SICILIA

Enciclopedia Italiana (1936)

SICILIA (A. T., 27-28-29)

Attilio MORI
Ramiro FABIANI
Fabrizio CORTESI
Mario SALFI
Biagio PACE
Giovanni PUGLIESE CARRATELLI
Gaetano Mario COLUMBA
Secondina Lorenzina CESANO
Carlo Alfonso NALLINO
Ernesto PONTIERI
Luigi BIAGI
Giulio BERTONI
Carmelo SGROI
Alfredo BONACCORSI
Raffaele CORSO

È la maggiore isola del Mediterraneo.

Sommario. - Geografia: Generalità (p. 654); Rilievo (p. 655); Geologia (p. 657); Clima (p. 658); Idrografia (p. 658); Flora e vegetazione (p. 659); Fauna (p. 659); Popolazione (p. 659); Condizioni economiche (p. 660).

La Sicilia nell'antichità. - Preistoria (p. 664). - Storia (p. 666). - Topografia storica (p. 672). - Arte (p. 677). - Monete (p. 681).

La Sicilia nel Medioevo e nell'Età Moderna. - Storia: Il dominio bizantino (p. 682); Il dominio musulmano (p. 683); La Sicilia nella monarchia normanno-sveva (p. 684); Dalla secessione del Vespro al tramonto dell'indipendenza (p. 685); Il Viceregno (p. 686); Savoia, Asburgo d'Austria e Borboni di Napoli (p. 688); La Sicilia nel Regno delle Due Sicilie (p. 688); La Sicilia contemporanea (p. 689). - Arte (p. 690). - Dialetti (p. 694). - Letteratura dialettale (p. 695). - Musica popolare (p. 695). - Folklore (p. 697). Tavv. XCIII-CXX.

Geografia.

Generalità. - Il carattere d'insularità è, nella Sicilia, assai meno pronunziato che non nelle altre maggiori isole del Mediterraneo. Separata dalla penisola italiana da uno stretto di appena 3 km., la cui soglia non supera la profondità di 100 m. sotto il livello marino, essa può bene considerarsi come un'appendice della penisola stessa; in effetto se le acque si abbassassero di un centinaio di metri, emergerebbe un sottile istmo tra il Capo Faro e la Punta del Pezzo in Calabria. Da ciò l'ipotesi di un antico collegamento, avvalorato da considerazioni geologiche (v. appresso). Si pensò pertanto più volte di saldare materialmente l'isola al continente, sia mediante la costruzione di un ponte, sia con l'escavazione di una galleria sotterranea; propositi alla cui attuazione si opposero più le considerazioni economiche che le reali difficoltà tecniche. L'istituzione dei battelli ferroviarî (ferry-boats) ha attenuato gl'inconvenienti derivanti dalla separazione.

L'area della Sicilia ascende a 25.460 kmq., ma tenendo conto delle minori isole che le fanno corona e che geograficamente e amministrativamente le appartengono, cioè i gruppi delle Eolie, Ustica, le Egadi, Pantelleria e le Pelagie che tuttavia si considerano fuori dell'Italia naturale e pertinenti all'Africa, ed escludendo le Isole Maltesi che politicamente non ne fanno parte, la Sicilia, come compartimento, si ragguaglia a kmq. 25.710, onde dopo il Piemonte è il più vasto compartimento del regno, del quale rappresenta l'8,3%. Compresa tra le latitudini estreme di 38° 18′ (Capo Rasocolmo) e di 36° 38′ 5′′ (Capo delle correnti) e tra le longitudini di 12° 25′ (Capo Boeo o Lilibeo) e di 15° 39′ in (Punta del Faro), la Sicilia occupa il centro del Mediterraneo (Messina è posta all'incirca alla stessa distanza da Gibilterra, da Suez e da Odessa) separata dalla costa africana della Tunisia da un canale di soli 145 km., profondo poco più di 200 m., onde può ben dirsi l'estremo meridionale del grande molo che la Penisola Italiana forma protendendosi nel centro del Mediterraneo e dividendolo in due separati bacini. Il Capo Passaro, estremità SE. dell'isola, dista 460 km. da Tripoli, 690 dalla costa della Cirenaica, 780 da Creta.

Caratteristica la forma triangolare dell'isola; i tre capi ricordati, la Punta del Faro o Peloro, il Capo Boeo o Lilibeo e la Punta delle Correnti ovvero il prossimo Capo Passaro, ne individuano i vertici, mentre i lati tra essi compresi misurano rispettivamente 290 km. a N., 250 a S., 190 a E. Le coste della Sicilia si presentano nel loro complesso con andamento regolare e in qualche tratto assolutamente rettilineo. Lo sviluppo costiero dell'isola risulta di 1039 km., dei quali 440 sul Mare Tirreno, 312 sul Mare Africano e 287 sull'Ionio.

La costa settentrionale, bagnata dal Tirreno, appare la più frastagliata, specialmente verso i suoi estremi orientale e occidentale. Nel primo costituisce una pronunziata sporgenza la penisoletta di Milazzo, isola saldata alla terra siciliana che si protende di 6 km. verso N., dividendo il Golfo di Milazzo da quello di Patti; nel secondo, a ponente del 14° meridiano, l'ampia ma poco pronunciata insenatura del Golfo di Termini Imerese (la cui corda tra il Capo Plaia e il Capo Zaffarano misura quasi 40 km.) precede l'insenatura più ristretta, ma anche più pronunciata, del Golfo di Palermo, nella cui concavità, la celebrata "Conca d'oro", sorge la grande città e il porto da cui prende il nome. Una tozza e accidentata sporgenza divide il Golfo di Palermo dal magnifico Golfo di Castellammare che la Punta di Raisi e il Capo S. Vito limitano rispettivamente a E. e a O. segnando gli estremi del diametro del semicerchio che misura oltre 30 km. Il breve tratto occidentale della costa siciliana dal Capo S. Vito al Lilibeo, nel cui punto medio sorge la città di Trapani si presenta abbastanza frastagliato ed è fronteggiato dal gruppo delle Egadi, sicuri frammenti della terra siciliana che con la estrema isola di Marettimo ne prolungano verso O. di 40 km. la distesa. Andamento più regolare e uniforme, interrotto solo da alcune sporgenze rocciose a ridosso delle quali sorsero gli approdi portuali, presenta la costa che si affaccia sul Mare Africano in varî tratti orlata da dune, e, a differenza delle altre coste dell'isola, scarsamente popolata e poco frequentata. Delle sue regolari falcature quella al cui centro si trova Gela ha una corda di 60 km.

La costa orientale bagnata dall'Ionio, salvo il piccolo aggetto peninsulare della "falce" che chiude l'eccellente porto naturale di Messina, può dirsi conservi nella sua sezione settentrionale un andamento quasi rettilineo; ma presto vengono a interromperne l'uniformità le pittoresche sporgenze dei Capi di S. Alessio e di S. Andrea e le isolette formate da antiche eruzioni vulcaniche, anteriori al sorgere dell'Etna, che la poesia e la tradizione storica hanno da secoli celebrato. Uscita dalla zona eruttiva dell'Etna, la costa s'inflette nell'ampia insenatura del Golfo di Catania, che ha al fondo una lunga sezione di costa piatta e rettilinea, poi, tra il Capo Campolato e il Capo delle Correnti, presenta una successione di profonde intaccature e di penisolette ad istmo molto ristrette: quella di Magnisi è raccordata alla terraferma da un istmo sottile e sabbioso, mentre l'isolotto di Capo Passaro fu più volte unito e separato per l'alterna opera di accumulazione e demolizione. Il porto di Augusta e il Porto grande di Siracusa si annoverano fra i migliori porti naturali dell'Italia.

Rilievo. - La Sicilia è nel suo complesso una regione montana e collinosa nella quale hanno considerevole parte i ripiani ondulati dal fondo roccioso, mentre assai limitata estensione vi hanno le pianure alluvionali. Si calcola che l'altitudine media dell'isola sia di 441 m. e che quasi ⅔ della sua superficie siano a più di 300 m. s. m. Non tenendo conto dell'Etna, che i materiali eruttati dall'antico vulcano sottomarino hanno accumulato nel preesistente golfo, oggi occupati dalla grande montagna, la zona prevalentemente montuosa dell'isola è quella che, per circa 150 km., si sviluppa lungo la sua costa settentrionale ad una distanza dal mare da 10 a 20 km. Tale zona forma una vera e propria catena continua dal Faro fino al Fiume Torto sebbene diversa per origine e costituzione nelle tre sezioni in cui rimane divisa. La sezione più orientale è quella dei Peloritani, che formano come l'ossatura della cuspide nordorientale dell'isola. Costituiti prevalentemente da gneiss e da filladi, facilmente erodibili, i Peloritani possono considerarsi la continuazione dei monti calabresi dai quali li separa la poco pronunciata soglia sottomarina dello stretto, sebbene ne differiscano per le forme più aguzze delle cime lavorate dall'erosione e per la minore elevazione. Questa in poche vette supera i 1100 e i 1200 m. (M. delle Tre Fontane o Montagna Grande, 1374 m.; Pizzo di Polo, 1286 m.; Pizzo della Croce 1214 m.; Antennamare a 8 km. a SO. di Messina 1124 m.), ma in generale non raggiunge i 1000 m.; precipiti fiumare ad ampio letto incidono i Peloritani su ambo i versanti.

La sella di Filippazzo (857 m.) tra le sorgenti della fiumara d'Agrò e il torrente Rodi a E. della Rocca di Novara, se ne può considerare l'estremo punto occidentale, oltre il quale la catena prende il nome di Nebrodi o di Caronie dal bosco omonimo (faggi, querce) che nonostante le devastazioni ne ricopre ancora un'estesa parte delle pendici N. Dai Peloritani i Nebrodi differiscono notevolmente per la costituzione litologica prevalendovi arenarie in alto, argille scagliose in basso, onde si hanno in genere forme molli e rotondeggianti, nonostante la maggiore altezza (M. Sori, 1847 m.). Il bosco non arriva in genere sulle vette, che appaiono nude e calve. Più elevate ancora, sebbene meno estese, le Madonie, che possono farsi principiare con la sella di Gangi nella regione sorgentifera del fiume omonimo, e che toccano quasi i 2000 m. in una serie di vette di altezza pressoché uguale (Pizzo Carbonara, 1977 m., Pizzo Antenna, 1975 m., Pizzo Palermo, 1955 m.); sono le maggiori altezze dell'isola, se si prescinde dall'Etna. Ma le Madonie hanno costituzione del tutto differente da quella dei rilievi prima esaminati perché vi prevalgono le formazioni calcaree e non infrequenti pertanto vi sono i fenomeni carsici che sono loro proprî; ampie conche inghiottono le acque che riappaiono in basso in sorgenti copiose, come quelle di Scillato, che alimentano l'acquedotto di Palermo. I fianchi sono ancora rivestiti qua e là da boschi.

Il corso del Fiume Torto limita ad ovest la regione delle Madonie e insieme con quello del Platani, costituisce un solco profondo che divide la Sicilia in due parti distinte, la orientale e la occidentale, e rappresenta una via naturale di penetrazione verso l'interno. Ad ovest del solco Torto-Platani si stende una regione formata da gruppi o da dossi assai isolati, in genere costituiti da un'ossatura calcarea, diversi per orientazione ed anche per aspetto, presentando ora sommità spianate o cupoleggianti delimitate da pendii ripidi, ora creste sottili e bizzarre. In prossimità del Tirreno si levano i monti di Termini Imerese (S. Calogero, 1325 metri) e quelli di Monreale (Pizzo Magazzino, 1333 metri), le cui diramazioni si protendono fin sul mare al M. Pellegrino, al M. Gallo, alla Punta Raisi; ma le cime più elevate si trovano nell'interno a NE. e SE. di Corleone (Rocca Busambra, 1615 m.; M. Barraù, 1451 m.) e nell'anfiteatro montano dal quale si originano il fiume Magazzolo e il Torbido, detto talora M. Sicani (M. di Cammarata, 1579 metri). Tra queste zone relativamente più elevate si intercalano regioni collinose formate da rocce arenacee e scistose ovvero da rocce argillose, di varî orizzonti del Terziario. Ad O. e a SO., verso il mare, si ha poi un'ampia cimosa di pianure costiere a lievissima pendenza verso l'interno dove esse sono costituite da ripiani monotoni appena incisi dai rari corsi d'acqua. Sulla costa settentrionale pianure costiere si hanno invece solo in fondo ai golfi: la più nota è la Conca d'Oro di Palermo.

A oriente del Platani, lungo il Mare Africano la fascia pianeggiante costiera è più ristretta, salvo in corrispondenza al Golfo di Gela dove presenta anche notevoli formazioni di dune. Verso l'interno il terreno si rialza nel cosiddetto altipiano zolfifero, forse la regione più ingrata dell'isola, costituita in basso da argille sabbiose, salate (con ammassi di salgemma, che sono anche sfruttati dall'uomo) e gessose, con intercalazioni di scisti bituminiferi e di banchi di arenarie e conglomerati, in alto dalla formazione gessoso-zolfifera. Il terreno è in genere brullo, squallido: il gesso tende a formare altipiani e dossi, i banchi di calcare più resistenti emergono talora in creste bizzarre. A NE. e a E. le formazioni ora ricordate, che dànno in genere molto facile presa all'erosione, onde le frane, i calanchi, ecc., sono ricoperte da banchi di calcare conchigliare (tufo) che costituiscono rilievi tabulari sollevati fino a 800-900 metri. Sono i cosiddetti Monti Erei, smembrati dall'erosione dei corsi d'acqua, molto avanzata, in lembi assai limitati, sui quali sorgono spesso, come su bastioni naturali, i centri abitati: Enna, a 948 m., è al centro di questa zona, e quasi al centro della Sicilia, anzi il vicino laghetto di Pergusa era considerato tradizionalmente come l'ombelico dell'isola.

Una serie di basse selle, tra le quali quella di Regalseme scende a 425 m., separa gli Erei dai rilievi del SE., che si designano talora col nome di M. Iblei e culminano nel M. Lauro (985 m.) di poco emergente fra altre cime contigue. Si tratta di tavolati che si succedono a gradinata, formati a N. da espandimenti lavici di eruzioni preetnee, fiancheggiati talora da tufi calcarei simili a quelli degli Erei, più spesso da calcari bianchi o giallastri simili a quelli del Leccese (pietra di Modica) o anche da calcari bituminosi (Ragusa). I tavolati, spesso rivestiti da coltivazioni arboree (vite, olivo, carrubo), sono profondamente incisi da corsi d'acqua divergenti a ventaglio dalla zona culminale del M. Lauro, che hanno scavato gole strette, incassate, con pareti sovente a picco, dette cave; essi portano acqua solo a rari intervalli. A N. della regione anzidetta si affaccia sull'Ionio, per una profondità verso l'interno di circa 25 km. e una fronte costiera di quasi altrettanti, la piana di Catania, l'unica pianura alluvionale notevolmente estesa che la Sicilia offre, fertilissima (cereali, vite) e oggi in avanzato corso di sistemazione idraulica e di bonifica. Più a N. ancora sorge isolata l'imponente massa montana dell'Etna che spinge l'orlo del suo cratere, distante dalla costa quasi 20 km., a un'altezza di oltre 3000 m., e che il solco percorso dall'Alcantara divide dai Peloritani. Ma per l'Etna si rimanda alla voce relativa.

Geologia. - Stratigrafia. - La Sicilia è costituita di formazioni appartenenti a tutti i periodi geologici a partire dal Paleozoico più elevato fino all'Olocene. Ne esistono però anche di anteriori al Paleozoico superiore, ma finora mancano gli elementi per fissarne con precisione l'età. Si tratta di formazioni metamorfiche - micascisti, gneiss, calcescisti, filladi quarzifere - e intrusive, specialmente graniti porfiroidi.

Queste formazioni hanno sviluppo esclusivo nei Peloritani, dei quali costituiscono la caratteristica più saliente, e collegano geologicamente e tettonicamente l'estremità nord-est della Sicilia alla prospiciente Calabria. Nelle filladi quarzifere si trovano vene di galena argentifera, di pirite, calcopirite, ecc.

In tutto il resto dell'isola non affiorano altri terreni del Paleozoico, tranne che nei dintorni di Palazzo Adriano (Palermo), ove, nell'alto bacino del fiume Sosio, si trovano cinque piccoli spuntoni di calcari, con prevalente facies di scogliera, appartenenti al Permico. La classica fauna di questi calcari è fra le più importanti per ricchezza e varietà di specie e comprende Foraminiferi (Fusulina prisca, Schwagerina Yabei), Spugne, Brachiopodi, Crinoidi, abbondantissimi Molluschi, qualche Trilobite, ecc., con analogie più o meno notevoli con le faune permiche degli Urali, di Timor, ecc., e con una forte percentuale di specie locali.

Molto sviluppate in Sicilia sono le formazioni del Mesozoico, che si iniziano forse col Triassico medio (non ancora bene accertato). Presenti lungo la zona marginale sud-ovest della regione cristallina peloritana, formano l'ossatura delle Madonie, delle montagne di Palermo, dei Monti Sicani e dei monti del Trapanese settentrionale. Anche nelle Isole Egadi assumono rilevante sviluppo.

Il Triassico superiore è costituito in basso da una potente massa di formazioni con facies di Flysch (argille e marne, alternate ad arenarie e a calcari lastriformi compatti, spesso selciferi). Vi sono frequenti specialmente le Halobie, le Posidonomye e le Ammoniti (delle due zone a Trachyceras aonoides e a Tropites subbullatus del Carnico).

Superiormente hanno prevalenza calcari compatti selciferi e dolomie; queste ultime con specie di Megalodon e di Dicerocardium caratteristiche del Norico.

Il Giurassico, per varietà di facies e ricchezza paleontologica delle sue tre grandi divisioni, tiene il primo posto fra i terreni secondarî della Sicilia, e fornisce i materiali più pregiati per l'industria marmifera.

Nella parte orientale (dintorni di Galati, Taormina) sono particolarmente noti i depositi liassici trasgressivi sulle filladi quarzifere. Comprendono specialmente calcari per lo più grigi o neri, calcari marnosi e marne varicolori, a diversi livelli, ricchi soprattutto di Ammoniti e di Brachiopodi.

Nella Sicilia occidentale alla base del Lias sta una massa di calcari candidi cristallini con Gasteropodi e Cefalopodi (Casale della Busambra), mentre il Lias medio è formato di calcari a Crinoidi e il superiore dai così detti scisti silicei.

Il Dogger ha prevalentemente facies di calcari compatti ricchi di Gasteropodi, di Cefalopodi e di Brachiopodi, soprattutto nei livelli ad Harpoceras Murchisonae e a Posidonomya alpina (Rocche Rosse di Galati, Taormina, M. Inici, Montagna Grande di Calatafimi, M. Erice).

Notevole per il Dogger siciliano è la presenza di tufi vulcanici presso Roccapalumba, contenenti (caso rarissimo) un'associazione discretamente ricca di fossili del Bajociano (orizzonte a Stephanoceras humphriesianum), il che ha permesso di datare dal Giurassico medio una parte delle manifestazioni vulcaniche dell'isola. Dette manifestazioni, dovute a vulcani sottomarini, si accompagnarono a movimenti che portarono o addirittura all'emersione di alcuni tratti della regione o per lo meno al sollevamento fino a fior d'acqua, così da costituire delle parti a scogliera che, demolite poi dall'opera del mare, originarono grandiosi banchi conglomeratici, diffusi specialmente nei Monti Sicani, che segnano una netta trasgressione tra il Meso- e il Neogiurassico.

Il Malm è nelle sue parti inferiore e media costituito per lo più di calcari compatti marmorei bianchi o rossi (orizzonti a Macrocephalites macrocephalus, a Peltoceras transversarium, ad Aspidoceras acanthicum). La parte superiore (Titoniano) ha talora la facies di calcari marnosi bianchi (lattimusa) o rossastri (M. Sicani), a volte selciferi, tal'altra quella di calcari grigio-cerulei compatti di scogliera (Monti di Palermo).

Le formazioni del Cretacico, se hanno una parte modesta rispetto a quelle del Giurassico, offrono tuttavia discreta varietà di facies. Nella Sicilia nord-orientale, nonché a Licodia Eubea e a Sciacca, predomina il tipo dei calcari più o meno compatti, lastriformi, a volte selciferi, attribuibili in gran parte al Cretacico inferiore.

Nel Messinese esiste anche una serie superiore più marnosa, talora scistosa, che giunge fino al Senoniano. Nella stessa regione nord-orientale dell'isola e del pari nei Nebrodi meridionali e nelle Madonie, si sviluppa la cosiddetta "facies africana" con ricca fauna di molluschi (Exogyra flabellata, Acanthoceras rotomagense, ecc.). A questa formazione, nella quale sono rappresentati il Cenomaniano e il Turoniano, spetta una parte della serie già considerata dai vecchi autori come "argille scagliose eoceniche".

Nei monti di Palermo predomina invece la "facies urgoniana" con una massa di calcari cerulei e grigiastri comprensiva di diversi piani. Non manca infine la facies di calcari bianchi ippuritici, presenti, ad es., al Capo Passero e caratterizzati dalla Hippurites cornucopia associata ad Orbitoides gensaicca.

Le formazioni del Terziario hanno importanza preminente per sviluppo, varietà di facies, e interesse minerario. Argilloscisti, argille, marne, arenarie, sono le rocce predominanti, talora con facies di Flysch negli orizzonti inferiori. Calcari lastriformi ad Alveoline, calcari grossolani a Crostacei e calcari grossolani o compatti a Nummuliti sono presenti, per lo più sporadicamente, nell'Eocene medio. Per l'Oligocene prevale la facies arenacea. Pare provenga da un livello marnoso dell'Oligocene l'ambra (Simetite), che si trova per lo più in giacimento secondario nelle alluvioni lungo il Simeto.

Il Miocene inferiore, generalmente argilloso nella Sicilia centrale e occidentale, è invece rappresentato da una grande placca calcarea nella Sicilia di sud-est. A questa placca appartiene la formazione asfaltifera del Ragusano, con Neosqualodon, Squalodon, Aturia Aturi (Langhiano).

Del Miocene medio sono caratteristici i calcari arenacei e glauconitici a ittiodontoliti di Corleone, riferibili all'Elveziano. Il Tortoniano è invece prevalentemente argilloso e spesso salifero (le masse di salgemma, che non di rado hanno carattere intrusivo, sono minerariamente coltivate in varie parti dell'isola).

Nel Miocene superiore - alla cui base stanno frequentemente dei banchi di tripoli, spesso bituminosi e ricchi di impronte di Pesci - si associano argille, conglomerati, gessi, calcari selciferi e cavernosi, a costituire una serie estesa e potente soprattutto nella Sicilia centrale-meridionale e la cui parte essenziale è la "formazione gessoso-solfifera". Da essa trae la vita l'industria estrattiva più importante dell'isola e per la quale questa teneva il primato mondiale prima della scoperta dei giacimenti solfiferi delle cupole saline della Luisiana e del Texas.

Come base del Pliocene si considerano le marne bianche a Foraminiferi (Globigerina, Orbulina), dette volgarmente "trubi", sulle quali segue spesso una potente massa di argille celestine passanti ad argille sabbiose, coperte a lor volta da depositi calcarei o sabbiosi (sabbie gialle) o arenacei; complesso riportato al Pliocene superiore (Altavilla Milicia, Agrigento, ecc.).

Durante il Terziario la Sicilia, particolarmente il suo settore sudorientale (M. Iblei), fu teatro di un'attività vulcanica che raggiunse intensità e sviluppo nel tempo ben superiori a quanto era avvenuto per la Sicilia occidentale durante il Secondario medio (Dogger) e, nell'estremo sud-est dell'isola (Capo Passero, Pachino), probabilmente nel Cretacico superiore. Detto vulcanismo terziario fu concomitante con intensi movimenti di dislocazione che portarono all'emersione di gran parte della Sicilia.

Estese aree erano però ancora sommerse durante il Quaternario inferiore e medio (regione sub-etnea, piana di Vittoria, zona costiera del Marsalese, Conca d'Oro di Palermo), com'è testimoniato dai depositi argillosi (Ficarazzi) e calcarei (tufi, es., delle Falde del M. Pellegrino) con ricche faune marine. Notevole per i livelli inferiori l'infiltrazione di specie "fredde" cioè immigrate dai mari nordici (es., Cyprina islandica, Buccinum undatum) e in quelli superiori invece di specie di tipo "caldo", cioè tropicale, come lo Strombus bubonius.

Mentre per graduale emersione la Trinacria si avviava alle condizioni attuali, giungeva e prosperava una fauna terrestre caratterizzata, come a Malta, dall'associazione dell'Elephas mnaidriensis ed E. melitensis con l'Hippopotamus amphibius Pentlandi, i resti dei quali abbondano specialmente nelle grotte di escavazione marina del Palermitano. Questi mammiferi si estinguevano prima che nell'isola comparisse l'uomo preistorico (Paleolitico superiore), le cui tracce (utensili di selce, avanzi di pasti) si rinvengono pure in molte grotte oltre che in stazioni all'aperto. Cervi e Cinghiali furono le principali fiere contemporanee alle prime genti preistoriche che popolarono la Sicilia.

L'attività vulcanica durante il Quaternario, spentasi ormai nella regione iblea, aveva spostato il suo teatro principale verso nord, ove dava origine al gigantesco apparato dell'Etna.

Nelle varie manifestazioni vulcaniche della Sicilia prevalgono le lave di tipo basaltico.

Tettonica. - Esclusivamente nel settore nord-est dell'isola si possono intravvedere le tracce di movimenti orogenetici paleozoici, mentre nel resto si rivelano solo gl'indizî e le prove di movimenti del Secondario medio e superiore e soprattutto del Terziario. Ai movimenti del Terziario prese parte anche l'accennato settore nord-est, nel quale andò sviluppandosi una struttura a scaglie e a ricoprimenti, interessanti sia le masse di rocce metamorfiche e cristalline paleozoiche, sia i lembi di quelle sedimentarie di età posteriore. Questa tettonica della regione peloritana (sensu lato) si ricollega per genesi e caratteristiche a quella della Calabria.

Per il resto della Sicilia la concezione strutturale a grandiose falde di ricoprimento di tipo alpino, ammessa da alcuni geologi, è ancora molto discussa e discutibile per la deficienza di prove sicure che la documentino. Comunque, lasciando le induzioni e guardando ai lineamenti più superficiali della tettonica, si può dire che si riscontra una notevole varietà nei particolari, che esistono ricoprimenti di modesta entità (es. del Trias sul Miocene inferiore presso Palazzo Adriano), strutture a scaglie, strutture a cupole spezzate con spostamenti disarmonici (tipi diapiri, nei quali ha parte principale il Flysch triassico [Carnico]), strutture a faglie di tipo vario, che talora si associano a strutture a pieghe (es. Madonie, M. Sicani), talaltra costituiscono invece il motivo pressoché esclusivo, come nelle zone tabulari (es. la placca miocenica della Sicilia di sud-est, alla quale anche per l'orientamento dei sistemi principali di faglie si collega l'arcipelago maltese).

Da queste varietà strutturali, che a lor volta si connettono con le varietà litologiche e lo sviluppo e la posizione reciproca di certe formazioni a comportamento profondamente diverso (masse argillose eminentemente plastiche e impermeabili, masse calcaree o dolomitiche o arenacee in grossi banchi, rigide e permeabili per fessurazione) derivano la varietà morfologica dell'isola e tutto un complesso di condizioni che vanno dalla ubicazione delle principali manifestazioni sorgentizie alle possibilità colturali, alla viabilità, ecc.

Si confrontino sotto gli accennati riguardi la regione peloritana, quella etnea, quella dei massicci secondarî (Madonie, monti di Palermo e di Trapani, M. Sicani), la regione delle colline terziarie della Sicilia centrale-meridionale e la regione ad altipiani o comunque tabulare del Siracusano e del Marsalese, che hanno tutte caratteristiche peculiari e diverse.

Clima. - Per la sua posizione meridionale e per l'influenza che vi esercita il mare, la Sicilia gode di un clima assai mite che nell'interno dell'isola solo la notevole altitudine riesce più o meno considerevolmente ad alterare. Ma poiché la vita in Sicilia si volge più nelle zone costiere, specialmente in quelle bagnate dal Tirreno e dall'Ionio, dove sorgono i suoi maggiori centri abitati, è di queste che in particolar modo si considerano le condizioni climatiche. Esaminando i dati che se ne posseggono, si vedrà come le temperature medie del gennaio oscillino intorno ai 10-11°, superiore di 2° a quella di Napoli, di 4° a quella di Roma; di 10° a quella di Milano. Assai minori le differenze che si avvertono per i mesi estivi. La media di luglio, che sulle coste della Sicilia si mantiene di circa 25°, eguaglia quelle di Roma, di Firenze e di Milano. Un'escursione annua quindi notevolmente inferiore, in Sicilia, rispetto alla penisola e più ancora alla valle padana; lo stesso si verifica quando si confrontino le coste con le località elevate dell'interno dell'isola. A Caltanissetta, che è a 570 m. s. m., la media del gennaio è di 4° inferiore a quella di Catania, che si trova alla stessa latitudine, e di soli 2° inferiore è quella del luglio. Differenze molto maggiori si riscontrano nelle minori località più elevate dell'interno che rispecchiano sotto alcuni punti di vista il clima alpino, ma per le quali mancano ancora le normali relative. Altrettanto si dica per la pioggia. Lungo le località costiere si avverte subito una notevole scarsità, aggravata dall'irregolare distribuzione. La media di Palermo è di 791 mm. e 112 giorni piovosi; quella di Siracusa di 637 mm. e 79 giorni piovosi; di Catania 475 mm. e 46 giorni piovosi. Nell'interno, a Caltanissetta, 612 mm. Tali valori non differiscono da quelli che si hanno per l'Italia adriatica centrale e meridionale: ma ciò che costituisce un danno nei riguardi della vegetazione è la loro distribuzione annuale, onde l'estate può considerarsi assolutamente arida, mentre le piogge sono quasi soltanto invernali e autunnali. Dati parziali raccolti per parecchie località interne dell'isola mostrerebbero l'esistenza di aree di assai elevata piovosità. Per quanto riguarda il regime dei venti, nella quasi totalità dell'isola prevalgono nell'inverno i venti di O. e in estate quelli di NE. Una particolarità del clima siciliano è rappresentata dallo scirocco, un vento caldo asciutto che proviene dall'Africa e trasporta talvolta una polvere impalpabile che offusca l'atmosfera. La durata di questo vento non eccede di solito i tre giorni; ma l'azione deprimente che esercita sull'organismo ne rende penosi gli effetti. In complesso si può dire che il clima della Sicilia, meno che nelle elevate regioni della catena settentrionale o al di sopra di una certa altitudine sull'Etna, è un clima subtropicale asciutto, prevalentemente sereno, con piogge invernali, inverni miti, rarissima caduta di nevi e piuttosto copiose rugiade, che in parte attenuano gli effetti dell'aridità estiva.

La tabella a pie' di pagina fornisce gli elementi di alcune località caratteristiche.

Idrografia. - Date le speciali condizioni del clima, si deduce facilmente come scarsa importanza abbia la rete idrografica, alimentata quasi esclusivamente dalle piogge invernali ed autunnali, dalle sorgenti che si ritrovano specialmente nella regione delle Madonie e sui fianchi dell'Etna, alimentate alla lor volta dalle nevi che per 9 mesi dell'anno ne ricoprono le pendici più elevate. Il versante del Tirreno, data la prossimità alla costa della displuviale, ha un'idrografia fluviale più scarsa. Si tratta infatti di torrenti di non più di 25 o 30 km. di sviluppo che portano acqua soltanto durante la stagione delle piogge. Di tali torrenti quelli specialmente che scendono dalle pendici dei Peloritani, costituiti, come si è visto, da rocce disgregabili, trasportano in piena ingenti quantità di detriti, formando alvei larghi anche più centinaia di metri, che nel periodo asciutto offrono comode vie di penetrazione. Sono queste le "fiumare" che formano una caratteristica della topografia della Sicilia. Dei fiumi di questo versante ricordiamo il Fiume Grande o Imera Settentrionale (32 km. di sviluppo e 344 kmq. di bacino), che limita a O. la regione delle Madonie, e il Fiume Torto (50 km. di sviluppo e 421 kmq. di bacino), entrambi aventi foce nel Golfo di Termini a meno di 5 km. di distanza fra loro. Assai più considerevoli per lunghezza di percorso e per possibile utilizzazione sono i fiumi del versante del Mare Africano. Procedendo da O. verso E. ricorderemo prima di tutti il Belice, (l'antico Kypsas, formato dalla riunione di due corsi d'acqua: il Belice Destro e il Belice Sinistro che si riuniscono a circa 25 km. dalla costa. Dei due rami il maggiore è il Destro, che col nome di Hone o Fiume Grande, ha origine dal Pizzo Magazzino e dal Pizzo i Pèlavet a SO. di Piana dei Greci a meno di 20 km. a sud di Palermo; il suo sviluppo totale è di 76 km., il bacino di 964 kmq.; il Platani (antico Halycus) che sbocca presso il Capo Bianco (84 km. di sviluppo e 1785 kmq. di bacino) a circa 20 km. a SE. di Sciacca; il Salso o Imera Meridionale (111 km. di sviluppo, 2002 kmq. di bacino); il Gela (60 km. di sviluppo, 551 kmq. di bacino) che ha foce a E. della città di Gela; il Dirillo (o Acate) che nasce dalle pendici del M. Lauro (52 km. di sviluppo, 679 kmq. di bacino). Nel versante dell'Ionio l'Anapo (52 km. di sviluppo, 379 kmq. di bacino) che sbocca nel Porto Grande di Siracusa; il Simeto, il maggiore fiume della Sicilia per sviluppo di corso (130 km. di percorso, 4326 kmq. di bacino) che ha origine dal M. Sori, e, alimentato dal Dittaino e dalla Gornalunga, attraversa la Piana di Catania e per un alveo apertosi di recente mette foce nel Golfo di Catania a 12 km. a S. della città. Finalmente l'Alcantara, che, nato presso Floresta nel versante meridionale dei Nebrodi e raccogliendo buona parte delle acque sorgenti al piano settentrionale dell'Etna, è il fiume di maggior portata e il più utilizzato dell'isola (km. 48 di percorso, kmq. 573 di bacino).

Scarsi e di poca importanza sono i laghi della Sicilia. Il più vasto è il Lago di Lentini posto a 5 km. dal paese omonimo al margine meridionale della Piana di Catania. Il lago, detto anche Biviere, pare fosse originato o almeno ampliato artificialmente a scopo di pesca. L'area, variabile secondo l'afflusso dei fiumi che vi si versano, è di circa 10 kmq. La profondità massima non supera i 2 m. È in corso la bonifica delle adiacenti aree palustri e se ne propone il prosciugamento. Altro lago notevole specialmente per il mito poetico che gli si collega, è il lago di Pergusa (v.).

Flora e vegetazione. - La Sicilia fitogeograficameme costituisce una speciale zona del territorio mediterraneo italiano: nella sua flora si annoverano circa 1800 specie di fanerogame e di queste oltre 4/5 sono rappresentate da piante tipicamente mediterranee. Nel territorio siciliano si possono distinguere (A. Adamović) i seguenti distretti: a) distretto trapanese-palermitano, distinto in due giurisdizioni, una detta marsalese-alcamese che presenta i seguenti endemismi: Scirpus Philippi, Colchicum latifolium, Tunica paniculata, Brassica drepanensis, Malva drepanensis, Euphorbia melapetala, Asperula rupestris, oltre a numerose specie caratteristiche (Scirpus panormitanus, Rubus panormitanus, Asperula rupestris, Tussilago Umbertiana, Helychrysum stramineum, ecc.); l'altra delle Isole Egadi con elementi mediterranei meridionali e occidentali e le seguenti specie endemiche: Scilla Hughii, Brassica villosa e macrocarpa, Statice densiflora, Carduus argyrca, e solo a Marettimo Buplenrum dianthifolium, Statice tennicula, Senecio incrassatus, Calendula maritima.

b) Distretto Madonie-Nebrodi: è un territorio montuoso, in basso vi è una ricca vegetazione mediterranea, nella zona submontana e montana vi sono boschi di castagni, querce e faggi e nei punti più elevati vive una flora subalpina. Vi sono molte piante caratteristiche della flora mediterranea orientale e occidentale e numerose forme endemiche: Abies nebrodensis, Gagea nebrodensis, Allium nebrodense, Helianthemum nebrodense, Quercus Ucriae, Genista nebrodensis, Petagnia saniculae folia, Helychrysum nebrodense, Centaurea busambarensis, Trogopogon nebrodensis. Soprattutto il versante nord, dirupato e scosceso, delle Madonie è quello più ricco di vegetazione e di endemismi.

c) Distretto etneo: si spinge fino a 3270 m. s. m.; nella zona inferiore cresce una flora mediterranea, in quella media vi sono rigogliosi castagneti, nella montana Pinus nigra e Fagus silvatica. Parecchie sono le specie caratteristiche: Poa aetnensis, Betula aetnensis, Celti aetnensis, Rumex aetnensis, Scleranthus aetnensis, Stroblii e vulcanicus, Cerastium aetnense, Viola aetnensis, Senecio aetnensis, Anthemis aetnensis, ecc.

d) Distretto agrigentino-catanese: abbonda il carrubo in parte del territorio specialmente meridionale e quasi origina formazioni boschive. Fra gli endemismi: Iris sicula, Urtica rupestris (a Noto), Brassica villosa, Linum catanense, Statice Calcarae, Odontites Citardae, Bryonia sicula, Senecio pectinatus, Centaurea tauromenitana. Presso Caltanissetta vi sono colonie di alofile e in tutto il distretto crescono specie mediterranee orientali e nordafricane (Reaumuria vermicularia, Scabiosa dichotoma, Diplotaxis harra, ecc.).

e) Distretto delle Isole Eolie (inclusa Ustica): insieme con elementi mediterranei meridionali vi sono parecchie forme endemiche interessanti: Ophrys lunulata, Kochia saxicola, Matthiola rupestris, Cytisus aeolicus, Genista spartioides, Dancus foliosus e gibbosus, Helychrysum litoreum, Centaurea aeolica, Tolpis Gussonei, ecc.

Fauna. - La fauna sicula differisce poco da quella del continente. Essa è composta essenzialmente dagli stessi elementi della fauna della penisola soltanto che in Sicilia si nota una maggiore prevalenza di specie meridionali; mancano però forme veramente caratteristiche e proprie, contrariamente a quanto si riscontra nella fauna sarda. La differemza tra le faune di queste due maggiori isole italiane è da ricercare nella loro storia geologica. Dei Mammiferi comuni nella nostra penisola molti mancano in Sicilia e fra questi citeremo la lontra, lo scoiattolo, il cinghiale, il tasso, i grossi erbivori, mentre vi sono il lupo, la volpe, l'istrice, la lepre, i cigni selvatici, il riccio, varie specie di topi e di pipistrelli, e i ghiri sono molto abbondanti nei boschi. Noteremo l'esistenza di una particolare forma di donnola e di crocidura. Riguardo all'avifauna essa differisce poco da quella del continente; caratteristica è la quaglia tridattila, forma a carattere africano, molto rara, e l'ancor più raro francolino, mentre frequente vi è il pollo sultano, specie nei dintorni di Catania e lungo il fiume Anapo, scarso è il fenicottero e il comune passero vi è sostituito da una forma affine. L'erpetofauna è anche simile a quella del continente; noteremo la presenza del gongilo ocellato, di varî gechi, lucertole, e tra i Serpenti, oltre alle forme comuni, il colubro lacertino, la biscia viperina, il colubro leopardino, ecc. Tra gli Anfibî noteremo la presenza del discoglosso, abbondante nell'isola ma assente nel continente. Molti sono i pesci che popolano le acque interne e riguardo alla fauna degli invertebrati interessante è quella entomologica per il gran numero di forme comuni alle terre dell'Africa settentrionale.

