. Scopo di tali S. è proteggere dal malocchio o assicurare la salute ed il benessere del loro proprietario. I s. che sono raffigurati al posto di oggetti concreti sono generalmente impiegati a uso di identificazione. Il più comune di tali s. è l'attributo cioè una caratteristica o un oggetto proprî di una data figura, che ne facilita l'interpretazione e la distingue da tutte le altre figure similari.

L'attributo fu una particolarità comune dell'arte greca perché la tendenza antropomorfica del pensiero greco dette a tutta una varietà di immagini la stessa forma umana così che l'essenziale compito di distinguere gli dèi l'uno dall'altro e dai mortali nacque dal s. identificatore convenzionalmente associato ad essi. Zeus con la sua aquila, la folgore e lo scettro poteva essere distinto da Posidone con il tridente ed i cavalli marini; Ares con la sua armatura da Hermes con copricapo, caduceo e sandali alati, ed entrambi potevano essere distinti da Apollo con il tripode, l'arco e la lyra; Apollo si distingueva da Orfeo che aveva la lyra, il berretto frigio e gli animali. Atena con i suoi attributi, olivo, serpente, civetta, egida, gorgonèion e il pesante vestiario dorico si differenziava da Afrodite, non vestita, con il suo delfino, la mela, o in compagnia di Eros; la presenza di Eracle era indicata dalla dava, pelle leonina e occasionali riferimenti alle fatiche che lo distinguevano dai suoi compagni sernidei, i Dioscuri con le stelle, i copricapi e i cavalli e da Argo dai molti occhi, e da Asklepios con il suo bastone e il serpente.

Per i mortali, erano indicati come s., gli arnesi della propria fatica. Così la nudità e lo strigile furono gli attributi degli atleti, la benda dei vincitori, il rotulo dei filosofi e dell'uomo di lettere, la corona del sacerdote ed il diadema del principe.

Attributi inoltre identificavano i devoti di culti o divinità particolari, come il tirso delle menadi bacchiche e la stoffa purpurea ricamata degli hierofanti eleusini. Peculiarità di abbigliamento suggerivano pure differenze etniche fra greci e barbari.

L'emblema di località che si trova sulle monete greche come s. della zecca di emissione è simile all'attributo, però esso si riferisce ad entità politiche. Questi emblemi possono essere divisi in cinque categorie: l'emblema commerciale indicava il locale commercio e rappresentava l'articolo più caratteristico di tale attività commerciale direttamente sulle monete, per esempio il silfio di Cirene, la spiga di grano per Metaponto, l'uva di Peparethos, il tonno di Cizico, l'anfora vinaria di Chio. Un altro tipo di emblema detto onomatopeico implicava un gioco di parole, come la rosa (ῤόδον) usata per indicare Rodi, la foca (ϕώκη) per Focea, il melograno (σίδη) per Side, la silenziosa (ἀκραγάς) aquila per Agrigento.

La terza categoria di emblema numismatico si riferisce a qualche vittoria agonistica ottenuta dalla città, come i carri delle monete di Reggio e Agrigento, che celebravano le vittorie olimpiche. Talvolta esisteva pure un riferimento ad una vittoria militare, come sul decadracma siracusano del 479 a. C. con un carro sul retro, che simbolizza la vittoria su Cartagine. Nella quarta categoria di emblema numismatico, si fa riferimento ad una divinità protettiva: Zeus appariva sulle monete di Olimpia, Posidone su quelle di Posidonia, Helios sulle monete di Rodi, Taras (v.) sui famosi pezzi d'argento di Taranto. Si riallacciava a questo tipo di S. la personificazione topografica, come Aretusa, la famosa fonte di Siracusa, o gli dèi fluviali di Selinunte e Gela, di Catania e Sibari, che forma l'ultima categoria di disegni emblematici su monete, e che fu d'altra parte un motivo ben fermo e stabilizzato in tutta l'arte greca.

La rappresentazione dei fenomeni concreti della natura e della visione umana del mondo naturale, avviene mediante un s. altamente complesso: la personificazione con attributi, che appare già sulla monetazione greca del V sec. a. C. Le personificazioni possono essere divise in tre tipi di simbolismo: la presentazione di fenomeni fisici, tangibili; la creazione di forme immaginate che si riferiscono a divisioni fatte dall'uomo nel mondo della natura, e le immagini concettualizzate di forze fisiche che non sono tangibili o non immediatamente apparenti.

