Siena

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Siena

Irene Fosi

All’inizio del Quattrocento S. usciva da una profonda crisi politica e istituzionale causata dal fallimento della politica oligarchica dei Nove (la fazione di governo guidata dal Monte dei Nove, uno dei Monti in cui era divisa la città), segnata anche da vistose perdite territoriali, come quelle di Cortona e Montepulciano. Se si esclude il breve periodo del dominio visconteo (1399-1404), la repubblica seppe tuttavia mantenere la propria libertas grazie soprattutto al progressivo sfumarsi delle differenze fra nobiltà e popolo, attraverso compromissorie pratiche di governo. Il gruppo dirigente presentava però, al suo interno, caratteri disomogenei sia a livello sociale sia a livello culturale ed economico. Accanto al consolidarsi di organismi di governo assembleari (per es., il Consiglio del Popolo), si fece più frequente il ricorso alle Balìe – consigli decisionali straordinari – che funzionavano come strumenti di riequilibrio dei poteri di governo e delle fazioni. A eccezione della parentesi nobiliare imposta da papa Pio II (che, fra il 1459 e il 1465, consentì il rientro in città dei Piccolomini e la loro aggregazione al Monte del Popolo), il governo cittadino rimase nelle mani del medesimo gruppo dirigente, che manifestò sempre più netta la tendenza alla chiusura oligarchica e l’aspirazione alla nobilitazione di numerose famiglie popolari. La mobilità sociale e politica favorita, nel Quattrocento, dal sistema di governo aveva creato le condizioni per acquisire lo stato di ‘risieduto’ (cioè famiglia o esponente di governo) all’interno di una élite predominante nell’economia, nella finanza e garantita anche da solidi legami con altri Stati italiani. Era una élite di famiglie appartenenti, per lo più, al Monte dei Nove e che, tornate al potere negli anni Novanta, manifestarono nelle pratiche di governo nette tendenze oligarchiche. Si avviava in tal modo un processo di chiusura che condusse, nel Cinquecento, già prima della fine della repubblica, a una sostanziale divisione fra famiglie di governo e non, annullando di fatto le divisioni in Monti e il dualismo tra nobiltà e popolo.

Dopo le crisi degli ultimi decenni del 15° sec. – in particolare quella del 1483, causata ancora dalle lotte fazionarie – si affermò la ‘signoria’ di Pandolfo Petrucci (→). La sua figura, indicata a lungo dalla storiografia come quella del ‘tiranno’ di S., è stata ricollocata da studi recenti proprio nel processo di chiusura del sistema di governo e in un modello politico non estraneo alla tradizione rinascimentale e addirittura al paradigma oligarchico veneziano.

Pandolfo viene definito nelle opere di M. «principe di Siena [che] reggeva lo stato suo più con quelli che gli furno sospetti che con li altri» (Principe xx 18), «tiranno» (Discorsi III vi 19), «valentissimo uomo» che aveva saputo scegliere ottimi consiglieri, come Antonio Giordani da Venafro (→ Venafro, Antonio da; Principe xxii 3); ma – soprattutto in occasione delle legazioni, e in particolare nella terza – il giudizio sulla sua pericolosa ambiguità ne oscura le ‘qualità’. Non furono estranee all’affermazione di Petrucci né le condizioni economiche senesi né le generali vicende politiche e militari che segnarono la penisola all’inizio delle guerre d’Italia.

Fu proprio nell’intreccio di interessi economici e politici che si costruì l’ascesa al potere di Pandolfo, sostenuto da famiglie che, durante il suo governo, rafforzarono la ricchezza commerciale e la proprietà fondiaria a scapito delle comunità. I legami economici e politici di diverse casate senesi – fra cui i Petrucci – con gli aragonesi fecero ritenere che l’alleanza con Alfonso d’Aragona duca di Calabria fosse lo strumento più opportuno per recuperare o sottrarre posizioni strategiche fiorentine. Non era evidente ancora al gruppo dominante di S. che i successi militari contro Firenze dipendevano dal favore aragonese, mentre sul piano politico si faceva sempre più incontrastata l’ascesa della fazione novesca che portò al potere Petrucci. M. aveva analizzato nelle Istorie fiorentine la guerra condotta dal duca di Calabria nel 1478 e la sua permanenza in S., i cui «tumulti», dopo la sua partenza dalla città,

furono più spessi; e dopo molte variazioni, che ora dominava la plebe, ora i nobili, restorono i nobili superiori. Intra ’ quali presono più autorità che gli altri Pandolfo e Iacobo Petrucci; i quali, uno per prudenzia, l’altro per animo, diventarono come principi di quella città (VIII xxxv 11-12).

