significato Il contenuto espressivo di qualsiasi mezzo di comunicazione (parole o frasi, gesti, segni grafici ecc.).
In linguistica, ciò che si vuol dire pronunciando una frase o una parola, il messaggio cioè che con queste si trasmette.
1. Il s. nella filosofia antica
Nella filosofia presocratica troviamo i primi documenti di una riflessione intorno al significato. Laddove
Ai logici dell’età medievale, e in particolare a Gugliemo di Shyreswood, Pietro Ispano e Guglielmo di Occam, si può far risalire l’importante distinzione tra significatio e suppositio: la significatio di una parola o di una frase è la sua capacità di comunicare o presentare una forma, mentre la suppositio è la capacità che un termine ha di riferirsi a un certo oggetto.
2. Il s. nella filosofia moderna e contemporanea
Nella filosofia moderna una teoria che concepisce il s. come un’idea legata alla parola e che viene risvegliata nel pronunciarla anche nell’ascoltatore fu proposta nel 17° sec. dai logici di Port Royal. Non diversamente anche
Nel 18° sec. la teoria lockiana del s. venne riproposta da E.B. de Condillac e P.L.M. de Maupertuis. Particolarmente importante è poi il System of logic (1843) di J.S. Mill, il quale rilevava che la concezione denotazionista del s. può rendere conto solo del funzionamento dei nomi propri, mentre non può spiegare quella più importante dimensione del significare in cui è in gioco l’applicazione di attribuzioni alle cose cui ci si riferisce. Mill collegava poi questa dimensione connotativa del s., che sarebbe propria non tanto dei nomi quanto dei termini generali, a dei ‘concetti’ o delle ‘essenze’ cui ci si riferirebbe.
Anche
Nel 20° sec. si è avuta una serie di tentativi di proporre teorie alternative rispetto a quella che assimila il s. alla denotazione di un oggetto fisico o mentale. Alle riflessioni di C.S. Peirce e di G.H. Mead si può far risalire la prima comparsa di quella teoria pragmatista o comportamentista del s. che, riproposta da C.K. Ogden e I.A. Richards con The meaning of meaning (1923), fatta valere nella linguistica da
Il più radicale ridimensionamento delle teorie referenzialistiche del s. a favore di una prospettiva pragmatica (volta a studiare il s. in relazione agli utenti di un linguaggio e ai loro scopi comunicativi) si deve comunque a Wittgenstein che, mettendo in discussione la teoria sostenuta nel Tractatus, nelle Logische Untersuchungen (post. 1953) indicò nell’uso delle espressioni linguistiche uno dei più importanti fattori nella determinazione del loro s., definendo l’uso a sua volta nei termini delle regole e delle convenzioni linguistiche di una comunità. L’orientamento pragmatico non è peraltro tipico/">tipico del solo Wittgenstein, ma è comune ai rappresentanti della cosiddetta filosofia del linguaggio ordinario (
4. Il s. negli sviluppi della filosofia del linguaggio
Le sottili analisi della filosofia del linguaggio ordinario si contrapponevano agli esiti sempre più tecnici dell’impostazione neopositivista del problema del s.: fondamentale da questo punto di vista il contributo di
Ispirata in parte a Quine e in parte alla semantica di Tarski è la teoria del s. di
Mentre la teoria davidsoniana del s. ridimensiona la nozione di riferimento, questa è invece al centro della concezione causale del s. dei termini di genere naturale proposta da