Al primo gruppo appartengono le ben note personificazioni della terra (Gaia), dei cieli (Ouranos), delle costellazioni e dei pianeti, il sole (Helios), la luna (Selene), l'acqua universale (Oceano), le montagne (per esempio Olimpo, Elicona) gli dèi fluviali (per esempio Ilisso, Oronte, Cladeo), tutti motivi simbolici popolari nell'arte ellenistica e dipoi passati nell'arteromana. Vicina a questo gruppo è la personificazione dei vènti (v.), come s. di tangibili, ma non concreti fenomeni fisici. La loro rappresentazione, tuttavia, portava con sé un più astratto grado di concezione in quanto la loro disposizione si accordava con i punti cardinali della geografia descrittiva ed il fluttuare del panneggio si accordava direttamente al s. puramente visivo di rapido movimento.

Le divisioni, operate dall'uomo, nel mondo naturale, apparivano come forme personificate nelle rappresentazioni simboliche di paesi, città, ed entità politiche. Questa forma immaginativa esisteva già nella metà del V sec. a. C. nelle figure di Hellas e Salamis, dipinte da Panainos sui parapetti della statua di Zeus a Olimpia (Paus., v, 11, 5) ma diviene più comune nel IV sec. come, per esempio, la personificazione di Hellas ed Asia sul vaso di Dario, di Atene e Corfù sulla stele attica con decreto del 375 a. C. e di Megalopoli sulla statua di Kephisodotos posta nel santuario di Zeus Sotèr a Megalopoli (Paus., viii, 30, 10).

Se continenti e città potevano essere ridotti a una forma simbolica, allora vi si poteva ridurre pure l'intero mondo civilizzato visto sotto l'aspetto di Oikoumene come appariva nella Apoteosi di Omero di Archelaos di Priene (v.) e più tardi alla stessa maniera sotto l'aspetto di Orbis Terrarum dei Romani. Diversamente dall'astratto, geometrico s. del mondo fisico, la sfera, la personificazione del mondo umano come Oikoumene è un aspetto delle invenzioni figurative antropomorfiche prodotte dai Greci nella loro assimilazione creativa delle esperienze umane.

La proiezione immaginativa che si trova incorporata nella creazione di questi s. largamente allusivi fu applicata anche alla personificazione di una entità politica come nella immagine simbolica degli abitanti del Peloponneso in una stele-decreto attica del 362 a. C. e nella raffigurazione del Demos (v.) ateniese di Parrasio (Plin., Nat. hist., xxxv, 69) concepita dall'artista come rappresentante la personalità dell'intera cittadinanza in una singola immagine sinottica.

Questi s., nella qualità del loro significato si avvicinano all'allegoria. Ancor più vicine ad essa sono le personificazioni usate in combinazione con altre immagini simboliche, come Aretè e Hellas di Euphranor (Plin., Nat. hist., xxxiv, 78) e la stele di decreto attico del 337 a. C. dall'Agorà raffigurante la figura del Demos ateniese, seduto come una divinità, nell'atto di venire coronato dalla personificazione idealizzata di Democrazia.

Il gruppo di Eirene e Pluto, creato specificamente da Kephisodotos per la pace del 374 a. C., ma in seguito interpretato allegoricamente come un S. della Prosperità naturale figlia della Pace, dimostra chiaramente come il tipo più astratto di personificazione tendesse a diventare allegorico. Il famoso affresco da Ercolano Infanzia di Telefo, eccellente versione di un originale greco, ha tra le altre figure la personificazione dell'Arcadia con un contorno pastorale che localizza l'azione della scena ed indica le dolci caratteristiche della regione preferita dai poeti. Nello stesso tempo la matronale ricchezza delle forme di Arcadia, i fiori ed i frutti sulla sua persona, suggeriscono la fertilità e l'abbondanza della terra e così indicano una concezione allegorica della fertile regione. La Tyche di Antiochia, opera di Eutychides di Sicione, personificava con grande evidenza la città siriaca di Antiochia, più di quanto l'Arcadia personificasse la regione pastorale ma, come lei, la Tyche porta un pesante fardello di allusioni simboliche. Sebbene la Tyche esista come simbolo a sé, quasi come emblema della città, la sua posizione sulla roccia si richiama alla zona montagnosa della città, il dio-fiume ai suoi piedi al vicino Oronte, la corona murale alle mura della città, e la spiga di grano nella mano alla prosperità e produttività del suo circondario. In questo modo la Tyche di Antiochia non rimase più la personificazione limitata di un'entità politica ma assunse con l'Arcadia un carattere allegorico sviluppando la tradizione di personificazioni allegoriche che culmina nella immagine alessandrina della Tazza Farnese, il rilievo della Tellus nell'Ara Pacis Augustae, le figure convenzionali del Nilo e del Tevere, la Tyche di altre città, la Provincia (v.) nell'arte romana e la dea Roma (v.).

Il repertorio di immagini di forze fisiche non tangibili acquistò una forma più altamente concettualizzata nella personificazione delle potenze cosmiche come Dike e Thernis in termini di ordine naturale, nelle Horai dell'anno stagionale (v. stagioni), in Chronos ed Aion (v.), come figure del tempo. Questi simboli differiscono solo per il loro soggetto dalle personificazioni di idee ed emozioni puramente astratte, esemplificate dal Kairòs di Lisippo e dal Pòthos di Skopas che propriamente appartengono alla terza categoria delle personificazioni simboliche, perché riguardano concetti astratti che non posseggono una letterale oggettività.