Popolazione. - La popolazione della Sicilia presente al censimento del 21 aprile 1931 risultò di 3.896.866 ab.; di poco superiore (3.905.967 ab.) era la popolazione legale (inclusi cioè gli assenti temporaneamente). La Sicilia ospitava dunque circa 1/11 della intera popolazione del regno d'Italia. La densità (151,6) è notevolmente superiore alla media del regno (133). Già nell'antichità la Sicilia era fittamente popolata, ma sulle cifre della popolazione anteriormente al sec. XVI siamo scarsamente informati; è certo peraltro che vi furono alternative molto notevoli. La popolazione, calcolata a 1 milione di ab. intorno al 500 a. C., e a 1.300.000 al tempo delle guerre puniche, diminuì forse al principio del Medioevo, ma tornò ad aumentare dopo l'occupazione saracena, nel periodo dal sec. X al XII, che è, anche dal punto di vista demografico, un periodo di gran fiore: si vuole che gli abitanti salissero a 1.600.000 dei quali forse 500.000 provenienti dall'immigrazione saracena. Per il periodo dei Normanni e degli Svevi si calcolano 1.400.000 ab., ridotti considerevolmente dalla terribile pestilenza del 1348 e da altre calamità susseguenti. Alla metà del sec. XVI la popolazione era inferiore ai 950.000 ab.; ma da allora in poi, cioè negli ultimi quattro secoli, per i quali abbiamo computi in complesso assai attendibili, la popolazione mostra una costante tendenza all'incremento, per quanto con ritmo variabile, come appare dalla tabella seguente:

Risulta quindi come dal sec. XVI al presente la popolazione della Sicilia si sarebbe quasi quadruplicata e nell'ultimo secolo si sarebbe raddoppiata. La natalità andò gradatamente aumentando, passando dal quoziente di 38,9‰ nel decennio 1862-1871 al 41,7‰ per il decennio 1882-1891, dopo di che decrebbe sensibilmente sino a discendere a 33,1 per il decennio successivo, riducendosi nel 1932 a 26,6; valore alquanto superiore alla media del regno (23,8); ma inferiore a quello di tutti gli altri compartimenti dell'Italia meridionale e insulare. Alla diminuita natalità corrisponde proporzionalmente una pari diminuzione della mortalità, discesa da 32‰ (media del decennio 1862-71) a 23,8 (media del decennio 1902-1910) a 15,5 per il valore di poco superiore alla media del regno (14,7), ma inferiore all'Abruzzo, Campania, Puglia e Lucania. L'eccedenza dei nati sui morti, dal 1872 a oggi si è mantenuta quindi quasi invariata oscillando intorno al quoziente di 11‰ che supera di 2 unità quello medio del regno ed è inferiore soltanto a quello dei compartimenti dell'Italia meridionale e della Sardegna. Tale eccedenza avrebbe dovuto apportare un aumento di popolazione più considerevole di quello accusato dai censimenti, se non fosse intervenuto il fenomeno dell'emigrazione che cominciò ad avvertirsi verso il 1880 e andò poi gradatamente progredendo sino a raggiungere nel 1906 il massimo toccato prima della grande guerra con 127.000 emigranti. L'emigrazione comprendeva tutti gli espatriati, senza tener conto della presunta durata dell'espatrio né dei rimpatrî; questi dovettero essere tuttavia assai numerosi, altrimenti non si giustificherebbe l'aumento costante, sebbene notevolmente ridotto, della popolazione. L'emigrazione si rivolgeva nella sua grande maggioranza verso gli Stati Uniti, il Brasile e l'Argentina e in più modeste proporzioni verso la Tunisia, dove i Siciliani hanno finito col costituire quasi i 4/5 della colonia italiana ascendente a circa 100.000 persone. Le misure proibitive o limitatrici dei paesi d'immigrazione e la crisi economica hanno valso a ridurre grandemente l'emigrazione siciliana, al pari di quella delle altre regioni d'Italia. Nel 1933 espatriarono dalla Sicilia 9260 persone delle quali 5894 per paesi continentali e 3366 per paesi transoceanici. Di questi ultimi, la quasi totalità erano lavoratori ed erano presunti espatriati definitivamente, mentre i rimpatriati della stessa categoria superavano di circa un quarto gli emigrati. Dei non lavoratori che si recano in paesi continentali, gli emigrati superano i rimpatriati di circa un terzo. Se ne può concludere che, mentre l'emigrazione di non lavoratori, che temporaneamente si dirigono nei paesi continentali, si mantiene ancora superiore ai rimpatrî, in quella dei lavoratori che emigrano stabilmente verso paesi transoceanici e che rappresentano la vera emigrazione, i rimpatriati superano gli espatriati. Quanto all'emigrazione interna non abbiamo dati sicuri; ma è certo che forti nuclei di Siciliani si sono andati costituendo, specialmente nei maggiori centri industriali del regno.

La popolazione siciliana risulta assai irregolarmente distribuita. Il mare esercita intanto una grande attrazione onde un terzo circa della popolazione dell'isola vive in comuni costieri. La distanza media dal mare a cui vive la popolazione calcolata in base al censimento del 1911 è di 14,4 km., mentre la distanza media territoriale sarebbe di km. 18,7. Notevole è peraltro la diversità di attrazione dei tre versanti marittimi. Considerando il rapporto fra popolazione e sviluppo lineare costiero si ottenne, in base sempre al censimento del 1911, che, mentre sul litorale del versante tirreno per ogni km. lineare vivono 1115 ab., e su quello dell'Ionio 1510, sul litorale del Mare Africano ne vivono solo 576. Su detto litorale non si trova infatti nessun grande centro urbano come ve ne sono sugli altri due e come ve ne furono nell'antichità; ma la decadenza era già manifesta al tempo di Strabone, che ne attribuiva la causa alle guerre contro i Cartaginesi. Senza escludere anche questa causa, basta pensare alla differenza dei diversi litorali dal punto di vista della loro posizione geografica e della loro condizioni topografiche. Nelle regioni interne la popolazione si addensa particolarmente nelle zone di media altitudine, onde la media altezza alla quale vive la popolazione siciliana risulta di 333 m. Le regioni più densamente abitate della Sicilia sono tutta la zona costiera adiacente a Palermo tra Termini e Castellammare; quella adiacente a Trapani e Marsala; quelle tra Messina, Milazzo e Taormina e particolarmente tutta la vasta regione pedemontana orientale e meridionale dell'Etna.

Come in altre regioni dell'Italia meridionale e continentale, la popolazione della Sicilia vive accentrata in città e villaggi, taluni dei quali per numero di abitanti, se non per gli altri caratteri, potrebbero essere anche considerati vere città. Si calcola che soltanto un decimo della popolazione viva sparso nelle campagne, mentre la media del regno darebbe circa il 26%. Si va peraltro accentuando anche in Sicilia la tendenza a fissare i coltivatori dei campi con la costruzione di case coloniche. Nel 1931 si contavano in Sicilia 787 centri che accoglievano 3.506.251 ab., e cioè il 90% della popolazione totale. Dei centri, 263, cioè un terzo, erano sotto i 100 metri e raccoglievano poco meno di 2/5 della popolazione; 101 erano fra 100 e 200 m., 75 fra 200 e 300, 92 fra 300 e 400 e 78 fra 400 e 500; nell'insieme circa ¾ della popolazione vive sotto i 500 metri; una diecina di centri supera i 1000 m., il più alto è Floresta (1265 m.). Il numero dei comuni raggruppati nelle 9 provincie dell'isola era di 348 dei quali 3 soli (Palermo 389.699, Catania 227.765 e Messina 182.508) superavano i 100.000 ab. La media popolazione per comune era di 11.200 ab. La media estensione territoriale era di 74 kmq.; ma fortissime le differenze tra i singoli comuni (da Lascari, esteso appena 0,05 kmq., a Noto, che ne misura 640).

Basso è ancora il livello dell'istruzione elementare nell'isola, onde solo il 60% dei censiti di età superiore ai 6 anni sapevano leggere, mentre la media del regno era di 79%. Le condizioni sanitarie della Sicilia non sono in complesso diverse da quelle generali del regno.

Condizioni economiche. - La Sicilia è stato sempre ed è tuttora un paese prevalentemente agricolo; ma le condizioni della sua agricoltura hanno considerevolmente variato attraverso i tempi. Nell'antichità l'isola era celebre soprattutto per la produzione del grano, abbondantissima, e il grano, della stessa varietà di quello egiziano e iberico, era coltivato già nel IV millennio a. C.; ma anche la vite era diffusa. L'occupazione araba, mentre portava a una contrazione della viticoltura, diffondeva nuove coltivazioni, come il riso, il cotone, la canna da zucchero, il pistacchio, il sommacco, lo zafferano, gli agrumi, i meloni. La canna fu anzi per qualche tempo il principale articolo di commercio, ma decadde poi rapidamente quando si aprirono i grandi mercati orientali e americani; di tutte quelle colture, una sola - l'agrumicoltura - rimase da allora un elemento importante dell'economia agricola siciliana.

Agli Arabi risalgono anche la tecnica dell'irrigazione e la coltura intensiva a giardini.

Secondo il censimento 1931, su 1.354.445 ab. di età superiore a dieci anni, ed esclusi quelli di condizioni non professionali, circa la metà (681.386) erano adibiti all'agricoltura e un sesto all'industria. Di tutte le regioni d'Italia la Sicilia è una di quelle che, in rapporto alla loro estensione, hanno una superficie agraria e forestale maggiore; essa vi rappresenta infatti il 94,5%, mentre il rapporto per la totalità del regno è del 92%. I terreni seminativi occupano un'estensione di 1.520.000 ha., superiore a quella di ogni altro compartimento, e superiore altresì è l'area coltivata a frumento (813.000 ha.) pari a circa 1/6 di quella del regno. Ma se la Sicilia ha conservato questo primato per estensione della granicoltura, essa non lo ha per entità di produzione. Il valore unitario per ha., pur mostrando una notevole tendenza all'aumento, risultò negli ultimi anni (media 1932-35) di 10,59 (era circa 8 dieci anni prima), valore inferiore a quello di tutti gli altri compartimenti, salvo la Sardegna, e notevolmente inferiore alla media del regno che fu di 14,8. Come valore assoluto il prodotto fu di 8.250.000 q., pari a circa 1/9 della totalità del regno, insufficiente al consumo interno. L'accennata inferiorità è dovuta alle condizioni climatiche e geognostiche delle regioni interne e allo stato più arretrato delle pratiche agricole. Oltre al frumento è coltivato in larga misura l'orzo, la cui produzione rappresenta normalmente circa ⅓ di quella complessiva del regno; poco l'avena e la segale, ancor meno il riso, un tempo alquanto diffuso, e il mais. Mediocre importanza hanno le piante foraggere, sia dei prati naturali sia dei prati artificiali e dei pascoli permanenti, o anche come produzione accessoria. Tra le colture arboree quattro hanno importanza preponderante: la vite, l'olivo, gli agrumi e il mandorlo. L'area a vigneto, limitata dal gravissimo flagello della fillossera, è stata, con paziente, tenace e dispendiosa opera, in buona parte ricostituita e oggi si ragguaglia a circa 200.000 ettari in massima parte a coltura esclusiva. La produzione superò i 3 milioni di quintali nella media degli anni 1931-1935, cioè circa 1/12 della produzione totale del regno, inferiore solo a quella della Puglia, della Campania, Piemonte e Toscana. Il vino siciliano, di notevole gradazione alcoolica, viene esportato in larga misura, e particolarmente pregiato, anche sui mercati internazionali, è quello del tipo Marsala. Anche l'oliveto si è molto esteso negli ultimi decennî; l'area si ragguaglia a oltre 280.000 ettari, per più di ¼ a coltura esclusiva, e la produzione dell'olio (oltre 280.000 quintali nella media 1931-1934) supera quella di qualsiasi altro compartimento, salvo la Puglia, che ne dà circa il doppio.

Ma ciò che, per quanto riguarda le colture arboree, rappresenta una prerogativa e una vera ricchezza per la Sicilia sono gli agrumi, specialmente i limoni, la cui produzione (3½-4 milioni di q.) supera i 9/10 di quella del regno. Importanza alquanto minore vi hanno le arance, combattute dalla concorrenza spagnola e palestinese, di cui si produssero nel 1934 per oltre 1.900.000 q. (con aumento rispetto all'anno precedente), circa 3/5 della produzione totale del regno. Infine per le mandorle la Sicilia ha acquistato un assoluto primato, avendo superato la produzione della Puglia: nel 1934 ne ha dato per 1.190.000 q., circa ⅔ della totale produzione del regno. Altre colture arboree occupano superficie di gran lunga minore, ma vanno tuttavia ricordate perché caratteristiche dell'isola: tra esse il pistacchio, il carrubo, il sommacco, il frassino da manna. Esigua è l'estensione dei castagneti, limitata alle pendici dell'Etna fino a circa 1500 m. di altezza e anche quella del gelso, che un tempo nella Sicilia orientale dava vita all'allevamento del baco e costituiva una notevole fonte di profitto.

Grande sviluppo ha la coltivazione delle piante orticole, aiutata da diligenti opere di irrigazione; per i carciofi la Sicilia va conquistando un primato, poiché la produzione tende a superare quella del Lazio; per i pomodori ha il terzo posto dopo l'Emilia e la Toscana; ha il primo posto per le fave e altri legumi freschi (piselli, fagioli), per i finocchi, i sedani, i cardi. Fra le piante tessili merita di essere ricordato il lino, la cui produzione è inferiore solo a quella della Calabria (lino da tiglio). Anche il lino da seme è largamente coltivato (secondo posto dopo l'Emilia). La coltura del cotone, un tempo più diffusa è oggi assai limitata (dintorni di Sciacca, Gela, Pachino, Is. Favignana); oggi si cerca di estenderla nuovamente.

L'allevamento del bestiame è praticato assai largamente per quanto riguarda specialmente gli equini e i caprini. Secondo il censimento del 1930 vi erano in Sicilia 458.000 equini di cui 202.000 muli e bardotti, 177.000 asini e 79.000 cavalli. In complesso il numero degli equini uguagliava il 20% dei capi esistenti nel regno e quasi la metà dei soli muli e bardotti. Importanza assai minore presenta l'allevamento dei bovini dei quali furono censiti nell'isola complessivamente 168.000 capi, pari al 2,4% di quanti ne conta il regno. Lo stesso dicasi per i suini (66.000 capi, 2% del regno). Gli ovini con 727.000 capi vi raggiungono il 7,1%, mentre i caprini con 309.000 capi (cifra inferiore solo a quella della Sardegna) salgono al 12,7%.

Notevolmente diffusa la pesca, per la quale si contano in Sicilia 10.201 barche e battelli, pari ad ¼ di quelli della totalità del Regno. La pesca più importante è quella del tonno: le tonnare più attive si trovano sulle spiagge occidentali e specie a Favignana, mentre nello Stretto di Messina si pratica la pesca del pesce spada. La conservazione di questi prodotti, specie del tonno, dà vita a una cospicua industria. Sulle coste meridionali è attiva la pesca delle alici e sardelle, che si smerciano salate in barili, in varî luoghi del Mediterraneo. Decadute sono la pesca del corallo che si esercitava già nei banchi di Sciacca (ma da pescatori di Torre del Greco) e quella delle spugne nelle acque di Lampedusa (v.).

Insieme con l'agricoltura costituiscono per la Sicilia una grande risorsa economica i depositi minerarî e principalmente lo zolfo, di cui vasti giacimenti ricoprono la Sicilia centrale e meridionale. La presenza di questi giacimenti, la cui origine è incerta, ma che in ogni modo si considera indipendente dai fenomeni vulcanici, era nota sino dall'antichità; ma il loro sfruttamento su larga scala incominciò a farsi allorché si diffusero in Europa le malattie della vite, che venivano combattute appunto con l'uso dello zolfo. Dopo l'unificazione del regno se ne intensificò l'esportazione e può dirsi che la Sicilia detenesse nel mondo il monopolio. Stimolata dagli alti prezzi raggiunti la produzione crebbe costantemente, finché con gl'inizî di questo secolo la concorrenza americana sopravvenuta determinò una crisi che, accentuandosi sempre più, richiese opportuni provvedimenti che portarono con gli Stati Uniti ad accordi per i quali venne riserbato allo zolfo siciliano il mercato europeo. Tali accordi e i migliorati mezzi di estrazione, che ridussero il costo, hanno determinato la chiusura di varie miniere poco produttive e contribuito a mantenere l'industria mineraria zolfifera della Sicilia a un livello redditizio. La produzione dello zolfo greggio e minerale macinato, che prima della guerra mondiale era salita in Sicilia a oltre 325.000 tonn. (i 7/8 della produzione complessiva italiana) ha oscillato negli ultimi anni sulle 250.000 tonn. (265.117 tonn. nel 1933 da 157 zolfare attive) che, per l'accresciuta produzione delle altre miniere italiane, rappresentano solo i ⅔ della produzione del regno. L'avvenire dell'industria zolfifera siciliana dipenderà soprattutto dalla applicazione di processi più idonei di esercizio minerario e di trattamento del minerale, atti a ridurre le spese di costo; notevoli progressi si sono al riguardo già conseguiti soprattutto attraverso un Ente autonomo, appositamente creato.

Altra produzione mineraria importante per la Sicilia potrà divenire quella della roccia asfaltica che si trova in provincia di Ragusa e che solo da qualche anno viene utilizzata (soprattutto per la distillazione). È ora in decadenza l'estrazione del salgemma ricavato dalle miniere presso Cammarata. Ma importanza maggiore hanno per la produzione del sale le saline di Trapani e quelle di Siracusa che complessivamente forniscono oltre un sesto della produzione italiana di sale marino. Oltre alle cave di gesso e di materiali da costruzione, che abbondano nell'isola, ricordiamo la produzione della pietra pomice dell'isola di Lipari (v.).

Le industrie in genere, specialmente quelle siderurgiche e manifatturiere, sono poco rappresentate nell'isola, dove invece sono abbastanza sviluppate quelle connesse con la produzione agricola e con quella dello zolfo. L'industria elettrica, poco favorita dalle condizioni idrologiche, annoverava nell'isola, alla fine del 1933, 11 centrali idroelettriche e 14 termoelettriche. La loro produzione complessiva fu in detto anno di 155 milioni di kW, pari a circa 1,4% della produzione totale del Regno, in gran parte ricavata dal grande impianto dell'alto Belice con il bacino artificiale di Piana dei Greci, inaugurato nel 1924. L'energia prodotta, oltre che per la pubblica e privata illuminazione, per trazione e per azionare molini, pastifici, ecc., viene usata oggi anche per l'escavazione dello zolfo e per i servizî delle miniere; questo è anzi uno dei più notevoli progressi realizzati dall'industria solfifera. Tra le altre industrie, oltre quelle alimentate dalla pesca, meritano menzione quella dei derivati agrumarî (citrato di calcio e acido citrico) e quelle, oggi nascenti, delle conserve alimentari, delle essenze, dei concimi chimici, ecc. L'artigianato fiorisce ancora in qualche centro, anche fra i minori dell'isola, per la tessitura, la confezione di merletti, la fabbricazione di terrecotte, ecc. Queste ultime hanno il loro centro a Caltagirone, dove sarebbero state introdotte dagli Arabi (v. caltagirone); per i merletti primeggiano Palermo e alcuni paesi della provincia, Agrigento, Catania, Caltanissetta, Taormina e S. Alessio (Messina). A Palermo e in provincia, come pure a Monte S. Giuliano, si fanno anche tappeti; a Catania intagli in legno, tarsie, ceramiche. A Siracusa è caratteristica la lavorazione del papiro per carta, in provincia di Messina quella della rafia e qua e là anche quella dell'Agave sisalana. Il commercio della Sicilia, abbastanza attivo con le altre provincie del regno e con l'estero, mostra un'eccedenza delle esportazioni rispetto alle importazioni. Nelle tabelle a pag. 663 è dato il valore dei principali articoli esportati per gli anni 1930-1934, e sono registrati alcuni dati particolari sull'esportazione agrumaria.

Le comunicazioni già prima dell'unificazione del regno difettosissime (scarsissime erano le vie rotabili e le ferrovie mancavano del tutto) hanno molto progredito nei successivi decennî. Al 31 dicembre 1934 si contavano in Sicilia 2105 km. di ferrovie, cioè 82 km. per 1000 kmq., proporzione superiore alla media del regno (73,7) e 52,3 per ogni 100.000 ab. (poco meno della media del regno 54,5). Talune di queste ferrovie, imposte dalle esigenze minerarie, sono di scarso interesse economico. Le linee di grande comunicazione sono la Messina-Palermo, la Messina-Catania-Siracusa, la Palermo-Agrigento e la Agrigento-Catania. Molte linee secondarie hanno aperto l'accesso alle regioni meridionale e di SE. Notevoli quella che congiunge oggi tutti i maggiori centri sul versante del Mar Africano da Mazzara a Vittoria, e quelle del SE. una delle quali raggiunge oggi Pachino. Tra le ferrovie secondarie alcune sono assai ardite e si inerpicano con numerose opere d'arte fino a grande altezza, facendo uso anche della dentiera. La regione delle Madonie e delle Caronie è ancor oggi priva di comunicazioni ferroviarie, ma alcune linee sono in costruzione. Del resto alla ferrovia supplisce oggi in larga misura il trasporto automobilistico. La rete delle strade ordinarie statali si estende per 2063 km., inferiore solo a quella delle Puglie (2214) e vi sono in esercizio oltre 4700 km. di linee automobilistiche in servizio pubblico. Le comunicazioni esterne oltre al servizio dei ferry-boats, che attraverso lo Stretto di Messina congiungono la rete ferroviaria sicula a quella del continente, si esercitano per via marittima nei suoi porti principali di Palermo, di Messina, di Catania e di Siracusa.

Il loro movimento per il 1933 è rappresentato nel seguente specchietto:

Il considerevole movimento che per il numero dei viaggiatori imbarcati e sbarcati presentano i porti di Palermo e di Siracusa è dato dal fatto che Palermo è il porto in comunicazione giornaliera con Napoli e Siracusa quello ove fanno capo i servizî con Tripoli e Bengasi. Regolari servizî aerei legano Palermo con Roma e con Tunisi. Tra i minori porti sono da ricordare anzitutto Trapani, poi Marsala, Licata, Sciacca, Porto Empedocle e Milazzo. Gli aeroporti in servizio pubblico per le linee aeree civili sono quelli di Palermo e Siracusa.

Bibl.: La Sicilia vanta una ricchissima bibliografia in ogni campo. Ci limitiamo qui a indicare alcune delle opere di carattere generale avvertendo che altre indicazioni potranno trovarsi alle singole voci che riguardano la Sicilia. V. Amico, Dizionario topografico della Sicilia tradotto dal latino ed annotato da G. Di Marzo, Palermo 1855; Fr. Nicotra, Dizionario illustrato dei comuni siciliani (incompleto); Guida d'Italia del Touring Club Italiano, Sicilia e Isole minori, Milano 1928; A. Mauceri, Sicilia e Malta, Torino 1928; A. Schneegans, La Sicilia nella natura, nella storia, nella vita, trad. di O. Bulle, Firenze 1893; E. Perrone, I corsi d'acqua della Sicilia (Mem. Ill. della Carta Idrogr. d'Italia); G. Bruccoleri, la Sicilia d'oggi, Roma 1913; G. Lorenzoni, Inchiesta parlam. sulle condizioni dei contadini nelle prov. merid. e nella Sicilia, Vol. IV: Sicilia; F. Sartorius von Walthershausen, Die sizilianische Agrarverfassung und ihre Wandlungen, 1780-1912, Lipsia 1913; S. Giardina, La Sicilia ("La Terra" di G. Marinelli), Milano 1899; L. Olivier, En Sicile. Guide du savant et du touriste, Parigi 1901; A. Mori, La distribuzione della popolazione in Sicilia e le sue variazioni negli ultimi quattro secoli, Firenze 1918. - In particolare per la geologia dell'isola, v.: L. Baldacci, Descrizione geologica dell'isola di Sicilia, R. Uff. Geol., Roma 1886; Carta geol. della Sicilia, nella scala di 1 : 100.000, del R. Uff. Geol. Roma 1884-86. Per la ricca serie di studî geologici e paleontologici nella Sicilia fino al 1910, vedasi G. Di Stefano, Cenno storico sullo sviluppo degli studi geol. in Sicilia (Roma, Boll. Soc. Geol. It., XXVIII, fasc. 3). Uscirono poi lavori, specialmente paleontologici, di M. Gemmellaro, G. Checchia Rispoli, A. Fucini, S. Scalia, M. Gignoux, F. Cipolla, R. Vaufrey, C. Ruiz e ultimamente C. F. Parona, A. Silvestri, N. Yakovlev, ecc. Per la stratigrafia, e soprattutto per la tettonica, vedasi, fra i lavori recenti: R. Fabiani, Scoperta di un apparato eruttivo del giurese medio in Sicilia, in Boll. Ass. Min. Sic., N. 9, Palermo 1926; id., Risultati delle mie ricerche geologiche in Sicilia nel periodo 1925-32, ibid. 1932; M. Blumenthal, Geolog. Beobacht. auf Sizilien (M. Peloritani - Madonie), in Eclogae Geol. Helv., XXII, Basilea 1929 R. Staub, Die Stellung Siziliens im mediterranean Gebirgssystem, in Vierteljahrss. d. naturforsch. Gesellsch. in Zürich, LXXVII (1932); P. Hommell, Sizilien, Landschaft und Kunstdenkmäler, Monaco 1926; A. Brown, Sicily, present and past, New York 1927; F. Kuypers, Sizilien: eine Wanderfahrt durch seine Kulturen, Monaco 1931; Camera agrumaria di Messina, Notizie statistiche sulla produzione ed esportazione degli agrumi e derivati, Messina 1927; E. Raffa, le sorgenti della Sicilia, in Atti XI Congr. geogr. ital., Napoli 1930; Ministero dei lavori pubblici, Le sorgenti italiane, II: Sicilia. Elenco e descrizione, Roma 1934; S. Cettolini, La lotta contro la malaria in Sicilia a complemento della bonifica agraria, in Italia agricola, 1929; G. Pardi, La popolazione della Sicilia attraverso i secoli, in Arch. stor. sicil., 1928; G. Navarra-Crimi, Problemi dell'economia siciliana, Torino 1925; Banco di Sicilia, Notizie sulla economia siciliana, Palermo 1925; id. 1928 (ampio volume di pp. 1117), id., 1929, id. 1930. Dal 1930 il Bollettino mensile del Banco di Sicilia, Notizie sulla economia siciliana, Palermo 1925; id. 1928 (ampio volume di pp. 1117), id. 1929, id. 1930. Dal 1930 il Bollettino mensile del Banco di Sicilia pubblica notevoli articoli sulla economia siciliana; E. Taddei e C. Ledda, Contadini siciliani, Roma, Ist. Naz. di econ. agraria 1933; E. Taddei, Nuove costruzioni rurali in Italia, VII: Sicilia, ivi, id. 1934; V. Castrilli, Studi sulla proprietà fondiaria in Sicilia, Bari 1927; M. Tudisco, La cotonicultura in Sicilia, in Annali di merceologia siciliana, 1934; V. Russo, l'industria armentizia siciliana, ibid., 1934; Ministero dei lavori pubblici, Risorse idrauliche per forza motrice utilizzate e ancora disponibili, III: Sicilia, Roma 1929; L'industria mineraria solfiera siciliana, a cura dell'Ente auton. per il progresso tecnico-economico dell'industria solfiera, Torino 1925; L. Valenti, Le miniere di zolfo in Sicilia, ivi 1925; G. Zingali, l'industria solfiera siciliana, in Giorn. degli econom. e Riv. di statist., 1927; D. Simoncelli, La questione zolfifera italiana nel momento attuale, in Civiltà fascista, 1934; V. Maiorca, Saline siciliane, in Ann. di merceol. siciliana, 1934; G. Gregorio, Caratteristiche e potenzialità della rete siciliana delle comunicazioni in pace e in guerra, in L'Ingegnere, 1934; A. Philippson, Die Landschaften Siziliens, in Zeitschr. Ges. Erdk. Berlin, 1934; G. Wermert, Die Insel Sizilien; W. Ahlmann, Études de géographie humaine sur l'Italie subtropicale, I: La Sicile, in Geografiska Annaler, 1925; H. Hochholtzer, Kulturgeographie Siziliens, in Geogr. Zeitschrift, 1935.

LA SICILIA NELL'ANTICHITÀ

Preistoria.

Scoperte ampie, ripetute e controllate - dovute in massima parte all'opera di Paolo Orsi - permettono di individuare in Sicilia i seguenti tipi e forme di civiltà primitiva.

Paleolitico. - Punte e raschiatoi ricavati da grandi schegge di selce, con minuti e regolari ritocchi sul lato opposto al bulbo di percussione, associati forse con resti di fauna quaternaria superiore, in depositi di vaste caverne, sono i più remoti avanzi di attività umana scoperti in Sicilia. Essi sono limitati - allo stato attuale delle conoscenze - principalmente tra Palermo, Carini e Termini, a Trapani e nella regione verso Mile. Si tratta di forme d'industria locale, di varia evoluzione, cui non è possibile dare un valore cronologico né assoluto né relativo.

Nel complesso ci parlano di popolazioni vissute prima che fossero scomparsi dalla Sicilia gli elefanti - in condizioni di civiltà del tutto rudimentale - dedite alla caccia e alla pesca, prive della conoscenza della ceramica. Questi avanzi, per lungo tempo classificati come mousteriani, in seguito per i loro caratteri tardivi sono stati giudicati documento di quella speciale evoluzione locale, che U. Rellini chiama grimaldiana, che si sovrappone agli strati mousteriani, e in Sicilia si legherebbe al capsiano dell'Africa settentrionale; R. Vaufrey invece riferisce le stazioni siciliane all'estrema fine del paleolitico: comunque tutti affermano l'aspetto recente dell'industria delle stazioni dell'isola.

D'altra parte in Sicilia il paleolitico continua le proprie forme in stadî di civiltà più avanzata, sia che quelle forme fossero ereditate da nuova gente, sia che fossero sopravvissute presso discendenti dei paleolitici.

Neolitico. - La civiltà neolitica è apparsa in Sicilia in una rete ormai vasta di stazioni e di necropoli, le quali offrono un quadro di civiltà affine, nel complesso, a quello del resto d'Italia, caratterizzato da armi di selce, ridotte in perfette lame di belle dimensioni, e di ossidiana, asce e mulini di basalto; da ceramica bigia ben cotta, lucidata, a forme globali, decorata di motivi lineari, eseguiti a mano libera con lo stecco o con stampi, cui talvolta si dava risalto ricoprendoli di bianco calcare cotto col vaso stesso. Appare anche una finissima ceramica colorata, di cui più frequenti tracce sono sulle coste adriatiche, dalla Puglia alle Marche, sì che si ritiene importata. I villaggi di capanne, fatte di legname e frasche, erano recinti qualche volta da fossati; le tombe erano in caverne naturali, o in caselle di scaglie col cadavere rannicchiato.

Il neolitico siciliano ci presenta un primo gruppo omogeneo, di carattere neolitico puro, di cui è tipica la stazione siracusana di Stentinello e quella di Villafrati presso Palermo.

Un gruppo lievemente differenziato ci appare a Piano Notaro presso Cela, S. Cono, Calafarina, cui corrispondono numerose stazioni della Sicilia occidentale.

Le differenze fra i diversi gruppi, mentre possono in parte spiegarsi per ragioni topografiche o cronologiche, non intaccano l'unità fondamentale di tutto il neolitico siciliano.

Subneolitico occidentale. - Una vera appendice della civiltà neolitica costituisce la rete di stazioni della Sicilia occidentale (tipiche quelle di Capaci e Villafrati) le quali rappresentano uno sviluppo di quella civiltà, di cui Stentinello è la fase originaria.

In queste stazioni - nelle quali si riscontano tombe a pozzetto con armi di selce e ossidiana di tipo neolitico, vasellame liscio o decorato di linee e punti a stecco con la tipica forma del bicchiere dei dolmen - se pure mancano o sono rarissimi i metalli, ci troviamo di fronte a fasi estreme del neolitico.

Non esce sostanzialmente da questo quadro la civiltà che nelle grotte d'Isnello ci ha mostrato una popolazione neolitica, già a conoscenza dei metalli, ma nettamente priva delle caratteristiche degli eneolitici orientali che ora descriveremo.

I periodo siculo (cuprolitico orientale). - Una fitta serie di villaggi, necropoli, officine litiche - caratteristici Castelluccio (Noto) e Monte Tabuto (Comiso) - rivela uno stadio di civiltà in cui le popolazioni adoperano ancora prevalentemente armi di basalto e di selce, ma conoscono già armi e strumenti di bronzo.

A un grossolano vasellame grezzo o decorato di cordoni sovrapposti, ma ricco di forme, si associa un'originale ceramica policroma, a fondo giallo o rosso, decorata ad intreccio in nero o in bruno. Si fa largo uso anche di ossa ridotte a utensili mediante scheggiature e levigamenti. Questi cuprolitici abitano villaggi di capanne, generalmente circolari, erette su basi di pietrame con sterpi e fango, recinte spesso di aggere o fossato, e seppelliscono i morti in camerette tondeggianti scavate nella roccia, costituite da un padiglione, su cui s'apre attraverso una finestra il passaggio al vero sepolcro, nel quale sono molti cadaveri, rannicchiati, indizio di seppellimenti successivi per famiglia o gruppo di famiglie. La diffusione di questo tipo di civiltà è intensa nella cuspide meridionale della Sicilia, ma non manca nelle altre provincie orientali; essa si spinge anche fin verso Agrigento, benché, mancandovi elementi tipici, queste stazioni agrigentine possano rientrare fra quelle subneolitiche d'occidente.

II periodo siculo (età del bronzo). - Un assai minor numero di stazioni e di necropoli, quasi tutte però di maggior consistenza demografica - ricordiamo Pantalica, Cassibile, Tapso, Monte Disueri, Montagna di Caltagirone - attestano questa fase di civiltà. Al posto della brillante ceramica policroma del I periodo, si hanno più modesti prodotti con superficie lisciata a stralucido rossastro e qualche sobria striatura e punteggiatura ottenuta a stecco. I vasi sono fatti generalmente al tornio.

Segnano questo tipo di civiltà le daghe e spade di bronzo, fabbricate con due mezze lame sovrapposte e fatte combaciare a martellatura, con due appendici acute costituenti i tagli e con base lunata che finisce in un manico di legno od osso. Esse sono identiche a spade delle terramare e di Micene, e sembrano dovute ad una corrente che si reputa egeo-micenea; a questa sembra si debbano anche ricondurre i bacini di bronzo laminato rinvenuti in qualche stazione, nonché qualche oreficeria ed alcune ceramiche del tutto identiche a quelle che si rinvengono negli strati più recenti della civiltà micenea.

Le cellette sepolcrali, quali sono principalmente apparse nelle vaste necropoli di Cozzo Pantano, di Tapso, del Plemmirio, constano d'un padiglione e di una cella con nicchie laterali, coperte da vòlta tondeggiante e a cupola. Questo elemento, i cui esemplari più notevoli sono apparsi nelle necropoli della Montagna di Caltagirone, rappresenta una trasformazione del sepolcro a pianta circolare e vòlta tondeggiante del I periodo, compiuta in dipendenza della tholos egeo-micenea.

Stazioni di transizione. - Un certo numero di stazioni e di necropoli mostra un profondo miscuglio di oggetti e forme caratteristiche del I e del II periodo. Le più tipiche sono quelle di Valsavoia.

III periodo siculo. - Questo stadio di civiltà si presenta anch'esso in grossi aggregati di capanne, talvolta fortificati, il cui più importante esempio è quello di Monte Finocchito presso Noto. Nei villaggi appaiono elementi costruttivi nella difesa e nelle abitazioni; il sepolcro diventa più vasto, quadrangolare, con un solo ambiente preceduto da padiglione. La ceramica indigena, molto scadente come impasto, è priva di decorazioni sì da segnare un vero regresso tecnico. Sono vasi d'uso volgare: recipienti per bere (scodelloni) o per contenere e versare liquidi (cinochoai, askoi, ecc.), di cui l'askos rappresenta una forma nuova, non indigena; qualche raro saggio di decorazione a punta tenta di imitare il meandro greco. Appare poi e prende il sopravvento una ceramica tornita, benché rozzamente, la quale, per la forma e per la decorazione mostra di derivare da un miscuglio di forme indigene ed elleniche. Questa ceramica rappresenta il risultato del crescente influsso ellenico, che muove dagli stanziamenti coloniali o dai commerci che li hanno preceduti ed è rappresentato da ceramica greca d'importazione.

Il ferro, prezioso nel I periodo, raro nel II, si diffonde nelle stazioni del III con fibule, anelli e cultri ad un solo taglio.

L'influsso della civiltà ellenica è largamente documentato anche da oggetti minuti di lusso, fra cui spirali di ferro, pastiglie, vetri, e soprattutto fibule di bronzo che appaiono nel II periodo, nella forma ad arco di violino e ad arco semplice, e si diffondono nelle stazioni del III periodo, nelle forme più sviluppate, serpeggianti, ad occhielli, a bastoncini e a navicella, identiche cioè a quelle delle necropoli greco-arcaiche di Siracusa e Megara Iblea.

IV periodo siculo. - Un crescente sviluppo dello stile geometrico segna una fase di civiltà nettamente ulteriore alla precedente. La ceramica del I e II periodo è scomparsa; dopo le modificazioni subite nel III periodo essa ci appare del tutto trasformata sotto l'azione tecnica e formale della ceramica greca, che ne determina un caratteristico sviluppo. Diventa generale l'uso del tornio.

Ceramiche d'importazione greca, corinzie dell'ultima fase e attiche a figure nere, mostrano chiaramente codeste stazioni contemporanee del nascere e del primo affermarsi delle colonie elleniche. I villaggi non differiscono molto dai precedenti, ma vi appaiono più frequenti elementi costruttivi: così a Monte Bubbonia. Il vecchio rito sepolcrale si sviluppa in forme che sentono il contatto con la grecità.

II-IV periodo occidentale (sicano). - Le prime sistematiche esplorazioni di alcune stazioni preistoriche della Sicilia occidentale, specialmente quelle di S. Angelo Muxaro e di Polizzello, hanno rivelato forme di civiltà affini a quelle del II, III e IV periodo siculo dell'Orsi testé ricordate; affini ma non identiche. Bisogna invero notare che i tipi schiettamente riferibili al III periodo non sono specificamente presenti, e in ogni caso sono rari. Inoltre, tanto nel II quanto nel IV periodo, emergono differenze non trascurabili, specialmente nella frequenza maggiore della decorazione ad impressioni, che mostra una più diretta discendenza dalla ceramica neolitica, nonché nell'apparizione di motivi figurativi nelle ceramiche e negli ori, ignoti alle stazioni della regione orientale.

Sono particolarmente notevoli le forme dei vasi, specialmente delle oinochoai, più angolose e meno tondeggianti di quelle delle regioni orientali. Anche le forme sepolcrali in genere si limitano a piccoli "forni", da cui esula la varietà e complessità dei tipi della Sicilia orientale. Sia pure conservando perciò una certa unità al quadro segnato dal II periodo e seguenti, questi periodi occidentali devono essere tenuti nettamente distinti.

Si ammette senza eccezione che codesti diversi tipi di civiltà siano susseguenti. Quello paleolitico è riconosciuto da G. De Sanctis come pertinente ai Liguri della tradizione, e poiché egli si attiene all'affinità etnica dei Liguri con gli Elimi, questi sono considerati come discendenti della stessa popolazione paleolitica dell'Isola.

I paletnologi puri insistono invece sui rapporti dell'industria dei paleolitici di Sicilia con quella del Nordafrica, specialmente del sud tunisino, e propendono per ammetterne la provenienza africana.

Un'immigrazione di un nuovo popolo, tale da cambiare profondamente la compagine etnica della Sicilia, è vista dai paletnologi nel sopravvenire del neolitico, che apporta una rivoluzione nelle forme della civiltà. E un nuovo cambiamento avrebbe luogo con il cuprolitico. L'Orsi infatti, seguito da G. A. Colini e da C. Cafici, riscontra in Sicilia, fra l'età neolitica e il I periodo siculo, un profondo hiatus, segnato dall'assoluta diversità della tecnica vascolare. Sarebbe dunque un nuovo popolo, affine al precedente, quello che porta in Sicilia la civiltà del I periodo. In esso, in un primo momento, l'Orsi aveva riconosciuto i Siculi italici della tradizione, mentre identificava i neolitici con i Sicani di razza iberica. È la teoria anche di E. Freeman, che crede i Sicani iberici, cioè preariani dell'Europa sud-occidentale, e i Siculi, invece, indoeuropei. In seguito l'Orsi ha ammesso per contro l'unità dei due popoli, che, in rispondenza con le vedute etnografiche di G. Chierici e di L. Pigorini, considera di razza ibero-africana. Secondo l'Orsi, nell'ultima sistemazione della sua teoria, codesti Siculi-Sicani avrebbero elaborato la loro caratteristica civiltà eneolitica del I periodo tra il 2500 e il 1900 a. C., quando, al contatto con la civiltà egea, l'avrebbero trasformata in quella tipica del bronzo del II periodo, perdurata fino al sec. X. In quest'epoca, succeduto all'influsso egeo quello propriamente ellenico, la civiltà del II periodo si sarebbe evoluta in quella del III, con un processo di ellenizzazione crescente che dà luogo alle forme del IV periodo, la cui durata si protrae fino al 450 a. C., anno in cui gl'indigeni perdono ogni indipendenza politica e culturale con la sconfitta del re Ducezio.