Il governo instaurato a S. dopo la partenza del duca di Calabria (1480) per fronteggiare i turchi, ancor più minacciosi dopo la presa di Otranto, durò fino al 1482. L’attacco ottomano, che sconvolse i potentati italiani, «tanto rallegrò Firenze e Siena, parendo a questa di aver riavuta la sua libertà e a quella di essere uscita di quelli pericoli che gli facieno temere di perderla» (Istorie fiorentine VIII xxi 1). Il cardinale Enea Silvio Piccolomini (il futuro Pio III) garantiva i buoni rapporti con Roma; il papa Innocenzo VIII intanto avrebbe assunto una posizione più disponibile verso Firenze, dopo le violente tensioni di questa città con Sisto IV, soprattutto se i fiorentini «s’inclinassero a domandare perdono al papa» (§ 3), possibilità colta con l’ambasceria della fine del 1480 e con la «prudenzia» (§ 15) di Guidantonio Vespucci. Con la pace conclusa alla fine della guerra seguita alla congiura dei Pazzi e con il recuperato favore pontificio, fu possibile costringere il re Alfonso d’Aragona, detto il Magnanimo, a cambiare la sua politica filosenese e a indurlo a restituire a Firenze i territori in precedenza conquistati da Siena. Alla morte di Lorenzo il Magnifico (8 apr. 1492), l’alleanza e la superficiale concordia di S. con Firenze parvero continuare, ma la morte di Innocenzo VIII (25 luglio 1492) ebbe conseguenze anche sull’equilibrio interno senese. Con la discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, S. continuò nella sua politica filomilanese, considerando Ludovico il Moro un punto di riferimento essenziale nel turbato quadro diplomatico. Fu avviata una più intensa preparazione bellica che permise la realizzazione dei progetti di Pandolfo, sia per l’estrazione e la lavorazione del ferro (destinato prevalentemente a uso militare), sia per la ristrutturazione dell’apparato difensivo, per la quale si avvalse di architetti militari come Francesco di Giorgio Martini. Il quadro politico subì una drammatica svolta con la cacciata da Firenze dei Medici, ai quali, in diverse occasioni, fu fornito appoggio da parte dei senesi per riprendere il governo. Dopo la ribellione di Pisa (1494), Carlo VIII impose il rientro dei fuoriusciti a S., mentre il 25 marzo 1495 Montepulciano si ribellò contro Firenze, ponendosi sotto il dominio senese. Nel 1495 la repubblica mise in atto un riassetto istituzionale con la divisione tripartita dei Monti: Nove, Popolo e Riformatori; mentre la Balìa, pur rispettando la divisione fra i Monti, esprimeva sempre più gli interessi di gruppi economici e di potere che – dall’Arte della lana alle famiglie di banchieri (in particolare quelle legate alla corte pontificia, come gli Spannocchi, salvati dalla bancarotta da Petrucci nel 1503, e successivamente i Chigi), dai Savi allo Studio – sostennero la ormai preminente posizione di Pandolfo come garante del quadro istituzionale faticosamente costruito dopo le lotte fazionarie e le congiure, che tuttavia continuarono a turbare la vita politica senese nel 1495 e nel 1497. Forte del potere crescente nella Balìa e dell’appoggio di Ludovico il Moro, Petrucci impose una pace con Firenze al gruppo guidato da Giulio Bellanti e da Niccolò Borghesi, che guardava piuttosto a Venezia come alleata in funzione antifiorentina, dopo la discesa in Italia del re di Francia Luigi XII nell’estate del 1499. Nel luglio del 1500 Borghesi fu assassinato per ordine di Pandolfo, che eliminava così il suo più potente avversario interno. M. analizza in diversi passi la congiura di Bellanti, sia per le sue cause – Pandolfo aveva promesso a Bellanti in sposa la figlia Sulpizia, che avrebbe fatto poi maritare (1507) con Sigismondo Chigi, a riprova che la sua politica di consolidamento del potere passava anche attraverso accorte strategie matrimoniali («E ne’ nostri tempi Iulio Belanti non si mosse a congiurare contro a Pandolfo tiranno di Siena, se non per averli quello data e poi tolta per moglie una sua figliuola», Discorsi III vi 19) – sia per il suo fallimento a causa degli «accidenti [...] inisperati» (§§ 145-51). La sconfitta di Ludovico il Moro tolse il più forte alleato a Pandolfo che si affrettò a stipulare un accordo con Luigi XII per mettere S. sotto la sua protezione, sborsando un’ingente somma di denaro (che mise in ulteriore difficoltà le già provate risorse finanziarie della città) e consentendo il libero transito delle truppe francesi nei territori senesi, al fine di ottenere per i mercanti della repubblica la possibilità di commerciare in Francia. S. e Firenze si trovavano così entrambe sotto la sfera francese, neutralizzando, o almeno riducendo, le possibilità di reciproche ostilità: ma rimaneva aperto il problema della restituzione di Montepulciano. Alle proteste senesi sulle continue incursioni dei fuoriusciti e al richiamo al rispetto degli accordi che consentivano ai ribelli di restare entro 25 miglia dai confini, M. ribadì la volontà, già espressa precedentemente – «noi siamo in pratica e quasi in ferma conclusione di saldare accordo con Pandolfo Petrucci» (M. ai Commissari in campo, 3 sett. 1498, LCSG, 1° t., p. 46) – di continuare in un pacifico rapporto con i senesi, «per la qual cosa, volendo noi, anzi desiderando, stare bene col presente stato di Siena, siamo desiderosi di tôrre via tutte le cagioni che possino far contrario effetto» (M. ad Andrea Carnesecchi, 7 dic. 1498, LCSG, 1° t., p. 158).