Gli artisti greci usavano molto frequentemente la personificazione come un'idea vivacemente caratterizzata espressa attraverso una forma molto generica, che non poteva essere compresa senza gli specifici attributi o senza una scritta esplicativa. Queste personificazioni iconiche, derivate essenzialmente da figure letterarie e da allusioni metaforiche offerte in gran numero da Omero, Esiodo e più tardi dai poeti e dai tragici, appaiono di frequente nella ceramica dipinta. Se il pittore immetteva più di una di queste figure in una scena, l'azione assumeva un carattere fortemente metaforico con chiarissime implicazioni allegoriche, come nella lèkythos a fondo bianco del Pittore di Thanatos al British Museum con le personificazioni di Hypnos e Thanatos intenti a deporre il corpo di un giovane guerriero e perciò significativo dell'eterno sonno della morte. Figure simili apparivano già nelle pitture dell'Arca di Kypselos (v.) nella quale la Notte, raffigurata come Nutrice, teneva nelle braccia bambini addormentati, neri e bianchi, personificazioni della morte e del sonno. Inoltre nello stesso monumento una donna avvenente, Dike, colpiva una brutta vecchia, Adikìa, col significato della Giustizia che trionfa dell'Ingiustizia (Paus., v, 18, 1, 2). La più famosa delle allegorie, affollata di personificazioni che prendono parte ad una scena drammatica, è la Calunnia di Apelle, che sopravvive nella descrizione di Luciano (Calumn., 2, 5) e nel dipinto del Botticelli che a quella si adegua elencando le personificazioni di Calunnia, Ignoranza, Sospetto, Invidia, Furfanteria, Frode, Verità.

Oltre all'idea personificata, il cui complesso significato era espresso in una semplice e singola forma umana, gli artisti greci cercarono anche gli effetti della composizione figurata per costruire un s. sostanziale che sintetizzasse un concetto semplice. Analogamente si servivano del colore per simbolizzare il cielo, o l'oscura presenza di spiriti demoniaci o per distinguere le varie categorie umane. Gli ornamenti dei Greci e dei Persiani, o di altri barbari, servivano non solo a identificare le loro rispettive origini razziali, ma anche a qualificare le loro differenti culture. Altri s. sostanziali erano ottenuti incorporando in una forma semplice e circoscritta un elemento particolare la cui forma singola aveva vita autonoma, come la bocca aperta di figure polignotee che simbolizza emozione (Plin., Nat. hist., xxxv, 58), l'albero nel cratere dei Niobidi che suggerisce le foreste del monte Sipilo, il delfino sulla kölix di Exekias a Monaco e nelle innumerevoli versioni del ratto di Europa, per indicare il mare. Anche singole architetture furono assunte per localizzare un'azione, o, come nel caso dei Tesori greci di Delfi e di Olimpia, fungevano da s. delle orgogliose città stesse.

Le differenze di scala, specie nei rilievi votivi e nelle sculture frontonali che sembrano a prima vista valide di per sé, funzionano come forme analogiche, perché la maggior mole distingue gli dèi, oltre che visualmente, anche significantemente e si riferisce in modo esplicito alla loro innata superiorità. Il S. analogico si basa sulla somiglianza di forma o di funzione tra l'immagine concreta, simbolica e l'astratta idea in essa contenuta. Così le ali sul copricapo e sopra i sandali di Hermes si riferiscono alla sua funzione come veloce messaggero degli dèi, i suoi gesti oratorî al suo ruolo come Hermes Lògios, dio del mercato; le cornucopie di Demetra e di Tyche simbolizzano l'abbondanza della terra, così come i varî attributi delle Horai e delle Stagioni. Il melograno di Afrodite, Hera e Persefone evoca l'idea della fertilità, così come il fallo. La ruota solare, la ruota di Issione, il carro solare, sono s. analoghi del cammino quotidiano ed annuale del sole; lo Zodiaco, dei corpi celesti nelle loro rivoluzioni annuali e nei loro movimenti eterni. Lo stesso significato ha la presenza di Helios e Selene sul frontone orientale del Partenone: essi rappresentano il cielo ed il ritorno ciclico di notte e giorno quando, nei tempi dei tempi, Atena nacque.

Il s. analogico più che alcun'altra forma simbolica nell'arte greca, tendeva a diventare allegorico, perché l'essenziale traslazione tra un motivo ed il suo significato allegorico era effettuato tramite il canale di un pensiero analogico. Il più elementare di tali riferimenti si può trovare nei monumenti funerarî, nei quali l'eroe equestre veniva trasformato in un simbolo di trionfo sulla morte e nei quali la dextrarum iunctio delle stele funerarie attiche serviva a unire per sempre il vivo ed il morto con i legami della famiglia.

