MALATESTA (de Malatestis), Sigismondo Pandolfo. - Figlio naturale di Pandolfo (III) e di Antonia di Giacomino dei Barignano, nobildonna lombarda, nacque a Brescia il 19 giugno 1417.
Morto il padre (3 ott. 1427), il potere familiare passò allo zio Carlo che provvide a ottenere da papa Martino V la legittimazione dei tre figli di Pandolfo, e la conseguente possibilità di accedere al potere. Alla morte di Carlo (14 sett. 1429) gli succedette il fratello maggiore (fratellastro) del M., Galeotto Roberto. Dopo la morte di quest'ultimo, il M. e il fratello minore Domenico detto Malatesta Novello, a causa delle discordie tra loro ricorrenti, disposero più volte (nel 1433, 1437, 1442 e nel 1451) di dividere le aree di rispettiva competenza.
Nel 1433 il M. fu creato cavaliere dall'imperatore Sigismondo di Lussemburgo in visita a Rimini. Il 18 marzo 1435, giurata fedeltà a papa Eugenio IV, il M. passò agli stipendi della Chiesa con un condotta di sei mesi e con l'impiego di 200 lance.
I successi riportati permisero al M. di mettersi in luce nel mondo delle compagnie di ventura e il 3 apr. 1437 fu assoldato dalla Serenissima. Al servizio dei Veneziani, il M. fu impegnato con la sua compagnia in una battaglia a Calcinara sull'Oglio (22 luglio 1437) contro Niccolò Piccinino che, al servizio del duca di Milano, ebbe la meglio. Scaduta la condotta con Venezia, il 12 genn. 1438, il M., dopo un breve ritorno a Rimini, fu di nuovo occupato in operazioni militari. La venuta di Francesco Sforza nella Marca di Ancona mise in subbuglio le città e i poteri locali. Il M., temendo che il pericolo sforzesco si estendesse anche allo Stato malatestiano, si accostò a Francesco.
Perciò nel 1440 Filippo Maria Visconti, con astuta strategia, inviò in Romagna, come diversivo, Niccolò Piccinino con 6000 cavalieri a minacciare direttamente i territori malatestiani, contro i quali si era mosso anche Guidantonio da Montefeltro. La capitolazione dei fratelli Malatesta era l'unica soluzione possibile: a fine marzo il M. si recò a Polenta per fare un accordo che prevedeva l'assegnazione a lui, in comune con il fratello e ribaltando le precedenti alleanze, di una condotta ciascuno da parte di Piccinino, anche se nessuno dei due veniva obbligato nell'immediato a combattere contro Francesco Sforza, Venezia, Firenze e la Chiesa. Probabilmente durante gli stessi negoziati Piccinino concluse una pace riguardante i signori di Rimini e di Urbino, a seguito di una guerra combattuta l'anno prima dal M. contro Federico da Montefeltro.
Negli anni Quaranta la politica militare del M. si trovò inserita nei contrasti e nella difficile situazione territoriale interna allo Stato della Chiesa. La pace di Cremona (1441) non portò ad alcun compromesso e l'ostacolo principale era rappresentato da Francesco Sforza, tornato nella Marca per consolidare le sue conquiste, e dal rifiuto del papa a riconoscerne i domini. Niccolò Piccinino, con il quale militava Federico, come rappresentante di Filippo Maria Visconti si accordò con il legato pontificio. La coalizione antisforzesca vedeva quindi l'alleanza di Milano, Roma e Napoli, mentre aiuti a Francesco Sforza venivano dal M. al suo servizio. Nel 1442-43 Francesco fu impegnato nel difendere le terre nella Marca contro la riconquista pontificia, mentre i suoi possessi nell'Italia meridionale erano minacciati da Alfonso d'Aragona, alleato del papa e desideroso di ricevere l'investitura del Regno di Napoli.