Petrucci svolse un ruolo importante nella conquista di Piombino da parte di Cesare Borgia (1501), ma a Firenze si temeva, nell’agosto del 1503, un colpo di mano dello stesso Petrucci per impadronirsene e impedire a Iacopo IV d’Appiano il rientro nella sua signoria:

Noi intendiamo e da più bande come Pandolfo Petrucci ha fatto trarre di Siena certe artiglierie e che disegna fare l’impresa di Piombino. E perché questa cosa importa, ti spacciamo la presente e t’imponiamo usi diligenzia d’intendere la verità e ce ne avviserai subito subito (M. a Girolamo de’ Pilli commissario a Campiglia, 22 ag. 1503, LCSG, 3° t., p. 220).

Si davano perciò rassicurazioni ad Appiano sull’appoggio fiorentino. La politica di Pandolfo riguardo a Piombino continuò a suscitare preoccupazione a Firenze perché, dopo la morte del papa Alessandro VI, Petrucci

subito appiccò pratiche con gli Spagnoli per via di corruzione, e non veggiendo chi si potessi ostare a questi suoi disegni altri che noi, mandò costì suoi uomini a mettere loro gelosia de’ casi nostri e ad un tratto veniva a fare e’ fatti suoi facili e più difficili la tornata del Signore [Appiano], sappiendo quello non possere avere pronti altri aiuti che ’ nostri (M. a Girolamo de’ Pilli commissario in Piombino, 31 ag. 1503, LCSG, 3° t., p. 235).

M. compì a S. la prima legazione il 18 agosto 1501. In accordo con Vitellozzo Vitelli, alleato di Cesare Borgia, Pandolfo aveva contribuito a suscitare la ribellione di Arezzo (4 giugno 1502), cui aveva elargito 2000 ducati ricevendo in cambio grano (Bernardo de’ Bardi e Tomaso Tosinghi a M., 8 ag. 1502, LCSG, 2° t., p. 289), mentre continuava a sostenere, sempre in funzione antifiorentina, la resistenza pisana. Il pericolo per la stabilità della repubblica veniva ora soprattutto dalla politica espansionistica di Cesare Borgia. Dopo che lo stesso Luigi XII aveva permesso al papa di riprendersi Bologna, Perugia e Città di Castello e aveva favorito la conquista del ducato di Urbino, Petrucci insieme al duca di Urbino Guidubaldo I da Montefeltro, agli Orsini, a Baglioni, Bentivoglio e Vitelli si riunì a Magione (cfr. Gattoni da Camogli 1997, p. 126 nota 31), deliberando di costituire un esercito per la comune difesa (dieta o congiura di Magione, 24 sett. - 8 ott. 1502). Firenze si manteneva neutrale, ma Petrucci, per attirarla nella confederazione antiborgiana, fece intravedere la possibilità di un intervento delle forze confederate per recuperare Pisa. Da parte di Pandolfo venne sempre evitato lo scontro aperto con Firenze, per seguire una politica temporeggiatrice, compromissoria e doppia (cercava anche l’alleanza con Cesare Borgia in funzione antifiorentina). M. osserverà nel Principe come la politica espansionistica del Valentino avesse costituito una minaccia per le due repubbliche – S. e Lucca – che, se il Valentino fosse entrato a Pisa per aiutare i ribelli, si sarebbero trovate inevitabilmente nella sua orbita: «Lucca e Siena cedeva subito, parte per invidia de’ Fiorentini, parte per paura» (Principe vii 36); il pericolo fu allontanato per la morte di Alessandro VI. Dopo la congiura di Magione e l’eliminazione degli altri congiurati nella strage di Senigallia (31 dic. 1502), Cesare Borgia conquistò Perugia, ma per l’opposizione di Luigi XII non poté impossessarsi di Siena. Petrucci restava ora il principale nemico del Valentino. M., in occasione della seconda legazione a Cesare Borgia, informava i Dieci che questi era divenuto «inimico capitale» di Pandolfo «per essere suto insieme con li altri a volerlo cacciare delli stati sua», e aggiungeva il suo giudizio sia sul Valentino sia su Petrucci:

da l’uno canto si vede in costui una fortuna inaudita, uno animo e una speranza più che umana di potere conseguire ogni suo desiderio; da l’altro, si vede uno uomo di assai prudenzia in uno stato tenuto da lui con grande reputazione e sanza aver drento o fuora capi inimici di molta importanza, per averli o morti o riconciliati, e con assai forze e buone quando Giampaulo [Baglioni] si sia ritirato seco, come si dice, e non senza danari (M. ai Dieci, 8 genn. 1503, LCSG, 2° t., p. 540).

Il giudizio di M. sulla politica e sulla figura di Petrucci appare formulato per esprimere un richiamo al governo fiorentino e alla sua pericolosa politica attendista di fronte alle mire del Valentino su S., e per

ricordare alle Signorie vostre che, riuscita che li fia questa impresa di Siena della quale si appropinqua el tempo, verrà ad esser venuta quella occasione che lui ha aspettata e disegnata (p. 542).

Il Valentino si proponeva di coinvolgere Firenze nell’«impresa» di S. – come riferiva M. – dopo che gli ambasciatori senesi erano stati da lui ricevuti per comprendere le ragioni della guerra che egli voleva muovere alla repubblica. Cesare Borgia aveva ribadito che la sua ostilità era rivolta verso Pandolfo, perché era

vinto da la necessità e da uno ragionevole sdegno verso colui che non li bastava solo tiranneggiare una delle prime città di Italia, ma voleva ancora, con la ruina d’altri, possere dare leggi a tutti e’ suoi vicini (p. 540).

Due giorni dopo, in un’altra lettera ai Dieci, M. ragguagliava della buona disposizione di Cesare Borgia verso Firenze e della sua volontà di annientare Petrucci: sarebbe stata

l’ultima fatica a questa nostra impresa e securità delli stati comuni; el quale [Pandolfo Petrucci] è necessario cacciare di casa, perché, conosciuto el cervello suo, e’ denari può fare e el luogo dove e’ sarebbe, quando restassi in piede, resta una favilla da temerne incendii grandi; né bisogna addormentarsi in su questo, anzi totis viribus impugnarlo. Io non fo el cacciarlo di Siena difficile, ma vorrei averlo nelle mani e per questo il papa s’ingenia addormentarlo co’ li brevi, mostrandoli che li basta solo che li abbi e’ nimici suoi per inimici; et io intanto mi fo avanti con lo esercito: e è bene ingannare costoro che sono suti maestri de li inganni. Li ambasciadori di Siena che sono stati da me in nome della Balìa, mi hanno promesso bene e io li ho chiarificati che io non voglio la libertà loro, ma solo che scaccino Pandolfo; e ho scritto una lettera a quella comunità di Siena chiarificando lo animo mio (M. ai Dieci, 10 genn. 1503, LCSG, 2° t., pp. 545-46).

Pandolfo chiese e ottenne dalla Balìa di potersi allontanare da S. (28 genn. 1503). Si verificò quindi un rovesciamento delle alleanze, e fu grazie all’appoggio fiorentino che Petrucci poté rientrare in patria il 29 marzo, senza che il suo breve esilio, trascorso a Lucca, potesse alterare negativamente la posizione ormai consolidata nel governo cittadino. Il 26 aprile M. ricevette dalla Signoria le istruzioni per la sua seconda legazione a S.: informare Petrucci delle buone disposizioni che il papa e il Valentino nutrivano per Firenze e convincerlo a entrare nella lega che si andava costituendo «per la difesa commune delli stati che son in Italia», esplicitandone le condizioni: contributo in uomini d’arme, «che si abbino ad avere li amici e inimici communi», divieto di aderire ad altre leghe e di favorire fuoriusciti e ribelli (i Dieci a M., 26 apr. 1503, LCSG, 2° t., pp. 624-26).