In monumenti pubblici i Greci adottarono i leggendarî motivi delle battaglie tra Lapiti e Centauri, come per esempio ad Atene, Olimpia e Bassae o tra gli Dèi e i Giganti, come nel Tesoro dei Sifui e nell'Ara di Pergamo, per esprimere il conflitto eterno tra ordine e caos. L'aspetto politico di questo tema fu anche esteso al tema della amazzonomachia come parafrasi allegorica della guerra tra Greci e Persiani.

Benché l'arte tardo-ellenistica si volgesse frequentemente alla allegoria erudita, che aveva le sue radici nei complessi materiali storici e letterarî, il metodo della sua presentazione si sviluppò partendo dai sistemi di simbolizzazione precedentemente noti. In questo contesto i temi di Eracle al quadrivio (Xenoph., Mem., ii, 1, 21 ss.) ed il Giudizio di Paride dovettero la loro importanza, nel periodo ellenistico, non solo al loro carattere mitologico, ma anche e più alla loro sottile indagine dell'idea della scelta, per Eracle tra l'anonimità e gli impulsi eroici, per Paride fra la regalità, la fama guerriera e l'amore. Alla stessa maniera il Ratto di Ganimede poté essere trattato da Leochares come evento straordinario, ma artisti più tardi trovarono in questo motivo l'iconografia dell'apoteosi, il ratto dello spirito umano nei cieli. La più prolissa delle allegorie ellenistiche è probabilmente l'Apoteosi di Omero (vol. i, fig. 728), che può essere compresa, nel sofisticato contesto della società letteraria alessandrina, solo con la guida dell'iconografista: l'intero rilievo è composto come una montagna, forse Olimpo, Elicona o Parnaso, con quattro piani: Zeus siede sulla sommità insieme a Mnemosyne, madre delle Muse (Hesiod., Theog., 53 ss.) che corre verso il secondo ripiano e che simbolicamente convoglia l'ispirazione poetica da Zeus alle Muse nel secondo e nel terzo ripiano. Il poeta al quale il rilievo è ufficialmente dedicato sta nel terzo piano, in compagnia delle Muse, Polimnia, Urania, Klio e Melpomene, tutte sotto il presidio di Apollo. Alla base di questa montagna letteraria l'artista ha posto una intera biblioteca di riferimenti dotti nella sua glorificazione di Omero: Omero appare in trono, coronato da Tolomeo IV sotto aspetto di Chronos e da Arsinoe come Oikoumene, come se l'eternità e tutta l'umanità civilizzata si unisse per onorare il divino poeta. Sotto il suo trono si inginocchiano le personificazioni dell'Iliade e dell'Odissea, il fondamento della sua fama, e di fronte a questi una rana ed un topo sono il riferimento al poema omerico della Batracomiomachia. Altre personificazioni, di Mito e Storia servono ad un altare, seguite da Poesia con due torce, e da Tragedia e Commedia in costumi teatrali appropriati. Per ultimo, un bimbo raffigurante l'umana natura, solleva le mani alle quattro virtù che i ragazzi imparano studiando Omero: Coraggio, Buona Memoria, Lealtà e Saggezza. Il sottinteso allegorico è ad Omero come fonte della paideia greca (Plat., Rep., 6o6 e; Pseudo Plut., De vit. et poes. Hom., 1073 c ss.). Mai l'arte greca andò oltre lo stravagante simbolismo dell'Apoteosi di Omero.

2. Arte romana. - L'analisi del simbolismo nell'arte romana è resa difficile dalle particolari circostanze del suo sviluppo. Gli artisti romani mutuarono dai Greci il repertorio di motivi simbolici e di immagini, ma lo arricchirono di nuovi significati, adatti alla mentalità romana ed alla ecumenicità dell' Impero, tanto che più che in adattamenti si hanno spesso trasformazioni complete dell'originario contenuto greco. Questo problema di traduzione, di parziale adattamento e di completo imprestito, è via via complicato dalle sempre maggiori dimensioni dell'Impero e dalle sue speciali differenziazioni secondo le classi sociali e la cultura regionale. In verità, la varia situazione delle culture locali all'interno delle province, benché unificate dai legami politici dell'Impero, produsse i motivi o sincretistici o frammentarî, tipici degli stili provinciali, con l'amalgama di forme simboliche classiche e non classiche, l'uso non sistematico di motivi classici per rappresentare idee non classiche e anche la semplice confusione. Qui pure, la penetrazione delle religioni orientali, particolarmente dei culti di Cibele, di Giove Dolicheno, di Mithra, di Iside ed Osiride, degli Ebrei e dei Cristiani nel mondo classico, portarono allo sviluppo di nuove forme simboliche, insieme sincretistiche e misteriche nel loro carattere.