G. Patroni invece riscontrava unità tra neolitico e I periodo, momento evoluto del neolitico, vedendo invece un profondo distacco tra I e II periodo, che attribuisce rispettivamente ai Sicani iberici e ai Siculi italici.

B. Modestov considera anch'egli diversi i Sicani e i Siculi, con civiltà però già fusa nel periodo neolitico e pertinenti ad una razza ibero-ligure non ariana, proveniente dall'Africa. Non è sostanzialmente diversa l'opinione di F. von Duhn.

E. Peet identifica i neolitici siciliani con i Sicani, ma, mentre ammette in Sicilia il susseguirsi di due rami divisi, non trova corrispondenza di materiali in Italia. Egli osserva che la civiltà neolitica dell'Italia meridionale e quella della Sicilia non hanno rapporti con quella dell'Italia del nord: ambedue sarebbero quindi venute dall'Africa Settentrionale, e Sicani e Siculi non sarebbero mai stati in Italia.

Il confronto della ceramica neolitica e cuprolitica di Sicilia e di Puglia, con quella degli strati cretesi, troiani, liguri e tessalici, secondo il Peet farebbe risalire i rapporti dell'Italia meridionale, della Sicilia e della Liguria con centri della civiltà egea al periodo neocuprolitico, e dimostrerebbe come la civiltà neolitica di Sicilia sia strettamente collegata con la civiltà egea contemporanea, e in ambedue l'uso della ceramica dipinta cominci con l'inizio dell'età dei metalli. Rapporti che precorrono quelli degli oggetti del tardo minoico III, rinvenuti negli strati siculi del II periodo.

I Siculi, distinti dai Sicani mediterranei, vengono infine considerati come popolazione tracio-illirico-cretese, affine ai Siculoti della Dalmazia, da R. von Scala.

Una sistemazione recente del materiale fatta da B. Pace, rivedendo i criterî cronologici ed avvalorando i dati della topografia, perviene alla conclusione che è ben vero che il I periodo appare dopo il neolitico, e il II dopo il I, e così via, ma ciò non equivale a una meccanica successione cronologica delle rispettive forme di civiltà, nel senso che al neolitico succeda dappertutto il cuprolitico, e a questo si sostituisca in ogni luogo lo stadio detto del II periodo, e successivamente quelli del III e del IV. L'arrivo del popolo o l'inizio della civiltà del I periodo non soppianta dappertutto il popolo o la civiltà dei neolitici, ma gradualmente nelle regioni orientali e meridionali, mentre il neolitico perdura e si estende nelle provincie occidentali, sviluppandosi nelle forme del caratteristico subneolitico. Del pari le forme nate al contatto del mondo miceneo, nel II periodo, non sostituiscono le forme del I periodo e del subneolitico occidentale, ma soltanto si insinuano fra di esse.

E attorno ad esse - fatto significativo - si trovano come irradiate le stazioni di transizione tra il I e il II periodo, che offrono un miscuglio di forme, e sono perciò stazioni di contatto nelle zone di confine ai margini dei gruppi del II periodo.

Le stazioni del III periodo rappresentano un ripetersi del fenomeno già verificatosi col sorgere, per gl'influssi micenei, delle stazioni del II.

Dove circostanze topografiche erano favorevoli, i commerci e le prime fondazioni elleniche determinavano l'introduzione di alcune forme industriali, e, col loro esempio, aggruppamenti degl'indigeni in forme quasi cittadine. Erano popolazioni viventi nella civiltà del I periodo che compivano questa evoluzione o anche quegli stessi villaggi che già nei secoli precedenti avevano trasformato la loro civiltà in quella del II periodo. Ma nel contempo villaggi del II e del I, più remoti dai nuovi focolari ellenici, si attardavano nel loro tipo di vita.

Lo stesso fatto si ripete nell'occidente dell'isola tra il subneolitico occidentale e le forme che s'inquadrano nel II periodo e nel III. Queste sono locali e parziali evoluzioni limitate ad alcuni luoghi - la valle del Platani in prevalenza - nei quali penetra più vivacemente la civiltà d'oltremare.

Ma il fondo della popolazione continua a vivere senza dubbio nelle sue forme subneolitiche e in esse, alle porte di Panormo fenicia o di Imera ellenica, si attarda fino in piena età storica.

Bibl.: Per particolareggiate notizie bibliografiche si veda la trattazione complessiva della preistoria siciliana di B. Pace, Arte e civiltà della Sicilia antica, I, Roma 1935.

Storia.

Gli studî più recenti hanno dimostrato che l'ipotesi finora generalmente ammessa, di un istmo che sino alla penultima età geologica avrebbe congiunto la Sicilia all'Africa, è priva di fondamento, e invece, da quando il Mediterraneo cominciò ad assumere la forma che oggi vediamo, l'isola appartenne sempre alle terre europee. Così parimenti, è stata europea la funzione della Sicilia nella storia. La nota in essa dominante, per quasi tre secoli dell'antichità, è la lotta contro la stirpe e la civiltà semitica, venuta dall'Asia e trapiantata in Africa. Questa lotta risorgerà di nuovo dopo un millennio, e si concluderà in capo a tre secoli. La Sicilia è stata così per due volte il terreno in cui si sono disputate le sorti della civiltà del Mediterraneo. Una tale missione è stata, innanzi tutto, effetto della situazione geografica: essa ha dominato la storia dell'isola, e determinato a distanza di secoli il ripetersi d'avvenimenti analoghi.

La forma triangolare della Sicilia dovette esser nota da quando i primi marinai ne fecero il giro. I Greci videro la Sicilia nella Thrinakie di Omero, riguardando questa voce come eguale a Trinakria, "la terra dei tre capi", e ne conclusero che tale era stato il primo nome dell'isola. Nello stesso modo i Romani la chiamarono con voce poetica Triquetra. E in età romana, se non forse prima, l'isola fu rappresentata dalla figura a tre grambe (triskelis), derivata da un antico simbolo orientale. La conformazione interna divide la Sicilia in due parti, che sono riconoscibili anche nella storia. La parte orientale è divisa in due grandi cantoni, uno a tramontana, formato dall'angolo del Peloro e coperto dai Monti Peloritani e Nebrodi (Madonie), l'altro a mezzogiomo, formato dall'angolo del Pachino occupato dal gruppo montagnoso che risponde più o meno agli antichi Erei (Monte Lauro). I due cantoni sono separati dal bacino del Simeto, il maggior fiume di tutta l'isola: gli altri che scorrono da questa parte sono noti prineipalmente dalla storia e dalla poesia: così il Longano presso Milazzo, l'Asine o Acesine oggi Alcantara, l'Aci presso Catania, l'Anapo, l'Eloro, il Gela. A ponente del bacino del Simeto, la Sicilia è tagliata da grandi solchi trasversali. Per il primo di essi scorre l'Imera (Himeras, oggi Salso) le cui sorgenti sono vicine a quelle dell'altro Imera (Fiume Grande) che si getta a settentrione nel Golfo di Termini, cosicché nacque la leggenda che i due fiumi scendessero da una stessa sorgente. Più a ponente, la valle dell'Alico (Halycus, Platani) risale verso le sorgenti del Fiume Torto che mette foce anch'esso nel Golfo di Termini, e lo Ipsa (Hyosas, Belice) si accosta alla valle del Fiume Freddo, che si getta nel Golfo di Castellammare. Questi solchi formano la via naturale che conduce dalle coste del Mar Libico a quelle del Tirreno, e spiegano la politica di Agrigento e di Selinunte e le vicende dei confini cartaginesi. La Sicilia è oggi scarsa di boschi, ma doveva esserne copiosamente fornita nell'antichità. I prodotti principali erano il grano, l'olio e il vino: i Campi Leontini (Piana di Catania) godevano una fama di feracità che non s'è poi smentita. Intenso appare nell'isola, sin dal sec. V a. C., l'allevamento del bestiame, specialmente ovino: e dove c'è bestiame, sono caci, lana e pelli. Abbondante era parimenti la pesca su tutte le coste, e in particolare nello Stretto di Messina. Facevano difetto invece i minerali, eccettuato uno solo, lo zolfo, che in età romana, se non prima, aveva dato origine a un'industria estrattiva di cui rimangono documenti. Le scarse vene aurifere e argentifere dei Monti Peloritani non erano sfuggite agli antichi; ma non sappiamo se siano state meno povere di quanto si sono mostrate poi, e non è facile supporlo. In ogni modo, i metalli d'uso più comune e più necessarî alla vita, come il rame, lo stagno, il ferro, mancavano del tutto: cosicché le materie prime necessarie alle industrie, alla costruzione delle armi e delle navi, e alla monetazione dovevano in gran parte essere attese da fuori. Nelle Isole Eolie era solo notevole la produzione dell'allume. Le comunicazioni con la vicina penisola erano agevoli, nonostante la temuta minaccia della corrente dello Stretto, simboleggiata nei miti di Scilla e di Cariddi; ma non così quelle con la Grecia o con l'Africa. Una nave che dall'Egeo dovesse approdare in Sicilia, anche in tempi in cui la navigazione era progredita, impiegava di regola una dozzina di giorni, se il vento la favoriva. La navigazione rivolta alla costa d'Africa era più breve, richiedeva da due a sei giorni; ma era infinitamente più pericolosa, dovendosi traversare il mare aperto. La Sicilia possiede magnifici porti sulla costa orientale, come quelli di Messina e di Siracusa; ma per le navi antiche, eran buone anche le foci dei fiumi, e sufficienti i mediocri ancoraggi, come quello di Nasso, sotto Taormina, che formava la testa di ponte delle comunicazioni marittime con la Grecia. Sulle coste occidentali abbondavano i bassifondi: Lilibeo era difesa dai suoi porti ciechi, che richiedevano pratica e abilità eccezionale di piloti.

Gli scrittori greci del secolo V a. C. trovavano nell'isola due masse principali d'indigeni: i Sicani a ponente, i Siculi a levante. Gli eruditi hanno voluto stabilire a tutti i costi un confine tra i due popoli, segnandolo di preferenza lungo il corso dei due Imera, e considerando come sicane tutte le città poste a ponente, e come sicule quelle a levante: divisioni nette che non si sono avverate mai tra popoli confinanti, neppure in tempi meno antichi. Le città indicate esplicitamente come sicane sono sette od otto, e di nessuna di esse, salvo un paio, può essere accertato con precisione il sito. La più rinomata nel sec. V a. C. era Camico (Kamikos), ove sarebbe perito il re di Creta Minosse, venuto ad inseguire il fuggitivo Dedalo. Essa sorgeva nel territorio di Agrigento, dove i Sicani, a quanto sembra, erano densamente domiciliati. All'angolo estremo tra il Golfo di Castellammare e Trapani, si era commista ai Sicani una popolazione straniera, dando origine alla popolazione meticcia degli Elimi, a cui appartenevano le città di Segesta ed Erice.

Dei Sicani, come unità etnografica, non si parla più a partire dal sec. III a. C. Il grosso della popolazione indigena dell'isola era costituito dai Siculi, i quali ne occupavano la parte maggiore. Ci sono indicate nel sec. V e IV a. C. circa una trentina di sedi di Siculi, comprese quelle abitate poi dai Greci. I Siculi vengono principalmente ricordati nella zona della costa orientale, e ciò non è solo perché ivi si trovarono di più in contatto coi Greci, ma perché in effetto vi erano più foltamente stabiliti, come mostrano le loro numerose necropoli. Nell'interno occupavano le valli del Simeto ove Centuripe è menzionata nel sec. V. I monti dell'angolo peloritano erano anch'essi popolati da Siculi. Circa una ventina di nomi di città sicule appare più tardi, quando la voce Siculo non ha più valore in significato strettamente etnografico, ma serve a significare in genere "abitante della Sicilia". In ogni modo, i centri abitati così dai Sicani come dai Siculi erano più numerosi di quelli di cui ci resti memoria, e si trovano avanzi di villaggi ai quali si stenta a dare un nome. I Sicani abitavano, com'era uso comune presso i popoli antichi, in luoghi erti e facili a difendere: ogni città o distretto aveva un suo capo, probabilmente ereditario, ch'era un piccolo sovrano. Così era parimenti dei Siculi. Gli uni e gli altri erano popoli agricoltori. I Siculi avevano varî centri religiosi: il più noto era quello dei Fratelli Palici, divinità a cui era consacrato un laghetto presso l'odierna Palagonia: esse avevano una funzione sociale, giudicavano della fedeltà ai contratti, proteggevano gli schiavi perseguitati: era un culto nato dal popolo. Nella città di Ibla alle falde dell'Etna si venerava una dea d'ignoto nome, la dea Iblea: gli abitanti avevano fama di gente pia, indovinavano sogni e prodigi. Ad Engio sui Monti Nebrodi si alzava il tempio delle Dee Madri, di cui parimenti è ignoto il nome. Il rito sepolcrale dei Siculi lascia presumere la credenza di una continuazione della vita, nell'oscurità del sepolcro.

Di dove erano venuti questi popoli e a che stirpe appartenevano? Esisteva in proposito nel sec. V a. C. una tradizione che nelle forme più sicure ci è data da Tucidide, e fu certo raccolta da scrittore greco dell'isola stessa. Spogliata dalle appiccicature dovute palesemente alla mentalità greca, questa tradizione diceva che i primi a venire in Sicilia erano stati i Sicani, né si sapeva di dove, e poi, tre secoli prima dei Greci, erano venuti i Siculi dall'Italia meridionale, dove reliquie di questo popolo esistevano tuttavia. Si congetturava però che i Sicani fossero Iberi, e tutta la tradizione posteriore s'è travagliata a confermare o negare tale congettura. Ma la provenienza italica dei Siculi non era discussa; l'annalistica romana li riconobbe come antichissimi abitatori del suolo stesso ove sorse Roma. Nell'uso romano, peraltro, la voce siculo (Siculus) era adoperata ormai a indicare l'abitante dell'isola, senza distinzione di stirpe: in senso geografico, non etnografico.

La Sicilia, secondo che qualcuno ha pensato, non rimase ai margini dell'antica civiltà detta micenea, ma vi fu compresa in pieno, e ne sarebbe indizio la città di Minoa, sulla costa meridionale dell'isola, che sarebbe da riportare all'epoca della talassocrazia cretese. È però questa un'ipotesi che ha ancora bisogno di indizî più convincenti. I Greci ammettevano che i primi ad affacciarsi nei mari di occidente furono i Fenici, che stabilirono fattorie commerciali attorno all'isola. I Greci non tardarono a seguirli, e per lungo tempo, com'è a presumere, gli uni e gli altri commerciarono in concorrenza nelle acque siciliane, portando agl'indigeni i metalli di cui l'isola era priva. Ma sulle coste orientali prevalsero i Greci, forti della prossimità del loro paese, e i Fenici si ritrassero su quelle occidentali, dov'erano sostenuti dalle loro colonie che sorgevano sulla sponda africana. La Sicilia si trovò da allora fra due civiltà: quella semitica a ponente, quella greca a levante. Su questa parte dell'isola i Greci stabilirono fattorie che si dedicarono anche allo sfruttamento del suolo, divennero centro d'attrazione delle correnti migratorie dei loro paesi, e prepararono il terreno alla formazione di colonie. Queste venivano politicamente costituite mercé l'intervento di un "fondatore" (οἰκιστής), il quale di solito conduceva con sé un forte sciame di emigranti. La colonia sorgeva come stato indipendente, unito alla madre patria solo da legami di pietà filiale. Naturalmente, il centro spirituale delle colonie rimaneva sempre la Grecia.

Così è che le prime colonie greche in Sicilia sorsero in breve spazio di tempo (sette od otto anni, 735-727 circa a. C.), come una gara fra la città ionica Calcide, in Eubea, e le due doriche dell'istmo peloponnesiaco, Corinto e Megara. La prima fondò Nasso occupando la località ch'era testa di ponte, come s'è detto, della navigazione con la Grecia, e poi Leontini e Catana; Corinto fondò Siracusa; i Megaresi, giunti per ultimo, e, come sembra, un po' alla ventura, si stanziarono tra Leontini e Siracusa, creandovi una nuova Megara. Intorno allo stesso tempo i Calcidesi si stabilivano definitivamente a Zancle. Un trentennio dopo, anche la costa meridionale ebbe una colonia, Gela, fondata sul fiume dello stesso nome da coloni di Creta e di Rodi. La posizione occupata da ciascuna colonia rivela il programma di accaparramenti territoriali e commerciali col quale sorgeva. Trascorsa appena una generazione, la colonizzazione greca ebbe una ripresa che durò sino ai principî del sec. VI. Queste nuove colonie non vengono direttamente dalla Grecia, ma nascono come movimento di espansione delle prime: da Siracusa son fondate Acre, Casmene, Camarina; Selinunte da Megara; Agrigento, ultima delle grandi colonie, da Gela (583-582 circa). Le colonie calcidiche non mostrarono eguale attività: solo Zancle fondò Imera, sulla costa settentrionale, ma ai Calcidesi si erano uniti profughi siracusani.

Selinunte ed Imera furono le ultime colonie verso occidente: più in là cominciava il territorio padroneggiato dai Fenici, raccolti nelle tre città di Solunto, Panormo e Mozia. Questo territorio rimase impenetrabile ai Greci, specialmente dopo che Cartagine raccolse in unità politica i Fenici d'occidente. I tentativi che i Greci fecero, prima e dopo d'allora, per mettervi piede, fallirono miseramente: così quello di Pentatlo, verso il 580 a. C., come più tardi quello di Dorieo. I Cnidi e Rodî che avevano seguito Pentatlo, si stanziarono nell'isola di Lipari, dove fondarono una colonia che avvicendava la coltivazione del suolo con l'esercizio della pirateria.

I Greci portarono in Sicilia i loro culti, e alcuni dei loro miti ebbero per teatro la Sicilia. Uno dei più noti, è quello di Demetra e della figlia Persefone, rapita da Plutone nei campi di Enna. Ma il culto più celebre fu quello di Afrodite sul monte Erice, culto di origine marinara, che ebbe grande importanza anche nell'età romana.

Nelle colonie sorse presto una grassa borghesia, formata da coloro che si erano impadroniti del suolo (geomori), escludendone i nuovi venuti e privandone gl'indigeni, che in qualche punto - almeno, nel territorio di Siracusa - furono ridotti alle condizioni degl'Iloti lacedemoni (i Cillirî o Cillicirî). Di fronte ai proprietarî stava pertanto un numeroso proletariato, immigrato e indigeno, per necessità irrequieto e ribelle. Tutto il sec. VI fu pieno di turbolenze che diedero origine a tirannie, vale a dire a dittature democratiche, sia nelle città ioniche sia nelle doriche. La prima dittatura sarebbe sorta con Panezio a Leontini, ma la più famosa fu quella di Falaride in Agrigento, intorno alla quale corsero presto dicerie terrificanti. Delle lotte da cui era agitata Siracusa dànno testimonianza i profughi che si stanziarono a Imera. I Dori di Corinto non erano quelli di Sparta, ma i Dori di Siracusa non eran nemmeno quelli di Corinto. Siracusa fu nella politica interna una città piuttosto vicina ad Atene: gli stessi eccessi di democrazia dell'una tornano nell'altra; episodî di vita siracusana ricordano episodî di vita comunale fiorentina. Catana avrebbe avuta la salvezza dalla legislazione di Caronda, che secondo la cronologia comune apparterrebbe a questo periodo. La legislazione di Caronda fu adottata anche da colonie dell'Italia meridionale: in Atene era ricordata accanto a quella di Solone.

La dittatura ebbe il massimo vigore nei primi decennî del secolo V a. C. a Gela e Agrigento, dove assunse forme dinastiche. A Gela governò Cleandro, e poi suo fratello Ippocrate (498-491), al quale succedettero l'uno dopo l'altro i figli di Dinomene, Gelone (485-478), Gerone (478-467-66) e Trasibulo (467-66, 466-65), divenuti siracusani. Ad Agrigento venne al potere Terone della famiglia degli Emmenidi. Solo a Siracusa e a Megara si sosteneva l'oligarchia dei geomori, ma impegnata in violente lotte con i partiti estremi, da cui quella siracusana doveva presto essere cacciata. Durante questa generazione, in cui giganteggia l'opera d'Ippocrate e dei Dinomenidi (498-465), l'aspetto della Sicilia subisce una profonda modificazione, segnata dal prevalere della stirpe dorica e dal sorgere improvviso di Siracusa come grande potenza mediterranea. Le colonie calcidiche perdono l'indipendenza o scompaiono: Nasso, Leontini e Zancle sono assoggettate da Ippocrate, e quest'ultima, caduta in mano del messenio Anassila, signore di Reggio, riceve il nome di Messene o Messana ed è ripopolata con gente di stirpe prevalentemente dorica. Imera viene sotto la signoria di Terone. Catania rimane salva, ma per pochi anni; sotto Gerone dovrà cedere il posto ad una colonia nuova, reclutata nel Peloponneso, e cambierà il nome in quello di Etna. Tutto l'elemento calcidico di Catana e di Nasso viene allora raccolto in Leontini, come in un grande campo di concentramento, sotto gli occhi vigili di Siracusa. La potenza di questa città fu opera di Gelone. Appena afferrato il potere, egli la occupò e ne fece la sua sede: vi ricondusse i geomori espulsi e vi trasportò la parte più cospicua delle città vicine, compresa Gela. Siracusa fu così la capitale dell'antico stato geloo, e divenne d'un balzo la città più popolosa e doviziosa della grecità d'occidente, forse anzi della grecità tutta. I porti di cui era munita permisero a Gelone di associare alle forze di terra quelle di mare, mercè una flotta poderosa di vere navi da guerra, quali solo Corcira possedeva, e Atene stessa cominciava appena a costruire. Lo stato siciliano più forte dopo Siracusa era quello di Agrigento, che, unito ad Imera, si stendeva dal Mare Libico al Tirreno. Presi insieme, i due stati occupavano press'a poco tre quinti dell'isola; e tolto un quinto appartenente agl'indigeni del tutto indipendenti, quello rimanente era diviso fra Anassila signore di Messana a levante, i Selinuntini e i Cartaginesi a ponente.

L'equilibrio delle forze dell'isola era rotto a favore dei principi di Siracusa e di Agrigento uniti da intese politiche e da vincoli di parentela. E poiché né Anassila né i Selinuntini potevano osare di muoversi contro di loro, a stornare la minaccia si mossero i Cartaginesi, sollecitati soprattutto da Trasillo, il tiranno d'Imera espulso da Terone. I Cartaginesi reclutarono mercenarî su tutte le coste del Mediterraneo occidentale, e sbarcarono nell'isola ponendo assedio ad Imera (480 a. C.); ma vennero completamente disfatti, e la loro flotta fu data alle fiamme. Questa vittoria fu principalmente dovuta a Gelone e all'esercito siracusano: essa salvò i Greci d'occidente, come intorno allo stesso tempo quella di Salamina salvò i Greci della madre patria, con effetti incalcolabili per la civiltà del Mediterraneo. Più tardi, Gerone ruppe nel Tirreno la potenza marittima degli Etruschi, con una vittoria riportata nelle acque di Cuma, e tolse ai Cartaginesi la velleità di una subita rivincita (474): inoltre, tenne a segno Anassila, facendosi protettore di Locri Epizefiria, infranse con le armi la rivalità di Trasideo, succeduto al padre Terone, e fece di Agrigento e d'Imera dei federati di Siracusa. L'unità politica siciliana fece così un notevole passo. Il periodo che seguì alla battaglia di Imera sino alla morte di Gerone fu nell'isola d'uno splendore senza pari. Agrigento raccolse dagli avanzi dell'esercito cartaginese un numero sterminato di schiavi, che adoperò alla costruzione di templi e altre opere pubbliche e alla coltivazione dei campi, e diventando una delle città più belle ed opulente. Tra gli effetti del predominio dell'elemento dorico, fu anche l'unificazione del sistema monetario sul piede euboico adottato da Siracusa e da Agrigento. E fu, secondo ogni probabilità, in conseguenza della vittoria di Imera, che la città elima di Segesta e le città puniche di Panormo e Mozia iniziarono la loro monetazione su questo piede, con stampo ellenico ed epigrafe più spesso ellenica che punica. La corte di Siracusa fu convegno dei più grandi poeti del tempo: Eschilo, Simonide, Pindaro, Bacchilide, Epicarmo. Gelone e particolarmente Gerone presero parte alle gare panelleniche, consacrarono doni preziosi e statue a Delfi e ad Olimpia. Ma il governo del secondo Dinomenide si era fatto oppressivo, e alla sua morte le cose mutarono. Trasibulo suo fratello e successore fu cacciato da una rivoluzione che ristabilì la democrazia nelle città dello stato siracusano le quali ricuperarono l'indipendenza. L'unità politica fin allora raggiunta fu spezzata: Camarina risorse, Gela fece stato a sé, i Calcidesi di Catana tornarono alla loro città e le ridiedero l'antico nome, e alla loro città tornarono i Nassî. Siracusa fu agitata da conflitti interni tra i vecchi cittadini ed i nuovi, creati da Gelone fra i suoi soldati: e a scongiurare la possibilità del risorgere della dittatura, istituì il petalismo a somiglianza dell'ostracismo ateniese. Le città liberate furono concordi finché durò la minaccia delle milizie dei Dinomenidi, ma non più quando il pericolo fu dileguato. Agrigento combatté contro Imera, e verso il 446 si accese tra i Siracusani e gli Agrigentini una guerra terminata con la sconfitta di questi ultimi.

Le due città erano state unite, pochi anni prima, a fronteggiare una grave minaccia sorta dalla parte dei Siculi. Fu il più grande conflitto che i Greci ebbero con gl'indigeni da quando si erano stabiliti nell'isola. I Greci avevano portato presto i loro commerci nell'interno, lasciandovi, in cambio dei prodotti del suolo, metalli, armi, ornamenti e stoviglie che le industrie locali a loro volta cercavano d'imitare: il paese si era aperto al soffio della civiltà ellenica. Quando si diffuse l'uso della moneta, i Greci crearono un'unità destinata a facilitare gli scambî con gl'indigeni; e fu la litra d'argento, rispondente nel valore e nel nome alla libra di bronzo, base della valuta fra i popoli dell'isola e della penisola: umile moneta quasi pari all'obolo, destinata a far da denominatore comune nel commercio delle due stirpi. E già nella prima metà del sec. V parecchie città indigene, sicule e sicane, dalla valle del Simeto ai Monti Nebrodi ed ai confini del territorio punico (Morgantina, Abaceno, Entella, Hipana, ecc.) battevano anch'esse litre di argento d'impronta ed iscrizione greca. I Siculi avevano da prima fornito buone milizie ai condottieri di Gela; sennonché, dopo dure esperienze subite, mutarono atteggiamento, e si misero a fianco della rivoluzione che abbatté la signoria dei Dinomenidi: aiutarono a cacciare dall'antica Catana la colonia di Gerone, e ripresero i territorî ch'erano stati loro tolti a beneficio di essa. Ma il buon accordo con le nuove democrazie non durò a lungo. Tra i Siculi si era determinato un movimento nazionale, che superò per un momento la ristretta cerchia dei cantoni, e fu dovuto soprattutto all'ispirazione di un loro principe, Ducezio, nato non lungi da Siracusa. Questi lavorò a raccogliere il suo popolo in una forte unità politica, che doveva avere come capitale la città di Palice, da lui fondata presso al lago sacro delle divinità sicule dei Palici. Un tale movimento non poteva non impensierire gli stati greci. Ducezio aveva ricuperato la sicula Inessa contro i coloni di Etna che vi si erano stabiliti, e allo stesso modo intendeva ricuperare i territorî di altre città sicule, occupati verosimilmente sotto le cadute tirannie, ai quali le nuove democrazie non erano disposte a rinunziare. Egli si trovò in tal modo in conflitto con Agrigento e con Siracusa, e seppe tener fronte ad entrambe: inflisse un grave scacco all'una, mandò in rotta un esercito dell'altra. Ma non ebbe dai suoi connazionali tutta l'adesione che si sarebbe aspettata: dopo una nuova battaglia poco felice coi Siracusani, lo stato siculo cominciò a disgregarsi, e Ducezio dovette mettersi nelle mani di Siracusa, che lo relegò a Corinto. Tornò tuttavia nell'isola e fondò sulla costa settentrionale una colonia, Calacte (Spiaggiabella); ma perì prima che la sua opera potesse dare altro frutto. Il suo ritorno servì solo a fomentare i malumori latenti fra Agrigento e Siracusa, che sboccarono nella guerra a cui si è accennato. I Siculi, sempre discordi, si divisero fra l'uno e l'altro belligerante, e scontarono l'abbandono della causa nazionale con la distruzione della più importante delle loro città, per opera dei Siracusani. Ma nello stesso tempo furono poste le radici dell'odio dei Siculi contro Siracusa.

Intanto si maturava in Grecia, fra Atene e Sparta, un conflitto che doveva fatalmente estendersi anche alla Sicilia. Potentissima sul mare, Atene guardava da un pezzo all'occidente, assumendo la parte di protettrice dell'elemento calcidico, minacciato dagli stati dorici. Ragioni di carattere politico, militare ed economico la spingevano verso la Sicilia, principalmente per impedire che Siracusa potesse venire un giorno in aiuto dei Lacedemoni. Così, alla vigilia dello scoppio della guerra, nel 433-32 Atene concluse alleanze con Corcira, con Reggio e con Leontini: e si era anche alleata con Segesta. Il primo effetto di questa preparazione diplomatica si ebbe nel 427, quando la guerra fra Atene e Sparta durava da alcuni anni. Si era allora accesa in Sicilia una guerra generale, in cui le colonie calcidiche, sul punto di essere schiacciate da Siracusa, chiesero aiuto ad Atene. Questa mandò una prima squadra navale, ch'ebbe pochi successi: ne mandò ancora una seconda assai più forte due anni dopo, ma non servì che a rendere più vivo tra i Greci di Sicilia il senso della minaccia che veniva dall'Attica. Essi quindi si riunirono in un congresso a Gela (424), in cui fu stabilita una pace generale e messo avanti il principio dell'indipendenza dei Greci di Sicilia, uniti senza differenza di stirpe nel nome comune di Sicelioti, come espressione di una nuova nazionalità. Non si corre troppo, se si pensa alle origini, assai più fortunate, degli Stati Uniti d'America. L'oratore del congresso fu Ermocrate di Siracusa.

Nonpertanto, la conquista della Sicilia rimase nel programma della democrazia attica, ed ebbe accesi fautori. Nel 415 venne richiesto per la seconda volta l'intervento ateniese, non più da Leontini, messa in quel momento fuori giuoco da una rivoluzione sociale, ma da Segesta, in guerra coi Selinuntini. Fu deliberata in Atene una spedizione in grande stile, il comando della quale venne affidato a Nicia, Lamaco ed Alcibiade, il quale ultimo dovette presto tornare indietro, richiamato sotto l'accusa di sacrilegio. In Sicilia però gli Ateniesi trovarono accoglienza solo dagli abitanti di Nasso, e dovettero occupare di sorpresa Catana, per trovare una base adatta alle loro forze. Il congresso di Gela non era rimasto del tutto privo di effetti, e l'intento vero degli Ateniesi non poteva restar nascosto a nessuno. I comandanti ateniesi credettero opportuno di salvare le apparenze, e mossero alla volta di Segesta, da dove però si affrettarono a tornare, senz'aver compiuto altra impresa che quella di devastare la piccola città sicana di Iccara. Intanto Siracusa, meta evidente della spedizione, aveva cominciato a provvedere alla sua difesa. L'anno seguente gli Ateniesi, ricevuti notevoli rinforzi, mossero ad investire questa città: occuparono l'Epipole, dando opera a costruire un muro che impedisse ai Siracusani ogni comunicazione con l'interno dell'isola. Quando l'impresa sembrava prossima a riuscire, giunse nella città lo spartano Gilippo, che assunse la direzione della difesa. Da allora le sorti della guerra cominciarono a mutare. Nicia chiese ad Atene nuovi rinforzi, ed il comandante Demostene, giunto a capo di un ragguardevole contingente di navi e di uomini, cercò di insignorirsi dell'Epipole. Il tentativo non riuscì, e la situazione degli Ateniesi si fece tragica. In due battaglie combattute nel porto la loro flotta venne disfatta, e l'esercito, sentendosi perduto, intraprese una ritirata che si convertì in un disastro. Solo pochi reparti scamparono verso Catana; il rimanente, inseguito e circondato dai Siracusani, dovette arrendersi sul fiume Assinaro. Nicia e Demostene furono messi a morte: i loro soldati vennero gettati nelle Latomie, dove molti perirono e gli altri furono venduti schiavi (settembre 413). Si è supposto che i più bei decadrammi siracusani siano stati battuti in occasione della celebrazione di questa vittoria.

Anima della resistenza di Siracusa era stato il partito conservatore guidato da Ermocrate. Ma dopo che questi si allontanò, al comando d'una squadra destinata a continuare la guerra in oriente, e soprattutto dopo un rovescio ch'essa subì a Cizico, i partiti estremi ebbero in Siracusa il sopravvento: la città fu in mano a un demagogo, Diocle, che fece mettere al bando Ermocrate, e cercò di forgiare una costituzione di maniera ateniese, in cui una parte delle cariche pubbliche erano conferite a sorte.

Ma erano passati appena tre anni e mezzo dalla vittoria sugli Ateniesi, quando si affacciò la minaccia cartaginese, che dopo le battaglie d'Imera e di Cuma sembrava dileguata. Essa incomberà ormai sulla vita siciliana sino all'intervento dei Romani, e sarà fronteggiata da Siracusa in una pericolosa vicenda che imporrà il ritorno alla dittatura militare come estrema condizione di salvezza, e ricaccerà ai margini la partecipazione della cittadinanza al governo dello stato. Dopo la disfatta ateniese, Segesta, incalzata sempre più dai Selinuntini, giocò la seconda carta, e si rivolse ai Cartaginesi. Questi vedevano già in pericolo i loro possedimenti di Sicilia e bramavano di rifarsi delle antiche sconfitte. Un loro esercito, composto massimamente di mercenarî, com'era regola, sbarcò nel 409 in Sicilia, distrusse l'una dopo l'altra Selinunte e Imera. La democrazia siracusana non si mostrò pari al compito che il momento imponeva: Diocle, mandato in soccorso di questa città, non fece quanto doveva, e fu condannato. Il partito moderato risollevò la testa, ed Ermocrate tornò di sua iniziativa in Sicilia: ma non rimise il piede nella sua città che per cadervi ucciso (407). Intanto una seconda spedizione cartaginese, incoraggiata dal successo della prima, venne a mettere assedio ad Agrigento, la prese e la devastò; prese anche Gela, dopo un'accanita resistenza, e quindi Camarina, aprendosi così la via alla volta di Siracusa. Gli eserciti di questa città, nonostante qualche favorevole successo, avevano dovuto ripiegare, mentre le popolazioni fuggivano innanzi all'avanzare del nemico. In questo angoscioso momento sorse la dittatura di Dionisio I (405). Egli ebbe modo di concludere coi Cartaginesi una pace che salvava almeno l'indipendenza della zona orientale dell'isola, nella quale però veniva assicurata l'autonomia a Leontini, Messana ed ai Siculi: cosicché il dominio siracusano era ridotto a poco. Ma era una pace d'attesa. Dionisio aveva dovuto sostenere lotte sanguinose coi suoi avversarî siracusani; pur provenendo dal partito d'Ermocrate, egli si era accostato ai democratici guadagnando il proletariato con nuove ripartizioni di terre e di beni. Ma poi conservò per trentotto anni senza contrasti il potere che l'assemblea popolare gli aveva conferito. Con la sua dittatura la potenza di Siracusa fu ricostruita e portata a un punto a cui non era mai arrivata. Dionisio provvide anzi tutto a munire Siracusa, facendone una gigantesca fortezza e un immenso arsenale: rinnovò la flotta, e a dispetto dei capitoli della pace, unificò la zona indipendente della Sicilia sotto la sovranità siracusana. La sua missione principale era la lotta contro Cartagine, ed egli non vi mancò. Con una guerra, durata cinque anni e terminata nel 392, strappò ai Cartaginesi le conquiste fatte dopo il 409, e li ridusse ai primitivi confini: tentò anzi con una seconda guerra di cacciarli del tutto dall'isola, ma la sorte delle armi, che al primo momento gli arrise, poi l'abbandonò, ed i Cartaginesi riguadagnarono con la pace una parte del territorio perduto, sino all'Alico. Più costanti successi ebbero le sue armi e la sua politica fuori dell'isola, nella vicina penisola dei Bruttii, nel Tirreno, e soprattutto nell'Adriatico, che divenne dominio siracusano. In questo mare Dionisio occupò Adria, pose una guarnigione navale ad Issa (Lissa), protesse la fondazione d'una colonia greca a Faro (Lesina), fece sorgere sulla costa italica la città di Ancona. Lo stato siracusano fu in questo periodo uno dei più potenti del Mediterraneo; intervenne negli affari della Grecia in favore di Sparta, ed anche Atene cercò di guadagnarne l'amicizia. In Sicilia era scomparsa Nasso, ma sorgeva Tauromenio; sulle falde dell'Etna fu fondata Adrano, e sulla costa settentrionale Tindari, non lungi da Messana (presso Patti). Gela, Camarina, Agrigento si rialzarono dalle rovine. Non si risollevò Imera; ma vicino ad essa i Cartaginesi fondarono Terme (Thermae Bimerenses, Termini); e presso a Mozia, distrutta da Dionisio, fecero sorgere Lilibeo.

La grandezza di Siracusa fu opera della mente e dell'animo di Dionisio: egli morì nel 367, quando aveva cominciato con buoni auspici una terza guerra contro Cartagine. I vent'anni che seguirono la sua morte segnarono un crollo. Gli succedette, col consenso dell'assemblea, il figlio Dionisio (II) che fece pace coi Cartaginesi, conservando il confine dell'Alico, e cercò di allentare la morsa del regime paterno; ma non era della tempra del padre, e non seppe reggersi contro le ambizioni che gli si scatenarono intorno tra i suoi parenti stessi. Fu espulso da Dione, suo zio, che instaurò in Siracusa un governo conservatore, durato, tra gravi contrasti, un paio d'anni; dopo i quali Dione fu assassinato. Seguirono al governo l'ateniese Callippo, e poi Ipparino fratellastro di Dionisio, periti entrambi di morte violenta; quindi l'altro fratellastro Niseo. La Sicilia era in preda all'anarchia: in ogni città sorgeva un signorotto: il quadro fosco che Alcibiade avrebbe fatto innanzi agli Ateniesi tre quarti di secolo prima, era divenuto la realtà delle condizioni della Sicilia in questo momento: "Le città son piene di gente d'ogni stirpe, e cambiano governo da un momento all'altro: nessuno impugna le armi e munisce il paese per difender la patria, ma ognuno cerca di arraffare quant'è possibile, con le concioni o le rivolte, e se non riesce, si va a domiciliare altrove". Un tale stato di cose era fatto per dare mano libera ai Cartaginesi, tanto più che Dione, per togliere un sostegno alla democrazia, aveva sciolto gli equipaggi e messo la flotta in disarmo. Dionisio tornò a Siracusa, riprendendovi il potere (347-46), e il partito conservatore, sotto la minaccia della reazione, chiese soccorso a Corinto. Questa città mandò Timoleonte, con un piccolo nucleo di mercenarî, che fu in seguito ingrossato. Le sorti di questa spedizione furono meravigliose: sotto alcuni aspetti, essa ricorda quella di Garibaldi e dei Mille. Dionisio si arrese a Timoleonte, e fu mandato a Corinto. I Cartaginesi, che si erano già accampati sotto Siracusa, e avevano occupato parte della città, dovettero sgombrare, e, non molto dopo, vennero da Timoleonte assaliti nel loro territorio, e sconfitti sul fiume Crimiso (Belice Destro): onde dovettero tornare al confine dell'Alico. I signorotti che avevano steso la mano ai Cartaginesi, furono vinti e messi a morte, a cominciare da Iceta di Leontini, il più facinoroso fra tutti. Siracusa e le altre città siciliane, estremamente impoverite di abitanti, furono rinsanguate con una nuova popolazione chiamata dalla Grecia e dall'Italia meridionale: a Gela e Agrigento si fece in piena regola una seconda fondazione.