M. compì la sua terza legazione a S. dal 17 al 24 luglio 1505. Fu per il Segretario una delicata esperienza diplomatica, per altro poco fruttuosa: si trattava di ottenere l’allontanamento di Bartolomeo d’Alviano, separandolo dai Vitelli, e di capire le effettive intenzioni di Pandolfo «che teneva el piè sempre in mille staffe, e tenevalo in modo da poternelo trarre a sua posta» (M. ai Dieci, 18 luglio 1505, LCSG, 3° t., p. 554).

L’incontro fu condotto sia da M. sia da Petrucci con le armi della retorica e dell’esperienza diplomatica, ma soprattutto fu segnato dalla diffidenza, dalla dissimulazione e dal sospetto di inganni, perpetrati non solo da parte del signore di S., ma anche da altri personaggi che affermavano di esser favorevoli a Firenze e che, per questo, erano ancor più sospetti agli occhi del Segretario, il quale cercava di decifrare l’impenetrabile e infida natura di Pandolfo. All’interno del quadro istituzionale senese Petrucci restava, formalmente, un membro della Balìa, ma nel 1507 ottenne di essere riconosciuto dagli esponenti dell’oligarchia come primus inter pares, anticipando così la definitiva chiusura oligarchica del 1545. La pace con Firenze e la restituzione di Montepulciano (1511) segnarono una svolta nella politica perseguita fino ad allora dalla repubblica. Alla morte di Pandolfo (21 maggio 1512) – che aveva ottenuto il cardinalato per il secondogenito Alfonso –, le redini del governo passarono al suo primogenito, Borghese. Sulla turbata vita politica della repubblica senese pesarono anche le difficili relazioni fra la città dominante e le comunità soggette, oppresse da una esosa politica fiscale e private dei beni venduti ai cittadini durante la signoria di Pandolfo. Rovinose furono poi le lotte interne alla stessa famiglia Petrucci: a esse accenna M. nel capitolo in versi “Dell’Ambizione” e, in particolare, alla lite fra Borghese e Alfonso nella spartizione dei doni nuziali offerti da Chiappino Vitelli per il suo matrimonio con una loro sorella, celebrato alla fine del 1509 («di Siena la fraterna lite», v. 124).

Il ritorno dei Medici a Firenze e l’elezione di papa Leone X spinsero l’oligarchia senese a un compromesso teso a garantire la fragile stabilità del governo: Borghese Petrucci tenne il potere fino al marzo 1516, quando – dietro pressione di Leone X – suo cugino Raffaele Petrucci, vescovo di Grosseto, lo spodestò; l’anno successivo Alfonso, accusato di congiurare contro il papa, fu privato del cardinalato e fatto strangolare da Leone X in Castel Sant’Angelo. Alla morte di Raffaele, l’altro figlio di Pandolfo, Fabio, si mostrò incapace di governare, e l’oligarchia novesca, con la protezione francese e medicea, insediò al potere Alessandro di Galgano Bichi: M. scrisse che

la città di Siena non ha mai mutato stato col favore de’ Fiorentini, se non quando i favori sono stati deboli e pochi, perché quando ei sono stati assai e gagliardi, hanno fatto quella città unita alla difesa di quello stato che regge (Discorsi II xxv 12-13).

Con «deboli e pochi» si riferiva probabilmente agli aiuti forniti da Firenze in quella occasione.

Dopo la sconfitta francese nella battaglia di Pavia e la fine tragica di Alessandro di Galgano Bichi, si stabilì a S. l’ultimo governo popolare (1525-30). I capi della fazione (i cosiddetti libertini) aderirono alla parte imperiale, mentre i noveschi, con l’appoggio di papa Clemente VII e del re di Francia Francesco I, tentarono un assalto militare, respinto il 25 luglio 1526. S. e il suo Stato erano però già entrati nelle mire imperiali.

Bibliografia: M. Ascheri, Siena nel Rinascimento. Istituzioni e sistema politico, Siena 1985; G. Chironi, La Signoria breve di Pandolfo Petrucci, in Storia di Siena, a cura di R. Barzanti, G. Catoni, M. De Gregorio, 1° vol., Dalle origini alla fine della Repubblica, Siena 1995, pp. 395-406; M. Gattoni da Camogli, Pandolfo Petrucci e la politica estera della Repubblica di Siena (1487-1512), Siena 1997; M. Ascheri, Siena nella storia, 1° vol., Milano 2001, pp. 159-64; C. Shaw, L’ascesa al potere di Pandolfo Petrucci il magnifico, signore di Siena (1487-1498), Monteriggioni 2001.

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