La specifica capacità di comunicazione delle opere d'arte, che potevano essere interpretate a pieno solo da coloro che ne conoscevano i riferimenti simbolici, era una qualità intrinseca dell'arte romana, anche quando il soggetto della rappresentazione non era né religioso né di rivelazione. Questa qualità dipendeva da una fiducia nell'efficacia delle immagini come mezzo di comunicazione e di propaganda e scaturiva dalla tendenza a creare in grande quantità personificazioni di idee astratte ed a considerare le opere d'arte come espressioni oggettive. Poiché queste particolarità richiedevano conoscenza e possibilità di risposta da parte dell'osservatore, l'opera d'arte romana venne a perdere molto della sua autonomia, accrescendo persistentemente la sua funzione simbolica, come se la forma fisica rappresentasse solo in parte l'idea nella sua interezza (per esempio Ovidio, Heroides, Epist., xiii, 155, Crede, mihi; plus est, quam quod videatur, imago). Benché il "mondo dei segni" (Zeichenwelt, come lo indicava Ernst Buschor) ed il simbolismo del neoplatonismo siano emersi pienamente solo nel tardo Impero, questo cambiamento si manifestò fin dall'inizio nello straordinario aumento di personificazioni nella monetazione romana e nei monumenti pubblici (v. personificazione e le voci quali abundantia, aequitas, annona, concordia, liberalitas, libertas, pax, providentia, salus, virtus, ecc.). Tipica, inoltre, la grande fiducia negli attributi per specificare individualità, divinità e situazioni.

Un elaborato corredo di s. attributivi arricchì, di conseguenza, l'arte romana: una immagine centrale veniva adornata con segni che la identificavano (per esempio corona, nimbo, scettro, globo, trono, àncora, baldacchino, animali, torce, scale, stendardi, cornucopia, corazza, moggio, egida, caduceo, trofeo ecc.), ma che frequentemente per una identificazione sicura richiedevano una scritta esplicativa. Un numero di situazioni simboliche come adventus, adiocutio, liberalitas, acclamatio, e scene di battaglia e di caccia furono create come scene subordinate a una figura centrale e per ciò intese come una descrizione attributiva dei suoi poteri. Per le stesse ragioni politiche e programmatiche, i rapporti di proporzione, la posizione, i gesti, la frontalità, gli ornamenti d'oro, l'esagerata riduzione in altezza di nemici e barbari, e molti altri effetti compositivi servirono per simboleggiare una speciale capacità del personaggio idealizzato e venerato.

Questa insistenza su s. sostanziali ed esplicativi, che appaiono come emblemi, personificazioni ed attributi, fu comune in modo particolare nelle rappresentazioni a ispirazione politica e nacque dal desiderio tutto romano di dare enfasi agli eventi, in maniera di metterne in rilievo il loro aspetto strumentale. Un s. poteva anche sostituire un evento, come per esempio gli ornamenta triumphalia, ossia gli emblemi del trionfatore usati a significare un trionfo meritato ma non celebrato. Gli artisti romani seguirono questa stessa consuetudine nella realizzazione di una serie di motivi parafrastici nei loro monumenti sepolcrali che (come ha mostrato F. Cumont) trasformavano il fatto della morte in temi di trionfo, di fede in una divinità salvatrice, di immortalità conferita dalle Muse, di trasporto dell'anima al cielo tramite lo psicopompo. Benché questi motivi esprimessero le aspirazioni dell'uomo alla vita ultraterrena, né il metodo simbolico, né i motivi per se stessi furono ristretti ai monumenti sepolcrali: essi erano tratti da un repertorio di temi simbolici di validità generale, nel quale il significato particolare era determinato dalla sua applicazione.

Le speculazioni sull'immortalità, tipiche nel repertorio di immagini sepolcrali romane, furono, nell'arte romana, frequentemente associate con l'espressione simbolica del tempo cosmologico in termini di fenomeni astrali e ciclici. I sarcofagi con le Stagioni alludevano a questo tema nel suggerire che il ciclo delle Stagioni si riferiva all'infinito ciclo di nascita e morte, ed al cammino mortale dalla culla alla tomba. Nel noto sarcofago della raccolta di Dumbarton Oaks (Washington) questa semplice iconografia è arricchita dalla presenza di un anello zodiacale, sostenuto dalle Stagioni e racchiudente i ritratti del defunto; questo emblema di eternità è unito ad un simbolo di salvezza attraverso il motivo della vendemmia con il quale si alludeva a Dioniso. Tali concetti di finalità cosmica non furono in alcun modo limitati a monumenti sepolcrali, perché tutta l'attenzione del tardo Impero fu accentrata su forze provvidenziali ed eterne. Lo Zodiaco (v.) e le Stagioni (v.) divennero immagini (come ha dimostrato G. M. A. Hanfmann) di un regolato schema cosmico, benefico nel suo ordine e ciò particolarmente se unite a divinità salvatrici, come nella pàtera di Parabiago (v.). Aion (v.) come personificazione di un lungo periodo di tempo ebbe un ruolo significativo in questa iconografia, specialmente quando la sua figura venne assimilata nel millenarismo romano. Egli divenne una figura importante nella propaganda svolta attraverso le monete di Filippo l'Arabo, che celebrò il millesimo anniversario della fondazione di Roma e così associò il periodo perfetto con la fede tradizionale nelle eterne prospettive del principato come ambiente felice per l'umanità.