Dato assetto così alle condizioni della Sicilia, Timoleonte poté compiere l'opera capitale, per cui era stato mandato, quella di riformare la costituzione siracusana, in modo da assicurare il potere nelle mani del partito d'ordine, vale a dire, dell'oligarchia conservatrice. Nonpertanto, non molto dopo la sua morte (337-36), i conflitti rinacquero, ed ebbero per epilogo la dittatura di Agatocle, sorta con un sanguinoso colpo di stato (317-16). Agatocle veniva dal popolo, si era fatto strada con le armi, ed era uomo che poteva riprendere l'opera di Dionisio I, dare unità alla Sicilia e potenza a Siracusa. Ma ebbe incontro nemici assai più potenti di quelli con cui ebbe a lottare Dionisio. Si formò contro di lui una lega tra gli Agrigentini, i fuorusciti siracusani e altre città: si unirono ad essa i Cartaginesi, che strinsero in un cerchio Siracusa. Con disperata audacia, destinata a servire di ammirazione e di esempio, Agatocle trasportò la guerra in Africa, e si spinse sotto le mura di Cartagine: ma nonostante i primi felici successi e la sua prodigiosa tenacia, dovette in capo a tre anni abbandonare l'impresa. Aveva in un breve intervallo, in cui era tornato in Sicilia durante questa campagna, conquistato quasi tutto il territorio cartaginese dell'isola e infranto la lega agrigentina; ma dopo il rovescio africano, fu costretto a venire ad accordi coi Cartaginesi, e cedette loro i territorî occupati. Rimanevano ancora in campo gli emigrati siracusani che disponevano d'un forte esercito: egli li vinse, e poi si riconciliò col loro comandante (305). La lotta contro gli avversarî siracusani, costò ad Agatocle all'incirca tanti anni, quanti mesi eran bastati a Dionisio. Egli non poté fare quindi fuori dell'isola una politica pari a quella del suo predecessore: nonpertanto, occupò Corcira e s'impadronì di Crotone e d'Ipponio, ricuperando nella vicina penisola gli antichi dominî siracusani, pur senza riuscire a domare i Bruttii. Nel 306 egli assunse titolo di re, sull'esempio dei generali di Alessandro, e pose per primo il suo nome con questo titolo sulle monete.

Ma appena egli chiuse gli occhi (298), il suo regno si sfasciò: molte città, a partire da Leontini, si resero indipendenti, e nuove signorie sorsero ancora una volta a rincalzare il frazionamento politico dell'isola. Mercenarî campani, ch'erano stati al soldo di Siracusa, nel tornare in patria occuparono di sorpresa Messana, e vi si stabilirono col nome di Mamertini, assoggettando larga parte del paese e facendo scorrerie anche di là dallo Stretto. Agrigento venne in potere di Finzia, che prese titolo di re, allargò il territorio e fondò al posto di Gela, distrutta dai Mamertini, una colonia che chiamò dal suo nome (Finziade). L'isola fu così divisa in quattro territorî, tra i quali quello cartaginese era il più forte ed esteso. I Cartaginesi passarono l'Imera, e misero in rotta l'esercito siracusano sul Terias, il fiume di Leontini; poco più tardi, mentre Siracusa era in preda a una lotta interna, circondarono ancora una volta la città per terra e per mare. In quel frangente essa si rivolse a Pirro, re dei Molossi, che si trovava nell'Italia meridionale a combattere contro i Romani in difesa di Taranto e delle città greche alleate. Avvenne in quel momento in Sicilia un fenomeno meraviglioso; città e partiti si trovarono tutti di accordo, eccettuati i Mamertini, nell'idea di creare uno stato unitario, superando le forme federative cercate prima con assai mediocre profitto. Pirro, passato nell'isola, ricevette a Siracusa il titolo di "re di Sicilia" e comandante supremo, e gli fu destinato come successore Alessandro, il figlio che aveva avuto da Lanassa, nata da Agatocle (278). Fu così fondato per brev'ora, un "regno di Sicilia" che precorreva, all'infuori di qualche vano tentativo, quello che doveva sorgere quindici secoli più tardi, per opera di un altro principe straniero, venuto anch'esso, ma con miglior fortuna, dall'Italia meridionale. È forse malsicuro che le monete battute a nome dei "Sicelioti" ch'è quanto dire, a nome dell'intera Sicilia, appartengano all'età di Gerone II e non a questa di Pirro. Comunque, tutto si ridusse a un fuoco di paglia, e in complesso fu fortuna. La campagna contro i Cartaginesi fu al primo momento una passeggiata militare. Molte città si diedero a Pirro, che invase trionfalmente il territorio cartaginese, prese Erice e investì Panormo. L'osso duro fu però Lilibeo. Pirro la tenne assediata per due mesi, e in ultimo dovette smettere l'impresa. Da quel momento cominciò il crollo: le illusioni scomparvero, sorsero gravi malumori contro il governo del monarca straniero, e le cose giunsero al punto che questi trovò opportuno di lasciare l'isola, dopo esservi rimasto un paio d'anni. I Cartaginesi ristabilirono la loro sovranità nell'isola sino a Camarina: riconobbero però l'indipendenza di Siracusa, e non fu un disprezzabile guadagno.

Una dozzina d'anni più tardi (270-69), Siracusa era in guerra coi Mamertini. Emerse in quel tempo nell'esercito siracusano un generale valoroso, che portava un nome insigne: Gerone. Con l'appoggio dell'esercito, e certo anche col favore della pubblica opinione, egli fu posto a capo dello stato e al comando dell'esercito. Gerone tolse ai Mamertini i territorî occupati, li batté sul fiume Longano, e li chiuse in Messana. Siracusa che aveva ricuperato il dominio di una notevole parte dell'isola, premiò Gerone col titolo di re. In questo mezzo si maturò il conflitto fra Roma e Cartagine. Stretti da Gerone, i Mamertini chiesero l'intervento dei Cartaginesi, che stavano con la flotta a Lipari, e una guarnigione punica entrò a presidiare la città. I Romani che avevano occupata Reggio, non potevano guardare con indifferenza ciò che avveniva sull'altra sponda dello Stretto. Si rendevano conto della gravità che avrebbe avuto un conflitto con Cartagine, ma udivano anche le ragioni che consigliavano di affrontarlo. Tra i Mamertini prevalse il partito che preferiva l'alleanza di Roma, e la guarnigione punica dovette ritirarsi. L'esercito romano passò lo Stretto, mise in rotta i Cartaginesi e i Siracusani che intanto avevano posto assedio ai Mamertini, e avanzò verso il mezzogiorno dell'isola. A Gerone non rimase altro che chieder pace, e l'ottenne conservando il regno che fu però ridotto a Siracusa e ad altre sei città, con un territorio che in complesso era poco più di un quinto di quello di prima (263). In seguito i Romani presero Agrigento, e nelle acque di Mile, sotto il comando di Gaio Duilio, vinsero una grande battaglia navale, le cui conseguenze furono principalmente morali (260). Sull'esempio di Agatocle, ma con molto minore rischio, portarono la guerra in Africa (v. attilio regolo); ma l'ostacolo insuperabile fu anche per loro Lilibeo che tennero bloccata per anni senza riuscire ad espugnarla. Le sorti della guerra vennero decise con la vittoria navale di Lutazio Catulo alle Egadi (241). I Cartaginesi dovettero sgombrare l'isola, che divenne la prima provincia romana, a governare la quale fu dal 227 destinato un magistrato speciale compreso nel numero dei pretori.

Gerone (II) si era salvato, e si mantenne amico fedele dei Romani. Era sovrano di un piccolo stato, di cui Siracusa formava una capitale sproporzionatamente grande e i territorî che comprendeva non erano i più produttivi dell'isola. Tuttavia, le condizioni economiche vi appaiono prosperose: Siracusa era sede di una notevole attività industriale, specialmente nei suoi cantieri marittimi, della cui potenzialità fa documento la grande nave da trasporto, costruita per ordine di Gerone, della quale ci resta una mirabolante descrizione. Gerone mantenne e intensificò le relazioni con l'Egitto, stabilendo con questo paese una specie di unione monetaria: governò da magnifico signore, fornì grano a Roma, soccorse Cartagine, aiutò Rodi afflitta da un terremoto.

Morì vecchio, nel 215, nei momenti più gravi della seconda guerra punica. Il figlio Gelone gli era premorto, e gli succedette il nipote Ieronimo, ragazzo di 15 anni. Questi si unì al partito cartaginese che aveva in Siracusa levata la testa, specialmente dopo la battaglia di Canne; ma fu ucciso a Leontini dopo tredici mesi di regno. Nonpertanto, la città rimase in mano a due generali di Annibale d'origine siracusana, Ippocrate ed Epicide. Il console M. Claudio Marcello, che aveva messo invano assedio a Siracusa, difesa dal genio di Archimede, ebbe modo di occuparla, servito dal tradimento, e la abbandonò al saccheggio: nella strage perì anche Archimede (212). Due anni dopo i Romani presero anche Agrigento. Al terminare della guerra, la Sicilia si trovò sotto i Romani in condizioni peggiorate: il regno di Siracusa scomparve e la città fu spogliata dei suoi tesori. Riguardo ai tributi i Romani lasciarono in vigore la norma della decima del prodotto, com'era stata regolata da Gerone, riservando il sistema generale degli appalti - e non sappiamo precisamente come - ai terreni confiscati, che pure erano lasciati da coltivare alle città a cui appartenevano. A partire da quel tempo si rese più grave nell'economia agraria isolana la piaga del latifondo, comune ad altri paesi civili del Mediterraneo, e rincrudita più che altrove dallo spopolamento del paese. Il lavoro libero si contrasse, le campagne furono in mano a schiavi venuti per lo più dall'Oriente, la pastorizia prendeva la mano all'agricoltura. Questo stato di cose diede origine a due grandi rivolte di schiavi entro lo spazio di 36 anni, la prima capitanata da Euno (136-131) l'altra da un Salvio (104-100). I Romani dovettero, per reprimerle, sostenere vere battaglie, nelle quali non sempre furono vincitori: campagne e città furono devastate.

Al principio del sec. I a. C., la Sicilia contava nell'amministrazione romana tre città federate (Messana, Tauromenio, Neeto) e cinque libere e immuni (Centuripe, Alesa, Alicie, Segesta, Panormo). Le altre erano sottoposte al pagamento della decima, e dette decumane: molte però avevano perduto il territorio, e tra queste Siracusa. La quale però fu sede del pretore - poi del propretore - mandato a governare l'isola, e d'un questore: l'altro - la Sicilia per eccezione ne aveva due - risiedeva a Lilibeo.

La Sicilia formò il granaio di Roma, specialmente prima della distruzione di Cartagine: e buona parte della proprietà fondiaria era in mani romane. La propretura di Verre passò nell'isola come raffica: tuttavia le vessazioni allora commesse, a noi note dalla requisitoria dell'accusatore, non possono essere accettate senza riserva.

Cesare diede alla Sicilia il diritto latino, come dire la piccola cittadinanza, e poi Antonio, in base alle note lasciate dal dittatore, le accordò la cittadinanza in pieno, con un decreto che, al pari di altri, trovò l'opposizione del Senato. Nel 43, Sesto Pompeo s'impadronì dell'isola, che divenne centro di raccolta dei nemici del triumvirato e in particolare di Ottaviano. Ma nel 36, la flotta di Pompeo venne disfatta nelle acque di Nauloco da Marco Agrippa, ed Ottaviano ricuperò l'isola. Egli ne mutò l'ordinamento tributario sostituendo alla decima una quota in denaro, lo stipendium: pose una colonia militare a Tauromenio, ed altre ne dedusse in seguito, quand'era Augusto, fra cui una a Siracusa. La Sicilia appartenne al numero delle provincie senatorie.

Le invasioni barbariche non risparmiarono l'isola; nel 280 Siracusa fu saccheggiata da un'orda smarrita di Franchi. Sotto Diocleziano l'ordinamento amministrativo fu mutato, con quello del resto dell'impero. A partire da questo tempo si fanno più sicure le notizie intorno al cristianesimo in Sicilia, dove non mancava certo prima, se aveva tanta vitalità nella vicina costa d'Africa. Nel sec. V, coi Vandali stabiliti nella regione di Cartagine, risorse nel Mediterraneo il dominio marittimo di questa città; e fu allora occupata l'estremità occidentale dell'isola, come ai primi tempi del dominio cartaginese.

L'età romana vide sorgere nelle città siciliane, come altrove, grandi edifici pubblici: antichi teatri, d'età greca, furono restaurati e adattati ai nuovi bisogni della scena; vennero costruiti anfiteatri anche in città secondarie. Avanzi superbi di musaici restano soprattutto a Palermo. Fu compiuta una rete stradale, che correva intorno all'isola lungo la costa, e attraverso l'interno metteva in comunicazione Catana e Siracusa con Agrigento, e questa città con Panormo, ch'era d'altra parte congiunta direttamente a Catana. Tra gli acquedotti, gli avanzi più notevoli rimangono a Termini.

Bibl.: A. Holm, Gesch. Siciliens im Alterthum, I-III, Lipsia 1870-98 (trad. ital. di Dal Lago e V. Graziadei, Torino 1896-1906); E. A. Freeman, History of Sicily, I-III, Oxford 1891-92; IV, ed. da Evans, 1894 (trade. ted. di B. Lupus, Lipsia 1895-98); B. Pace, Arte e civiltà della Sicilia antica, Roma 1935. Le molte opere speciali pubblicate sino ai tempi più recenti, sono enumerate nel volume del Pace, pp. 3-98, al quale si rimanda.

Topografia storica.

La distribuzione topografica delle varie fasi di civiltà riscontrate nella Sicilia antichissima mostra in modo evidente come, mentre talune di queste fasi si sovrappongono, e quindi chiaramente si susseguono, altre invece sono soltanto accentrate in zone distinte e perciò, lungi dal sovrapporsi l'una all'altra, si affiancano. Le stazioni neolitiche, rade nelle provincie orientali, sono numerose e fitte in quelle occidentali, ove l'evidente continuità tra il neolitico e il subneolitico ci pone al cospetto di una civiltà che si evolve ed elabora le sue forme, e perciò fa pensare ad una continuità dello stesso popolo. Nelle stazioni orientali, invece, è localizzata la civiltà cuprolitica, con vasti e frequenti centri abitati. Si può quindi sicuramente dedurre per le due parti dell'isola una diversità di vita a cui corrisponde una diversità di genti, in pieno accordo con le testimonianze più indiscutibili della tradizione antica relativa ai due diversi popoli, Sicani e Siculi, rispettivamente abitanti nelle regioni di occidente e di oriente.

I Sicani, che si reputavano autoctoni, sono i neolitici e i loro discendenti cioè i subneolitici di occidente. Essi occupano prima sparsamente le regioni orientali dell'isola, nelle stazioni di Stentinello, di Matrensa, di Fontana di Pepe, ecc.: e la distribuzione delle loro stazioni conferma la notizia di Dionigi di Alicarnasso che mostra poco abitata la Sicilia prima del giungere dei Siculi. Spinti dal sopravvenire di questi, i Sicani si raccolgono nell'occidente dell'isola, e si diffondono in villaggi numerosi. I Siculi si insediano nell'oriente, su luoghi naturalmente ben difesi, come a Castelluccio e a Monteracello. Il confine dei Sicani con i Siculi appare quello stesso che indicano le fonti, il corso cioè dei due fiumi Imera; il confine, del resto, avrà naturalmente subito fluttuazioni anche notevoli.

Intorno al Mille, navigatori della Grecia viventi ai margini cronologici - e forse geografici - della grande civiltà dell'Egeo, cominciano a venire in Sicilia. I punti di approdo sono pochi e tradizionali; da un canto il seno di Augusta e quello di Siracusa, che offrono invitante asilo a chi venga da oriente; dall'altro la zona agrigentina e la gelese. Al contatto con i navigatori d'oriente, le borgate costiere della regione siracusana (Milocca, Cozzo Pantano, Plemmirio), del seno di Augusta (Tapso Molinello) si trasformano in stazioni commerciali; e dalle coste le influenze straniere raggiungono le vallate montane. All'azione micenea nel sec. IX o nel seguente, subentra quella propriamente greca, che, sempre più vasta e profonda, culmina nella colonizzazione.

Il primo stanziamento calcidico è a Nasso, in quel promontorio di Schisò che è il primo sicuro approdo offerto dalla spiaggia orientale di Sicilia; poi i Corinzî fondano nell'isoletta Ortigia che sbarra il capace porto, Siracusa. Al di là dell'Etna, sorge Leontini, in località che al dominio di una pingue regione pianeggiante aggiungeva il vantaggio d'esser congiunta al mare da un tratto navigabile del fiume Teria. Catana occupa una breve altura nell'interno di un grande golfo, ove un fiumicello, l'Amenano, presentava qualche possibilità d'ancoraggio, e i dintorni offrivano fertili campi da coltivare. Così nella spiaggia meridionale, dove sorgono Gela, Selinunte e Agrigento, l'espansione coloniale avviene non secondo una meccanica successione geografica, ma con l'occupazione dapprima di punti discosti e preminenti, in mezzo ai quali in un momento ulteriore si stabiliscono fondazioni secondarie.

Nuovi coloni, megaresi, si stanziano dapprima presso il fiumicello Pantacia, in un luogo detto Trotilo, non lungi forse dall'odierno scalo di Brucoli: sito assai opportuno ad una stazione primitiva e temporanea. L'impossibilità di dividere con i Calcidesi di Leontini il dominio della pianura li costringe a passare sulla penisoletta di Tapso, sede di un antico stanziamento siculo; ma per la vicinanza di Siracusa, anche questa sede marittima viene abbandonata; e questi vaganti coloni trovano finalmente le loro sedi nel territorio della città sicula di Ibla, il cui dominio si stendeva dalle colline al seno poi chiamato Megarese e modernamente di Augusta. Tutta la muraglia rocciosa che circonda questa conca mostra ancora coi fitti gruppi di sepolcri come intensamente vi abitassero i Siculi, quando i Megaresi cercavano in essa il definitivo asilo. Borgate e casali collocati sugli speroni rupestri, stagliati da cave profonde nei cui fianchi si aprono i sepolcreti, sembra culminassero intorno al villaggio più notevole, che sorgeva presso l'alto corso del Cantera sulla forte terrazza facilmente difendibile del Pianazzo, la cui necropoli del I periodo è stata esplorata in località Bernardina. In questo complesso si può riconoscere con l'Orsi quell'aggruppamento di villaggi siculi che costituivano la città di Ibla. A poco meno di un chilometro dalla foce del Molinello, che forse gli antichi chiamavano Damuria, un altro villaggio, del II periodo, occupava una collina rocciosa. Non sul sito medesimo della vecchia città sicula sorse Megara, ma a poca distanza dal mare, sulla collina fiancheggiata da due torrenti che sboccano nel seno megarese, a sud il S. Cusimano e a nord il Cantera nel quale si suol riconoscere l'Alabon degli antichi. Tra le due foci, i coloni adattarono in seguito con una facile gittata una banchina di ormeggio, mentre scavavano la necropoli a occidente e a sud-est, dove si estese un sobborgo popoloso. Il dominio dell'ubertosa contrada, presto assicurato alla colonia, era però assai breve. A sud esso incontrava il territorio siracusano verso la contrada Buggiana, non lungi dall'istmo di Tapso; alle bastionate del monte Climiti trovava un paese in pieno dominio degl'indigeni; verso il nord doveva limitarsi alle bassure del Cantera e del Marcellino e alla Piana dell'Agliastro, senza oltrepassare il fiume Molinello, confine dello stato calcidese di Leontini. Sfavorevoli circostanze economiche e politiche inducono i Megaresi a dare origine un secolo dopo, a Selinunte, la più occidentale colonia di Sicilia, là dove tra il Capo S. Marco e il Capo Granitola si apre un largo golfo, e un modesto sistema di due alture resta delimitato nettamente dalla circostante campagna da due piccoli fiumi: la Gaggera e il Modione. Sorto sulla collina più prossima al mare, l'abitato si estese col tempo sulla seconda, ad essa legata da un sottile istmo; e, in seguito, con mirabili santuarî, anche sulla collina a mezzogiorno del gorgo Cottone, mentre il nucleo primitivo restava acropoli, santuario e agorà. La presa di possesso della costa orientale veniva compiuta con la fondazione di Zancle sullo stretto, là dove un singolare braccio di terra a forma di falce chiude uno dei più sicuri bacini del mondo. Dipendenza di Zancle fu un castello, fondato col nome di Mile o Chersoneso, sul caratteristico promontorio che ad una quarantina di chilometri dal Peloro si erge sul mare, unito alla spiaggia da un istmo breve e stretto, sì da costituire una formidabile posizione militare. Se con Mile s'iniziava l'occupazione della costa settentrionale della Sicilia, quella meridionale nota per precedenti traffici e navigazioni attirava una colonia mista di Rodî e Cretesi. La nuova città sorgeva in mezzo alla costa lievemente falcata che per prima si presenta, a chi risalga il litorale siciliano da Pachino, nel punto in cui una mediocre collina offriva conveniente sede ad una città, e la foce di un fiume un buon ancoraggio e una via d'accesso verso l'interno. Dal nome indigeno del fiume, la città assumeva il nome di Gela. La collina, oggi occupata dall'abitato moderno, è collegata da uno stretto passaggio con altra collina a sud su cui erano i templi, e verso tramontana col Capo Soprano, dove si trovava la necropoli. Un ulteriore passo verso occidente fu fatto in seguito, a nord, con la fondazione di Imera a metà della baia posta tra i caratteristici promontorî di Cefalù e di capo Zaffarano. Ma essa era poi oltrepassata, sulla spiaggia meridionale, con la fondazione di Selinunte. Siracusa provvedeva intanto ad ampliare l'invasione ellenica del vicino territorio. Ortigia, in cui sono tracce modeste ma sicure dello stanziamento di Siculi, era circondata verso terra, in un raggio dai due ai cinque chilometri, da villaggi siculi: a Scala greca come tutt'intorno sul rilievo roccioso della città; a nordest dell'Acradina presso la linea ferroviaria; sui fianchi del Temenite e della collina sovrastante al Fusco e al Canalicchio, restano nelle tombe tracce di Siculi che sembra vivessero nella loro tipica fase di civiltà del I periodo. E tutta una serie di altre importanti borgate nelle quali essi erano aggruppati al tempo delle prime navigazioni e degli stanziamenti greci, appaiono nel sollevamento roccioso del Plemmirio, nel retrostante piano di Matrensa o Milocca, al Cozzo Pantano. Ma anche al di là di questa prossima cerchia, l'influenza siracusana non tardò ad insinuarsi. Limitata a nord dai territorî di Megara e di Leontini, essa si rivolse alla spaccatura dell'Anapo. Via d'accesso verso le regioni dell'interno, essa era stata aperta ai commerci micenei e protogreci. Nel 664 a. C. Siracusa deduce nell'alta valle di questo fiume la colonia di Acre, sulla vetta di un monte che fronteggia il vasto borgo siculo della Pinnita. Venti anni dopo è fondata la seconda colonia, Casmene, d'incerto sito, e finalmente, nel 599, Camarina sul mare africano. I Siracusani, per prendere possesso della vallata che si apre alle spalle di Acre, distrussero prima l'inaccessibile rocca di Pantalica, sede secolare di un potente principato indigeno ma atta soltanto ad una popolazione di pastori e priva di ogni possibilità agricola, quale i Greci cercavano e andarono a trovare più in alto nella conca e nell'altipiano di Acre. Come Pantalica, anche la città sicula del monte Finocchito, modesta militarmente e non atta ai fini agricoli, rimase disabitata.

A un più complesso sistema politico territoriale sono ispirate le fondazioni di Casmene e Camarina. La cuspide meridionale della Sicilia costituisce una netta unità topografica, separata ed isolata da cinque fiumi che la solcano a raggiera, nascendo a breve distanza l'uno dall'altro nel medesimo nodo montano del Lauro, che costituisce la punta più elevata della Sicilia meridionale (m. 985): sono il Trigona, l'Anapo e il Tellaro che sboccano nell'Ionio, l'Irminio e il Dirillo-Mazzarrone che si dirigono verso il Mare Africano. Tutta la parte centrale di questa zona, montuosa nella quasi totalità, tranne le brevi pianure di Noto e Pachino rimase preclusa ad ogni diretta attività dei Greci. I monti che s'affacciano alla costa con un contorno netto ed aspro, rigati da quelle gole strette che si denominano cave e che sono facilmente difendibili sembra abbiano arrestato la marcia dei colonizzatori. E mentre a nord di Siracusa la zona pianeggiante tra i monti e il mare soggiace, con le varie fondazioni da Nasso a Megara, ai Greci, e questi si insinuano nel nodo montuoso da Leontini per la valle del Trigona. Siracusa invece indirizza la propria espansione attraverso la vallata dell'Anapo, mentre la limita verso sud agl'immediati dintorni di Ortigia, non oltre la foce del breve fiume Kakyparis, l'attuale Cassibile. In tutta la cuspide meridionale, da questo fiume all'Ippari, mancano tracce di stabilimenti greci dei primi secoli; né vi sono testimonianze di antiche città. Eloro, che appare come stabilimento di Siracusa su una collina alla sinistra della foce dell'Assinaro (Tellaro), è sorta in un momento ulteriore, come dimostrano la sua tardiva apparizione nella storia e le sue rovine di età non anteriore al sec. V; Ina, probabilmente esistente sulla penisoletta di Vendicari, è un tentativo di aggrapparsi alla costa. Casmene non dev'essere ricercata al margine della regione collinosa tra Spaccaforno e Rosolini (Schubring) né presso Scicli (Cluverio). Una colonia greca collocata in uno di questi siti avrebbe avuta una ragion d'essere, oltre che politica, anche economica; mentre Casmene, di cui la storia tace, non può esser sorta se non in un sito in cui l'influenza di una delle altre colonie le abbia tolto ogni funzione. Lasciata ai Siculi la cuspide meridionale tra l'Anapo e l'Ippari, l'azione di Siracusa si conclude 135 anni dopo con l'occupazione della foce dell'Ippari, nella costa meridionale, dove veniva fondata Camarina, destinata a dominare la vasta fertile pianura tra la bastionata degli Iblei e il Dirillo-Mazzarrone, confine con lo stato gelese. (Con Camarina ricominciava il territorio coloniale). Base del piano di Siracusa doveva essere l'unità territoriale tra le sue colonie, che presuppone un dominio almeno di comunicazione attraverso una parte montuosa del paese dei Siculi. Il collegamento dello stato siracusano con Camarina va cercato lungo le depressioni tra le alte valli dell'Anapo e dell'Irminio seguite dalle strade di ogni tempo. Lungo questa via Acre-Serra Casale-Chiaramonte-Comiso conviene ricercare Casmene con cui si prestano ad essere identificati sia Serra Casale con la sua interessante documentazione arcaica, e sia Comiso con gli avanzi della necropoli più antica. Con Camarina, Siracusa si installa fortemente sul Mare Africano. La breve collina litoranea sede della colonia era la sola terrazza che si offrisse in tutta quella spiaggia con opportunità naturali, perché delimitata dall'Ippari e dall'Oni e difesa da vaste paludi. L'aspra rocca triangolare di Enna piantata nel mezzo dell'isola tra le valli del Salso e del Simeto, il celebre centro religioso siculo dell'umbilicus Siciliae fu in quel primo tempo raggiunto solo dalle ondate del commercio ellenico. Acre, Casmene e Camarina non sono che gli elementi essenziali del sistema politico territoriale di Siracusa. I nuclei minori si moltiplicano. Oltre al Lauro, la piana di Comiso è segnata di fattorie le quali dalla pianura si estendono anche sull'altipiano, come ci mostra una necropoli greca della seconda metà del sec. VI alla stazione di Ragusa, indizio di una borgata installata sulla vicina altura del Pendente, in contatto con la città sicula che sorgeva sul basso colle di Ragusa inferiore, forse Ibla. Verso il Pachino si trova poi il documento di un nuovo passo in paese già escluso dalla conquista, nella piccola colonia di Eloro, costruita dopo aver disabitato, al pari di Pantalica e di Finocchito, le città sicule di Cassibile e del Castelluccio; mentre l'elemento indigeno si sottrae alla conquista rifugiandosi nei contrafforti della montagna, dove costituisce vere città, come a Noto vecchia, influenzate di civiltà ellenica, ma libere dal dominio politico del popolo sopravvenuto.

Come per Siracusa, un motivo dominante della storia di ognuna delle principali città va riconosciuto nel bisogno di un'aggregazione territoriale. Nasso a questo scopo dà origine a Callipoli, Leontini sul cadere forse del sec. VII ad Eubea - della quale non si conosce il sito che va cercato nel più vicino retroterra - e probabilmente anche a Bricinnie la quale sorgeva sul colle di S. Basilio a nord dell'odierna Scordia. La fertile conca di Lentini - il cui centro è oggi occupato dal lago omonimo, ottenuto da uno sbarramento medievale, ma già in antico paludoso - era contornata sull'anfiteatro delle terrazze vicine da una serie di villaggi siculi. Così a Valsavoia uno stanziamento del I-II periodo, e altri con qualche elemento del II, ma nel complesso pienamente del III, a Rocca Ruccia e a Cava S. Aloe, a ridosso della futura fondazione calcidese, e in contrada S. Leo, terrazza triangolare fra i burroni profondi di cava d'Inferno e di Ossini. La tradizione relativa alla fondazione (κτίσις) di Leontini riceve da queste antichità la più compiuta conferma e si completa nei suoi episodî. Quando i Calcidesi - preceduti dalla penetrazione commerciale, attestata dalla fase del III periodo - occupano le due alture congiunte di S. Mauro e di Meta piccola, da esse certamente espellono o soggiogano i Siculi, che le avevano occupate usando le necropoli di Ruccia e di S. Aloe, le quali difatti scompaiono ai primordî del sec. VII. Ma la vicinanza dell'importante colonia ben presto fa sì che arretrino o restino assorbiti già intorno a quell'epoca medesima, anche gli altri gruppi siculi che si affacciano sulla piana, le cui terre vengono così incluse nel diretto dominio di Leontini. Un pari procedere di conquiste si riconosce anche a Gela che, non impedita da altre colonie, può risolutamente dirigersi in vario senso. Già la lotta con i Sicani per la conquista di Omphake, città appollaiata su una delle colline che dominano la pianura, è certamente un episodio di quella pressione a nord-ovest che doveva portare l'influenza diretta dello stato gelese, attraverso l'intermedio territorio collinoso, sull'altra pianura alla foce dell'Alico, il Salso. Quivi uno stabilimento deve esser sorto ben presto sulla collina di Ecnomo dominante la foce, dove sarebbe stato collocato il faro di Falaride; è il sito in cui circa il 280 a. C. il tiranno di Agrigento Finzia fonda una città alla quale dà il suo nome e che diviene una nuova Gela, quando vi si trasferisce la popolazione. Al di là dell'Alico, la penetrazione ellenica subì un'interruzione territoriale prima di collegarsi con Agrigento. La zona Palma-Naro, al pari delle colline fra Canicattì e Caltanissetta, rimase in potere dei Sicani più a lungo. Il Castellazzo di Naro, con avanzi neolitici che vengono a finire nel geometrico sicano, è un indizio di questo attardarsi della popolazione indigena nelle sue forme di civiltà. Il che concorda con la mancanza, in quel territorio, di città greche o anche soltanto ellenizzate. Più diretta è l'azione greca sui villaggi siculi o sicani che occupano i colli che cingevano la pianura gelese, dei quali Omphake non era che uno dei tanti, ricordato per speciali circostanze dalla tradizione, ed un altro è Kakyron menzionato al tempo della caduta dei Dinomenidi. Più interessante di tutti è quello di Sette Farine, dove un villaggio di capanne tipico del I periodo si era adagiato sulle contigue spianate gessose ed aveva disposte ai fianchi le sue grotticelle funerarie. Sulle rocce scoscese di Canalotto, della Fastuccheria e di Monte Disueri, più addentro si stendeva una vasta città, frazionata in diversi abitati, che va considerata come una delle posizioni militari e politiche più importanti, forse la principale di tutta la regione. Da questi e da altri avanzi archeologici, il processo d'infiltrazione gelese verso l'interno viene lumeggiato con grande evidenza. Di fronte al suo moto insistente, che si irradia a ventaglio per le molteplici valli confluenti del Gela e del Dirillo, i Siculi si asserragliano ai margini della pianura, che avevano lasciato in potere dei sopravvenuti, e resistono. Il villaggio delle Sette Farine e la città fortezza di Monte Disueri, mirano così, appoggiati su eccellenti posizioni naturali, a sbarrare il varco per il quale, dalla vallata del Gela lungo la spaccatura segnata del fiume, è aperta la via verso l'interno dell'isola. Ma gli sbarramenti o cedono come Disueri che finisce d'esistere con il rafforzarsi dei Greci, o si trasferiscono. E l'influenza di Gela risale e conquista la zona montuosa attraverso i bracci estremi del Gela - il Disueri e il Maroglio - pervenendo alle alture di Mazzarino e a quelle di Caltagirone e alla pingue pianura di Piazza. Mentre sul Dirillo e le sue braccia della Ficuzza, del Mazzarone, dell'Amerillo, raggiunge l'alto Lauro di Grammichele, di Licodia, Vizzini, ove s'incontra con l'influenza di Camarina e di Leontini. In tutto questo territorio che stringe la pianura gelese si ricercano talune città ricordate dalla tradizione (Echetla, Morgantina, Galarina, Kakyron, Eryke, Maktorion, Omphake), mentre le scoperte archeologiche attestano la presenza di grosse borgate di Siculi, le quali nel sec. VI hanno già accolto largamente i fondamenti dell'industria, dell'arte, della civiltà greca. A Monte Bubbonia, presso Mazzarino, le forme della civiltà greca giungono in un ambiente poderosamente fortificato, con palazzi principeschi indigeni. È forse il sito di Maktorion. Poche miglia a sud di Caltagirone, la rotabile di S. Maria di Gesù attraverso la gola della Portella penetra nella piccola conca di S. Mauro, cinta verso settentrione da alture di oltre 500 metri di elevazione. Questi colli sono dapprima occupati da genti preistoriche, che mostrano la civiltà del I, II e III periodo. Le mode egeo-micenee ed elleniche pervengono al montano villaggio, il cui capo anzi si costruisce un palazzotto. Ma sembra che anche un vero villaggio greco si sia installato nella conca, con una necropoli, che va dallo scorcio del sec. VII ai primi del V, e un tempietto a terrecotte policrome. Ancora più a monte questi influssi pervenivano sul vertice montano, alla Montagna di Caltagirone, dove uno stanziamento siculo che occupava il declivio meridionale, in gruppi frazionati intorno al centro detto la Rocca, appare profondamente permeato d'influssi micenei su cui sono inserite le forme tipiche del III periodo. Sull'altura occupata dall'abitato moderno di Caltagirone, una grossa kome greca, probabilmente Galarina, mostra inoltre sepolcri di pretto tipo gelese, che vanno dal VI al IV secolo. Anche qui in prossimità del villaggio siculo una mano di Greci è venuta a stanziarsi, raggiungendo le prime origini del Gela, in un punto alto e forte del gruppo dei Monti Erei, nonché la displuviale da cui s'apre la via verso la costa ionica attraverso la valle del fiume Margi, una delle molteplici scaturigini montane del Simeto. Sui cacumi più elevati della fiancata destra del Margi, il sistema di colline di Terravecchia, Pojo dell'Aquila e Madonna del Piano presso Grammichele, mostra un altro grosso villaggio siculo, con elementi del I e del II periodo. Ancora una fortezza sicula del III-IV periodo, con sovrapposizioni greche, occupa la vicina cresta montana dei Casazzi ai Sette Feudi. Su un fondo siculo, una trasformazione di usanze si viene effettuando nel sec. VI e nel V - senza che la popolazione abbandoni l'antica sede o sia accresciuta di una nuova - anche nella città che non lungi da Grammichele sorge sul colle del Calvario di Licodia, e la cui esistenza, dai primi periodi siculi, possiamo ininterrottamente seguire fino ai tempi romani e cristiani. Città che appunto per questa assenza di un elemento colonizzatore non è possibile identificare con Eubea, colonia di Leontini, bensì con ogni probabilità, con Morgantina.

A Catana era riservata la piana del Simeto, perché l'Etna con le sue vaste pendici non poteva esser facilmente contestata ai Siculi, i quali sul monte trovano infatti una delle loro provincie più compatte e durature, assai poco intaccate dalla conquista politica greca, se pur aperte ad influssi della civiltà delle colonie. Tra le borgate sicule documentate in ogni parte dell'Etna dagli avanzi archeologici, c'è tutta una serie di grossi accentramenti urbani: Ibla Maggiore, Inessa, Adrano, Centuripe, Agirio ed altre. Ibla dell'Etna - una delle tre città siciliane di questo nome - è forse la prima a subire l'influenza della vicina Catana. La primitiva città sicula giaceva sopra e attorno alla gran rupe isolata vicino a Paternò su cui oggi sorge il torrione medievale. Verso la metà del sec. V, quando la regione era già permeata di elementi ellenici, nella vicina contrada Civita, in una città indigena detta Inessa, si trasferisce quella colonia di Dori, già da Gerone I dedotta a Catana dopo l'espulsione dei Calcidesi, e vi trasporta il nome di Aetna già prima dato a Catana. La vicina Adrano, presso il santuario di una divinità indigena di tal nome, è anch'essa una città sicula, di cui gli avanzi si trovano in contrada Mendolito, nelle forre del Simeto. Essa accoglie già a partire dal sec. VII gl'influssi della civiltà ellenica costiera, finché alla fine del sec. V è trasferita nell'attuale terrazza, dove sussistono ancora mura e torri elleniche. Avanzi ellenici son sovrapposti ai siculi nel sito attuale di Biancavilla. A cavaliere delle ricche vallate del Simeto, del Kyanosoros (Salso) e del Crisa (Dittaino), Centuripe occupava un caratteristico acrocoro a zampa di gallo, dal quale la città non si mosse nei secoli seguenti, quando gli erti suoi speroni furono tutti ricoperti da costruzioni ellenistiche e romane. A nord dell'Etna un importante centro archeologico nelle vicinanze di Randazzo, con suppellettile che va dalla fine del sec. VI a tutto il V, mostra la penetrazione ellenica lungo quel comodo accesso naturale che è la valle dell'Acesine, l'odierno Alcantara. È probabilmente la sicula Tissa che Tolomeo colloca appunto sulle falde dell'Etna.

Tali contatti tra le popolazioni costiere ellenizzate e gli abitanti della zona interna sono anche documentati largamente nella parte centrale e occidentale dell'isola. Lungo la spaccatura del Salso (Imera meridionale), la piena ellenizzazione di nuclei interni d'indigeni già nel secolo VI è attestata, ad una ventina di km. dalla foce, a Ravanusa, nel borgo siculo di Monte Saraceno. Nel sec. V la grecità è pervenuta fino sulla interessante necropoli di Gibiligabì, a poche miglia da Caltanissetta, nella quale sono associate forme funerarie di tipo siculo con vasi a figure rosse, e sulla collina di Vassallaggi tra S. Cataldo e Serradifalco. Dal Belice (Ipsa) penetra verso la elima Entella e forse la sicana Schera l'influenza di Selinunte. Questa estende in un primo tempo la sua azione oltre il capo Granitola, impadronendosi della località di Mazara, ove la foce del fiume omonimo forniva comodo ricetto alle navi; mentre ad oriente domina, al di là del capo S. Marco, la località su cui oggi sorge Sciacca, la quale per i bagni termali alle falde del Monte S. Calogero portava nell'antichità il nome di Terme Selinuntine. Verso est mira a congiungersi allo stato agrigentino, spingendosi fino alle rive del fiume Alico, l'attuale Platani, ove la città di Macara o Minoa riceve una colonia selinuntina ed il nome di Eraclea; mentre per secoli tutta la sua politica mirerà a conquistare attraverso Segesta uno sbocco sul Tirreno, nell'odierno golfo di Castellammare, l'antico emporio segestano. La parte centrale dell'isola è solcata dalle due valli del Platani e del fiume Torto, le cui sorgenti sono divise dalle montagne di Castronovo e di Lercara; valli che da questo crinale si dipartono l'una verso la costa meridionale di Agrigento, l'altra verso quella settentrionale di Imera. In questa spaccatura, immutabile via naturale di passaggio tra l'una e l'altra costa, si insinua il disegno politico dello stato agrigentino, al seguito dell'influenza commerciale, che è denunziata da stazioni ellenizzate o che accolgono oggetti di industria ellenica, quali Sutera, Casteltermini e Mussomeli. Una vera fortezza, quasi al punto di congiunzione delle due valli, è costruita al cadere del sec. VI sull'altipiano (m. 1000) di Cassaro sopra la città di Castronuovo, a dominare l'alto Platani e le comunicazioni verso Imera nel loro punto più delicato. Il disegno di Agrigento si compie con l'estensione della propria autorità verso Imera e sul territorio intermedio, con la conquista della città sicana di Uessa.