Inizialmente il M. diede il massimo sostegno ma, quando nel giugno 1443 Eugenio IV e Alfonso d'Aragona si allearono per espellere Francesco Sforza conquistando la maggior parte delle sue terre marchigiane, cominciò a tentennare e probabilmente solo la presenza di Francesco a Fano e la sua generosità in denaro gli impedirono di ritirarsi. In quella fase degli scontri lo Stato malatestiano sostenne l'attacco combinato degli eserciti pontifici e napoletani, che colpirono le popolazioni locali con incursioni, uccisioni, assedi, saccheggi e distruzione di raccolti e bestiame. Il M. e Francesco Sforza ricevettero rinforzi da Firenze e da Venezia e Filippo Maria Visconti persuase Alfonso d'Aragona a ritirare le truppe. In settembre si costituì infine una nuova alleanza tra Venezia, Firenze e Milano, che impegnò Filippo Maria a inviare aiuti al M. e a Francesco Sforza.
Il 1444 fu per il M. un anno di alterne fortune: conquistò territori importanti, tra i quali Senigallia, ma giunse alla definitiva rottura con Francesco Sforza che, accusandolo di non essere intervenuto in suo aiuto nella battaglia di Montolmo, del 19 ag. 1444, contro l'esercito pontificio lo congedò in malo modo, accogliendo invece al suo servizio l'odiato Federico da Montefeltro. Proprio con quest'ultimo nel 1443 il M. aveva ripreso le ostilità con l'ennesimo scontro per Pesaro, conclusosi ancora una volta con un nulla di fatto.
La reazione del M. fu pronta e astuta: offrì i suoi servizi ad Alfonso d'Aragona ed eseguì ambasciate presso il papa, Filippo Maria Visconti e Leonello d'Este. In giugno e luglio le navi napoletane cominciarono ad affluire lungo la costa adriatica per unirsi alle milizie malatestiane ai danni degli Sforza di Pesaro, mentre il duca di Milano, alleato del papa, assoldò il M. e suo fratello e inviò loro contingenti. La risposta degli avversari portò lo scontro nel cuore dei territori malatestiani marchigiani, con la conquista di Candelara, il sacco di Pergola e le devastazioni del contado fanese. Il M. rispose prima con un attacco nel Montefeltro, poi, alla guida delle truppe di Milano, di Napoli e della Chiesa condusse un assalto generale nella Marca: Roccacontrada e Fermo furono sottomesse e in dicembre il M. divenne padrone dell'intera regione; Carlo Fortebracci, entrato al suo servizio, e Malatesta Novello attaccarono Urbino e conclusero una tregua. Solo nell'autunno 1446 i Feltreschi e gli Sforzeschi erano in grado di passare alla controffensiva, puntando verso Nord fino alla rocca di Gradara, che però resistette in mano malatestiana.
Nel 1446 la situazione politico-militare si complicò ancora: Milano, attaccata dalle truppe veneziane guidate da Michelotto Attendolo, chiese aiuto all'alleato Malatesta. Ai primi di dicembre il M. partì per la Lombardia, ma la vittoria della Serenissima presso Casalmaggiore indusse lo sconfitto Filippo Maria a venire a patti con il genero Francesco Sforza: fu così ridisegnato l'intero complesso di alleanze, soprattutto in riferimento ai successi ottenuti sul fronte feltresco e sforzesco da parte del Malatesta. Per venire a patti con Milano, Francesco Sforza, dopo avere stipulato una tregua con il M., pretese da lui la restituzione di tutte le terre, compresa la rocca di Senigallia, sottratte a Federico da Montefeltro. In vario modo comunque si gettavano le basi per una pace: Francesco Sforza e il M. stabilivano una tregua (1447), che incluse anche Alessandro Sforza, Federico da Montefeltro e Malatesta Novello. Nonostante gli sforzi di Niccolò V, non sembrava però possibile una pace tra Federico e il M., che, proprio per volontà del papa, si vedeva tra l'altro nuovamente tolta la possibilità di acquisire Pesaro.
La voglia di combattere, ma soprattutto il bisogno di denaro mossero il M. verso Napoli: il 21 apr. 1447 fu stipulata una condotta provvisoria con Alfonso d'Aragona per un compenso totale di 32.000 ducati. Dapprima il M., insoddisfatto per le condizioni contrattuali poco precise, probabilmente ritirò il proprio assenso e riprese i contatti con Venezia, che, risultando inconcludenti, lo costrinsero a rivolgersi di nuovo all'Aragonese.