Nell' Impero il motivo della felicitas temporum appariva sulla monetazione e sugli archi trionfali romani, come le Quattro Stagioni che furono una allusione cosmica alla felicità universale sotto l'egida dell'Impero.

Generalmente, elaborate composizioni allegoriche esprimevano complesse idee nell'arte romana; ma anche una figura singola come l'Augusto di Prima Porta era ricca di significati simbolici evidenti nella posa classicizzante e nel ritratto idealizzato, negli attributi e nella estesa decorazione sulla corazza. Il significato di questa statua può essere compreso solo mediante un attento esame delle sue stratificazioni simboliche; ma esistevano pure molti s. semplici di potere, specie di contenuto politico, di facile comprensione. La statua di Marsia, nel Foro Romano, era stata eretta non solo per il desiderio di riprodurre una scultura greca, ma anche e piuttosto perché la libera natura del satiro era simbolo genuino di libertà. Simili statue di Marsia apparivano come s. di libertà nel Foro di quelle città provinciali che avevano lo ius italicum; in altre città furono costruite accurate versioni del Capitolium romano a significare che la città era una colonia romana. In entrambi gli esempî una forma semplice era stata escogitata come emblema di status politico locale, ma era riferita all'unità politica dell'Impero come a un tutto intero attraverso la ripetizione di una forma strettamente associata al centro imperiale di Roma. Se non c'era alcuna differenza nella specie del riferimento simbolico evocato sia dalla statua di Marsia che dal Capitolium, una forte differenza ci fu, invece, nella creazione da parte degli architetti romani di nuovi tipi di edifici per i loro committenti imperiali. L'arco trionfale divenne un s. per onorare l'imperatore; il Forum Iulium, di Cesare, nato forse dalla tarda architettura regale ellenistica, simbolizzava le pretese divine ed autoritarie del principato e raggiunse la sua forma perfetta nel Forum Traiani; la basilica absidale e la sala a tre vòlte divennero le segrete stanze della potenza, ed il palazzo degli imperatori sul Palatino ebbe il titolo importante di Domus Divina.

Anche singole parti degli edifici presero valore simbolico. La cupola sferica del cielo venne incorporata nell'architettura della Domus Aurea, dimora del cosmocratore Nerone, come per simboleggiare il potere ecumenico dell'imperatore romano che sedeva al centro del mondo nella grandiosa aula a vòlta di forma circolare, con la cupola adorna di simboli astrali (Cass. Dio, 61, 2). Nel tardo Impero, un più ristretto motivo architettonico usato simbolicamente, può essere visto nella forma dell'architrave arcuato derivata dall'architettura ellenistica siriaca, che apparve nello spazio antistante il cortile del palazzo di Diocleziano a Spalato e nello sfondo del Missorium di Teodosio (museo di Madrid) per significare la presenza del personaggio importante. Infine il s. romano più persistente divenne la facciata del tempio di Venere e Roma, in Roma, che apparve su monete di Adriano per celebrare la sua costruzione, su monete posteriori come s. dell'Impero, su monete di Massenzio per commemorare la ricostruzione del tempio eseguita sotto quest'imperatore e per indicare la sua difesa dell'antica norma, e finalmente ripresa nelle monete della incoronazione di Carlo Magno a simbolizzare la sua adesione alla Roma antica e la instaurazione della sua Renovatio.

Bibl.: Fonti: Plotin., Enn., I, 6; III, 8; IV, 3; V, i; V, 8; VI, 9; Iamblichus, De Myster. E inoltre: E. de Kreyser, La Signification de l'art dans les Ennéades de Plotin, Univ. de Louvain, Rec. de Travaux d'Hist., et de Philol., S. 4, fasc. 7, 1955.

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(R. Brilliant)

IV. India. - L'India è il paese dell'Asia orientale che ha elaborato al sommo grado il simbolismo nell'iconografia religiosa. Già nell'epoca protostorica molti S. appaiono usati in relazione al culto della fecondità umana e animale e della fertilità della terra: oggetti e raffigurazioni falliformi, statuette umane, immagini di animali (prevalentemente il toro).