L’inizio dello studio linguistico moderno del s. si pone di solito nel 1897 con l’Essai de sémantique di M. Bréal (che crea anche la parola per la disciplina). Conformemente alla prospettiva dell’epoca, è un saggio sui mutamenti di s. che ne modificano l’estensione (per es., per restringimento, dal latino linteolum «lenzuolo» si ha il francese linceul «sudario», il lenzuolo in cui si avvolgono i morti) e inaugura una corrente di ricerche che arriverà senza sostanziali mutamenti fino a S. Ulmann (Semantics: An introduction to the science/">science of meaning, 1962). F. de Saussure, allievo di Bréal, riporta il cambiamento come il funzionamento dei s. alla loro natura relazionale. Nella dottrina saussuriana il segno è un’entità bifacciale composta da significante e s., e questo è definibile solo come controparte del primo. I s. infatti assumono valore solo delimitandosi reciprocamente nel sistema (il francese mouton «montone» non ha lo stesso valore dell’inglese mutton, perché questo indica solo la carne di montone cucinata, avendo accanto a sé un secondo termine sheep per la bestia viva). Questo tipo di considerazioni è sviluppato, con una certa indipendenza da Saussure, dalla teoria dei campi semantici (in particolare
È però
Nello strutturalismo americano il s., concepito come la situazione in cui il parlante pronuncia una forma linguistica e la risposta che essa suscita nell’ascoltatore, non è un’entità interna alla lingua, benché L. Bloomfield gli dedichi un capitolo nel suo manuale (Language, 1933). Una forma, per essere linguistica, deve avere un s., ma la definizione di questo può venire solo da altre scienze (così è la chimica a spiegare che il s. di sale va definito come cloruro di sodio). Si salvano solo i tratti grammaticali del s. (‘agente’, ‘passato’ ecc.). N. Chomsky, che per vari aspetti si oppone a Bloomfield, ne continua la diffidenza verso il s. nelle Syntactic structures (1957) in cui si propone una teoria ‘formale’ nel senso di ‘asemantica’. Negli Aspects of the theory of syntax (1965) c’è un componente semantico che interpreta le parole inserite negli schemi sintattici, funzionando più o meno come un dizionario, che specifica i tratti grammaticali e lessicali e le possibilità di combinazione che definiscono il s. di una parola. Questo tipo di analisi che enumera e ordina le caratteristiche che un senso deve presentare per essere trasmissibile con un s. analizzando questo nei suoi componenti, è detto analisi componenziale (per es., ragazzo dovrà essere analizzato nei componenti «umano», «maschio», «non adulto»). Proposta da Hjelmslev che parlava di ‘figure del contenuto’ per i componenti di base, ritrovata indipendentemente dagli antropologi, perseguita da U. Weinreich, E.H. Bendix, M. Bierwisch, essa continua a essere praticata, sia pure in diverso modo, da varie scuole linguistiche.
2. Semantica generativa e semantica cognitiva
Allievi e collaboratori di Chomsky hanno però elaborato sotto il titolo di semantica generativa una diversa teoria del linguaggio in cui l’organizzazione fondamentale delle frasi è semantica, indipendente dalla struttura sintattica, e i legami tra i s. delle parole possono essere descritti secondo la ‘logica dei predicati’: nelle ‘rappresentazioni semantiche’ di G. Lakoff e J.D. Mc Cawley è il verbo che viene per lo più utilizzato come ‘predicato’, ma anche gli aggettivi, certi pronomi e la negazione; degli altri componenti (‘argomenti’) si mostra il diverso livello gerarchico lavorando con parafrasi. Questa teoria tende alla fusione di linguistica, psicologia e logica. Benché essa abbia dato analisi assai fini di certi fenomeni, si corre il grave rischio di cancellare così il livello linguistico autonomo e arbitrario del significato.
Dagli sviluppi della semantica generativa è sorta, alla fine degli anni 1970, la semantica cognitiva. Essa rifiuta ogni scissione tra fatti linguistici ed extralinguistici sottolineando il legame tra il linguaggio e la cognizione umana volta a interpretare ed esprimere l’esperienza del mondo: il linguaggio non è un’entità autonoma, indipendente da altre facoltà e conoscenze cosiddette extralinguistiche, al contrario assolve il suo scopo proprio perché si sviluppa e funziona in stretta relazione con quelle; e non è arbitrario perché le sue caratteristiche sono condizionate da quelle della realtà e del mondo in cui gli umani la percepiscono.