Secondo Tucidide, la cui tradizione risale ad Antioco, colonie fenicie avrebbero occupato tutt'intorno alla Sicilia i promontorî e le piccole isole adiacenti, in funzione di emporî di commercio coi Siculi; ma quando i Greci intensificarono la loro navigazione, i Fenici, abbandonate la maggior parte delle loro sedi, si sarebbero ridotti presso la regione degli Elimi, nelle città di Mozia, Panormo e Solunto. Questa tradizione - prima eccessivamente estesa e arricchita di particolari determinazioni (Movers ed altri), quindi giudicata priva di valore (Beloch) apparentemente in accordo coi risultati dell'indagine archeologica - accenna semplicemente e chiaramente alla presenza non di stanziamenti con sovranità territoriale, ma di semplici nuclei di commercianti fenici: piccole fattorie con popolazione avventizia, installate fra i villaggi indigeni, che non potevano lasciare documenti tipici sul luogo. Impossibilitati ad esercitare le mercature nelle colonie elleniche, i Fenici dovettero poi ridursi nella parte occidentale dell'isola, dove crearono o accrebbero le loro basi territoriali.

Rispetto alla più antica epoca greca, i centri abitati della Sicilia hanno subito nel periodo romano fluttuazioni di cui non mancano dirette notizie negli autori contemporanei; ma di maggior valore sono le testimonianze archeologiche, le quali mostrano tante città atteggiate nei loro edifici - terme, teatri, anfiteatri, ninfei - alle fogge romane. Sulla base dei dati che offrono, oltre a Cicerone, principalmente Strabone e Plinio, Tolomeo e l'itinerario di Antonino nonché la Tabula Peutingeriana, è possibile abbozzare una descrizione della Sicilia romana.

Augusto dedusse una colonia a Siracusa, città la quale aveva già raggiunto la sua vastissima estensione comprendente la cosiddetta pentapoli, ma al dire di Strabone occupava ancora, oltre all'isola di Ortigia, anche le parti più vicine della terraferma, dove appunto - nel fòro di Acradina - sono venute in luce le più notevoli antichità romane. Fra le colonie appare anche Catina, che cresce d'importanza nella vita romana dell'isola; la pianura, già detta di Leontini, prende ora nome da essa (Strabone, VI, 241). Dopo Catana, come colonia è ricordata Tauromenio. Megara e Nasso, secondo attesta Strabone, non esistono più. Fra le altre colonie, si trovano sulla costa settentrionale, Tindari, Terme d'Imera che ha sostituito Imera, non più esistente al dire di Strabone, e Panormo. Questa, Colonia Augusta Panhormitana, non appare più chiusa nella stretta ed alta cerchia dell'antica Paleopoli e della Neapoli, ma esce all'intorno, estendendosi verso il fiume Oreto. Fiorenti municipî stanno a fianco delle colonie. Fra di essi, attraverso le contraddittorie notizie degli scrittori e le risultanze delle epigrafi e delle monete, possono annoverarsi anzitutto Messana e Neto. Messana acquista per i Romani una nuova funzione come luogo di collegamento nei rispetti dell'unità peninsulare. Nulla è segnalato di romano nel sito di Neto, che corrisponde alla montana Noto vecchia. Municipî si ritengono anche quattro delle città che il primo ordinamento dichiarava liberae atque immunes: Centuripe, Alesa, Segesta ed Alicia. Alesa, divenuta municipio al tempo di Augusto, si trovava presso l'attuale Tusa, dove son venute in luce alcune antichità. Segesta non mostra nel vecchio sito alcuna traccia romana degna di nota, se si tolga il rifacimento del teatro. È assai probabile perciò che il centro della città si sia spostato verso l'antico Emporio segestano - oggi Castellammare - ricordato da Strabone. Di Alicia siamo appena in grado di indicare il sito presso la collina di Salemi. Fra i municipî è anche documentato da fonti epigrafiche Alunzio, riconosciuto già da Fazello a S. Marco, nella costa settentrionale, e sono annoverate anche alcune città già ascritte alla classe delle decumane; ma non riesce facile la loro sicura identificazione, se si eccettui con ogni probabilità Enna, di cui esistono scarsissime tracce archeologiche. Con Enna è probabile che sia stato municipio Agrigento, la città di maggiore importanza che si affacci col suo emporio sulla costa meridionale della Sicilia, nella quale restano invece disabitate Camarina e Gela, e non molta importanza offrono la nuova Gela, Finzia, nel sito odierno di Licata, sul cui monte sono apparsi frequenti avanzi romani, e alcune stazioni costiere segnalate dagli itinerarî. Queste sono il Refugium Apollinis al Capo Passero, Ereo o Cimbe forse nel lido di Scicli dove non mancano avanzi romani, Mesopotamium, presso l'antica Camarina, e Plaga Calvisiana, punta sulla spiaggia di una più importante città che va cercata, come si crede, a Niscemi; alle quali è da aggiungere Caucana sulla costa di Capo Scalambri, che appare in Tolomeo ed avrà importanza nel successivo periodo bizantino come scalo con Malta, Mazara, che forse era detta la nuova Selinunte, Eraclea già città decumana, alla foce del Platani, e Terme Selinuntine, l'attuale Sciacca, che nel sec. IV appare col nome di Aquae Labodes come notevole stazione itineraria. Da Mazara attraverso Lilibeo, Drepano e la soprastante acropoli di Monte Erice col suo santuario famosissimo di Venere, si raggiunge la costa settentrionale dell'isola. Quivi oltre a colonie e municipî già ricordati, ha vita in età romana una più vasta serie di città che in ogni altra parte di Sicilia; l'interesse che ha perduto la costa meridionale è, con Roma, acquisito a quella tirrena.

Da occidente a oriente si affacciano sul mare, o ne sono poco discoste, Acque Segestane o Pinciane e Cetaria, ambedue nel golfo di Castellammare, la prima alle sorgenti solfuree termali che scaturiscono in grotte delle pendici del Monte Inici, l'altra presso l'attuale tonnara, come indica il nome. Poco oltre, Longarico, già creduta Calatafimi o Alcamo, e da altri Valguarnera, ad Olivam (Vita?) e Parthenicum, del quale gli avanzi d'una villa romana segnano il sito non lontano dall'attuale Partinico. Non lungi sopravvive la vecchia città sicana d'Iccara ancora con il suo antico nome che diverrà in seguito Carini. L'antica città fenicia di Solunto, risorta a nuova vita, offre nella completa rete delle sue insulae l'insieme più organico di monumenti romani della Sicilia. Non lungi da Solunto è l'altra colonia di Terme Imerensi, nei cui dintorni va cercato, con ogni probabilità a Collesano, Paropo. E, poco oltre, Cefaledio occupa la caratteristica roccia già sede di uno stabilimento più antico. In questi dintorni va cercata Apollonia, detta dalle fonti vicina ad Alunzio, e che perciò occupa probabilmente il sito di Pollina. Sulla spiaggia seguono Calacte ed Agatirno: la prima cercata comunemente sulla spiaggia di Caronia alle foci del torrente omonimo; la seconda presso S. Agata di Militello. Sull'alto dei monti, alle origini della fiumara di Reitano, era Amestrato, di cui conserva il nome e il sito l'odierna città di Mistretta. Al di là della colonia di Tindari presso la vasta fiumara del Mazzarà, che corrisponde all'antico Elicona, Abaceno occupava l'alta terrazza di Tripi e, più in fondo, forse Noe sottostava, come opinò il Cluverio, alla capricciosa rocca di Noara o Novara. Infine Mile s'addentrava in mare sul suo tipico promontorio, e a poca distanza, presso Spadafora, l'antico Nauloco, il villaggio dell'Artemisio si stendeva intorno al santuario d'Artemide Facelite.

Girando il Peloro sulla costa orientale troviamo anzitutto il luogo d'imbarco per la traversata dello stretto, il Traiectus. La costa orientale, fra Tauromenio e Catana, presenta Acium, menzionata dagl'itinerarî e da cercare al Capo Molini presso Acireale. Al di là sussiste Leontini e lì presso nel feudo del Murgo la Morganzia marittima di cui si ha notizia in Livio; mentre assai dubbia è l'esistenza di una Simetia da Cluverio cercata sul fiume omonimo a Passo Martino. Oltre Siracusa, il cui suburbio doveva essere anch'esso molto ricco di ville, di vici e di rura, troviamo la città di Ina, nel sito di Vendicari o Cittadella, ricco di tracce di tarda età, ed Eloro sulla foce del fiume omonimo; forse sul fondo di Cava d'Ispica può cercarsi Tyrakè o Tyracinae. Quivi bisogna ricercare, nell'ubertosa piana di Noto e Pachino, quella Tempe eloria ove Demetra venne a cercare Persefone rapita. Pochi abitati, e generalmente di scarsa importanza, nella regione meridionale. Quivi secondo Strabone non esistono più Eubeo e Callipoli; abbiamo ricordo di Abolla, non lungi dal sito di Avola antica, di Mutyca, l'odierna Modica, di Ibla Erea che si cerca generalmente presso Ragusa; ed inoltre di Camarina, la quale non può essere che una località del territorio rinvigorita dopo la distruzione della vecchia Camarina nella prima guerra punica, e sorta nel sito attuale di Comiso, ove più ricchi e cospicui sono gli avanzi romani. Nel medesimo piano camarinense Acrilla ha rivelato le sue tracce nel piano Grillò sotto Chiaramonte, e Bidi, probabilmente, in quel sito dell'opulenta valle di Biscari, che conserva il nome di Bidini; mentre su di esso si affaccia Morgantina dal colle di Licodia. Esiste ancora Acre sul montano acrocoro dell'alto Anapo, e probabilmente nei dintorni immediati una delle due Erbesso, che forse corrisponde a Buscemi. Un Cerretano, ignoto alle fonti, si può postulare, sul nome odierno di Giarratana, dove s'è trovata traccia di una villa e di un pago e, più a nord, Xuthia è certamente Sortino, benché non documentata da avanzi. Alla Cava Grande del Cassibile si cerca anche, senza preciso fondamento, Talaria. Nell'altipiano di Caltagirone, oltre Echetla presso Grammichele e Mene, vecchia città sicula nel sito odierno di Mineo, ricordata fra le decumane da Cicerone, esistevano città segnalate da avanzi, ma cui non è possibile assegnare un nome antico, come Vizzini, mentre per alcune città ricordate dagli antichi manca la possibilità di identificazione e fra queste Erice - al Catalfaro, o a Militello, o a Ramacca - e Palice, che potrebbe essere a Militello. Anche intorno al fertile territorio odierno di Piazza Armerina vanno collocate città e borgate d'età romana e più antica, in buon numero. Pyakos, forse a Piazza Vecchia o a Casale, dove è stato scoperto un grandioso musaico romano, una ignota città, cinta di mura di tipo greco, nella Serra Orlando di Aidone, che si è creduto fosse Erbita, mentre più probabilmente corrisponde a Trinakia. Capitoniana al Mendolo sul fiume Gurnalonga, Filosofiana a Soffiana. Si tratta di un gruppo scaglionato lungo la strada interna degl'itinerarî, da Catana ad Agrigento. Nell'ultimo tratto di questa strada sono anche Calloniana che si cerca a Ravanusa, e Corconiana nei dintorni di Naro: identificazioni improbabili, perché la strada non poteva correre che più a nord. Verso Agrigento - dove è scomparsa, al dire di Strabone, la celebre capitale indigena di Camico - troviamo ancora Cena (Montallegro), Allava (Ribera), località degli itinerarî, e Triocala che il Fazello ha identificato con Caltabellotta; non lungi Schirtea, forse a S. Carlo, e Ancire, nonché Mitistrato presso Marianopoli, Adranon e Macella - ambedue da distinguere dalla ben nota Badranum sull'Etna e da una Macella dei dintorni di Messana - e che rispettivamente si identificano con Sambuca o Palazzo Adriano e Camporeale, ed infine Erbesso di occidente cercata a Grotte o a Realmonte. Pitiana e Comitiana possono essere Raffadali e Castronovo. Ancor più ad occidente, Entella sull'alta rocca di Contessa, Acesta in luogo imprecisabile, Schera che il Cluverio ricerca non lungi da Corleone sui due rami del fiume Belice, Ietae presso S. Giuseppe Iato, Ippana identificata con gli avanzi sulla montagna di Pana presso Prizzi. Evanescente resta l'esistenza di una Nisa, che avrebbe occupato il sito di Caltanissetta, più precisamente il prossimo piano della Clesia, dove esistono evidenti rovine romane, credute per altro quelle di Petiliana, la quale invece si deve cercare a Delia dove l'antico nome sussiste. Due altri gruppi di città sono ancora da ricordare, quello etneo e quell'altro che si sussegue nell'interno, occupando la profonda spaccatura dell'Alcantara - l'antico Acesine - e dei primi bracci del Simeto - l'Hadranios ed il Kyanosoros - e dell'Imera meridionale. Sull'Etna, delle città sicule grecizzate di Ibla Geleate o Maggiore (Paternò), di Inessa alla Civita di Licodia e di Adrano è documentata la vita in età romana. E penetrando nella valle del Simeto, oltre Centuripe che assurge a tanta importanza in età romana, si trovano Ameselo sulla collina di S. Giorgio di Regalbuto, Agirio, Assoro, Galaria forse a Gagliano Castelferrato e Imacara a Rocca di Serlone nel territorio di Nissoria. Sull'aspro Monte Iudica che alla destra del Dittaino domina la vallata di questo fiume e del Gurnalonga, la cresta trapezia conserva oscure rovine di una vera città-fortezza, punto di rifugio di tutto un aggregato di casali che si stendevano attorno al monte; non si tratta, come s'è creduto, di Morgantina e neppure di Erbita o Trinakia o Ameselo, ma probabilmente di Ergezio o Sergezio. A nord dell'Etna si inizia la serie delle città interne, a sud dei Peloritani, dei Nebrodi e dei Maronei, con Tissa, la quale può esser collocata non lungi da Randazzo. Al di là di Randazzo, l'ignoto vico romano di Maniace, di cui è traccia un bel musaico, e quello della piana sotto Bronte - probabile nome antico -, il più importante di tutta una serie di piccoli abitati dei secoli III av. C. e seguenti, disseminati lungo la via fluviale, e quindi l'antica città che occupò il sito di Troina. Ancor più ad occidente Capizio che tramanda il nome all'attuale Capizzi; Engio sulla capricciosa altura di Nicosia, dove s'era creduto di vedere Erbita, la quale sorgeva invece tra Mistretta e S. Stefano di Camastra; poco oltre l'antica Petra, che si ricerca non lungi da Petralia Soprana, presso le sorgenti di uno dei due bracci del fiume Imera. Vi sono ancora molti nomi della tradizione per i quali manca ogni appiglio topografico, anche lontano, per tentare di identificarli con una località moderna; e le epigrafi che forniscono nuovi toponimi, sfuggiti alla tradizione degli scrittori, confermano d'altronde come sia frammentaria la già ricca raccolta di nomi di luogo della Sicilia antica che noi possediamo. Il numero delle località siciliane che hanno dato avanzi romani, tanto maggiore di quelle che hanno rivelato antichità di epoca greca, attesta uno sminuzzamento assai notevole della popolazione. Nell'infrangersi degli stati-città, molte borgate che preesistevano come semplice sobborgo assunsero la loro autonomia comunale, moltissime altre sorsero addirittura.

L'esistenza di veri centri abitati prima dell'arrivo dei Greci fa immaginare un insieme di sentieri già nella Sicilia più antica: ed una prima viabilità dovette accompagnare l'espandersi delle colonie greche. Non mancano indizî concreti di tali strade, quali le "carrate di Xibilia" a Castelluccio e solchi simili nei pressi di molte città greche; né mancano negli scrittori greci e romani accenni a strade e passaggi. Ma tutto ciò rimane necessariamente frammentario. La conoscenza dell'antica viabilità siciliana può quindi fondarsi soltanto su ciò che assai più organicamente emerge dal complesso degli elementi relativi alla viabilità romana, in quanto, là dove una strada romana coincide con un inizio di strada precedente e collega centri abitati esistenti già in epoca greca, si può facilmente ammettere l'antichità di tutto il tracciato. Fonti principali sono l'Itinerario di Antonino e la Tabula Peutingeriana; altri elementi sono offerti da due tardi scritti, la Cosmografia dell'Anonimo Ravennate, che ebbe come fonte un itinerario perduto, e la Geografia di Guidone. Il tracciato topografico non può emergere dagl'itinerarî - dato il dubbio sempre presente sulle distanze - né dalla Tabula, in cui le linee di raccordo sono segnate schematicamente come rette; nondimeno si può ottenere identificazione anche di qualche caposaldo col trarre lumi - naturalmente tenendo conto delle alterazioni succedutesi nel corso del tempo - da condizioni di fatto, più largamente documentate, di epoca posteriore. Confrontando così il percorso delle regie trazzere - che offrono garanzia di tradizionalità conservatrice e quindi di remota antichità - con gl'itinerarî romani e col sistema stradale della descrizione della Sicilia di Edrisi (sec. XII), si può costruire uno schema di carta stradale, con le sue direttive e le sue stazioni. Da Messana, che quale punto di collegamento con la rete stradale della penisola gl'itinerarî segnano come "caput viarum" della Sicilia, si partiva la strada litoranea verso l'occidente, fino al Lilibeo (via Valeria o Pompeia): essa, traversando i Peloritani e passando alla base del promontorio di Mile, superava il capo Tindari e per Alesa, Cefaledio, Imera e Solunto, raggiungeva Panormo; di qui, passando per Terme Segestane e per Drepano, conduceva infine a Lilibeo. Un'altra via conduceva da Messana a Siracusa, attraverso Taormina e Catana. Catana era messa in comunicazione anche con Lilibeo dalla via che toccava Gela, Agrigento e Aquae Labodes (Terme Selinuntine). Molto incerto è il tracciato della via interna tra Agrigento e Panormo. Un'altra via interna, di remota antichità, congiungeva Agrigento con Siracusa, passando per Ibla Erea ed Acre; parallela a questa era la via litoranea Agrigento-Gela-Camarina-Eloro-Siracusa, risalente al tempo in cui fiorivano le colonie greche: l'ultimo suo tratto almeno è ricordato da Tucidide col nome di Heloríne hodós. Una via tra Catina e Terme Imerensi toccava anche Centuripe, Agirio ed Enna; vestigia di alcuni ponti rimangono tuttora presso Paternò e presso Centuripe stessa. Manca nell'Itinerario di Antonino e nella Tabula, ma è attestata dal geografo ravennate e da Guidone la via Enna-Agirio-Amestrato, che probabilmente si congiungeva in Alesa alla strada della costa ad occidente di Panormo. Oltre alle vie che appaiono negl'itinerarî - quelle cioè che in epoca romana furono riconosciute ufficialmente importanti e servite dal "cursus publicus" -, molte altre strade erano più o meno largamente praticate, e di esse sussiste in vario modo qualche ricordo. Così quella lungo cui si svolse la marcia militare prima della battaglia di Agrippa a Mile, cioè quella che da Francavilla per la valle dello Zavianni supera il crinale montano alla Portella Mandrazzi e raggiunge la valle del Mazzarrà presso Novara per spuntare non lungi da Capo d'Orlando; e una via di notevole importanza che partiva da Camarina verso l'interno ed è segnata nel suo primissimo tratto da un fascio di "orbitae tensarum" non lungi dalla porta della città.

Bibl.: Oltre alle notissime opere del Fazello e del Cluverio, e alle Storie di A. Holm e di E. Freeman, vedi la recente opera complessiva: B. Pace, Arte e civiltà nella Sicilia antica, I, Roma 1935, in cui è delineata anche la storia degli studî topografici sulla Sicilia antica.

Arte.

Architettura. - Età greca. - Alcuni frammenti di terracotta colorati e a rilievo di Siracusa, Gela, Monte S. Mauro, ecc. sono probabili reliquie dei primi modesti templi delle colonie greche. Che questi fossero costruiti in massima parte di legno è soltanto un'ipotesi, poiché in Sicilia non vi è documento dell'uso dei mattoni crudi, necessario complemento dell'architettura lignea. Le più antiche costruzioni di pietra pervenuteci risalgono alla fine del sec. VII o al principio del VI a. C. Dopo il tipo predorico del megaron, senza colonne e con cornici egittizzanti, rappresentato a Selinunte dal santuario di Demetra Malophoros (tra il 609 e il 580 a. C.), appare e si afferma il tipo dorico, che in Sicilia fiorisce più che nel continente ellenico. Già alle origini, gli edifici di questo stile presentano caratteri di originalità nella pianta e nell'elevato. Nei templi di tipo arcaico, cui appartengono il cosiddetto Artemision e l'Olympieion di Siracusa (principio sec. VI) e il gruppo più antico dei templi selinuntini (C, D, F [S]: sec. VI), il nucleo è costituito da un lungo sekos, stretto e chiuso, in cui sono state riconosciute influenze varie. Altra forma peculiare nei templi di Selinunte è quella del tempio aperto solo sul davanti, con la cella prolungata da un adyton, imitante il megaron con il thalamos: evidente imposizione della forma dorica su un substrato più antico. L'ordine dorico domina presto completamente, e i templi sorti nei secoli V e IV mostrano le norme di stile e i canoni delle proporzioni fissati dall'esperienza di oltre un secolo. Intermedio per età e tipo tra questi templi e quelli arcaici è il grande tempio G (T) di Selinunte, che per le variazioni introdotte durante la costruzione (550-470 circa) presenta una forma arcaica ad oriente e una classica ad occidente, dove appare l'opistodomo in antis. I principali templi sicelioti del sec. V - in Selinunte, Agrigento, Imera e Siracusa - mostrano il tipo classico, in cui le proporzioni sono più giustamente regolate e le forme conservano una certa gravità, rifuggendo da linee eccessivamente slanciate, quali si notano in templi greci coevi. Una libera trattazione dello stile dorico caratterizza il colossale tempio di Zeus ad Agrigento. Esso presenta analogie con i grandi templi ionici nelle basi delle pseudocolonne e nell'uso, a sostegno della trabeazione, dei telamoni, figure costituite di dodici assise di pezzi, la cui collocazione è incerta. Forme ioniche appaiono nel sec. VI su sarcofagi di Gela, e a Megara Iblea.

Una decorazione a colori vivaci faceva risaltare la parte superiore dei templi sul bianco strato di stucco che rivestiva la costruzione di calcare. Edifici selinuntini hanno offerto i primi più sicuri elementi per lo studio della policromia architettonica greca. Da tutti i templi sicelioti sono venute numerose placche fittili dipinte a fuoco, che rivestivano il fastigio architettonico. Le terrecotte architettoniche conservarono in Sicilia caratteri speciali, per i quali fra le terrecotte di Olimpia quelle appartenenti all'antichissimo tesoro di Gela si distinguono chiaramente come opera di artisti sicelioti. Di diverse sculture fittili resta incerta la funzione architettonica, né si hanno ancora sicuri elementi per la soluzione della questione relativa alla decorazione plastica dei frontoni. Grande sviluppo ebbe anche la decorazione di pietra: così nei templi di Imera e di Agrigento, nell'Athenaion siracusano, e nelle metope dei templi più antichi di Selinunte. Connessi con i templi sono gli edifici raggruppati intorno ad essi in un recinto unitario; ne esistono vestigia a Siracusa, ad Agrigento, specialmente a Selinunte, nel temenos di Demetra.

Di fronte alla copia di elementi che attestano la magnificenza dei templi, frammentaria è la documentazione relativa all'architettura civile. In prevalenza, case rettangolari a vano unico (Siracusa), spesso, per speciali condizioni del terreno, abitazioni semisotterranee (Siracusa, Agrigento): dimore modeste, senza pretese d'arte. Più chiaramente appare la regolare disposizione di strade e case, analoga a quella attribuita ad Ippodamo di Mileto (secolo V); ma l'esistenza di un regolarissimo piano stradale nell'anonimo centro di Monte Casale (sec. VII-VI), le cui case poggiano direttamente sulle capanne di un villaggio siculo del I periodo, induce a porre in relazione questo sistema (che trova riscontro a Siracusa, Selinunte, Megara Iblea) con la disposizione che si riscontra nei villaggi siculi ed anche nelle terramare italiche.

Fra le costruzioni militari sta in prima linea il castello Eurialo di Siracusa: di un altro castello, d' origine certamente greca, sebbene con abbondanti rifacimenti medievali, esistono rovine presso Leontini: esso è ispirato al tipo dell'Eurialo. La cinta di mura di Selinunte, che nella sua forma attuale risale in maggior parte alla colonia di Ermocrate, è un poligono irregolare con rare opere di fiancheggiamento e cinque robuste torri quadrate; vi sono fossati e una torre che difende l'acropoli dall'ingresso nord, e che risale probabilmente ad un'epoca anteriore alla colonia d'Ermocrate. Di mura e torri in quasi tutte le antiche città siceliote esistono ruderi notevoli: del sec. VI a Megara Iblea, dell'età di Dionisio ad Adrano e, di costruzione isotoma, a Tindari; pochi avanzi confermano la fama delle salde mura di Agrigento. Ai Punici si attribuiscono fortificazioni che, non ostante la loro apparenza di alta antichità, appartengono quasi tutte ad età molto progredita. Tengono il primo posto le mura del santuario di Astarte in Erice, che i Greci attribuivano a Dedalo. Con esse si sogliono ricordare, come antichissime, le costruzioni di Mozia, della cosiddetta acropoli del Castellaccio presso Imera e forse anche avanzi in Segesta, Cefalù e altrove; ma è incerto se non si tratti piuttosto di opere di tecnica assolutamente greca.

Degli otto antichi teatri esistenti in Sicilia, sei - a Siracusa, Segesta, Tindari, Acre, Eraclea Minoa ed Eloro - riconoscono, come pare, origine greca, pur essendo stati in varia misura rifatti in età romana. Quello di Siracusa, uno dei più grandi dell'antichità greca, risale probabilmente a quella generale rinascenza delle città orientali della Sicilia, dovuta a Gerone I. Qui, non meno che a Segesta, e più tardi a Taormina, si rivela il grande studio posto dagli architetti nella scelta di una orientazione che permettesse il migliore sfondo scenico naturale.

Acquedotti e serbatoi furono eseguiti in Sicilia, oltre che per le grandi città, talora anche per villaggi e fattorie. Tra le numerose opere per il rifornimento idrico di Agrigento, andarono famosi gli acquedotti costruiti dall'architetto Feace. A Siracusa una rete molto complessa, e non del tutto nota, di acquedotti grandi e piccoli, distribuiva ai quartieri della città le acque della terrazza siracusana. La massima parte di queste opere è di origine greca; esse furono limitatamente accresciute e modificate dai Romani. Più all'ingegneria che all'architettura spettano i lavori di bonifica di Selinunte, diretti, come è tradizione, da Empedocle, e quelli di Camarina. Di opere portuali si hanno notizie, e sono apparsi ruderi, in varî luoghi della Sicilia.

L'esplorazione di alcune necropoli della parte orientale e meridionale dell'isola ha fornito elementi preziosi sulla struttura e la disposizione interna del sepolcro.

Non presentano molto interesse i sepolcri costituiti da più pezzi d'arenaria posti di coltello, fra i quali taluni raggiungono le proporzioni di vere cellette ipogeiche. Più importanti sono alcuni sarcofagi di pietra e di terracotta che s'ispirano alla grande architettura, nella disposizione del tetto, del frontone e nello spirito della decorazione. Uno di marmo squisitamente intagliato, di Agrigento, ed uno di Selinunte, sono ispirati all'architettura dorica. Un sarcofago di età ellenistica proveniente da Bassalagi ha una ricchissima policromia. Non mancano nelle necropoli resti della decorazione esteriore dei sepolcri, sebbene essi abbiano subito i maggiori danni; si sono rinvenuti, con frequenza, avanzi di piccole stele, cippi, edicolette. Anche di sepolcri grandiosi e monumentali resta ricordo nella tradizione letteraria; esiste tuttavia presso Noto un grandioso monumento, "la Pizzuta", alta colonna composta di pezzi sovrapposti senza cemento, elevantesi su quattro gradini e sovrapposta a una camera sepolcrale, rimaneggiata in epoca tarda (sec. III a. C.). Dei sepolcri siracusani possono dare un'idea le camere sepolcrali con fronti architettoniche dei Grotticelli.

Una notevole attività costruttiva è documentata per il regno di Gerone II. Le fonti conservano i nomi di alcuni architetti: Dioclide, originario di Abdera, incaricato da Gerone della direzione di opere pubbliche, e Filea da Tauromenio, che insieme con Archia da Corinto costruì la grande nave reale donata a Tolomeo di Egitto, descrittaci dal siracusano Moschione. Poco è noto dei numerosi edifici attribuiti al regno di Gerone: una casa regia per sostituire quella distrutta da Timoleonte, templi, ginnasî, arsenali, granai. A Siracusa rimane in tutta la sua grandiosità l'Ara.

Età romana. - La Sicilia non subì in arte variazioni sensibili per la conquista romana: tuttavia l'architettura assunse caratteri diversi non per gli elementi, ma per l'insieme e le finalità degli edifici. A fianco a qualche tempietto di tradizione puramente greca, il tempio B di Selinunte, l'oratorio di Falaride, ionico-dorico, ad Agrigento, il Serapeo di Taormina, sorgono teatri, ginnasî, terme, e soprattutto opere idrauliche ed anfiteatri. Anche la tecnica subisce variazioni, perché allato ai conci di arenaria sono adottati i sistemi a mattoni e calcestruzzo. I teatri greci di Siracusa e di Segesta subirono in questa età rifacimenti soprattutto nella scena; in quello di Tindari esistono avanzi di mattoni di corpi sporgenti dalla scena verso l'orchestra, caratteristici della disposizione del teatro romano. Prettamente romani, anche per i criterî architettonici e costruttivi, sono i teatri di Catania e Taormina, e gli odea di Acre e di Catania. Rovine di tre anfiteatri, sorti a un dipresso nel sec. I dell'Impero, esistono a Siracusa, a Catania e a Terme Imerensi. Dei numerosi gymnasia esiste quello di Siracusa, da identificare probabilmente col celebre Timoleonteo ampliato e adorno di una grande esedra. La Sicilia romana conserva copia di bagni, conserve d'acque, ninfei e acquedotti, tra cui quello di Terme Imerensi, l'acquedotto Cornelio, la più grandiosa costruzione del genere che abbia l'isola. Il complesso della città romana è specialmente illustrato dalle rovine di Solunto, le quali, abbandonate assai presto, non patirono sovrapposizioni di abitato; sicché offrono quasi intatta la pianta, divisa in insulae da vie regolari. Nelle vecchie case, generalmente povere, raramente si riconosce la nota disposizione della casa romana, che invece appare assai più chiara nella colonia romana di Panormo. Forte persistenza della tradizione greca presenta una grande casa di Agrigento, presso S. Nicola, con peristilio e atrio di tipo corrispondente a quello descritto da Vitruvio. Le necropoli di questa età non sono sempre differenziabili da quelle ellenistiche e neo-cristiane. Si può tuttavia indicare in qualche monumento di Catania e Taormina una sicura influenza dell'architettura funeraria romana. La cosiddetta tomba di Terone ad Agrigento ricorda monumenti dell'Africa settentrionale. Gli scarsi elementi decorativi scampati alla distruzione medievale non permettono una larga analisi, tuttavia alcuni elementi ad Agrigento e altrove fanno scorgere un'influenza dei buoni tipi ornamentali augustei, mentre il tempio B di Selinunte e l'oratorio di Falaride di Agrigento mostrano la persistenza di una tradizione architettonica greca; essa è contemporanea e richiama le delicate forme del periodo del tufo a Pompei, della prima metà del sec. II a. C. Ma al principio dell'Impero appare una nuova orientazione. Molti bei capitelli corinzî tardi richiamano tipi originarî delle grandi città dell'Asia Minore e della Siria. Dalla diffusione nei varî centri dell'isola di questi tipi si deduce una vera corrente d'influenza, alimentata dalle relazioni che allora legavano la Sicilia, l'Anatolia e la Siria. Anche negli edifici eretti per il nuovo culto cristiano, lo spirito animatore è sempre classico e più particolarmente romano, e si fanno sentire influenze asiatiche ed africane.

Scultura. - Il periodo arcaico. - I più antichi documenti della plastica in Sicilia sono rozzi xoana la cui età è compresa tra la fine del sec. VIII e il principio del VII a. C. Uno da Megara Iblea, di bianco calcare siracusano, è rigidamente chiuso nel chitone da cui escono piccole avambraccia e grossi piedi riuniti. Simile a questo è un altro di Gela, frammentario. Più progredite e più significative sono tre sculture di diversa provenienza: un torso di Acre, con ampio petto e capelli ricadenti dietro le spalle in larga massa regolare, una figura femminile in un bassorilievo da Selinunte, vestita di chitone stretto ai fianchi, la quale sostiene un arco (Artemide); infine la grossa testa di Laianello, cinta di polos, dai grandi occhi piatti. Da queste statue, lavorate con la tecnica del legno, e da alcune terrecotte, è evidente che la più antica arte siceliota appartiene alla corrente dedalica. A questi primi tentativi si riannoda la serie insigne delle più antiche sculture di Selinunte. Snellezza e grazia, pur primitiva, di forme, libertà e slancio di movimenti avvivano le tre piccole metope arcaiche rappresentanti Europa sul toro, una sfinge, e la lotta di Eracle col toro; l'assenza di modellazione nelle figure, e particolari ornamentali lontani dal vero sono caratteri di alto arcaismo. Per qualche tratto di arte progredita, esse sono state ritenute da alcuni posteriori alle metope del tempio C; ma sia le une sia le altre non possono risalire ad età molto diverse e cioè ai primi decennî del sec. VI. Analogie con queste metope presenta un rilievo in calcare, da Monte S. Mauro, presso Caltagirone, ove sorse una colonia di Gela d'ignoto nome. Nella zona superiore due gruppi di satiri danzano intorno ad una figura che reggeva una oinocoe; inferiormente due sfingi sono addossate, e lo spazio fra le loro teste è riempito da due palmette. Lo stile è già disciplinato, e mentre presenta legami con l'arte dorica del continente, per lo schema dei due mostri si ricollega alla metope della sfinge. La finezza del trattamento in questo rilievo, attribuito al sec. VI, è stata considerata un riflesso della tecnica del bronzo. Non par dubbio che l'impressione di arte progredita data da queste opere sia da riferire ad elementi orientali e ionici, penetrati per opera dei coloni calcidesi e rodî di Gela e di Agrigento. Tuttavia le sculture vanno per le loro qualità fondamentali alla corrente dorica. Le famose metope che decoravano il tempio C di Selinunte nel suo lato orientale sono scolpite ad altorilievo, e in parte a tutto tondo, nel tenero calcare delle vicine cave di Menfi. Una rappresenta Perseo che recide la testa a Medusa; l'altra Eracle con due Cercopi; la terza infine una quadriga di fronte. Peculiarità dell'esecuzione sono la sproporzione nelle parti, le forme grosse e massicce, i gesti tardi, gli occhi grossi e obliqui, mentre, per ignoranza di leggi prospettiche, vengono evitati gli scorci con ingenui ripieghi. Notevoli somiglianze di tecnica e di stile esistono fra queste metope e rilievi di Sparta. Somiglianze del pari manifeste esistono con alcune figure del tempio arcaico di Corfù, con il quale, del resto, il tempio C ha anche in comune quella terminazione ad arco acuto dei triglifi che non si riscontra altrove. Infine le teste larghe e quadrate di Atena, di Perseo, di Eracle hanno spiccate analogie con le prime statue del Peloponneso. Tutte queste analogie riportano ad un campo dorico, e dorico è lo spirito di simmetria, evidente nella composizione non meno che nelle dimensioni delle varie metope. Selinunte stessa ha conservato i frammenti inferiori di due altre metope del tempio F, che rappresentano episodî della gigantomachia. Il movimento, la conoscenza della plasticità, il pathos rivelano un'arte notevolmente progredita di fronte a quella arcaicissima del tempio C, e preannunziano le nobili sculture dello Heraion. Le metope con la gigantomachia attestano così lo svolgimento ininterrotto dell'arte selinuntina, documentata anche, per il periodo ad esso precedente, da frammenti di metope dell'opistodomo del tempio C, e da un rilievo (della Gaggera, presso Segesta), in cui una donna è rappresentata in fuga dinnanzi a un uomo barbuto. Le sculture del tempio F trovano una certa rispondenza nel frontone del tesoro dei Megaresi in Olimpia, opera probabilmente più antica. Il complesso di sculture dello Heraion si compone di quattro metope: una quinta (Apollo e Dafne?) è in pessime condizioni di superficie. Una rappresenta la lotta di Atena contro Encelado, le altre, Eracle che abbatte un'Amazzone, Atteone sbranato da tre cani, alla presenza di Artemide, ed infine, le sacre nozze di Era con Zeus. Un effetto policromo, ottenuto riportando in marmo sul calcare le parti nude della persona femminile, avviva queste metope, scolpite con padronanza di mezzi tecnici e sapiente composizione, in uno stile grandioso con un gradevole resto di arcaismo. Analogie e somiglianze tanto con sculture peloponnesiache, specialmente di Olimpia, quanto con attiche, trovano una probabile spiegazione nella duplice corrente da cui fu pervasa l'arte dorica nell'età di queste metope, che risalgono alla metà del sec. V. Dei monumenti all'incirca coevi o legati allo stesso indirizzo artistico, alcuni rivelano intimo carattere ionico-attico, come un rilievo di Selinunte con Eos e Cefalo, una meravigliosa statua sedente, in terracotta (una dea?), rinvenuta a Terravecchia di Grammichele. Una statua appartenente a questa corrente ionica siceliota può essere identificata sulla scorta delle raffigurazioni di Artemide su monete di Augusto aventi l'iscrizione Sicil. Alla stessa tendenza riconduce un'Atena Promachos, che appare su monete di Agatocle. L'influenza di modelli ionici e attici è evidente anche nella forma della quadriga del Damareteo. L'elemento rodio di Gela e Agrigento ha impresso caratteri particolari in un rilievo di Gela, con Afrodite e il capro, e in una bella serie di terrecotte arcaiche che richiamano forme e tipi rodî. La tendenza dorica appare nell'efebo in bronzo scoperto a Castelvetrano (Selinunte), opera rude e non armoniosa, in cui si è visto il riflesso di un'arte provinciale; esso presenta qualche somiglianza con l'immagine del fiume Selino sulle monete del sec. V. Un altro efebo in marmo, da Agrigento, di tipo dorico del sec. V, è invece espressione caratteristica di un'arte più matura. A quest'arte richiama anche la testa marmorea di Zeus della Gaggera. Un noto tipo dorico di statue muliebri vestite di peplo, di cui esempî celebri sono le danzatrici di Ercolano, è rappresentato in una serie di belle statue fittili scoperte a Inessa, Gela, Catania, Camarina, e in una di marmo, più recente, di Siracusa. La stessa tendenza artistica si rivela nei bronzetti del guerriero arcaico di Agrigento e dell'efebo di Adrano, riferito da E. Langlotz alla scuola di Pitagora di Reggio; e, fra le terrecotte, nei primi esemplari di una bellissima serie di busti di una divinità modiata, che a metà del sec. VI cominciano ad apparire in Sicilia e che in seguito costituiscono un tipo siceliota di grande bellezza e originalità, nel grande acroterio da Camarina, in figura di cavaliere, e nella Gorgone del temenos di Atena in Siracusa. Da questo tempio e da quello di Imera provengono le belle grondaie leonine di pietra, policrome.

Così dai primi lavori, che riproducono tipi di origine cretese, un graduale svolgimento conduce alle composizioni delle più antiche metope. Le sculture siciliane già nel periodo arcaico rappresentano quindi un complesso dotato di caratteri proprî - una costante gravità, un sano realismo nelle espressioni dei sentimenti, e anche peculiarità di esecuzione - di fronte ai quali i legami con opere di altre regioni greche valgono solo a significare che nell'arte dell'isola, aperta a molte e varie influenze, predomina, anzi ne costituisce il fondo, la corrente dorica; con cui però si fondono elementi ionico-attici e motivi rodî, dando origine a una corrente eclettica. La tradizione letteraria tace relativamente all'arte siceliota arcaica: della storiografia siciliana più antica si sono salvate soltanto rarissime e frammentarie menzioni di artisti (Perillo agrigentino, in relazione al toro di Falaride) e di opere d'arte.