Per ragioni di strategia militare e di equilibrio, Firenze accantonò le diffidenze verso il M. e, il 10 dic. 1447, lo assoldò per un anno accanto a Federico da Montefeltro che aveva già preparato le milizie da condurre in Toscana. La vittoria conseguita a Piombino, il 15 luglio 1448, grazie alla rapidità e alla bravura del M., rappresentò l'inizio di una serie di successi militari che, se da una parte costituirono anche la sua fortuna economica, dall'altra acuirono i risentimenti del re di Napoli, perché fu proprio il M., più di ogni altro, a impedire agli Aragonesi il successo. Vari episodi di questa felice campagna militare furono esaltati, secondo la tradizione dell'epica classica, nella Hesperis di Basinio da Parma, il quale acclamò il M. salvatore della Toscana.
La condotta stipulata con Venezia il 26 nov. 1449 e riconfermata per l'anno successivo il 5 genn. 1450 costituì una delle ultime assunzioni più proficue economicamente: il M., nominato capitano generale delle milizie venete, allestì una compagnia di 2000 cavalli e 500 fanti per un compenso personale mensile di 600 ducati. Sembra che la Serenissima pagasse puntualmente il M., contrariamente a Firenze e Milano, le quali al rinnovo del contratto (14 apr. 1453) erano ancora debitrici nei confronti del M. di ben 32.000 ducati per il precedente ingaggio (1452), cioè per più della metà della somma pattuita. Nella seconda guerra di Toscana, la condotta del M. fu brillante. Favorito dall'incapacità organizzativa del nemico e da un'epidemia scoppiata nell'esercito aragonese - dalla quale fu temporaneamente affetto anche il suo condottiero, Federico da Montefeltro - il M. sottomise Vada.
Proprio la riaffermazione di numerose e importanti posizioni nella Marca anconetana alienò ben presto al M. qualsiasi sostegno, anche quello pontificio che tante volte - come nella legittimazione di alcuni figli (Roberto, Malatesta, Valerio Galeotto) - gli era tornato favorevole, e si inasprì nel contempo la rivalità con Federico da Montefeltro; suscitò inoltre diffidenza tra i potentati italiani, fautori della politica dell'equilibrio. La situazione iniziò a precipitare quando Alfonso d'Aragona, per ripetute insolvenze del M., lo fece escludere dalla pace di Lodi (9 apr. 1454). Il M. si trovò così in quasi totale isolamento, mentre vedeva rapidamente diminuire le sue risorse finanziarie insieme con il prestigio di uomo di guerra e di Stato. La condotta con il Comune di Siena (17 ott. 1454), minacciato da un signorotto ribelle, Aldobrandino Orsini conte di Pitigliano, fu un fallimento: si trattò di una campagna breve e sfortunata, tanto che il M., sospettato da Siena - sembra a torto - di tradimento, non ricevette il soldo pattuito e il suo accampamento fu saccheggiato dalle milizie senesi.
Anche Iacopo Piccinino, capitano stipendiato dal re di Napoli, fu al centro dei provvedimenti papali. Costui, dovendo rendere al M. le terre che aveva occupato per Federico, divenne la causa diretta e indiretta di turbamenti nella Marca. Le decisioni della Dieta di Mantova, insieme con altre, apparivano troppo onerose sia al M. sia a Piccinino; neppure Federico rimase soddisfatto forse perché si attendeva più ampie agevolazioni territoriali. Ad ogni modo Pio II invitava a rispettare quanto stabilito: al M. scriveva di essersi dimostrato favorevole nei suoi confronti; a Federico di rispettare le clausole redatte nel lodo. Nell'ottobre 1459 il M. diede i territori richiesti in deposito al commissario pontificio Ottaviano Pontano; di contro Piccinino non eseguì alcuna consegna. L'inosservanza da parte di Piccinino delle condizioni pontificie irritò particolarmente il M., che si sentiva oltretutto beffato, perché le terre che aveva assegnato alla Chiesa non erano rimaste nelle mani del papa, ma erano state cedute a Federico da Montefeltro. In conseguenza di ciò il M. non si attenne più al lodo papale e, ricevuti dagli Anconetani 3000 ducati per la guerra contro Iesi, che poi rifiutò di condurre affidando l'incarico al figlio Roberto, occupò Montemarciano, il vicariato di Mondavio e, con Piccinino e con il principe di Taranto, abbracciò la causa angioina contro re Ferdinando d'Aragona. La ribellione alla S. Sede pose il M. in una condizione di completo isolamento diplomatico: privato dei suoi diritti e poteri, vide rapidamente eclissarsi il prestigio della sua famiglia.