Le piccole immagini femminili indossano corte vesti intorno ai fianchi, sono profusamente adorne di gioielli e portano sul capo elaborate acconciature. Si suppone che rappresentassero la Dea Madre; le figurine maschili, meno numerose, sono sempre nude, per lo più con barba e lunga chioma. Non si sa quali divinità rappresentassero. Tra le raffigurazioni simboliche, occupano un posto di rilievo quelle sui sigilli di steatite, con rappresentazioni dello zebù, del bufalo, della tigre, del rinoceronte, del coccodrillo e soprattutto del toro, che era forse un simbolo di regalità. Vi sono riprodotte anche figure di animali favolosi, come l'unicorno e la tigre cornuta, nonché l'immagine di un essere divino, con più teste e corna, assiso nella posizione di uno yogin tra animali di varia specie. È stata avanzata l'ipotesi che si tratti di una delle prime raffigurazioni di Shiva. Importante è che già l'arte di Mohenjo-daro (v.) e di Harappa (v.) mostri alcuni motivi che ritornano sempre nella iconografia indiana: il teriomorfismo e la molteplicità delle teste e delle braccia, assunte a simboli dell'onniscenza e della potenza divine.

Il culto della fertilità rimase in India, anche in epoca storica, una fonte inesauribile del simbolismo religioso. Genî della fecondità erano considerati i serpenti (nāga) e gli Yaksha. Questi ultimi, spiriti della natura, venivano raffigurati in forme sia maschili che femminili. Le Yakshi, in particolare, mostrano gli attributi della fecondità nelle forme esuberanti del seno e del ventre, e sono sempre rappresentate in associazione ad alberi e piante.

Alcuni dei simboli di fecondità permasero nell'arte indiana posteriore caratterizzando specifiche divinità. Shiva, visto come dio della fecondità, era contraddistinto dal linga, immagine dell'organo sessuale maschile, come pure, a volte, dallo yoni, simbolo del sesso femminile. In alcune immagini il dio reca sulla parte destra gli attributi maschili e sulla sinistra quelli femminili: a destra i capelli intrecciati come un asceta, la falce lunare e il tridente; a sinistra ha un segno caratteristico sulla sommità del capo e reca sulla fronte una mammella, uno specchio o un loto. La cavalcatura del dio è il toro; e quest'animale sacro sta a volte a significare da solo la presenza di Shiva. La connessione è tale che uno degli emblemi più caratteristici del dio è appunto la falce lunare, che in realtà simboleggia le corna del toro.

Una delle raffigurazioni più celebri di Shiva, nell'aspetto del dio danzante (Mataraja) dalle quattro braccia, reca come s. il damaru, cioè il tamburello usato dagli asceti, la fiamma, la scure. Un'altra raffigurazione attribuisce alla divinità tre teste, che corrispondono ai diversi aspetti del dio: creatore, conservatore e distruttore dell'universo. Le cinque teste dello Shiva eterno hanno, invece, relazione con lo spazio. Orientate secondo le quattro regioni ed il centro dell'universo, alludono alle cinque incarnazioni del dio.

Un'altra divinità entro il cui schema iconografico si muove una ricca simbologia, è Vishnu. Esso viene rappresentato generalmente con quattro braccia, ognuna delle quali regge un attributo: la conchiglia, il disco, la dava e il loto, s. dei quattro elementi fondamentali dell'universo.

Terza divinità induista è Braluna, raffigurato con quattro teste orientate secondo i punti cardinali: si deve pertanto vedere in lui una rappresentazione antropomorfizzata dello spazio. Suoi attributi sono un testo dei Veda, un recipiente con l'acqua del Gange, una verga, un rosario o un cucchiaio sacrificale: tutti attributi riferibili alla casta brahmanica.

Il buddismo interdisse in origine la raffigurazione antropomorfa della divinità, sicché la presenza del Buddha poteva essere espressa soltanto mediante s.: le impronte dei piedi, il loto, l'albero dell'illuminazione (bodhi), la ruota della legge o della dottrina, lo stūpa (v.). In seguito il Buddha fu raffigurato nell'aspetto di uno yogin, avvolto in una veste e caratterizzato dai segni distintivi della sua persona (lakshana): l'escrescenza del cranio (ushnīsha) ed il ciuffo di peli tra le sopracciglia (ûrna). Altri segni caratteristici erano incisi sul palmo delle mani o sotto le piante dei piedi: la ruota (chakra), e i tre gioielli (triratna). Anche gli atteggiamenti delle mani (mudrā) avevano un significato simbolico molto preciso (v. buddha).