Il periodo dei maestri monetieri. - Verso la metà del sec. V anche in Sicilia prevale il gusto attico. Fioriscono allora le manifestazioni più originali dell'arte siceliota: i bellissimi busti fittili di divinità col modio e le monete. La ricca serie dei busti modiati, apparsa con carattere spiccatamente dorico verso la metà del sec. VI, si svolge per più di un secolo sotto l'influsso di elementi stilistici attici, raggiungendo il più alto grado di perfezione nell'ultimo quarto del sec. V. L'unità di caratteri fondamentali conservati in uno svolgimento stilistico che giunge al periodo ellenistico, e l'assenza, fuori della Sicilia, di questo tipo, o di un'opera della grande arte cui si possa riferire la sua ispirazione, giustificano l'opinione che si tratti di un tipo sorto in Sicilia in relazione con il culto di Demetra e Core: opinione confermata dalle analogie di questi busti con altre terrecotte siceliote di carattere rituale. Intimamente connesso per tipo e stile con i più severi busti fittili è un rilievo in calcare da Camaro (Messina) rappresentante tre divinità femminili. Le medesime tendenze sono evidenti nei conî di questo periodo, opere di artisti insigni, tra i quali eccellono Eveneto (v.) e Cimone (v. anche appresso: p. 681; siracusa: Monete). Il tipo coroplastico di Demetra e i tipi monetali presentano chiaramente i caratteri dell'arte siceliota di quel tempo, in cui sul fondo dorico agiva fortemente l'influenza del gusto attico. Partecipi degli stessi caratteri dovevano essere altre opere d'arte di questa età, delle quali rimane solo il ricordo nella tradizione letteraria e lo schema in monete di epoca romana. Completamente perdute sono alcune sculture del tempio di Zeus ad Agrigento, celebrate da Diodoro Siculo per la loro bellezza e grandezza. La tradizione di questo stile locale si fa sentire a lungo: nell'età di Agatocle e di Iceta, e più tardi nelle monete di Gerone II e in altre coeve di Centuripe vi è ancora un riflesso dell'arte di Cimone e di Eveneto, mentre nei tardi esemplari della serie dei busti di Demetra e Core sino in epoca romana sopravvive l'arte dei coroplasti dei secoli V e IV. È però una tenue corrente di sopravvivenza, perché l'attività degli scultori tende sempre più alla ripetizione dei tipi celebri dell'arte ormai divenuta koiné. Non però tutte le opere rimaste, che rientrano nell'ambito di quest'arte, devono attribuirsi a scultori non sicelioti: accanto ad opere importate vi dovevano essere quelle di origine locale. La produzione del periodo arcaico non poté certo cessare del tutto quando dal sec. V venne in uso il marmo al posto del poros.

Lavori di diverse età, con caratteri estranei all'arte propriamente siceliota, sono da considerarsi opere dell'elemento semitico dell'Isola, o almeno compiute sotto la diretta ispirazione di quello. Primeggia tra essi una statua in poros, da Solunto: una figura vestita di lunga tunica e assisa su un trono fiancheggiato da due sfingi alate. L'influenza orientale è evidente nel gruppo di un toro sbranato da due leoni, che decora una porta di Mozia, e in una scultura in poros, da Mistretta, frammento di un gruppo con un vitello atterrato da un leone. Elementi minori e più recenti di quest'arte son rappresentati da intagli di gemme con teste di tipo orientale o combattimenti di animali, e a Mozia, da una stele con figura vestita di peplo, le braccia cadenti lungo il corpo, e da due rilievi rappresentanti sfingi. L'influenza della cultura ellenica si estende presto sulle città fenicie e si avverte nei due sarcofagi antropoidi, scoperti alla Cannita, presso Palermo.

Dall'età di Gerone alla conquista romana. - L'insolita copia di notizie relative alle arti, offerte dalla tradizione letteraria per il regno di Gerone II, in contrasto con la scarsezza dei dati per le età anteriori, non implica necessariamente l'idea di una rifioritura. È probabile tuttavia che anche in Siracusa si verificasse allora quel fenomeno di sfarzo e ricchezza comune al mondo ellenistico; e ciò confermano i documenti della plastica. Pausania ha conservato il nome di uno scultore siracusano di questo periodo: Micone, figlio di Nicerato. Di lui esistevano in Olimpia due statue di bronzo del re Gerone; e una malsicura notizia di Taziano gli attribuiva anche un vitello e una Nike. Nell'uniformità crescente del gusto ellenistico diviene sempre più difficile distinguere gli elementi locali; è tuttavia chiara la tendenza al gusto alessandrino. Fin dall'età di Agatocle, le monete rivelano nel sistema adottato e nei caratteri stilistici un forte influsso dell'arte alessandrina, il quale continua sotto Iceta e sotto Pirro, e trionfa decisamente con Gerone, che introduce per primo il ritratto nel diritto. Genuina continuazione dell'arte puramente siceliota sono i cosiddetti "Santoni" di Acre: rigide figure ad altorilievo dentro riquadri, scolpite in una parete rocciosa presso Acre. In quasi tutte campeggia una figura femminile, vestita di lungo chitone, in piedi, ora seduta, con l'asta o lo scudo; le stanno presso figure minori in numero e atteggiamenti diversi. La dea, cui nella più importante di queste rappresentazioni sono associati un piccolo Ermes e un cane festante, è probabilmente Persefone. I rilievi sono certamente in relazione con una necropoli di età ellenistica o romana: si tratta quindi di rappresentazioni allusive all'Ades che presentano analogie con altri monumenti di proporzioni minori, di Neto, Siracusa e di altre località di Sicilia e di Grecia: piccole nicchie destinate ad accogliere rilievi e dipinti, dedicate al culto dei morti o ex-voto a divinità. I Santoni di Acre dànno un'impressione di stile severo con veri resti di arcaismo in taluni punti; ma un attento esame dimostra che sono opere di età progredita, nelle quali gli ingenui caratteri arcaici non rappresentano artificiosi ritorni all'antico ma sopravvivenze. Il dominio del gusto alessandrino appare anche nelle statuette di terracotta riproducenti i modelli cari al mondo ellenistico, largamente diffuse in Sicilia e fabbricate soprattutto a Centuripe; si avverte anche in quelle opere della statuaria, di cui assai raramente si può stabilire, e con criterî non stilistici, l'origine locale. Tale è con molta probabilità un rilievo marmoreo trovato nel mare presso Agrigento con due teste identificate come ritratti di Gerone e di Filistide. Un grandioso Zeus in piedi, da Tindari, è un lavoro romano riproducente il tipo ellenistico di Zeus Urios, che aveva culto in Siracusa. Sicuramente locale, perché lavorato nel finissimo calcare detto di Siracusa, è un colossale Zeus in trono di Solunto, il quale, insieme con i rilievi di due colonnine del trono, documenta che le correnti della grande arte giungevano nelle officine degli artisti siciliani. La nota replica di Siracusa del tipo prassitelico di Afrodite Cnidia è il lavoro più bello della lunga serie di queste sculture, quasi sempre copie di opere più antiche. Notevoli fra esse sono un efebo, graziosa copia romana dalla molle superficie prassitelica; uno Zeus di tipo pergameno dell'Ara di Gerone; un sarcofago da Agrigento con rappresentazioni relative all'episodio di Ippolito e Fedra, pregevole lavoro dell'età degli Antonini. Un nobilissimo esempio di ritratto virile romano del primo secolo dell'impero, proviene da una villa presso Partinico. Le varie città dell'isola erano in questo periodo ricche di opere di scultura, dovute talora ad artisti forestieri, come appare dalle firme di Glicone ateniese e di Zenone di Afrodisia, ma in parte anche lavorati da scultori siciliani. Esplicite testimonianze, letterarie ed epigrafiche, parlano della produzione locale di sculture in età romana. Accanto alla statuaria di marmo persisteva la coroplastica con i soliti tipi diffusi in epoca imperiale: fanciulli, nereidi, Afrodite, Artemide, ecc.; alcune figurine del museo di Palermo, riflettono la serie commerciale di statue di magistrati. La monetazione finisce all'inizio dell'età imperiale, con tipi dettati da varie correnti religiose; il disegno è andante, l'esecuzione sommaria.

Pittura. - Una soddisfacente ricostruzione dello svolgimento di questa arte in Sicilia non è consentita dalla scarsezza dei documenti. Le fonti scritte dànno notizia di un pittore, Damofilo di Imera, che fu uno dei maestri di Zeusi e fiorì quindi verso la metà del sec. V. Cicerone nelle Verrine accenna ad alcune tavole dipinte, con una battaglia di Agatocle, che decoravano le pareti della cella del tempio di Atena a Siracusa, e ricorda ventisette ritratti di tiranni sicelioti esistenti nello stesso tempio. Alla Sicilia si legano due ceramisti di cui ci son pervenute opere firmate: Sikanós e Sikelós. Del primo resta una tazza dell'ultimo periodo dello stile severo, rappresentante Artemide; di Sikelós un'anfora panatenaica con Atena fra due colonne. Poiché è noto che altri pittori vascolari presero il nome dalla loro regione, non cade dubbio sull'origine di questi due artisti, Siciliani stabiliti nell'Attica: la loro arte si svolge però con caratteristiche assolutamente attiche. Stele dipinte si incontrano in alcune necropoli di Sicilia; fra esse eccelle il bel tegolo e coronamento di cippo, scoperto presso Siracusa, adorno di due uccelli, di color chiaro, a fondo risparmiato, sopra una tinta cupa, in origine rossa o azzurra. A questa stessa classe di monumenti, ma ad epoca romana, appartiene un gruppo di edicole, scoperte a Lilibeo, scolpite in pietra ricoperta di stucco con una sovraccarica decorazione di festoni, frutta, figurine od oggetti di uso domestico; appaiono anche le melograne e la mezzaluna, il caduceo e il simbolo punico di Tanit. Nel fondo dell'edicola è rappresentata la scena del banchetto funebre. Il disegno assai difettoso e la tecnica sommaria indicano l'opera di modesti artigiani che seguono una tradizione locale imbarbarita da elementi provinciali e semitici. Ben diverso valore artistico hanno invece frammenti di vasi ellenistici di fabbrica centuripina, in cui al rilievo policromo è accoppiato il dipinto a tempera. Sul più importante esemplare, prezioso unicum nella storia delle arti siciliane, si scorgono un giovane nudo e un fanciullo coronati di vite: probabilmente Dioniso e Ampelos; a sinistra una giovane donna, di severa bellezza, forse una ninfa. Ammirevole è l'espressione del volto delle figure, e i particolari sono indicati con larga ombreggiatura. I riscontri che offrono le stele di Pagasai e alcuni tra i più antichi ritratti del Fayyūm, svelano come tutta questa ceramica, della fine del sec. III a. C., risenta l'influenza alessandrina. A questa medesima corrente va riferita l'ispirazione dei migliori musaici di Sicilia, a cominciare da quello ricordato nella descrizione della nave di Gerone. Il musaico della "caccia", scoperto in Palermo, è forse il più ragguardevole documento conservato di questa tendenza. Degno di nota è anche il "Teseo con il Minotauro" di Lilibeo. Gli altri musaici della Paleopoli di Palermo hanno diverso carattere: così la goffa composizione dell'Orfeo con gli animali, e il pavimento con le divinità. Nei musaici di Lilibeo e di Bronte è progredito un certo schematismo geometrico. Il musaico basilicale di Carini rappresenta il limite estremo di questa tendenza, probabilmente dovuta agl'influssi dell'arte musiva dell'Africa settentrionale. Ma della pittura decorativa romana non mancano in Sicilia avanzi diretti che seguono il gusto comune rivelato da Pompei. Il più ragguardevole è la decorazione di un edificio in cima alla montagna di Solunto con festoni di frutta e foglie, larghe bende a ricami e maschere tragiche. Un ultimo esempio di pittura decorativa si trova nelle vòlte delle catacombe di Lilibeo, che non si distaccano molto dai primi esempî delle catacombe romane.

Glittica. - È presumibile che la Sicilia, che ebbe così felici maestri monetieri, abbia prodotto gemme incise in gran numero. Non vi è un criterio sicuro per riconoscere quali pietre incise pervenuteci siano di lavorazione siceliota; per le gemme infatti il luogo di rinvenimento non ha valore; e poiché la massima parte di esse appartiene ad età ellenistica e romana, non sempre offre elementi l'esame dello stile o dei tipi, che si aggirano sui soggetti più comuni. Un interesse particolare ha la serie insigne delle cretule selinuntine (raccolte e studiate da A. Salinas) trovate tra le rovine del tempio C (v. fig. vol. XVII, p. 424). È evidente che la maggior parte delle gemme da cui vennero fuori le cretule erano destinate a Selinunte, e quindi è probabile che gli artefici di queste pietre dure fossero sicelioti o dimoranti in Sicilia. Certamente è assai probabile la congettura che gl'incisori di monete abbiano lavorato anche pietre dure: così Frigillo, di cui si è rinvenuta una gemma firmata a Siracusa, ed Eveneto, per una gemma con la lotta di Eracle e il leone, copia fedelissima dei suoi stateri. Fra le pietre dure adoperate per la glittica, gli antichi conoscevano l'esistenza in Sicilia dell'agata e dello smeraldo. Un'altra classe di prodotti dell'incisione è rappresentata dai piombi mercantili, ottenuti con matrici di acciaio, di uso essenzialmente siceliota: attaccati ai tessuti, ne dichiaravano la fabbrica o attestavano il pagamento delle dogane. Essi sono decorati generalmente di tipi semplici, e risalgono ai tempi migliori dell'arte greca.

Bronzi e gioielli. - La diffusione di oggetti preziosi e di bronzi artistici in Sicilia è testimoniata da una lunga serie di notizie. Tali oggetti, almeno in parte, erano dovuti a chrysochói e chalkéis locali, testimoniati anche da indizî delle fonti letterarie. Esistono parecchi ricordi di nikai e di tripodi, inviati come dono dai sovrani sicelioti, e che erano senza dubbio di produzione locale. Particolari sulla natura e i caratteri di questi prodotti dell'industria artistica si possono ricavare da alcune terrecotte o monete in cui è possibile riconoscere dei gioielli, presumibilmente di fabbricazione locale; orecchini a globetti furono ritrovati nelle necropoli. Accanto ai santuarî, come ad Erice, doveva vivere l'industria dell'orefice. Per i grandi lavori di toreutica, istruttiva è la descrizione di Cicerone dell'officina che Verre improvvisò per trasformare gli oggetti d'arte rubati. Con numerose notizie viene testimoniata l'arte del bronzo, la quale dovette anche servire di sussidio alla costruzione navale; il centro più importante di essa e del commercio dei bronzi era Siracusa.

Terrecotte e ceramiche. - Grandi rilievi, statue o figurine in terracotta si trovano in tanto numero in Sicilia da testimoniare una particolare diffusione di quest'attività artistica. È probabile che la mancanza di marmi statuarî locali abbia obbligato molti artisti sicelioti alla modellazione in argilla. Tra le coroplastiche siceliote possono distinguersi grandi statue modellate in gran parte a mano, splendida specialità dell'arte locale; statuine in tutto tondo per il culto ottenute a stampo; rilievi ottenuti a stampo e ritoccati a stecca per decorazione di edifici o pinakes da ex-voto; basi (arulette) con bassorilievi; sarcofagi con decorazione, ottenuta con stampi e rulli, e vivificata dal colore; grandi piatti circolari (dískoi) coi loro sostegni o trapezofori, e píthoi per l'acqua lustrale, decorati a stampo per mezzo di rulli; grandi cilindri, in forma di cippi (bomískoi), con decorazione architettonica e floreale; infine placche di terracotta a rilievo, dipinte a fuoco, adoperate come decorazione architettonica.

L'industria vascolare nella Sicilia antica è testimoniata da alcune constatazioni e da notizie delle fonti. I vasi usciti dalle necropoli dell'isola furono certamente importati; ma l'esistenza di fabbriche ceramiche di tipo ellenico in Sicilia emerge da tutto un complesso di dati di fatto. Talune ceramiche a rilievo ebbero in Sicilia particolare sviluppo, per la diffusione della toreutica, i cui prodotti volevano imitare, e della coroplastica, sotto il cui influsso tecnico ebbero origine e svolgimento; il loro luogo di produzione è Centuripe. Questa ceramica centuripina, adorna di rilievi policromi a base di elementi vegetali e architettonici, è talvolta nobilitata da dipinti a tempera, che richiamano la pittura parietale ellenistica. L'influenza dei modelli alessandrini è manifesta anche nei motivi a rilievo; la fabbricazione va riportata al cadere del sec. III a. C. Ad Agrigento si son rinvenute delle "forme" destinate a produrre quegli emblemata o sigilla con figure umane, lavorate a parte, e "incastonate" nel vaso, come era moda nella toreutica ellenistica. L'industria, fondamentalmente unica, assumeva nei varî centri di produzione caratteri proprî assai visibili.

Non pare probabile che nel periodo intermedio tra gli eleganti prodotti del IV periodo siculo, che i ceramisti della Sicilia diedero sino al sec. VI e i vasi di Centuripe apparsi sul finire del sec. III, sia venuto meno ogni tentativo di produrre ceramiche d'arte; e infatti alcuni dei vasi figurati scoperti nell'isola vanno attribuiti, per speciali caratteri, a fabbriche locali. Il cratere a campana da Lipari, con la scena del venditore di tonno, non può verosimilmente riferirsi, per il soggetto, se non alla Sicilia; le caratteristiche di questo vaso si ritrovano in alcune ceramiche del pari provenienti da Lipari.

Caratteri tecnici (vernice scadente) e formali nel disegno fanno collegare a questi vasi una oinocoe di Buccheri, con una rappresentazione che è forse la parodia di una tragedia. I soggetti di questi vasi, relativi a motivi comici, inducono a prospettare l'ipotesi che possano riferirsi a fabbriche siceliote anche alcuni dei vasi fliacici, ad es. lo skyphos di Centuripe. Un avviamento verso la tecnica delle ceramiche di Centuripe appare nella ricca policromia di uno stamnos di Falcone (presso Tindari): dopo la seconda cottura il vaso fu interamente ridipinto - sì che il disegno primitivo non rimase che come una traccia - con colori a tempera, non più cotti, in ricca gamma (celeste, giallo, rosso, rosa e bianco), applicati in toni diversi, con largo effetto di chiaroscuri. L'origine locale è assai probabile anche per un certo numero di ceramiche figurate minori ritrovate in varie città della Sicilia: a Adrano, Leontini, Centuripe, Randazzo (Tissa), Lilibeo. Se i vasi dipinti "etnei", del tipo di quelli di Falcone, possono essere ricondotti alla seconda metà del sec. IV a. C., il cratere del venditore di tonno e alcuni vasi minori vanno ricondotti al principio del sec. IV. Ma si possono riconoscere anche lavori di officine siciliane in stretta relazione con quelle attiche. Oltre ai vasi figurati, in diverse città di Sicilia erano fabbricate scadenti imitazioni di piccolo vasellame greco e specialmente lucernette, skýphoi, lékythoi, che della fine del sec. VI scendono fino al principio del III, quando i vasi a tutta vernice nera subentrano alla ceramica a figure rosse decadente. Tutta una serie di questi vasetti è da ricondurre alla Sicilia. Il nucleo più importante proviene dalla necropoli ellenistica di Teano dei Sidicini; una piccola coppa reca la firma di Platonos di Apollonia, piccola città della costa nord della Sicilia. Altri piccoli vasi di questa medesima tecnica, detti comunemente coppe di Core o di Aretusa, recano impresso nel fondo il calco di decadrammi siracusani di Eveneto.

Bibl.: Una completa trattazione dell'arte antica della Sicilia è in B. Pace, Arte e artisti della Sicilia antica, in Mem. Acc. Lincei, s. 5ª, XV (1917) con la bibl. precedente. Il libro di A. Della Seta, Italia antica (2ª ed., Bergamo 1927) delinea, entro un più vasto quadro, lo svolgimento dell'arte siciliana; sono inoltre da consultare le principali opere sulla storia dell'arte classica. Varî monumenti sono illustrati nei 5 volumi delle Antichità della Sicilia (Palermo 1834-1842), a cura del duca di Serradifalco.

Per l'architettura: R. Koldewey e O. Puchstein, Die griech. Tempel in Unteritalien u. Sizilien, Berlino 1899, integrata da più recenti lavori. Per una più ampia descrizione, e per la bibliogr. particolare degli edifici antichi delle diverse città, v. gli articoli ad esse relativi. Per le terrecotte architettoniche: E. D. van Buren, Archaic fictile revetments in Sicily and Magna Graecia, Londra 1923. Per l'architettura urbana: B. Pace, l'urbanistica di Siracusa ant., Siracusa 1931. Per i teatri: P. E. Arias, Il teatro greco fuori d'Atene, Firenze 1934.

Per la scultura oltre alle opere generali sulla scultura antica, v. E. Langlotz, Die frühgriech. Bildhauerschulen, Berlino 1927; A. Neugebauer, Antike Bronzestatuetten, Berlino 1921; P. Marconi, L'efebo di Selinunte, Roma 1929; id., La scultura e la plastica nella Sicilia ant., in Historia, IV (1930). Per le monete: K. Regling, Die ant. Münze als Kunstwerk, Berlino 1924. Per le terrecotte figurate, F. Winter, Die Typen der figürlichen Terrakotten, Berlino 1903. Per la pittura, E. Pfuhl, Malerei u. Zeichnung der Griechen, Monaco 1923. La ceramica della Sicilia è stata particolarmente studiata in: B. Pace, Ceramiche della Sicilia, in Corpus vasor antiq., Classif. des céramiques ant., e Ceramiche figurate di fabbrica siceliota, in Atti Accad. archeol. Napoli, n. s., XII (1931-32).

Monete.

La monetazione della Sicilia antica comprende il più bel gruppo di monete che l'antichità greca ci abbia tramandato.

All'infuori di Siracusa (v.) sono almeno 50 i centri che ebbero una propria zecca; fra essi sono primieramente le colonie greche, poi le città ellenizzate, quelle puniche e siculo-puniche, e infine i centri minori siculi ed elimi. Si hanno serie nei tre metalli: oro, argento e bronzo; e numerosi nominali varî.

Il metallo proprio delle colonie greche dell'isola è l'argento; l'hanno coniato tutte le maggiori zecche dell'isola: Agrigento, Selinunte, Nasso, Imera, Catana, Messana, Leontini, Camarina, Gela, Segesta. L'oro è stato coniato eccezionalmente, in minima quantità, in emissioni sporadiche e rare e dalle sole zecche di Agrigento, Catana e Gela; tutte le emissioni auree appartengono al periodo seriore, cioè alla fine del secolo V e al principio del IV a. C.

Ma in Sicilia, più presto e più abbondantemente che altrove, accanto all'argento è stato coniato e ha avuto corso il bronzo, dal sec. V in poi. Tale metallo aveva infatti servito anche nell'isola, come già nella penisola italica, come mezzo di scambio fra le popolazioni indigene prima dell'introduzione della moneta vera e propria; la libra di bronzo - litra - che non venne mai monetata in tale metallo, costituì la base della moneta d'argento con la litra d'argento, il suo equivalente. Coniano bronzo in ricche serie tutte le zecche dell'argento; inoltre la moneta enea appare la sola coniata da numerosi centri siculi, elimi e anche fenicio-cartaginesi, in numero di almeno 20; la quale monetazione è in maggior misura breve, effimera, intermittente e di epoca tarda (sec. IV e III), in parecchi casi potremmo anche dire, di ostentazione. Questi centri sono: Acre, Adrano, Agirio, Alesa, Alunzio, Amestrato, Assoro, Calacte, Centuripe, Cefaledio, Enna, Etna, Entella, Ibla Maggiore, Lilibeo, Nacona, ecc., oltre ai centri isolani di Cossura, Gaulo, Lipara e Melita.

Le serie siciliane di argento più antiche sono quelle delle colonie calcidiche di Nasso, Zancle e Imera, la cui prima moneta risale almeno al principio del sec. VI. Queste serie sono tagliate secondo il sistema eginetico, con una dramma di gr. 5,83 e un obolo di gr. 0,96. In ordine di tempo seguono le serie delle colonie doriche, Gela, Agrigento, ecc., le cui prime emissioni datano dalla seconda metà del sec. VI e sono tagliate secondo il sistema attico, con un tetradramma di gr. 17,49, un didramma di gr. 8,74, una dramma di gr. 4,34. Tale sistema viene adottato anche dalle più antiche fondazioni calcidiche nei primi due decennî del sec. V. È moneta del tutto eccezionale il decadramma, coniato, oltreché a Siracusa, solo in un'emissione, ad Agrigento (v. dramma).

Quale moneta propria dell'isola è da considerare la litra d'argento, corrispondente come valore iniziale alla libra di bronzo. Tale nominale corrisponde a 1/5 della dramma attica, a 1/10 del didramma, a 1/20 del tetradramma, infine a 1/50 del decadramma, che appunto si denomina "pentecontalitron". La litra d'argento è stata coniata abbondantemente oltreché a Siracusa, ad Agrigento, Catana, Gela, Leontini, Messana, Nasso, ecc.; dalla elimia Segesta e dalla punica Panormo; costituisce la sola monetazione argentea dei centri siculi ed elimi di Abaceno, Enna, Entella, Galarina, Erice, Morgantina, Ipana, ecc.

Al tempo di Agatocle (317-310) troviamo ancora serie di multipli della litra coniati in argento, del tutto estranei al sistema attico, pezzi da 32, 24, 18, 16, 15, 12, 8, 6, 4 litre; onde risulta evidente che il sistema siciliano della litra si è sovrapposto definitivamente al sistema attico della dramma.

Infine anche il bronzo siciliano, per quanto sia da considerare quasi del tutto moneta di conto, porta alcuna volta segni del valore identificabili come appartenenti al sistema della litra, che si divide - come poi la libra romana - in 12 once, onde l'emilitron porta il segno del valore di 6 punti; il pentonchion 5, il tetras 4, il trias 3, l'hexas 2, l'oncia 1 punto.

A eccezione di Siracusa, le serie monetali argentee delle maggiori città non oltrepassano la fine del sec. V e il principio del IV sec., la conquista di Dionisio e l'invasione cartaginese segnando, con la distruzione dei relativi centri, anche la chiusura delle zecche.

Arte e tipi. - La moneta siciliana, seppure riflette solo le maggiori vicissitudini politiche subite dai varî centri, rispecchia però la più ammirevole fioritura artistica verificatasi nell'antichità. Su di essa si possono infatti seguire tutti i gradi di evoluzione, artistica e stilistica, che contrassegnano le creazioni delle arti maggiori.

Al periodo arcaico, anteriore al 480 a. C., appartengono le serie cosiddette primitive, che esibiscono i caratteri peculiari dell'arte arcaica: schematismo del tipo, che appare agl'inizî solo su di una faccia della moneta, laddove sul rovescio si presenta una delle tante varietà del cosiddetto quadrato incuso, con o senza un simbolo in rilievo; rudezza di linee, peculiarità ben nota di espressione e di acconciatura dell'effige umana, di profilo, con occhio frontale; leggenda in caratteri dell'alfabeto arcaico e ridotta alla forma più semplice e breve.

Il secondo periodo, detto dell'arte di transizione, e che si data vastamente dal 480 al 415, comporta varî gradi di evoluzione tipologica bene discernibili in tutti gli elementi del tipo, sia umano, sia animale, sia di oggetti inanimati, e che compare su tutt'e due le facce della moneta. Questo tipo si arricchisce dei più varî elementi ornamentali e di tutti i particolari più significativi che il soggetto comporta; l'evoluzione stilistica si afferma nel vivificarsi dell'espressione della fisionomia umana, nella sempre maggiore naturalezza del movimento, nella massima varietà delle acconciature, nel vestito, e infine nell'affermarsi di un senso artistico più fine e delicato, così nel rilievo come nella distribuzione e disposizione degli elementi accessorî ed epigrafici.

Al terzo periodo (415-336) appartiene la fioritura massima dell'arte del conio, che tanti maestri ha disvelato in Sicilia (v. cimone, euclida; eumene; eveneto; ecc.) ai quali si devono le creazioni giustamente famose, ma la cui attività è stata quasi dappertutto stroncata da eventi che distrussero i maggiori centri. Le ultime emissioni sono tutti pezzi di eccezionale interesse tipologico e stilistico.

Perché infatti una delle caratteristiche della monetazione greca, e quindi della Sicilia, è di insistere su di un tema per portarlo alla sua massima estrinsecazione stilistica e artistica, di trarne cioè tutto quanto sia possibile per adeguarlo alle esigenze della più raffinata estetica.

I tipi delle monete siciliane sono numerosi e di grande interesse; essi esemplificano i concetti più varî; più solitamente si ispirano alla natura: la fauna e la flora, la fonte e il fiume, il mare e i suoi elementi; poi ai ludi, donde le numerosissime bighe e quadrighe che, all'esempio di Siracusa, appaiono sui conî più recenti delle maggiori città. Più spesso nell'ultimo periodo al tipo agonistico della quadriga si accoppia un quadretto di genere.

Agrigento sviluppa il tipo dell'aquila e del granchio, simboli di Zeus e di Poseidone, donde emana il tema delle due aquile che sbranano la preda, tema che nel decadramma ha la sua massima esemplificazione; Gela ci presenta quello del dio fluviale sotto forma di toro a faccia umana natante; Leontini i tipi della testa leonina - dal nome della città - e dell'effige di Apollo che aveva colà un culto speciale; Zancle il delfino natante nel golfo; Messana all'incontro deriva da Anassilao di Reggio i due nuovi tipi della lepre corrente e della apene o biga di mule, e infine presenta il grazioso quadretto di carattere pittorico del dio Pan seduto su di una roccia che accarezza un leprotto. Etna ha per il primitivo periodo un magnifico pezzo (unicum del Gabinetto di Bruxelles) sul quale al dritto è una vigorosa effige di Sileno, e al rovescio una dignitosa figura di Zeus Aetnaios; Catana esibisce prima il toro a faccia umana e la Vittoria andante con le ali abbassate, indi una ricca serie di emissioni col tipo apollineo.

Selinunte e Imera presentano nelle loro serie migliori un'analogia di svolgimento veramente notevole. Per Selinunte la foglia di sedano emblematica del nome, per Imera il gallo, simbolo ed emblema della divinità salutifera, i quali due tipi nelle seriori emissioni degradano a emblemi nel campo monetale, laddove il tipo si espande in due figurazioni episodiche del maggiore interesse. Tre sono gli episodî raffigurati a Selinunte, che si vogliono riconnettere con una pestilenza che devastò la città, per cui, interrogato il filosofo Empedocle, questi, col semplice espediente di congiungere con canali i due fiumi impantanati e favorire così lo scolo delle acque stagnanti e pestifere, ne liberava la città. A commemorazione di tale evento il tetradramma ci presenta due episodî: sul diritto è Artemide che guida una biga sulla quale è Apollo saettante; al rovescio è una scena di libazione e di purificazione insieme: il fiume Selino, sotto le sembianze di giovane ignudo e cornuto, in piedi con patera e il ramoscello di mirto, presso l'ara dove è un gallo. Sul didramma troviamo Ercole che, afferrato per le corna il toro infuriato, è in atto di colpirlo con la clava. A Imera fa riscontro un altro magnifico gruppo di colore locale: la ninfa Imera fa una libazione presso l'ara con la sinistra levata in atto di invocazione, mentre accanto a lei è il grazioso tema del satiretto che si bagna a una fonte sgorgante da una protome leonina.

Camarina, devota ad Atena, a essa si ispira nei suoi tipi primitivi; poi ci presenta le due ammirate edizioni dell'effigie di Eracle, imberbe e barbuto; la sua serie si conclude coi magnifici didrammi che accoppiano all'effige efebica del dio fluviale Ippari il gruppo della ninfa Camarina col velo al vento, seduta sul cigno natante sulle onde dove guizzano delfini.

Nasso, dal fiorente culto dionisiaco, ne pone un tipo peculiare arcaico sulle sue primitive emissioni, tipo che si evolve in due magnifiche edizioni, che si accoppiano alla figurazione del Sileno nudo ed ebbro, accosciato a terra in atto di portare alle labbra la coppa.

Segesta infine, che nel cane raffigura il fiume Crimisso, sul tetradramma delle emissioni seriori accoppia alla quadriga di Demetra la figurazione ancora oscura del divino cacciatore che, fermo presso il termine della città segnato dall'erma itifallica, pare faccia buona guardia insieme col suo fido e divino compagno.

Su tutte le ultime e più belle emissioni di quasi ogni zecca compare il tipo agonistico della quadriga al galoppo, imitata dalla zecca di Siracusa, tipo che impronta tutta la monetazione argentea di questo periodo e che denunzia l'egemonia siracusana anche in questo campo.

Bibl.: A. Salinas, Le monete delle antiche città di Sicilia, Palermo 1871; Fr. e Lad. Landolina-Paternò, Ricerche num. sull'antica Sicilia, ivi 1872; B. V. Head, Coinage of Syracuse, in Num. Chron., 1874; id., Historia Numorum, Oxford 1911, 2ª ed., passim; P. Gardner, Sicilian Studies, in Num. Chron., 1876; A. J. Evans, Contributions to Sicilian Numismatic, ibid., 1894, 1896; A. Holm, Geschichte des sicil. Münzwesens, vol. III dei suoi Geschichte Siciliens, in Altertum, Lipsia 1870-1902; G. F. Hill, Coins of ancient Sicily, Westminster 1903; E. Babelon, Traité des monnaies grecq. et rom., parte 2ª: Description histor., I, Parigi 1907, p. 1479 segg.; P. Gardner, A History of ancient Coinage, 700-300 a. C., Oxford 1918, passim; W. Giesecke, Sicilia Numism., Lipsia 1923; E. Gabrici, Monetaz. enea sicil., Palermo 1927.

LA SICILIA NEL MEDIOEVO E NELL'ETÀ MODERNA

Storia.

1. - Il dominio bizantino. - La decadenza del regno ostrogoto in Italia, fattasi veloce sotto Teodato a causa del dissidio fra Romani e Goti e delle discordie fra Goti stessi, rese facile ai Bizantini la conquista della Sicilia. Inviato dall'imperatore Giustiniano, Belisario con poco più di ottomila uomini sbarcò nel 535 a Catania, occupandola senza colpo ferire, e in quel medesimo anno, nel giro di poche settimane, prese anche Siracusa, Palermo (sola città che opponesse forte resistenza) e altri luoghi importanti, sempre aiutato dagl'isolani, che speravano una sorte migliore dai nuovi signori. In tal modo la Sicilia divenne una provincia bizantina, con capitale Siracusa; il governatore fu intitolato stratego, o anche πατρίκιος, patrizio, quando per altre ragioni avesse già questo grado. Le popolazioni rimasero in quello stato economico infelice dal quale si erano illuse di venir liberate; la mala amministrazione bizantina, i balzelli gravosi inflitti or dall'arbitrio dei governatori or dal potere centrale, le leve di terra e di mare, le rivolte militari, lo stato di guerra permanente nell'impero dopo il sorgere della potenza degli Arabi, impedivano ai Siciliani il libero respiro. La grecità tornò a prevalere sulla latinità, sia attraverso i funzionarî e le milizie, sia attraverso la fioritura del cristianesimo propagato e sostenuto principalmente da clero e monaci greci, i quali portarono anche un contributo notevole alla letteratura ecclesiastica. Lo stile bizantino si manifestò in chiese cittadine sontuose, ricchissime di musaici dorati e di vasellame prezioso; ma di esse abbiamo solo il ricordo storico, ché la conquista musulmana, terremoti e rifacimenti posteriori ne cancellarono le vestigia, solo rimanendo, testimonio diretto di quell'arte, alcune piccole chiese in paeselli della Sicilia. Non mancarono palazzi, castelli e fortificazioni di nuova costruzione, resi necessarî dai tempi turbolenti.

L'episodio storico importante di questa età fu, nel 663, il trasporto della capitale dell'Impero da Costantinopoli a Siracusa, per opera di Costante II (o Costantino III, 641-668), che, premuto in Oriente dal califfato arabo e sognando di riportare a Roma la sede imperiale, era venuto in Italia per combattere i Longobardi, ma, sconfitto, si era trasferito con la corte e i tesori a Siracusa, ove fu ucciso il 15 luglio 668 da un gentiluomo del palazzo. La milizia bizantina dell'isola proclamò imperatore l'armeno Mizizes o Mizizios; ma questi fu abbandonato appena, nella primavera del 669, il legittimo imperatore Costantino IV Pogónato (668-685), figlio di Costante, accorso da Costantinopoli, si presentò davanti a Siracusa che ridivenne capitale di provincia. Rivolte militari scoppiarono anche nel 718 e nel 781-782; quest'ultima per opera di quel governatore Elpidio, che debellato rapidamente dalle truppe venute da Costantinopoli, fuggì tra gli Arabi e più tardi con essi combatté in Asia Minore contro i Bizantini. Ma la rivolta più grave fu quella suscitata nell'826 da Eufemio, che portò i musulmani alla conquista dell'isola.

2. - Il dominio musulmano. - L'espansione vertiginosa dell'impero arabo subito dopo la morte di Maometto (632) aveva fatto sentire assai presto i suoi effetti anche nel Mediterraneo centrale. Per iniziativa di Mu‛āwiyah, prima governatore della Siria e poi (661-680) primo califfo della dinastia omayyade, dai lidi della Siria e dell'Egitto partirono le prime scorrerie navali contro le rive della Sicilia, a puro scopo di guerra santa normale e di preda legittima secondo i concetti musulmani. La più antica, secondo fonti cristiane, sembra essere del 652; un'altra assai considerevole, partita da Alessandria, sembra da collocarsi subito dopo l'avventura di Mizizes ossia nell'estate o autunno del 669; essa sembra aver dato luogo a scorrerie anche lungi dalla costa e procurò ampio bottino dalle chiese di Siracusa. Seguirono molte altre, non tutte con esito felice per gli assalitori, delle quali è incerta la cronologia e che hanno la caratteristica d'avere ormai come punto di partenza non più l'Oriente ma la Tunisia; agevolate anche dalla conquista araba dell'isola di Pantelleria, avvenuta circa nel 700. Il primo assalto con mire di conquista sembra essere quello del 740, quando Ḥabīb ibn Abī ‛Ubaidah, stretta d'assedio la capitale Siracusa, la obbligò al pagamento d'un tributo; ma lo scoppio d'una rivolta berbera in Africa obbligò il generale arabo al ritorno. Dopo altra scorreria del 135 eg. (752-753) l'isola ebbe un po' più di cinquant'anni di respiro; anzi, dopo l'avvento della dinastia degli Aghlabiti nell'Ifrīqiyah o Africa Minore (800-909), tregue decennali furono concluse fra le due parti nell'805 e nell'813, quest'ultima verosimilmente rinnovata alla scadenza. Ma nell'825 od 826, minacciato per ordine imperiale dal governatore d'arresto e punizione grave a causa di reato (un matrimonio sacrilego, secondo le fonti bizantine), Eufemio, comandante della flotta, che già aveva compiuto un'incursione fortunata contro l'Africa, si ribellò a Siracusa, sconfisse e uccise il governatore dell'isola a Catania e si proclamò sovrano; ma poi, tradito da Balāṭah (il nome è solo negli autori arabi) suo fido, rinnovando il triste gesto d'Elpidio del 781-782 si rifugiò con le sue navi sulle coste tunisine e chiese aiuto al sovrano aghlabita Ziyādat Allāh ibn al-Aghlab per riconquistare il regno di Sicilia, che avrebbe dovuto pagare tributo agli Aghlabiti. I notabili arabi ad al-Qairawān, convocati a consiglio, titubavano; ma la facondia e lo zelo religioso del vecchio e illustre qāḍī e giureconsulto Asad ibn al-Furāt fecero decidere l'impresa, con il proposito ben definito d'una conquista permanente. Asad fu improvvisato condottiero di questa guerra santa; l'esercito, salpato da Sūsah nel giugno 827, sbarcò a Mazara. Eufemio fu messo in disparte; Balātah, sconfitto nel luglio, fuggì prima a Castrogiovanni (Enna), poi in Calabria; gli Arabi, prima lungo la costa, poi attraverso i monti, andarono a porre l'assedio alla capitale Siracusa: assedio dvrato più d'un anno senza risultato e durante il quale, probabilmente nel giugno-luglio 828, Asad morì di pestilenza o, secondo altri, di ferite. Presa Mineo, ma invano tentata la grande fortezza di Castrogiovanni nel cuore dell'isola, gl'invasori si trovarono a mal partito, ridotti a due soli punti lontanissimi fra loro (Mazara e Mineo) dalla riscossa bizantina capitanata dal patrizio Teodoto; ma soccorsi inattesi, giunti dalla Spagna nell'estate dell'830, li salvarono. Sotto la guida di al-Aṣbagh fu sconfitto e ucciso Teodoto a Mineo nell'agosto e in quel mese stesso fu cinta d'assedio Palermo, che capitolò soltanto nell'agosto-settembre 831 e fu scelta dagli Arabi come loro capitale. Essa divenne il punto d'irradiamento per l'occupazione definitiva dell'isola, ridotta a provincia dello stato aghlabita. Castrogiovanni fu presa nell'859; Siracusa, investita nell'estate dell'877, dopo un assedio terribile cadde il 21 maggio 878 e fu saccheggiata e rovinata nelle sue fortificazioni e nei suoi edifizî di qualche importanza. Guerre fra Arabi di Sicilia e Bizantini continuarono a intervalli nell'isola, in Calabria e nelle Puglie, sia per terra sia per mare; né è escluso, contro l'opinione dominante, che dalla Sicilia fosse partita e da essa dipendesse la colonia militare musulmana che, stabilitasi alle foci del Garigliano, sparse il terrore nella Campania e nel Lazio meridionale dall'882 al 915. Dopo la pace conclusa alla fine dell'895 o al principio dell'896, l'Impero bizantino si disinteressò quasi completamente della Sicilia, salvo gli aiuti prestati ai ribelli cristiani di Rometta nel 963-965 e l'effimera riconquista della Sicilia orientale operata dal generale Giorgio Maniace negli anni 1038-1042.