La situazione precipitò nel 1460-62, quando Pio II, per le ripetute disubbidienze del M., lo richiamò per ben tre volte ma, vista l'inefficacia di questi tentativi, sciolse i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà scomunicandolo il giorno di Natale del 1460; gli intentò inoltre un processo diffamatorio (1461) che si concluse con il rogo della sua effigie, avvenuto a Roma nel 1462; conseguentemente il M. decadde dallo status di vicario nei territori della S. Sede. Del resto la decisione di Pio II di far guerra al M. fino alla sua completa rovina divenne impegno collettivo della lega costituita dal papa, dal re di Napoli, dal duca di Milano e da Federico da Montefeltro. I condottieri pontifici Ludovico Malvezzi di Bologna e Pier Paolo Nardini si portarono quindi nella Marca per riprendere le terre malatestiane: invasero la valle del Cesano con 3000 cavalli e 2000 fanti, si accamparono ai margini del vicariato di Mondavio, nella pianura sotto il castello di Nidastore. Il M. passò all'offensiva e ottenne a Castelleone di Suasa contro l'esercito ecclesiastico condotto da Napoleone Orsini la sua più celebre vittoria (2 luglio 1461), dopo quella di Monteluro. Nel 1462 il M. riuscì a occupare Senigallia, ma al sopraggiungere improvviso dei contingenti di Federico da Montefeltro fuggì verso Fano. Federico lo inseguì e, dopo averlo raggiunto alla foce del Cesano, nell'agosto 1462 sbaragliò il contingente del M., che si salvò con pochi suoi fedeli e, messosi in viaggio via mare, fece invano ricorso ai confederati angioini, mentre il figlio Roberto poté a stento entrare nella rocca di Mondolfo. Pio II, deciso a chiudere la partita, ordinò a Federico e al legato cardinale Niccolò Forteguerri la continuazione delle operazioni militari contro il M. (maggio 1463), che oltre a Senigallia e al vicariato di Mondavio, dovette lasciare anche Fano, già assediata per mare dalle forze di Forteguerri (25 sett. 1463). Finita la guerra, per le pressioni dei Veneziani il papa attenuò il suo rigore verso il M. che, ottenuto il perdono, rimase in possesso della sola Rimini con un ristretto territorio, acquisiti sempre a titolo di vicariato.
Ridotto in isolamento, il M. vide rapidamente inaridirsi le risorse finanziarie e il prestigio personale: per questo cercò dapprima di recuperare terreno con la richiesta di nuove condotte per sé e per il figlio Roberto o tentando di riavviare rapporti con i potenti Stati italiani. Gli restarono vicine solo Milano e Venezia: sotto la Serenissima, dal 1464 al 1466, prese servizio come condottiero, per combattere contro i Turchi in Morea, missione cui molti signori d'Italia e d'Oltralpe si erano sottratti perché la consideravano dura e pericolosa. La campagna che seguì non portò al M. successo né guadagno. Tuttavia, grazie alle condizioni della condotta veneziana, egli ottenne la promessa di protezione per il suo Stato e per la sua famiglia, e una guarnigione di 150 uomini fu inviata a Rimini per mantenere la pace durante la sua assenza. Quando, nel 1465, corse voce che il M. era morto di peste in Morea, egli poté avere idea di ciò che sarebbe accaduto alla sua scomparsa.
Recuperata la salute e allarmato dalle minacce che venivano direttamente o indirettamente portate sull'ormai ridotto Stato malatestiano, il M., dopo lunghe esitazioni da parte di Venezia ottenne di essere liberato dal servizio in Morea.