Il simbolismo dell'arte buddista ebbe diffusione in tutti i paesi in cui la nuova religione fu propagata. Tale simbolismo si arricchì talora di elementi regionali, alcuni dei quali avevano fatto parte dell'iconografia religiosa locale. Nel buddismo tantrico un simbolo che assunse importanza crescente fu il vajra, fulmine a quattro o a otto fiamme, che fu congiunto qualche volta al campanello e al coltello sacrificale.

Una ricca simbologia fu espressa, in India, oltre che dalla religione anche dall'emblematica. Distintivi di grado e attributi di regalità erano le corone, gli ombrelli, i ventagli di code di bue e di pavone, gli stendardi. Un ricco simbolismo fu applicato anche nella monetazione. Le più antiche monete indiane recavano inciso il disco del sole, la montagna sacra, il tridente, lo scudo, i reliquiari, nonché piante e animali, intesi come s. di virtù oltre che di auspicio. Sotto questo aspetto l'emblematica indiana mostra alcuni elementi comuni a quella delle regioni dell'Asia centrale, che fa capo all'arte delle steppe.

Bibl.: Si veda la bibl. generale sotto indiana, arte.

V. Cina. - Nell'arte cinese dell'epoca protostorica e dell'Età del Bronzo (dinastie Shang e Chou), numerose ceramiche e bronzi rituali rivelano un'ornamentazione pronunciatamente simbolica: tra le decorazioni più frequenti sono quella del lei-wên ("disegno del tuono"), simbolo di fecondità e fertilità, e i motivi del drago e del t'aot'ieh, (v. cinese, arte), che erano ritenuti potenti simboli magici e apotropaici.

Oggetti di chiaro significato simbolico erano i dischi forati di giada (pi), che sarebbero, secondo alcuni, una rappresentazione della ruota solare o, secondo altri, una allusione alla divinità celeste. Invece, i tubi di giada forati (ts'ung) rappresenterebbero, secondo il Chou Li, la divinità della terra. La religiosità del suolo ed il culto della fertilità dovettero essere espressi anche con s. fallici. Sulla base di una testimonianza di Chen Hsüan (sec. II d. C.), sappiamo che pilastri di pietra erano dedicati al dio del suolo, e nel museo di Stoccolma si conserva una pietra falliforme, che, secondo il Karlgren, è da porre in relazione con i pali del culto della divinità della terra. Lo stesso ideogramma che indica tale divinità (she) sarebbe, sempre secondo il Karlgren, la raffigurazione di un palo, assimilabile ad un fallo, come pure un fallo rappresenterebbero schematicamente le antiche tavolette degli antenati.

Tra gli altri s. usati nell'antica arte cinese ve ne erano alcuni di significato cosmogonico ed astrologico. S. eminentemente cosmogonici quelli dei principi dello yin e dello yang, nel cui circolo erano spesso iscritti gli otto trigrammi. Di significato più specificamente astrologico i simboli dei quattro esseri soprannaturali (Ssu Shên o Ssu Ling), che rappresentavano i quattro quadranti del cielo e della terra come pure le quattro stagioni. Erano il drago verde, l'uccello scarlatto, la tigre bianca ed il fosco guerriero, quest'ultimo impersonificato spesso dalla tartaruga. Altri animali del simbolismo religioso erano i "cavalli del mare" (hai-ma p'u-t'ao), la cicala, il ch'i-lin e la fenice, quest'ultimo essenzialmente S. imperiale. Molto diffusi nella Cina antica erano anche gli attributi di rango e i distintivi di grado: gli scettri (ju-i e kuei), i baldacchini (t'ien-kai) e gli stendardi (fan o fo-fan). Erano anche usati emblemi di giada, fatti ad imitazione di armi ed attrezzi, come le lame ko, che venivano portate in mano o sulle vesti da pubblici funzionari. Alcuni amuleti di giada (han yû) erano anche usati a scopi rituali, come quelli che servivano nei riti funebri per chiudere gli orifizi dei cadaveri allo scopo di evitarne la decomposizione. Si credeva, infatti, che la giada fosse l'essenza più pura dello yang (il principio maschile) e che pertanto fosse una sostanza vitale che assicurasse l'immortalità ed esercitasse un'azione purificatrice contro ogni influenza funesta.

Bibl.: Si veda la bibl. generale sotto la voce cinese, arte.

VI. Giappone. - L'arte protostorica dell'arcipelago giapponese espresse i riti della fecondità e della fertilità, con figurine umane di terracotta, prevalentemente femminili, e con clave ed oggetti di pietra a simbolo fallico.

Questo simbolismo di carattere sessuale fu conservato dallo shintoismo in epoca storica. Essendo essa una religione essenzialmente aniconica, si avvalse per esprimere le forze generatrici della natura di elementi come i bastoni e i pilastri, mentre simboleggiò la presenza delle divinità con attributi sacri, quali le perle (magatama), gli specchi e le spade.

Bibl.: Si veda la bibl. generale sotto la voce giapponese, arte.

(A. Tamburello)