Politicamente e amministrativamente legata con l'Ifrīqiyah (attuale Tunisia e regioni limitrofe), la Sicilia dovette seguirne le vicende. Caduta nel 910 la dinastia aghlabita, l'isola passò alla dipendenza dei Fāṭimidi, eretici sciiti, i quali nel 972 trasportarono la capitale del loro grande impero da al-Mahdiynah (sulla costa tunisina) al Cairo, sicché l'isola fu posta alla dipendenza diretta dell'Egitto. Fino allora i governatori della Sicilia, chiamati indifferentemente amīr o wālī o anche ṣāḥib, erano stati nominati dal potere centrale oppure eletti in tempi torbidi dagli ottimati di Palermo; ma, affidata la carica nel 948 ad al-Ḥasan ibn ‛Alī al-Kalbī, e succedutogli il figlio Aḥmad, l'ufficio si trasformò tacitamente in principato ereditario nel 960, pur rimanendo sotto l'alta sovranità fāṭimida; si ebbe così la dinastia dei Kalbiti o Banū Abī 'l-Ḥusain (948-1040), sotto la quale la cultura araba in Sicilia toccò il massimo splendore, partecipando al movimento letterario anche principi della famiglia kalbita quali poeti. La caduta dei Kalbiti, determinata da guerra civile fra musulmani d'origine siciliana e musulmani d'origine africana, spezzò l'unità dell'isola; Palermo si resse a ǵamāah (assemblea dei notabili), mentre il resto del paese fu diviso fra varî principotti, tra i quali Ibn ath-Thumnah, il Bentumne o Benciminus, ecc., dei nostri cronisti, signore di Siracusa e Noto e poi anche di Catania. Venuto in rotta con Ibn al-Ḥawwās, signore di Castrogiovanni e di Girgenti (Agrigento), che era riuscito a farsi riconoscere principe dalla maggior parte dell'isola, si rivolse per aiuto al normanno conte Ruggiero che proprio allora (1061) aveva preso Messina. Ruggiero l'accordò prontamente, ma fece la conquista per suo conto; un biennio gli bastò per impadronirsi del Val Démone o Sicilia di NE., ove scarsi erano i presidî e gli abitanti musulmani, ma gli occorsero trent'anni (1061-1091) per conquistare il rimanente. In pratica si può considerare finita la signoria musulmana in Sicilia con l'occupazione normanna di Palermo, avvenuta nei primi giorni del 1072 dopo quasi cinque mesi d'assedio tuttavia signorotti arabi continuarono a dominare in qualche zona interna montuosa (Iato ed Entella) e nelle rocche quasi costiere di Cinisi e Gallo non molto a occidente di Palermo; essi diedero non poco filo da torcere a Federico II con rivolte, di cui la prima nel 1221 e la terza nel 1243-1246, le quali finirono con le deportazioni in massa dei musulmani a Lucera in provincia di Foggia (1223, 1239 e 1246). Invece le classi colte cittadine erano emigrate in gran parte nell'Africa settentrionale e in Egitto durante l'età normanna (1070-1194); soprattutto notevole è il trasferimento di famiglie sceriffe ḥusainide, ossia presunte discendenti da Maometto, nel Marocco, ove ancor oggi gli sceriffi "siciliani" (in dialetto sqalliyyīn) vivono circondati di molta considerazione.

Gli Arabi applicarono in Sicilia gli ordinamenti civili e militari risultanti dalle norme del diritto pubblico musulmano riguardo alle terre conquistate sugl'infedeli. Nel Val Démone, rimasto cristiano, poterono sussistere fino al 964 città indipendenti, che teoricamente si ritenevano ancor suddite dell'Impero d'oriente. Nel Val di Noto o Sicilia di sud-est ove la colonizzazione araba dapprima fu scarsissima, le città ch'erano scese a patti con gl'invasori senza attendere d'essere investite e prese, godettero di autonomie municipali contro il pagamento di tributo annuo, ma le andarono man mano perdendo con la conversione degli abitanti all'islamismo o in conseguenza di torbidi e ribellioni che dessero luogo ad occupazione militare o conquista; cosicché fra il 962 ed il 965 questa categoria di città cristiane tributarie scomparve. Sotto il dominio arabo il regime della proprietà fondiaria subì un rivolgimento profondo nella sua costituzione e nella distribuzione delle terre; delle quali una parte diventò proprietà dello stato in base al diritto di conquista in paesi d'infedeli, altre (assai più) furono ripartite fra i combattenti conquistatori in base al medesimo diritto, altre poche divennero proprietà privata di Arabi in virtù delle norme riguardanti chi dissoda per primo terreni incolti ed abbandonati; le altre rimasero proprietà degli antichi padroni cristiani, ma sottoposte a particolari balzelli. La toponomastica che si ricava dai documenti fondiarî dell'età normanna (non essendocene pervenuti dell'età araba) ci mostra l'intensità della colonizzazione ed il frazionamento delle terre apportati dal dominio musulmano nella metà occidentale dell'isola; come il numero notevole di vocaboli siciliani di origine araba attinenti all'agricoltura attesta quanto questa fosse curata dai nuovi dominatori. I quali, dal punto di vista etnico e politico, vanno distinti in tre categorie, più d'una volta in lotta tra loro, con conseguenze deleterie per la dominazione musulmana: primitivi invasori con i convertiti siciliani e loro discendenza; soldatesche venute d'Africa posteriormente; Berberi, per lo più agricoltori. Conformemente ai principî del diritto musulmano i cristiani e gli ebrei non furono molestati, salvo persecuzioni abusive e non molto frequenti; ma furono ridotti alla qualità di dhimmī (v.), ossia di protetti, che godono della libertà di culto e possono ricorrere alle loro autorità ecclesiastiche per atti e controversie non implicanti rapporti con musulmani, ma che sono obbligati ad uno speciale testatico (gizyah, v.) e messi in inferiorità giuridica e morale rispetto ai seguaci dell'islamismo. I vescovadi dell'età bizantina sembrano essere scomparsi sotto il nuovo dominio; ma, al più tardi agl'inizî del sec. XI, ne sorse uno nuovo, quello di Palermo, attestatoci al momento della conquista normanna e che verosimilmente non era in rapporto diretto con Roma né con Costantinopoli. Schiavi cristiani, divenuti tali per diritto di guerra in Sicilia e nell'Italia meridionale, abbondavano nelle città e nelle campagne. Le conversioni di cristiani all'islamismo sembrano esser state poche nel Val Démone; assai più numerose nel Val di Noto e soprattutto nel Val di Mazara o sezione occidentale dell'isola. Nei monasteri numerosi della Sicilia orientale la letteratura religiosa in greco continuò a fiorire; mancano invece tracce di quella in latino.

La cultura araba in Sicilia non ebbe meno splendore della contemporanea sulle rive africane ed asiatiche del Mediterraneo; e parecchi dotti isolani, nelle loro migrazioni anche a solo scopo di studio e d'insegnamento, furono assai apprezzati in terre lontanissime, fin nella Persia di nord-ovest. Gli studî coltivati furono quelli letterarî, linguistici, l'esegesi eoranica, le tradizioni canoniche, l'ascetico-mistica (ṣūfismo), il diritto secondo la scuola mālikita. Fra gli autori più celebri ricordiamo i due poeti al-Ballanūbī (morto poco dopo il 1050 in Egitto) ed Ibn Ḥamdīs (siracusano, morto nel 1133), il filologo e cronista Ibn al-Qaṭṭā‛ (morto nel 1121) ed il grande giurista al-Māzarī (morto nel 1141). Del resto la cultura letteraria araba fiorì ancora alla corte dei re normanni. Palazzi, moschee, parchi, castelli furono edificati dagli Arabi; ma di tutto ciò solo rimangono vestigia scarsissime e miserrime, alle quali possono supplire in parte alcuni edifici costruiti a Palermo e nel suo territorio dai re normanni, nei quali l'architettura e la decorazione continuano le tradizioni artistiche arabe. Commercio, agricoltura e industrie ebbero grande sviluppo; appunto agli arabi si deve l'introduzione della coltivazione degli aranci, dei gelsi, della canna da zucchero, delle palme da datteri, del cotone. Si può infine rilevare che alcune istituzioni arabe di stato continuarono nell'età normanna; fra esse i dīwān o uffici dell'amministrazione finanziaria, i defetarî di quella catastale ed il tirāz o manifattura governativa dei tessuti di seta a Palermo.

3. - La Sicilia nella monarchia normanno-sveva. - Padroni della Calabria, i Normanni si lanciarono alla conquista della Sicilia, ov'erano portati da ineluttabili esigenze strategiche, economiche, politiche ed altresì religiose, poiché l'impresa rientrava nel quadro di quella riscossa dell'Europa cristiana contro l'Islām, che, iniziata nel Tirreno ai principî del sec. XI, culminò alla fine di esso con le Crociate.

Nel 1060, i Normanni, chiamati in aiuto dall'emiro di Siracusa in guerra con quello di Agrigento, si sentirono invogliati a passare lo stretto.

Duci della spedizione i fratelli Roberto il Guiscardo e Ruggiero d'Altavilla; ma se il primo, duca di Puglia, tenne il comando supremo dell'impresa, esecutore insonne e animoso di essa fu invece il secondo.

Caduta Messina nel maggio 1061, bisognò fiaccare i Musulmani in due battaglie campali, sul corso del Dittaino e presso Cerami, per raggiungere Enna (Castrogiovanni), ambito obiettivo nel cuore della Sicilia (1064). La guerra riarse sette anni dopo intorno a Palermo, che, famosa in tutto il mondo arabo, era stata già adocchiata dai Normanni, come dai Pisani. Genialmente investita per terra dalle truppe di Ruggiero e per mare dalla flotta che il Guiscardo aveva di proposito allestito ad Otranto, la magnifica città capitolava nel gennaio 1072: ai vinti, che giurarono fedeltà ai vincitori, venne da questi garantita libertà di culto, istituzioni, magistrature e consuetudini proprie.

Poi, impegnato il Guiscardo sul continente, toccò a Ruggiero proseguire da solo l'impresa, che, priva dei mezzi necessarî e ostacolata da continue difficoltà, procedette con cauta lentezza. Nel 1081, nonostante lo scacco subito dagli aiuti che i Musulmani di Sicilia avevano ricevuto dai loro correligionarî d'Africa, e la perdita di Trapani sul fronte occidentale e di Taormina sull'orientale, Ibn al-Ward, emiro di Siracusa, sferrò una vigorosa offensiva, che portò la perdita di Catania, occupata di sorpresa dal Guiscardo mentre si recava ad assediare Palermo. Solo nell'85 Ruggiero, quand'ebbe riassettato le sue cose in Calabria, fu in grado di avanzare energicamente contro Ibn al-Ward, di scalzarlo dalle sue posizioni, e quindi imprimere un ritmo più celere alla conquista, che si compì nel 1091 con la caduta di Butera e di Noto, ultime piazze restate al nemico. L'anno dopo erano raggiunte e rese tributarie Malta e Gozo, sentinella avanzata della Sicilia nel Mediterraneo.

Ambizioso, consapevole delle sue elette doti politiche e della sua forza, Ruggiero allentò di molto gl'inonorevoli lacci feudali che al "ducato di Puglia" legavano la "contea di Calabria e di Sicilia". A sostegno dei diritti misconosciutigli, Ruggiero aveva financo guerreggiato, durante la campagna siciliana, contro il fratello Roberto; con l'imbelle figlio di lui, il duca Ruggiero I, egli patteggiò, quale corrispettivo dei preziosi soccorsi apprestatigli in varie scabrose evenienze, lo scioglimento di parecchi altri di quei diritti che suo padre s'era riserbato sull'isola all'indomani della conquista di Palermo. Viceversa, energicamente egli impose la propria autorità sui cavalieri normanni che gli erano stati compagni nella guerra contro i Musulmani, onde, potente e temuto, si denominò "Gran conte di Sicilia e di Calabria".

Né minore fu lo spirito autoritario che Ruggiero portò in politica ecclesiastica, nonostante che il papato avesse seguito con la più viva simpatia la sua impresa siciliana: oltre a determinare da sé, mentre la conquista progrediva, le nuove diocesi dell'isola e ad eleggervi i rispettivi vescovi, nel 1098 indusse Urbano II a conferirgli prerogative di Legato apostolico nel suo stato.

Desideroso inoltre del benessere economico dell'isola, egli vi attirò nuovi elementi etnici di sangue latino, lombardi più che normanni, avviando un benefico processo di rilatinizzazione, ch'è quanto dire di italianizzazione, d'un paese dai precedenti dominatori in gran parte morizzato, processo che si compì sotto Federico II di Svevia.

Tuttavia, singolare fu la tolleranza con cui Ruggiero governò il paese, sia in virtù del prudente eclettismo proprio dei Normanni, sia per il saggio proposito di fondere e di armonizzare in un comune interesse politico le varie stirpi - Arabi, Greci, Latini - conviventi nell'isola.

Dalla Sicilia Ruggiero II, figlio e successore di Ruggiero I, trasse le forze militari e pecuniarie per far valere i proprî diritti sul ducato di Puglia, quando nel 1127 si estinse col duca Guglielmo la discendenza del Guiscardo. E alla Sicilia si saldò, dopo che Ruggiero ebbe superato le resistenze nemiche, non solo il ducato di Puglia, ma anche il principato di Capua, poiché il principe, che discendeva dal ceppo normanno dei conti di Aversa, riconobbe la sovranità del gran conte di Sicilia. Interprete della sua volontà, un'assemblea, da lui convocata a Salerno, deliberò di organizzare tutti codesti organismi politici in uno stato unitario, in un regno, di cui Ruggiero assunse, con fastoso rito, la corona nel duomo di Palermo, nel Natale 1130. E si denominò rex Siciliae: era dalla Sicilia che scaturiva l'energia unificatrice e animatrice del nuovo stato.

Contro questa nuova poderosa forza affacciantesi all'orizzonte politico italiano ed europeo, una formidabile coalizione si costituì di vecchi e nuovi nemici della potenza normanna, onde dieci anni di guerra, durante i quali Ruggiero II attraversò momenti tempestosi. Sennonché il 25 luglio 1139 egli, seguace fin allora dello scisma, indusse alla pace di Mignano il legittimo pontefice Innocenzo II, tre giorni prima da lui sconfitto in battaglia, e ne ottenne la conferma del titolo regio.

Vassallo della Santa Sede per la parte continentale del regno, Ruggiero conservò, nonostante il passato e i futuri conflitti col papato, assoluta sovranità sulla Sicilia; né, incline com'era alla costituzione di una Chiesa nazionale, come quella che avrebbe portato un accrescimento del suo potere, egli tollerò che le prerogative derivanti dalla Apostolica Legazia subissero sostanziali limitazioni.

La Sicilia, la regione prediletta del suo cuore, fu il centro della nuova monarchia, e Palermo, memore degli splendori della corte Kalbita, la capitale.

Notevole il contributo che la Sicilia gli fornì nell'organizzazione dell'amministrazione centrale del regno, in cui agirono influenze bizantine e arabe, quelle prevalentemente nel ramo politico-amministrativo, queste nel finanziario. Se fra i Bizantini, numerosi nella parte orientale dell'isola, la Cancelleria, dipendente dalla Curia regis, reclutava i suoi funzionarî, fu tra gli Arabi che le due dohanae (Dīwān al-ma'mūr e Dīwān at-taḥqīq al-ma'mūr), supremi organi finanziarî, trassero i loro espertissimi officiali. E così, vuoi per la struttura intrinseca, per la quale fu messo a profitto quanto di buono era nelle preesistenti istituzioni del paese, vuoi per il congegno dei varî offici, che fanno capo indistintamente al re, l'amministrazione statale siciliana può essere di modello agli stati europei del sec. XII.

Pieno di vigore, questo stato volle espandersi. Se le imprese di Ruggiero II nella Balcania dovevano sventare le minacciate rivendicazioni bizantine sulle perdute provincie italiane, quelle in Africa miravano a procurare alla Sicilia il dominio del Mediterraneo e mercati su cui riversare i prodotti della rinata agricoltura isolana. Tale aspirazione aveva carezzato anche Ruggiero I; suo figlio la palesò sin da quando, uscito appena di tutela, acconsentì alle infelici nozze della madre, Adelaide di Monferrato, con Baldovino re di Gerusalemme. E l'ammiraglio Giorgio d'Antiochia, fu l'esecutore fortunato di tale disegno. L'impresa culminò nel biennio 1146-48 con l'occupazione di Tripoli, di Mehedia, di Sfax, di Susa e di qualche altro fiorente centro della costa settentrionale a ovest del Capo Bon. Che se, per cause diverse, codesti possessi furono non molto dopo perduti, i diritti affermativi da re Ruggiero e il ricordo dei vantaggi ottenuti non lasciarono inerti i sovrani ch'ebbero consapevolezza dei più vitali interessi dell'isola.

Morto Ruggiero, la feudalità, da lui tenuta a freno, rivelò la sua insofferenza, macchinando a Palermo, attorno alla corte, complotti tenebrosi e non disdegnando, a sostegno di essi, il ricorso allo straniero. Tristi giorni ebbe il regno di Guglielmo I (1154-1166): mentre Federico Barbarossa, alleato del papa e dell'imperatore bizantino, si affacciava minaccioso alle frontiere, il suo fido e sagace ministro Maione di Bari cadeva vittima delle tendenze democratiche che lo avevano animato; più tardi lo stesso re corse pericolo di essere spodestato. Le repressioni spietate ferirono ma non distrussero l'oltracotanza signorile, mentre ai vecchi altri contrasti si aggiunsero, fomentati da ambizioni e da rivalità d'indigeni e di stranieri intriganti a corte. La pace tornò quando Guglielmo II (1172-89) ebbe preso dalle mani della reggente, l'avveduta regina Margherita, le redini del potere. Fervida allora non meno che fortunata la politica estera: in Africa, grazie a vantaggiosi trattati, l'influenza siciliana fu restaurata; i brillanti successi che la flotta, riorganizzata da Margherito da Brindisi, riportò nell'Oriente bizantino e in Egitto, ridiedero libertà dì movimento nel Mediterraneo; nella lotta tra Comuni e Impero gran peso ebbe per le forze italiane la partecipazione a loro fianco del re di Sicilia.

Illuminata dai raggi dell'arte, della cultura e d'un vivere giocondo; ricca, baldanzosa e forte, la monarchia siciliana attirò l'attenzione del Barbarossa; e un inestimabile successo politico fu il matrimonio ch'egli conchiuse tra suo figlio e Costanza, figlia di Ruggiero II ed erede della corona di Sicilia (1186), poiché Guglielmo II non aveva figli.

Sennonché la successione sveva determinò una grave crisi, dato che un partito "nazionale", geloso dell'indipendenza del regno, al tedesco Enrico oppose Tancredi, conte di Lecce, figlio naturale di Ruggiero II e reduce glorioso dalle ultime campagne contro i Bizantini. Nuove guerre civili, che Tancredi domò, accordandosi in pari tempo con l'Impero bizantino e con la Curia romana, che, maggiormente ferita dalle conseguenze derivanti dalle nozze suddette, aveva già visto violato da Guglielmo II il concordato che suo padre aveva sottoscritto a Benevento nel 1156. Respinti due volte i Tedeschi, fatta prigioniera la stessa Costanza, benché improvvidamente poi liberata, Tancredi poteva ritenersi sicuro sul trono; ma venne a morte nel febbraio 1194. E allora la debole reggenza per il minorenne Guglielmo III e il tradimento dei baroni agevolarono la conquista di Enrico VI, mentre le flotte di Pisa e di Genova, entrambe, al par di Venezia, preoccupate della potenza politica e dell'esuberante attività marinara siciliana, violentemente gli aprivano le porte di Messina, di Catania e di Siracusa. A Palermo, nel Natale di quello stesso anno, alla germanica e all'imperiale egli aggiungeva la corona di Sicilia.

Il vincitore credette di rassodare la propria fortuna spietatamente colpendo quanti nel suo sentivano un dominio straniero, oltre che tirannico, e non risparmiando neppure l'innocente adolescenza di Guglielmo III, che con i suoi s'era ritirato nel castello di Caltabellotta. Onde un vuoto allarmante intorno alla nuova dinastia, vuoto che si accinse a colmare, con intelligente comprensione dell'anima della sua patria, l'imperatrice Costanza, quando, nel 1197, la morte prematura del marito la rendeva reggente per il tenero figlio, il futuro Federico II.

Anteponendo gl'interessi del paese ereditario a quelli dell'impero, ella non solo reclamò presso di sé, perché fosse da lei educato, il figlioletto, ma espulse dal regno tutti i Tedeschi, che, avidi e prepotenti, avevano reso inviso il governo di Enrico VI. Anzi, a vieppiù legarlo all'eredità normanna, Costanza fece incoronare Federico non appena giunto a Palermo, e, morendo, affidò la reggenza al papa Innocenzo III. Al quale, nonostante la riaffermata sovranità della Chiesa sul regno, spetta il merito di averglielo salvato dalle varie brame. La sconfitta che, alle porte di Palermo, truppe regie e pontificie infliggevano a Marcualdo di Anweiler, siniscaleo dell'Impero, liberava finalmente l'isola dall'asservimento ad un aborrito straniero (1200).

Il destino, ponendo sulla testa di Federico tante corone, lo chiamava ad agire e a grandeggiare su ben più vasti teatri: in Sicilia, quindi, pur sempre centro della sua "preziosa eredità", brevi e fugaci periodi trascorse della sua agitata esistenza.

Dall'isola egli cominciò la restaurazione dei poteri dello stato, resa necessaria dagli anteriori sconvolgimenti. Fra i primi colpiti, i Musulmani. Spesso ribelli, s'erano trincerati in Val di Mazara, donde, sconfitti, vennero trasferiti, in tre riprese, a Lucera, in Puglia. Nella rivendicazione dei regi diritti, autonomie cittadine, privilegi ecclesiastici e feudali vennero inesorabilmente impugnati, suscitando malcontenti e talvolta ribellioni, come a Messina, la più prospera e operosa città isolana, nel 1233. Sotto l'impero della legge generale furono altresì ridotti Genovesi e Pisani, forti di multiformi privilegi, anzi i primi, che ricalcitravano, addirittura espulsi da Siracusa. Insomma quei principî assolutistici, per cui Federico II, camminando nel solco dell'avo Ruggiero e ispirandosi al diritto romano, delineava il primo abbozzo dello stato moderno, ebbero in Sicilia, sede dell'amministrazione centrale, la prima applicazione. La politica rogeriana richiamano ancora gli atti diretti a promuovere la ricchezza dell'isola, che le Crociate avevano reso stazione obbligata tra l'Europa occidentale e il mondo islamico: la ripresa espansione in Oriente, i trattati commerciali coi sultanati dell'Africa mediterranea, i tentativi d'introduzione di nuove culture, la costruzione di qualche centro abitato, quale Augusta, ecc. E come Ruggiero II aveva onorato i cultori d'ogni ramo del sapere e aveva voluto che la capitale e altre città dell'isola si abbellissero di monumenti tuttora mirabili, così il nipote, dotto egli stesso, dischiuse la sua corte alle varie culture del tempo e vi accolse filosofi o scienziati, artisti e trovatori. Ambiente, perciò, propizio alla poesia e all'arte: e si cantò in volgare - la scuola siciliana - e si spiegò una notevole attività edilizia (v. siciliana, scuola).

Sennonché stridenti in Sicilia, non meno che nel regno, furono i contrasti provocati dall'indirizzo politico che Federico seguiva, ovvero in conseguenza delle immani lotte ch'egli, imperatore, re d'Italia e di Germania, combatté col papato, coi Comuni, nell'infida Germania. Fra l'altro, tali lotte importarono per i Siciliani un onere tributario superiore alle loro forze, per cui nel suo testamento Federico ordinò ch'essi tornassero a godere le prerogative e le esenzioni dei tempi di Guglielmo II.

Gli eventi posteriori alla morte di Federico II (13 dicembre 1250) mostrano quafi radici avesse nel cuore siciliano la tradizione dinastica normanno-sveva. Fallito, per il cozzo dei fattori da cui doveva attinger forza, il tentativo di Pietro Ruffo di trasformare in personale signoria il vicariato che deteneva in nome dei legittimi Hohenstaufen; sfumata ancora quella federazione di liberi comuni, che la Chiesa, rivendicante la sua sovranità sull'isola, aveva posto sotto la sua protezione; superata la resistenza delle truppe pontificie, Manfredi cingeva la corona del regno a Palermo nel 1258. Non nel regno soltanto poteva però egli trovare il sostegno capace di sorreggerlo nella guerra mossagli dalla Curia Romana e, in seguito alla sua usurpazione dei diritti di Corradino, dal legittimismo svevo - e di ciò qualche episodio significativo anche in Sicilia -, sibbene nell'Italia settentrionale, ove più ardente era il moto ghibellino. La disfatta e la morte di Manfredi a Benevento (1266) segnavano un grave scacco per il ghibellinismo, ma nel tempo stesso persuadevano ancor più Carlo d'Angiò, già incoronato dal papa re di Sicilia, a porre in più immediato contatto il centro della monarchia con le forze politiche prevalenti nella penisola, col guelfismo, di cui aveva testé preso le redini. Onde lo spostamento, già iniziato da Federico II, del centro politico-amministrativo del regno dall'isola sul continente, la capitale da Palermo a Napoli.

Questa minorazione non poté non influire sui sentimenti isolani, anche se il nuovo dinasta fu presto riconosciuto. Che se scarso di risonanza era stato il moto a favore di Federico d'Antiochia, bastardo di Federico II, impressionanti proporzioni assunse invece l'incendio suscitato dalla fatale impresa di Corradino, incendio che il vincitore intese ciecamente spegnere col sangue e col fuoco.

Il ferreo regime con cui, dopo questi fatti, poco accortamente si pensò di sradicare nell'isola le accentuate tendenze sveve; la cupidigia della nuova feudalità; l'oppressione fiscale, imposta dai grandiosi disegni di espansione onde Carlo voleva connettere la sua alla migliore politica normanno-sveva; i soprusi e le malversazioni burocratiche, non sempre note al re, che pure aveva vivo il senso della giustizia e della rettitudine amministrativa; tutto ciò, mentre coloriva di rosee tinte il passato, alienava i Siciliani dalla "mala signoria" angioina.

4. - Dalla secessione del vespro al tramonto dell'indipendenza (1282-1402). - La rivoluzione scoppiò improvvisamente, il 31 marzo 1282, a Palermo, presso la chiesa di Santo Spirito, ove molta gente era convenuta per celebrare la seconda festa di Pasqua, donde Vespro siciliano: causa occasionale, il gesto, impudente e imprudente, dei soldati francesi che, dopo gli uomini, si posero a frugare le donne, temendo portassero armi nascoste. La rivolta, rossa di sangue, si propagò subito per le città dell'isola, che, trucidati o espulsi i Francesi, si ordinarono a comune e, ponendosi sotto la tutela della Chiesa e stringendosi in lega fra loro, elessero proprî rappresentanti presso un'assemblea federale, che si sarebbe riunita a Palermo.

Già da un pezzo la Sicilia esercitava una forte attrattiva su Pietro III d'Aragona. I diritti ereditarî che vi vantava sua moglie Costanza, superstite figlia di Manfredi; la pressione dei fuorusciti siciliani, intriganti alla sua corte, d'intesa coi loro connazionali, ai danni dell'Angioino; i medesimi interessi dell'Aragona, che chiedeva di espandersi nel Mediterraneo e di dare sfogo alla turbolenta feudalità: tutto ciò spiega l'intensa attività diplomatica dell'Aragonese coi nemici del regno angioino, come con Bisanzio, con Genova, con i ghibellini d'Italia, negli anni che precedettero l'esplosione del Vespro. Onde tutto preso dai preparativi d'uno sbarco nell'isola lo trovò in Africa l'ambasceria che il Parlamento siciliano gli aveva inviato per offrirgli la corona del regno.

Da Palermo Pietro mosse alla volta di Messina che, favorita da Carlo I, era stata l'ultima delle città siciliane ad insorgere ed ora gli resisteva accanitamente. La venuta dell'Aragonese persuase l'Angioino a togliere l'assedio e ad abbandonare l'isola per mettersi sulla difensiva in Calabria. In essa, ribelle agli Angioini, i Siciliani portarono la guerra: forti motivi imponevano l'annessione di questa regione al nuovo stato siciliano.

E la guerra, oltre che in Calabria, divampò sul mare, su cui Ruggiero di Lauria teneva alta la bandiera siculo-aragonese, e impegnò, a fianco dell'Angioino, il papato e la Francia. Prevalse però sempre la ferrea volontà d'indipendenza ond'erano animati i Siciliani. A Giacomo d'Aragona, successo a suo padre nel 1285, essi anteposero suo fratello Federico, allorché quello, morto senza eredi l'altro fratello Alfonso (1291), non solo preferì l'Aragona alla Sicilia, ma questa cedette a Bonifacio VIII in cambio della Sardegna e della Corsica. E, incuranti della scomunica, sostennero Federico, proclamato loro re dal parlamento adunato a Catania nel gennaio 1296, contro la coalizione pontificio-angioina, battendosi sul mare e nell'isola, dove la guerra venne riportata da Roberto d'Angiò e da Carlo di Valois.

Nel 1302 le ostilità cessarono col trattato di Caltabellotta: si lasciava a Federico, finché vivo, la Sicilia col titolo di re di Trinacria. La monarchia normanno-sveva era infranta.

Né pace né concordia seguì tra i due regni: gli Angioini non sapevano rinunciare alla Sicilia; questa rifuggiva dal mantenere i patti di Caltabellotta, che portavano al sacrifizio dell'indipendenza. La discesa di Enrico VII di Lussemburgo in Italia riaccese le ostilità, poiché Federico II (detto anche III) d'Aragona si appoggiò al ridesto ghibellinismo per fiaccare il re di Napoli, Roberto d'Angiò, capo dei guelfi. E ben sei spedizioni, una delle quali comandata dallo stesso suo figlio, l'infelice Carlo di Calabria, egli fece, durante il suo lungo regno, contro la Sicilia, senza risultati tangibili e duraturi, malgrado gl'imponenti preparativi, gli aiuti della Curia Romana, la propizia situazione interna dell'isola. Né esito diverso ebbero le posteriori spedizioni di Giovanna I, anche se questa, intransigente quanto l'avo circa i diritti napoletani sulla Sicilia, riuscì, nel 1356, ad occupare Messina e a tenerla, fra grandi illusioni, per qualche anno. Nel 1372, ammaestrata dall'esperienza e persuasa da Gregorio XI, addivenne al trattato di Catania, che finalmente liquidava il problema siciliano: giuridicamente però il Regno di Trinacria restava sotto la dipendenza feudale del Regno di Sicilia e della Santa Sede.

Fallimento, adunque, degli Aragonesi nel voler fare della Sicilia, secondo il disegno normanno-svevo, la base d'un loro predominio nel Mediterraneo: troppo inferiori a tale programma furono gli eredi di Federico. Il quale, schierandosi, durante il suo lungo regno (1296-1337), tra gli ultimi paladini dell'Impero in Italia, apportando qualche riforma nell'amministrazione, interessandosi della cultura e della scuola, nella quale intendeva attuare certi suoi ideali di vita evangelica, e soprattutto comportandosi onorevolmente in faccia al nemico, riuscì a conservare alla corona decoro e autorità. Poi, coi successori, crescente avvilimento di essa, mentre la pestilenza, le devastazioni e le stragi della guerra esterna ed interna seminavano dappertutto lo squallore e la morte. E fu il vero Medioevo nella storia della Sicilia.

Le vistose concessioni di Giacomo e di Federico d'Aragona avevano accresciuto la potenza della feudalità; le vicissitudini dei tempi e la debolezza dei sovrani ne acuirono lo spirito fazioso, che degenerò in anarchia. Durante il regno dell'imbelle Pietro II (1337-1342) e la minorità di suo figlio Ludovico, le lotte tra i Chiaramonte e i Palizzi da un lato e i Ventimiglia dall'altro sfociarono in un'accanita guerra tra parzialità latina, comprendente famiglie del più antico baronaggio e dominante in specie in Val Démone, in Val di Mazara e a Girgenti, e parzialità catalana, preminente in Val di Noto e a Catania.

Varie le vicende della guerra, che vide ascendere e precipitare alternativamente la fortuna delle due parti e il ricorrere di entrambe al vigile straniero; ciò dicono i casi di Giovanni e di Manfredi Chiaramonte, veri sovrani in Palermo, e di Matteo Palizzi, caduto e risorto e tornato tragicamente a cadere nella sua Messina.

Tanto disordine e incertezza doveva acuire gli appetiti di potentati stranieri, vicini e lontani: alla Sicilia guardarono Bernabò e Gian Galeazzo Visconti, Ladislao di Durazzo, Genova, l'Aragona soprattutto. Aveva la nobiltà affermato i suoi particolari diritti, assumendo la tutela della piccola Maria, l'unica erede di Federico III il Semplice (1355-1377), che, tra l'imperversare delle lotte intestine, aveva sottoscritto il ricordato trattato di Catania. Sennonché come i quattro principali baroni, che s'erano spartiti il vicariato del regno - i quattro vicarî -, non poterono impedire che la regina Maria venisse rapita, trasportata in Aragona e colà sposata con l'infante Martino, figlio del secondogenito di Pietro IV, del duca di Montblanc, così gli stessi baroni, dimentichi di quanto poco prima avevano stabilito nel convegno di Castronovo e sordi alle esortazioni pontificie e alla voce popolare, finirono col far omaggio a Maria e a Martino, che, accompagnati dal duca di Montblanc, erano sbarcati a Trapani nel 1392. Soli vindici della patria libertà, gli Aragona a Catania, sede preferita dalla dinastia aragonese, e i Chiaramonte a Palermo. Quivi si chiuse Andrea Chiaramonte e, assediatovi, si difese fin quando poté. Arresosi e graziato, fu poco dopo decapitato, mentre l'immenso patrimonio era confiscato e la famiglia dispersa.

Né la ferma volontà di dominio, che il duca di Montblanc portò in Sicilia e di cui resta traccia nell'intensa attività legislativa che prende nome da suo figlio Martino I, si affievolì quand'egli, per la morte del fratello Giovanni, divenne re d'Aragona. Ancora una volta egli fece energicamente reprimere le sommosse antiaragonesi, capeggiate dalla nobiltà e fomentate dal clero, e nei posti di comando ai Siciliani sostituì gli Aragonesi, a lui fedelissimi. Poi, morta nel 1401 la regina Maria, volle che Martino sposasse Bianca di Navarra, e, morto nel 1409, dinanzi alle mura di Cagliari ribelle, anche lo stesso Martino, egli, quale erede di suo figlio, avocò a sé la corona di Sicilia, riconfermandovi come vicaria la vedova regina Bianca.

Ora il programma, tenacemente perseguito per tutta la vita, di unire la Sicilia all'Aragona aveva talmente compenetrato la coscienza pubblica di questo paese, che, anche quando Martino II disparve (1410), la resistenza che esso oppose doveva render vani gli ultimi conati dell'isola a difesa della propria indipendenza.

Sui varî pretendenti (il conte di Luna, bastardo di Martino I, e il conte di Caltabellotta, Nicolò Peralta), che di tale indipendenza dicendosi paladini, avevano di nuovo scatenato la guerra civile in Sicilia; sulla condotta, discorde o ambigua, del baronaggio; contro le deliberazioni del parlamento siciliano, prevalsero le salde decisioni del parlamento aragonese, sedente a Caspe dal marzo al luglio 1412: la corona aragonese e quella siciliana, inseparabili, erano date all'infante Ferdinando di Castiglia, nipote di Martino II. Nell'aprile 1415 il nuovo sovrano inviava suo viceré in Sicilia il figlio Giovanni, duca di Peñafiel; il regno scadeva definitivamente a viceregno.

5. - Il viceregno (1402-1712). - Considerando come un periodo di transizione quello che intercede tra l'avvento al trono di Aragona e di Sicilia di Ferdinando di Castiglia e l'anno in cui Carlo d'Asburgo raccoglieva l'immensa eredità trasmessagli dagli avi materni, possiamo dire che il viceregno - Aragona prima, Spagna poi - rispose a molte esigenze della vita dell'isola; ma creò anche nuovi problemi, in parte conseguenza della partecipazione alla vita, sempre più tarata, della monarchia dominante.

Precipua cura fu la restaurazione dell'ordine interno, fondato sulla sottomissione al potere sovrano, per il cui consolidarsi e accrescersi lavorarono assiduamente i viceré. Non che mancasse, durante il periodo suindicato, qualsiasi anelito all'indipendenza. Le propensioni per Carlo di Viana, nato dalle seconde nozze di Bianca di Navarra, già regina di Sicilia, con Giovanni d'Aragona, al quale il fratello Alfonso V aveva lasciato i regni aragonese e siciliano (1458); la cacciata del viceré don Ugo di Moncada, ambizioso quanto nemico dichiarato dei nobili (1516); la congiura di Gian Luca Squarcialupo, sognante liberi reggimenti comunali, analoghi a quelli della Toscana dond'era oriundo (1517); per ultimo le trame dei fratelli Imperatore (Gian Vincenzo, Federico, Francesco e Cesare) che, connivente il cardinal Francesco Soderini, volevano togliere la Sicilia alla Spagna per dare la corona a Marcantonio Colonna sotto il protettorato della Francia (1523): tutti questi episodî denotano che il dominio forestiero non si consolidò in un attimo. Sennonché il tempo, i sistemi di governo castigliano o asburgico trapiantati in Sicilia, qualche efficace esempio di rigore ammansirono il fiero baronaggio e spensero in tutti ogni velleità politica. La pace interna, quindi, rotta soltanto da tumulti di plebi affamate, progredì di pari passo con l'immobilizzarsi delle energie spirituali ed economiche e col continuo stringersi alla potenza dominatrice, alla Spagna.

Riforme politico-amministrative non mancarono: Alfonso d'Aragona, che fu due volte nell'isola e che dopo la sua conquista del regno di Napoli si disse re di Sicilia citra et ultra Pharum (lontana radice della denominazione "Due Sicilie") indebolì i poteri feudali, subordinandoli a quelli centrali, riordinò l'amministrazione giudiziaria, fiscale e municipale; istituì l'università di Catania (1434); diede impulso al fiorire delle lettere attirando a sé i più colti umanisti, come il Panormita, e delle arti, la cui rinascita creerà cospicui monumenti nell'isola della seconda metà del secolo; la stampa, introdotta a Palermo nel 1476 e a Messina nel '78, contribuirà anch'essa potentemente alla diffusione della cultura.

Poi, con Ferdinando il Cattolico, comincia la subordinazione degl'interessi siciliani a quelli più schiettamente spagnoli: l'introduzione del tribunale del Sant'Uffizio - Inquisizione - (1487) serve a presidiare, come in Spagna, l'istituto monarchico e l'ortodossia cattolica; in armonia coi criterî prevalenti a Barcellona, vengono sfrattati anche dall'isola gli Ebrei, nonostante le proteste del Sacro Regio Consiglio e della città di Palermo, che vedevano sfuggire un elemento numeroso, ricco, intraprendente; sproporzionati aiuti pecuniari e militari deve il paese continuamente dare al solo scopo di sorreggere dapprima le imprese aragonesi nell'Africa settentrionale, poi quelle di Carlo V, di Filippo II e dei loro successori in Europa.