Al suo ritorno in Italia, dopo aver dettato le disposizioni testamentarie in favore di Isotta e di Sallustio (23 apr. 1466) e convinto di strappare a Paolo II alcune concessioni come ricompensa per il suo servizio contro i Turchi, il M. si recò a Roma, dove l'intenzione del papa era di trattenerlo il più a lungo possibile per favorire i suoi nell'occupazione militare di Rimini. Il piano si presentò, però, fin dagli inizi fallimentare e Paolo II si vide costretto, per placare la rabbia del M. che aveva compreso la situazione, a offrirgli una ricompensa di 1500 ducati.
Il M. fu nuovamente assunto dalla Chiesa come capitano; nella primavera 1468, mentre era impegnato in una campagna militare pontificia contro Norcia, contrasse la malattia che lo portò alla morte. Dopo aver dettato un codicillo al testamento sui suoi beni ragusei (16 ag. 1468), il M. morì a Rimini il 9 ott. 1468, lasciando tutti i suoi progetti di riscatto incompiuti. Tra questi vi era il tempio Malatestiano, cui aveva dedicato negli anni della gloria tutte le risorse e le cure e nel quale aveva sperato di essere sepolto non da vinto, ma da vincitore.
Di ancor maggiore rilevanza per risonanza e valore, questa volta spiccatamente culturale, si rivelò la seconda impresa, che in un progetto mirabile, tra fasti pagani puramente classici e implicazioni sacre prettamente cristiane per il significato essenzialmente votivo e sepolcrale voluto da e per il signore e la sua famiglia, portò alla radicale conversione della chiesa gotica di S. Francesco nel tempio Malatestiano. La realizzazione di quest'altra opera, che in misura diversa da Castel Sismondo sintetizzava l'atteggiamento tipicamente sigismondeo di affermazione d'una personalità alla ricerca dell'esaltazione, procedette con gradualità. All'inizio furono semplicemente restaurate le cappelle di famiglia e, in seguito, l'opera fu orientata verso sperimentazioni certamente prima non avvertite. Rimini, al pari di altri centri italiani ed europei, sembrava esprimere proprio nel tempio Malatestiano il suo umanesimo, non solo per l'ampia partecipazione dei maggiori artisti e cultori di scienze umane, ma anche e soprattutto per la capacità, che l'edificio ebbe, di condensare rinati valori filosofici e teologici. Il M. aveva selezionato gli artisti portando a Rimini Matteo de' Pasti, attivo per il tempio come decoratore e scultore, lo scultore e decoratore fiorentino Agostino di Duccio, gli architetti Matteo Nuti, fanese, e Cristoforo Foschi, fino ai più noti Piero della Francesca (Franceschi) e Leon Battista Alberti. Di questi ultimi il primo realizzò, nella cappella delle reliquie, l'affresco raffigurante il M. in ginocchio e orante dinanzi al santo patrono e omonimo Sigismondo, il secondo fu ispiratore e realizzatore delle novità architettoniche di cui il tempio diveniva raffigurazione, soprattutto come "involucro antico" nella riscoperta di un'architettura dalle forme classicheggianti ed evidenti, nell'immediato, nella realizzazione decorativa della facciata. Decisivi, tuttavia, per l'opera sembravano anche gli influssi del neoplatonismo che, promananti da Firenze e mirabilmente interpretati in chiave filomalatestiana da letterati e artisti quali Basinio da Parma, Tobia Borghi, Guarino Guarini e Giusto de' Conti, trovavano, anche nelle cappelle del tempio, la loro rappresentazione nel ciclo di decorazioni e di sculture delle Divinità pagane, delle Muse e Arti liberali, delle Sibille, dei Profeti e dei Dottori della Chiesa; una trasfigurazione artistica dell'operare divino e umano nella storia nel tentativo estremo, e perfettamente attuato, di immortalare la vicenda del M., di Isotta e della dinastia, tra l'altro ampiamente esaltata anche da opere minori ma per nulla marginali nella politica culturale del M., come medaglie, stemmi, imprese araldiche e sigle epigrafiche.
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