Il parlamento siciliano, che risaliva alle Curiae generales o solemnes del periodo normanno-svevo, fu lasciato sussistere dall'assolutismo asburgico. Ai baroni e ai vescovi ed abati del regno che lo componevano, erano stati aggiunti da Federico II di Svevia i rappresentanti delle città demaniali, donde, in virtù del posteriore influsso delle cortes catalane ed aragonesi, la divisione in tre bracci: militare, ecclesiastico, demaniale, e la costituzione d'una Giunta esecutiva permanente, la Deputazione del regno: comunque, rappresentanza non degl'interessi generali del paese, bensì degl'interessi particolari dei singoli ceti.

Anche se Federico II d'Aragona ne accrebbe i poteri e l'attività di esso fu più viva sotto i re aragonesi e castigliani, il parlamento non esercitò mai vere e proprie funzioni sovrane: in sostanza le sue attribuzioni si ridussero alla votazione periodica dei donativi, in occasione della quale però poteva chiedere al re provvedimenti d'interesse generale. Il che rappresentava sempre un limite alla potestà regia, e in conseguenza la fama di quella costituzione della vecchia Sicilia, che s'identificava non con patti specifici, che non esistevano, ma con i Capitula del regno, che Alfonso d'Aragona era stato l'ultimo sovrano ad accrescere nel 1432. Comunque, attraverso il parlamento ebbe modo di conservarsi forte la coscienza nazionale e il senso dell'indipendenza.

Mancando una borghesia attiva e fattiva; ridotte di numero le città demaniali, essendo il territorio del regno quasi tutto infeudato; snidati dai loro castelli i baroni e resili cortigiani nella capitale, il parlamento finì col divenire un organismo feudale ligio ai voleri vicereali. E la Spagna lo conservò.

Naturalmente il privilegio permeò di sé la vita dello stato, turbandone le funzioni. L'ultima dignitosa ripulsa del parlamento alle esorbitanti richieste pecuniarie della corona era stata nel 1478, viceré Giovanni Cardona conte di Prades; da allora, predominando gli ordini privilegiati, esso votò automaticamente, di volta in volta, i tributi ordinarî e gli straordinarî continuamente richiesti.

Il cosiddetto "caso di Sciacca", lotta cruenta esplosa in questa città nel 1459 e più tragicamente nel 1529, è un'ultima vampata dei fieri spiriti bollenti in due famiglie del vecchio baronaggio, i De Luna e i Perollo.

Poi l'antico spirito bellicoso trovò anche uno sfogo nelle guerre combattute dalla Spagna in Europa e contro un formidabile nemico, il Turco e i Barbareschi. La guerra d'Otranto e le guerriglie di Antonio de Abatellis e di Antonio Ventimiglia, onde, sul volgere del Quattrocento, Malta e Pantelleria furono difese e Gerba ritolta per un momento agl'infedeli, le spedizioni cinquecentesche del viceré don Ugo di Moncada, di Carlo V, dei viceré Ferdinando Gonzaga, Giovanni de Vega e di Giovanni La Cerda duca di Medinacoeli nell'Africa settentrionale, infine la difesa di Malta e la giornata di Lepanto, tutte queste imprese ricordano l'eroica condotta delle galee e dei contingenti siciliani. Però Carlo V non ricambiò tanti sacrifici, e l'isola non solo vide sfuggire Tunisi alla sua dipendenza e Malta e Tripoli infeudate ai cavalieri gerosolimitani, ma fra i dominî spagnoli essa si trovò la più esposta alle incursioni barbaresche. In definitiva, sulla Sicilia pesò la propria difesa; e ultimi bagliori di luce della lotta, che l'isola continuò a combattere contro l'oltracotante nemico, promanano tuttora dalle belle imprese di Ottavio di Aragona Tagliavia nel secondo decennio del sec. XVII.

La morte di Filippo II (1598) arrestò quella certa attività legislativa, che s'era avuta sotto il regno suo e di suo padre e ch'era servita a divellere abusi, a contenere privilegi, a modificare o a sopprimere vecchi istituti, a reprimere il brigantaggio nelle città e nelle campagne, a migliorare l'amministrazione della giustizia, ecc. Insomma, attività necessaria e benefica. Poi, mancando l'impulso madrileno e inclini gli animi all'inerzia, la bontà del governo si misurò dalle qualità e dallo zelo dei viceré, i quali, in realtà, salvo rare eccezioni, preferirono adattarsi alle circostanze e all'ambiente, non facile a dominare. Anche se buoni propositi si concepirono, essi svaporarono facilmente, al ricordo di quanto avevano sofferto viceré operosi ed energici, quali Marc'Antonio Colonna, Pietro Téllez Girón duca d'Osuna, il conte Giovanni de Vega, Diego Enríquez de Guzmán duca d'Albadelista: contrasti col Parlamento, con la nobiltà, col clero, con le varie magistrature, coi corpi municipali, tutti attaccati ai rispettivi privilegi e consuetudini; col Sant'Uffizio, che Madrid aveva fatto un'inespugnabile roccaforte di privilegiati e una vedetta sull'amministrazione dell'isola. Da tanta dura esperienza traggono ispirazione e materia gli ammonimenti di Scipione De Castro ai viceré di Sicilia.

Avvincendo così tutto e tutti la tendenza all'adattamento, la vita s'inaridì e s'intorpidì. Ogni novità spirituale doveva restarvi disseccata: fu la sorte dei pochi germi di protestantesimo, ben presto soffocati dall'Inquisizione. Solo i clamori di sterili contese turbano di tanto in tanto il monotono fluire della vita: così quella, la più famosa, tra Palermo e Messina, per la vieta questione del primato nel regno; e così le gare di preminenza fra ceti e corpi e persone, e via dicendo.

Contrastano con l'inerzia e la povertà morale dell'epoca la frivolezza, il lusso e la magnificenza specialmente degli altolocati, che, disertati i campi e abbandonatili in mano ad ingordi amministratori, trova nel maggiorascato e nella primogenitura il comodo mezzo per salvare l'integrità dei patrimonî, che i debiti vengono sempre più corrodendo.

Priva l'isola d'industrie, di traffici e di capitali e quindi d'una borghesia dedita agli affari, asservito il ceto burocratico e dei professionisti ai potenti, di contro a questi sta una plebe, numerosa e misera sia nelle campagne sia nelle città. Nelle prime sopravvivono resti di servitù personale, e non pertanto, la plebe, indurita nel sacrifizio, vive oscuramente di lavoro e di stenti; nelle seconde, i mestieri, monopolizzati nella numerose corporazioni, la precaria occupazione, l'accattonaggio, la carità delle provvide opere pie sovvengono quotidianamente una turba variopinta in continuo aumento.

Il governo temeva codesta folla e s'industriava a tenerla calma mercé la vendita del pane a buon mercato. Sennonché i vieti sistemi economici, le frequenti magre agricole, le epidemie, le disseccanti urgenze del fisco non solo frustrarono spesso questo criterio, ma portavano all'imposizione di nuove o all'inasprimento delle vecchie gabelle, sempre assorbite dal proletariato. Tale condizione di cose produsse, nel biennio 1647-48, lo scoppio di tumulti nei tre Valli dell'isola, ma più gravi e impressionanti essi furono a Palermo, ove maggiore era il contrasto tra la nobiltà lussuosa e prodiga e la plebe numerosa e affamata.

Difatti nobili e popolani si trovarono di fronte in questi moti, che, provocati dall'incoerente politica annonaria del senato palermitano ed esplosi nel maggio 1647, riarsero più impetuosamente, alle notizie dei contemporanei rivolgimenti napoletani, nell'agosto, capo un battiloro, Giuseppe Alesi, che venne eletto capitano generale. Lealismo dichiarato per il re di Spagna; ma, assalito il palazzo reale, il viceré dovette porsi al sicuro; nuovi capitoli furono approvati, in forza dei quali si abolivano le gabelle e nobili e popolani venivano ad avere eguale rappresentanza nell'amministrazione civica della capitale; alle maestranze, che irreggimentavano tanta massa di popolo, passò il presidio di quest'ultima.

Otto giorni durò la fortuna dell'Alesi, tra i fumi inebrianti dell'esaltazione democratica: come Masaniello a Napoli, egli doveva essere massacrato da quello stesso popolo, che i suoi nemici avevano trovato modo di sobillargli contro.

Non per questo la pace tornò; ché anzi i motivi politici, latenti nel moto economico-sociale alesino, prevalsero nei posteriori complotti e sedizioni, comprovando la presenza di non trascurabili correnti antispagnole con miraggi non solo autonomistici, ma anche repubblicani. Ciò nelle congiure di Francesco Vairo, Gabriele Platanella, Pietro Milano, mentre in quella ordita nel 1649 dal legista Lo Giudice, già consigliere dell'Alesi, e in cui convennero esponenti della cultura e dell'aristocrazia, si tramò di eleggere re di Sicilia, alla morte di Filippo IV, il conte di Mazzarino.

La Spagna superava la crisi. La superava non solo per effetto della severa reazione, per cui si adoperarono viceré, inquisizione, nobiltà, che si riprese le perdute prerogative, ma anche a causa delle intrinseche deficienze, che incrinarono tutto il moto antispagnolo in Italia a metà del sec. XVII.

Più cupa risonanza ebbero la rivoluzione di Messina nel 1674 e le relative complicazioni. Al contrario di Palermo, città aristocratica e fastosa, Messina viveva del commercio del suo floridissimo porto e delle industrie, tra cui cospicua quella serica. Queste attività, connesse con le remote tradizioni borghesi di Messina, le fruttarono da parte di tutti i governi, compresa la Spagna, amplissime prerogative, onde la sua invidiata posizione giuridica e politica nel regno.

Eppure tuttociò non appagava la ricca borghesia messinese, che deteneva l'amministrazione della città e formava la fazione dei Malvizzi: in questa fazione un gruppo avanzato, raccolto nella società segreta La Setta, voleva fare di Messina una repubblica. Per contenere siffatte velleità, lo stratigoto, rappresentante del governo spagnolo, non solo fece leva, contrariamente a quant'era avvenuto a Palermo, sulla fazione popolare, i Merli, ma cominciò a intaccare i privilegi della città: il che colpiva le industrie e i commerci di Messina e offendeva il vivace civismo della grassa borghesia. Donde conflitti, che, inaspriti dalla carestia e dalla disoccupazione, degenerarono in violenti tumulti nel 1674. Cacciato lo stratigoto, strappati i baluardi della città ai presidî spagnoli, s'invocò la protezione di Luigi XIV, che, cupido d'una base navale nell'ambito Mediterraneo e felice di trovarvi un eccellente diversivo alla guerra di Fiandra, inviò subito aiuti a Messina.

Le acque di Sicilia, divenute teatro del grande conflitto, videro, continui e rilevanti, i successi che sugli Spagnoli e sui loro alleati Olandesi riportarono i Francesi. Sennonché, allettati da promesse d'ingrandimenti territoriali sul Reno, essi non esitarono a restituire Messina al suo vecchio padrone. Feroce la reazione, nonostante la promessa d'un generoso perdono: la città, già fiorente e popolosa, ridotta a poche migliaia d'abitanti; strappati tutti i privilegi, l'antico senato, elettivo, fu sostituito da una ristretta magistratura di nomina regia; la Zecca e l'Università soppresse; le imposte inasprite; gettate le basi d'una cittadella; e, dopo tutto, data commissione a Giacomo Serpotta di fondere, col bronzo della campana maggiore del duomo, i cui rintocchi avevano chiamato i cittadini a parlamento, una statua equestre raffigurante Carlo II d'Asburgo in atto di schiacciare l'idra rivoluzionaria (1678).

Certo la rivoluzione era stata di nuovo domata. La Spagna aveva potuto trarre profitto da impreviste congiunture: parecchie città siciliane non si erano mosse, vuoi perché memori del contegno serbato da Messina nel 1647, vuoi per il suo appello alla Francia, sin dal "Vespro" invisa in Sicilia; si aggiunga la prepotente e interessata condotta degli stessi Francesi in Sicilia. Quegli scatti d'insofferenza, l'ardore incontenibile di certi ceti mediani, denotavano una vitalità che non poteva rassicurare la Spagna. E poi le vittorie (Lipari, Augusta, ove cadde l'ammiraglio olandese M. Ruyter, Palermo) riportate dalla flotta francese creata dal Colbert furono così considerevoli, da potersi ritenere per sempre finita la potenza spagnola nel Mediterraneo. E con essa la sua egemonia in Italia.

6. - Savoia, Asburgo d'Austria e Borboni di Napoli in Sicilia (1712-1818). - A Vittorio Amedeo II di Savoia, che si era onorevolmente battuto contro la coalizione franco-ispana, il trattato di Utrecht assegnava la corona di Sicilia: così volle l'Inghilterra, che, divenuta, con l'acquisto di Gibilterra e di Minorca, guardiana del Mediterraneo, doveva impedire che in questo mare predominasse la Francia. Ma, oltre che filosabauda, la politica inglese era contemporaneamente filoasburgica, onde cinque anni dopo, nel 1718, in seguito alle guerre della Quadruplice Alleanza, essa appagava il desiderio dell'Austria, dandole, in cambio della Sardegna, la Sicilia, già meta d'una spedizione del card. G. Alberoni. Nel 1734 nuova conflagrazione europea a causa della successione di Polonia, con l'assenza dell'Inghilterra; e Carlo di Borbone, figlio di Filippo V, può insignorirsi del Napoletano e della Sicilia, scacciandone gli Austriaci.

Il 3 luglio 1735 Carlo di Borbone cingeva nel duomo di Palermo la corona del regno e giurava di osservarne, come già Vittorio Amedeo II, capitoli e privilegi; poi ritornava a Napoli, sede della corte e della suprema direzione delle due monarchie.

Mancò alla dominazione sabauda, come a quella austriaca, il tempo per gettare radici in Sicilia; pur tuttavia né l'una né l'altra si disinteressò delle sue condizioni, che, infelicissime, richiedevano cure non disgiunte da tatto.

Avendo trovato acceso un accanito conflitto giurisdizionale con la Curia Romana, cosa non rara anche nel periodo precedente, Vittorio Amedeo II sostenne con fermezza i diritti dello stato, specialmente quando dalla Curia fu soppressa l'Apostolica Legazia. Trascinatosi per qualche decennio tra polemiche e rappresaglie dall'una parte e dall'altra, il conflitto fu composto nel 1728. Si abbozzarono poi riforme, rimaste quasi tutte sulla carta per l'erompere di difficoltà, che Piemontesi e Savoiardi, preposti spesso ai Siciliani, non erano tali da superare. Sicché le belle intenzioni del primo re sabaudo restarono inattuate, né in Sicilia egli lasciò simpatie. Gli ricordarono invece con nostalgia l'isola i Siciliani che lo seguirono e lo servirono con onore in Piemonte.

Né più fortunato fu Carlo VI d'Asburgo, il cui nome è specialmente legato agli sterili conati di ridar vita ai commerci e alle industrie di Messina, dichiarata porto franco nel 1728, e di risollevare le sorti dell'industria della seta e della produzione granaria siciliana, al cui collasso avevano contribuito e il pessimo regime monopolistico e la concorrenza dei paesi danubiani. Cosicché la crisi economica si accentuò, contribuendovi anche la rarefazione della moneta e il fiscalismo degli Asburgo, più teneri certamente dei proprî interessi che non del benessere del paese soggetto.

Inefficace altresì qualche provvedimento di Carlo Borbone, e perché non rispondente ai mali, non ancora indagati, del regno, e per certe difficoltà intrinseche al suo stesso reggimento. Il viceré Giovanni Fogliani, fra i meno pigri, fu cacciato a furia di popolo nel 1773.

Un ardente desiderio di rinnovamento, frutto dell'illuminismo attinto dai più rinomati circoli intellettuali di Parigi, ov'era stato ambasciatore ammiratissimo di Ferdinando IV (III di Sicilia), portò con sé nell'isola nel 1781, il viceré marchese D. Caracciolo.

L'abolizione del tribunale del Sant'Uffizio fu il segnale della lotta da lui impavidamente ingaggiata contro quanto era o gli appariva anacronistico o non consono con quell'assolutismo illuminato, che, ideale del tempo, ispirava già la politica del regno di Napoli. E perciò, smantellando privilegi e ferendo privilegiati, abbassando i potenti ed elevando gli umili, strappando in tutti i settori dell'organismo statale abusi e sistemi inveterati e adoperandosi a rinvigorire il potere centrale, il Caracciolo scosse dal suo torpore l'isola. Inevitabili le resistenze contro un riformatore così audace e contro riforme che, risentendo dell'astrattismo di chi le ideava, non sempre rispondevano alle effettive condizioni del paese. Il contrasto s'imperniò sopra un nuovo progetto di ripartizione delle imposte, all'indomani del terremoto da cui fu distrutta Messina nel 1783. Quel progetto, sopprimendo ogni privilegio tributario e avviando verso ulteriori livellamenti giuridico-politici, annientava indirettamente le funzioni del parlamento: donde un urto gravissimo fra viceré e Deputazione del regno, urto che, se lasciò inattuato il progetto, valse non solo a ridestare la coscienza costituzionale del ferito baronaggio, ma a dischiudere alla nuova cultura le vie della Sicilia.

Una delle ragioni per cui alle riforme del Caracciolo era mancato l'humus necessario per farle attecchire, era stato appunto l'isolamento culturale dell'isola. Scarsa risonanza o critici per nulla inclini ad accoglierne le estreme conseguenze vi trovò difatti l'enciclopedismo francese. Società perciò refrattaria alle ideologie rivoluzionarie, o, per lo meno, con aspirazioni abbastanza moderate e circoscritte: lo dicono i non troppi scrittori che fiancheggiarono, specialmente sul terreno economico legislativo, l'azione riformatrice di Carlo d'Aquino principe di Caramanico, la quale, anche per la minor energia, doveva essere al paese meno ostica di quella del Caracciolo. E più o meno irrilevanti i germi che il giacobinismo disseminò qua e là segnatamente in mezzo alla borghesia evoluta o facoltosa: nel 1795 cadeva sul patibolo la testa del giurista Francesco Paolo di Blasi, già consigliere del viceré Caramanico; nel 1801 quella di Antonio Piraino, ricco mercante, reo d'un tentativo di democratizzazione della sua Catania.

Nella Sicilia, pacifica, idilliaca (quale allora la sentiva il suo grande poeta, Giovanni Meli), la corte borbonica si rifugiò quando Napoli fu invasa dalle armi francesi nel 1799, e vi si trattenne fino al 1802, per ritornarvi nel 1806 e attendervi, in convulsa quanto incrollabile fiducia, il crollo della potenza napoleonica. Durante questo secondo soggiorno nell'isola, maturò tra la corte e i Siciliani un dissidio che doveva divenire insanabile. Causa essenziale del dissidio, le cui scaturigini, risalivano al viceregno del Caracciolo, gli attentati alla costituzione siciliana, che, incompatibile con l'assolutismo borbonico, apparve più incompatibile con le esigenze politiche e finanziarie della gravissima ora. Legittimo tutore della costituzione, ch'è quanto dire dell'individualità storica e politica della Sicilia, si levò allora il Parlamento, ossia l'aristocrazia feudale. La quale, nel mentre che il conflitto, per l'arresto di cinque fra i maggiori corifei dell'opposizione parlamentare (G. Ventimiglia principe di Belmonte, C. Cottone principe di Castelnuovo, G. Riggio principe di Aci, G. Alliata principe di Villafranca, A. Gioeni duca d'Angiò) entrava nella fase più drammatica, trovò un insperato sostegno in lord W. C. Bentinck, ministro plenipotenziario, prepotente e spregiudicato, dell'Inghilterra nell'isola: la vigile tutela inglese, non troppo gradita alla corte borbonica, era in relazione col momento storico e con la posizione geografica della Sicilia, adocchiata tra l'altro anche da Gioachino Murat da Napoli. Il risoluto intervento del Bentinck, sorretto dalla forza di 14 mila uomini, impose al re non solo di abrogare i decreti incostituzionali fino allora promulgati e di affidare il potere al principe ereditario Francesco, eleggendolo suo vicario generale, ma di accettare la riforma della vecchia costituzione. Trionfo, dunque, grazie all'appoggio dell'Inghilterra, della rivoluzione parlamentare.

La nuova costituzione, elaborata da Paolo Balsamo in gran parte sul modello inglese, fu approvata nel 1812. In virtù di essa si ebbero, fra l'altro, due Camere, quella dei Pari, composta dai membri dei due estinti Bracci privilegiati, e quella dei Comuni, elettiva; ma le attribuzioni regie erano in realtà molto più limitate di quanto non fosse nel modello inglese.

Tutt'altro che ordine apportò la costituzione. Le intemperanze e le lotte dei partiti (i cronici, dal giornale La cronaca di Sicilia, costituzionali e filobritannici, e gli anticronici, realisti e rivoluzionarî) le discordie in seno al parlamento e la conseguente instabilità dei ministeri, determinarono una crisi, di cui il lato politico fu solo il più appariscente. La qual cosa durò quanto quella critica situazione della dinastia borbonica. Richiamato difatti il Bentinck in Inghilterra e cessata, con la caduta di Napoleone, la causa della permanenza d'un presidio inglese in Sicilia, decisa l'Europa a comprimere i semi di liberalisrno e a restaurare il vecchio assolutismo, fu facile a Ferdinando di Borbone unire, col beneplacito delle potenze, in uno solo i due regni di Napoli e di Sicilia. Il 15 maggio 1815, alla vigilia del suo ritorno a Napoli, egli aveva sciolto il parlamento; l'8 dicembre 1816 aboliva la costituzione e si denominava "Ferdinando I re del regno delle Due Sicilie": la secolare indipendenza siciliana era finita.

7. - La Sicilia nel regno delle Due Sicilie (1815-1860). - Per il "regno delle Due Sicilie", creazione del Congresso di Vienna, la Sicilia, lesa nella sua coscienza politica quanto tenace nel proposito di non lasciarsi "napolitanizzare", costituì una tara originaria, che accelerò l'intimo disfacimento della monarchia. Indipendenza e costituzione fu il programma che il "sicilianismo" oppose al concorde sentire della classe dirigente napoletana circa la "questione siciliana" e alla tirannia dei Borboni.

Onde terrenti propizio, presso tutte le categorie sociali, per il lavorio delle sette, quali la Massoneria e la Carboneria. La prima rivoluzione esplose nel luglio 1820, appena si seppe dei moti napoletani, ma con pernicioso contrasto iniziale fra i due moti, dato il carattere separatistico del moto siciliano, reclamante l'indipendenza da Napoli e la costituzione del '12. E Palermo, che più aveva sofferto della minorazione dell'isola, fu all'avanguardia della rivoluzione: quivi, costretto a fuggire il luogotenente generale Diego Naselli, sulla Giunta provvisoria di governo, già creata per arginare i disordini erompenti, gravò la direzione del movimento. Impotente a rendere concordi gli animi, la Giunta fu inferiore al suo compito. Poiché, mentre la borghesia propendeva per la costituzione del '12, la nobiltà invece per quella spagnola del '20, come più confacente agl'interessi della casta; mentre le città, scisse da fazioni, recalcitravano alla capitale, questa, riarmate le sue corporazioni, mostrò con tali forze di voler imporre all'interno la sua volontà e di sorreggerla all'esterno con l'invocato aiuto della flotta britannica. Minacciava l'anarchia e si ostacolavano le conquiste della rivoluzione napoletana, sicché quel Parlamento decise di far partire per la Sicilia una spedizione militare al comando del generale Florestano Pepe allo scopo di restaurarvi l'ordine. La prudenza da cui questi si lasciò guidare nel venire a patti con la Giunta non valse a impedire che il popolo scattasse in tumulto, si scagliasse contro le truppe regie e divenisse arbitro di Palermo. E allora il Pepe fu sostituito con Pietro Colletta; ma, per quanto energica fosse la sua condotta, restò un desiderio che i deputati siciliani raggiungessero il Parlamento convocato a Napoli. Frattanto l'intervento austriaco, soffocando la rivoluzione napoletana, smorzava anche gli animi in Sicilia.

Pur non recedendo dalla intrapresa fusione delle Due Sicilie, sia Ferdinando I, sia il successore, Francesco I, non trascurarono le condizioni dell'isola. Fra i provvedimenti intesi a rinnovarvi la pubblica amministrazione e a ravvivarne la trasandata economia, non mancò neppure qualche concessione diretta a placare l'esasperato spirito autonomistico siciliano; così nel riordinamento dello stato seguito alla rivoluzione del 1820. Ma l'isola conservò il suo atteggiamento sdegnoso: lo dicevano, con la persistente attività delle sette, le congiure di Salvatore Meccio, Gaetano Abela, Domenico Di Marco, susseguentisi l'una all'altra.

Tale insanabile contrasto tra il Borbone e lo spirito pubblico siciliano diede luogo a manifestazioni addirittura tragiche sotto il regno di Ferdinando II. Varie volte questi visitò l'isola e ne ebbe sinceramente a cuore le sorti, dimostrandolo con l'inviarvi, come suo luogotenente, il fratello Leopoldo, affaticandosi a rimuovere le vecchie cause di malcontento, riprendendo l'interrotto modernizzamento degl'istituti. Non ne ricavò nulla: nel 1837, la rivoluzione, provocata dal colera, che mieté vittime a migliaia, assunse violenza inaspettata a Catania e a Siracusa. All'inflessibile reazione si associò un regime di compressione, che doveva ancor più alienare gli animi dalla dinastia e da Napoli.

Poiché la cultura isolana, venendo a contatto coi grandi movimenti mazziniano e giobertiano, sembrava dovesse vieppiù irrobustire la coscienza della lesa "nazione" siciliana: nel 1842 appariva la celebre opera di Michele Amari sul "Vespro". E nel gennaio 1848 l'insurrezione divampava in tutta l'isola e assumeva di fronte a quella napoletana, nonostante il concorde lavorio dei cospiratori di entrambe le parti della monarchia, caratteri suoi particolari.

All'avanguardia della rivoluzione stette un'altra volta, come nel 1820, il popolo di Palermo, il cui esempio, seguito dappertutto, costrinse in breve le truppe borboniche ad abbandonare l'isola. Dopo il fallimento della mediazione dell'Inghilterra, nella quale il Comitato generale, che aveva assunto il governo provvisorio, s'era illuso di trovare una protettrice tradizionale della Sicilia, affinché Ferdinando II accordasse all'isola una costituzione separata, il Parlamento, eletto il 15 e adunatosi il 25 marzo, dichiarò decaduta la dinastia borbonica, conferì la reggenza del regno a Ruggiero Settimo, capo del governo provvisorio, deliberò di unire il regno stesso alla Federazione italiana e, invano, più tardi offrì la corona al duca di Genova, secondogenito di Carlo Alberto.

Non lievi le difficoltà che travagliarono il risorto regno. Fecero difetto nelle sfere dirigenti le qualità richieste dallo scabroso momento; inadeguate le forze armate; insufficienti quelle finanziarie; e non pertanto, fu inviato in Calabria, per aiutarvi la rivoluzione, un corpo di truppe, che finirono prigioniere del Borbone. Né più felici furono i risultati ottenuti in sede diplomatica, poiché, nonostante il contingente spedito in Lombardia e i legati presso le corti italiane, il separatismo siciliano non solo non riuscì a coordinarsi col movimento liberale della restante Italia, ma suscitò diffidenza in tutti. E di qui un disagio politico, con ripercussioni impressionanti nel campo economico-sociale.

L'allocuzione pontificia del 29 aprile; il 15 maggio a Napoli; Custoza, e insomma il fallimento dell'esperienza liberale federalista, segnarono la fine dello Stato siciliano. Già nel settembre Messina aveva capitolato, dopo cinque giorni di bombardamento. Spirato l'armistizio imposto dall'Inghilterra e dalla Francia, controllantisi reciprocamente perché l'isola non cadesse in mano d'una di esse, Carlo Filangieri principe di Satriano occupò Taormina, Catania e Siracusa e poi si volse contro Palermo, dove il 20 aprile il governo provvisorio rimise i poteri al municipio. Contro la capitolazione da questo sottoscritta, il popolo si levò in armi e si batté con accanimento; ma il 15 maggio 1849 il Borbone era di nuovo padrone della città.

Quella del 1848-49, con i suoi postumi immediati, fu l'ultima rivoluzione regionalistica della Sicilia. Nei liberali dell'isola, esuli o sfuggiti alla reazione, si venne diffondendo la convinzione che bisognava inalveare il movimento isolano nel grande movimento unitario italiano. Alcuni, quindi, auspice Francesco Crispi, guardarono al Mazzini; altri, come Giuseppe La Farina, segretario della "Società Nazionale", riposero le loro aspettative nel Cavour. Frattanto agenti mazziniani guadagnavano alla rivoluzione unitaria elementi fra tutti gli strati sociali dell'isola: nel 1857 il barone Francesco Bentivegna espiava a Palermo, con la fucilazione, un tentativo rivoluzionario da lui infelicemente capeggiato; il 4 aprile 1860, alla vigilia dell'impresa garibaldina, un fontaniere, Francesco Riso, ruppe gl'indugi e anticipò, dal convento della Gancia di Palermo, un'insurrezione tragicamente finita.

Ma i tempi erano ormai maturi, anche se, all'ultimo momento, esitazioni e titubanze non mancarono in mezzo a quegli stessi che sollecitavano la liberazione dell'isola. E intanto la spedizione liberatrice, sfuggita alla crociera borbonica, sbarcava a Marsala l'11 maggio 1860: era Giuseppe Garibaldi coi suoi Mille, fra cui il Crispi, anima della spedizione, e un manipolo di esuli siciliani, capitanati da Giuseppe La Masa. Tre giorni dopo egli assumeva a Salemi la dittatura in nome di Vittorio Emanuele, mentre cominciavano ad arrivare le prime squadre degl'insorti siciliani, i cosiddetti "picciotti".

La vittoria di Calatafimi (15 maggio), la presa di Palermo (27 maggio), la vittoria di Milazzo (20 luglio) liberarono completamente l'isola. A Francesco II non restava che la cittadella di Messina, mentre la spedizione salpava, attesa da nuovi trionfi, sul continente (v. mille, spedizione dei).

Il Cavour, diversamente da Vittorio Emanuele II, non era stato favorevole all'impresa garibaldina: temeva attraverso gli sviluppi di essa, opera del partito d'azione, complicazioni pericolose. Solo dopo la capitolazione di Palermo il Cavour aiuta apertamente l'impresa. Sennonché il suo proposito dell'immediata annessione incontrò forti ostacoli nel Crispi e nel partito d'azione, che all'annessione diceva di voler arrivare dopo la liberazione dello stato pontificio e del Veneto. La qual cosa, innestandosi ad altre preoccupazioni, portò all'intervento dell'esercito regio, attraverso le Marche e l'Umbria, nel Napoletano; donde la sconfitta, in questo e in Sicilia, di tutti gli antiannessionisti. Il 21 ottobre il plebiscito consacrava l'annessione e la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele; il 12 dicembre questi entrava in Palermo tra il delirio della popolazione; il 12 marzo 1861, investita dal generale E. Cialdini, capitolava la cittadella di Messina.

8. - La Sicilia contemporanea (1861-1935). - Per un pezzo l'isola visse sotto un'amministrazione straordinaria, militare, di Torino, che non sempre comprese la situazione spirituale determinata dall'annessione, né soddisfece i bisogni urgenti del paese. Donde un malcontento generale, palese nella riluttanza alla coscrizione obbligatoria, introdotta per la prima volta, al pagamento delle tasse inasprite. In questa atmosfera, avvelenata da passioni e ostile al governo, Garibaldi, accolto entusiasticamente a Palermo nel giugno 1862, lanciò il grido Roma o morte e reclutò gran parte dei volontarî per la progettata marcia su Roma. Al fatale scontro fra regi e volontarî ad Aspromonte onde l'impresa svanì, sopravvissero in Sicilia odî e recriminazioni, che non solo fomentarono per un pezzo funeste agitazioni, ma fecero sì che il partito repubblicano vi guadagnasse non poco terreno.

Il malcontento risultò in modo particolare nella ribellione di Palermo nel 1866, mentre l'esercito italiano si trovava impegnato nel Veneto. Il suo momentaneo successo fu dovuto alle squadre d'insorti che, provenienti da ogni parte dell'isola, s'impadronirono di Palermo e v'istallarono un governo provvisorio, che durò una settimana.

Severa la repressione; ma il fatto, gravissimo, ingenerò il bisogno di ricercare le cause di quel disagio che inquinava la vita dell'isola: di qui le "inchieste" governative e private, fra le quali emerge, per acume e compiutezza analitica, quella di L. Franchetti e di G. Sidney Sonnino (1876). Da codeste diagnosi di mali politico-sociali emerse che solo alcuni di essi, i più recenti, offrivano comodo appiglio agli oppositori d'un governo colpevolmente ignaro delle condizioni dell'isola, ma gli altri profondavano le radici nel terreno storico di quest'ultima ed erano di carattere economico-sociale. Tanto vero che, dileguandosi gli estremismi politici, perdurò nelle campagne il brigantaggio e nelle città la cosiddetta mafia, torbido strumento di prepotenza e di violenza privata in una società priva ancora della coscienza d'una autorità pubblica.

Non mancarono rimedî per risanare tale ambiente, rimedî purtroppo insufficienti e inadeguati e perciò sterili. Onde, nell'ultimo decennio del sec. XIX, la lotta politico-sociale s'imperniò sulle ideologie marxistiche e riagitò vecchi problemi allettanti le masse: spartizione dei demanî, dei latifondi, antica piaga dell'economia isolana. Contro i Fasci dei lavoratori, promotori d'un nefasto spirito di rivolta, reagì energicamente il Crispi, presidente del consiglio dei ministri, nel 1894. Ma i problemi insoluti, tornarono sul tappeto e conservarono, col persistere di morbosi fenomeni sociali, un particolare carattere di attualità.

Dileguandosi quella cultura, nella quale s'era rifugiato, dopo l'annessione, il sicilianismo agente nel separatismo politico, l'isola sentì sempre più la sua italianità. Esempio inobliabile di eroismo diedero i Siciliani nella guerra del 1915-18 che restituì alla patria i suoi confini naturali. Il fascismo, interprete premuroso dei bisogni dell'isola, ha l'innegabile merito d'aver oggi risolto problemi che da tempo reclamavano una risoluzione riparatrice e risanatrice.

Bibl.: Fondamentali sono, per la bibliografia della storia della Sicilia, l'Archivio storico siciliano (dal 1873), e i numerosi volumi di Fonti e Documenti, pubblicati dalla Società siciliana di storia patria, l'Archivio storico per la Sicilia orientale (dal 1904), l'Archivio storico messinese (1900-1911 e 1934 segg.).

Tuttora utili sono l'Antiquitatum et Historiarum Siciliae Thesaurus di G. G. Grevio e P. Burmanno, voll. 15, Leida 1723; G. B. Caruso, Bibliotheca historica regni Siciliae, voll. 2, Palermo 1823; e R. Gregorio, Bibl. scriptorum, qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere, voll. 2, Palermo 1791-92, che ristampano opere antiche difficilmente accessibili nelle edizioni originali; il Caruso e il Gregorio sono però in gran parte sostituiti dai Rerum Ital. Scriptores.

Storie generali: T. Fazello, De rebus siculis, decades II, Palermo 1558 e Catania 1749-1753; trad. it., Palermo 1851; F. Maurolio, Sicanarum rerum compendium, Messina 1562; ivi 1716; trad. it., Palermo 1849; G. Buonfiglio Costanzo, Della storia siciliana, Venezia e Messina 1604-1613; 2ª ed., voll. 2, Messina 1738-39; G. B. Caruso, Memorie ist. di quanto è accaduto in Sicilia, ecc., voll. 5, Palermo 1716-1744; 3ª ed., voll. 4, ivi 1875-78; J. De Burigny, Histoire générale de Sicile, voll. 2, L'Aia 1745; G. E. Di Biasi, Storia civile del regno di Sicilia, voll. 17, Palermo 1811-21; 3ª ed., voll. 3, ivi 1844-47; N. Palmeri, Somma della storia di Sicilia, voll. 5, ivi 1834-48; 3ª ed., ivi 1856; F. Ferrara, Storia generale di Sicilia, voll. 9, ivi 1838; G. Di Marzo-Ferro, Un periodo di storia di Sicilia dal 1774 al 1860, voll. 2, ivi 1863; G. Libertini e G. Paladino, Storia della Sicilia, Catania 1933; L. Natoli, Storia della Sicilia, 1935. Aggiungiamo questi altri lavori di carattere generale: R. Gregorio, Opere scelte, 3ª ed., Palermo 1845 (fondamentali per il diritto pubblico); L. Bianchini, Storia economico-sociale di Sicilia, Napoli 1841; I. La Lumia, Storie siciliane, voll. 4, Palermo 1884; V. La Mantia, Storia della legislazione civile e criminale di Sicilia, ivi 1874; E. Besta, Il diritto pubblico nell'Italia meridionale, Padova 1929; G. Di Marzo, Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, voll. 28, Palermo 1864; L. Genuardi, Parlamento siciliano, in Atti delle Assemblee costituzionali italiane, Bologna 1924; L. Natoli "Maurus", Storia di Sicilia, Palermo 1935.

Da questi volumi e dalla bibliografia su cui sono fondati, si può anche risalire alle fonti della storia della Sicilia. Ci limitiamo a richiamare, sui varî periodi di essa, le opere che riteniamo essenziali.

Per l'età bizantina: A. Holm, Geschichte Siciliens im Alterthum, voll. 3, Lipsia 1870-98 (trad. ital., voll. 3, Torino 1893-1906). Per l'età araba: M. Amari, Storia dei musulmani di Sicilia, Firenze 1854-1872, voll. 3 (da usare nella 2ª ed. modificata e aggiornata in corso di stampa a Catania, della quale sono usciti i voll. I e II, 1933-1935); id., Biblioteca arabo-sicula, Lipsia 1857 (con Appendice, 1875, e Seconda Appendice, 1887), trad. ital., Torino e Roma 1880-81, voll. 2 (Appendice, 1889; esiste anche una ed. in-fol. in unico vol. pubblicata contemporaneamente quale Additamenta ai Rerum Italicarum Scriptores); Centenario della nascita di Michele Amari, Palermo 1910, voll. 2 (con materiali arabi nuovi); non del tutto inutile A. A. Vasiliev, Byzance et les Arabes, tard. franc. aggiornata di H. Grégoire, ecc., Bruxelles 1935 segg. (uscito finora il vol. I; l'originale russo, Pietroburgo 1900-1902, voll. 2, arriva al 959).

Per la monarchia normanno-sveva: F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, voll. 2, Parigi 1907; Il Regno Normanno (studî di E. Pontieri, P. S. Leicht, E. Besta, A. Solmi, G. M. Monti, A. De Stefano, F. Valenti per l'VIII Centenario dell'incoronazione di Ruggiero a re di Sicilia), Messina-Milano 1932; E. Caspar, Roger II. u. die Gründung der Normanner-Sizil. Monarchie, Innsbruck 1904; W. Cohn, L'età degli Hohenstaufen in Sicilia, trad. G. Libertini, Catania 1932; G. B. Siracusa, Il regno di Guglielmo I in Sicilia, 2ª ed., Palermo 1930; W. Cohn, Die geschichte der normannisch-sizilischen Flotte, voll. 3, Breslavia 1910-1927; L. Genuardi, Il comune nel Medioevo in Sicilia, Palermo 1921; E. Kantorowicz, Kaiser Friedrich der Zweite, voll. 2, Berlino 1927-31; E. Pontieri, La pretesa fellonia di Pietro Ruffo, Palermo 1926; M. Schipa, Sicilia e Italia sotto Federico II, Napoli 1928. Fondamentali sono poi le innumerevoli indagini di C. A. Garufi sull'età normanno-sveva, disseminate in gran parte in atti accademici o nell'Archivio storico siciliano.

Per il periodo dalla secessione del Vespro al tramonto dell'indipendenza: M. Amari, La guerra del Vespro Siciliano, 9ª ediz., voll. 3, Firenze 1886; O. Cartellieri, Peter von Aragon und die sizialinische Vesper, Heidelberg 1904; P. Egidi, La "Communitas Siciliae" del 1282, Messina 1914; H. Rohde, Der Kampf und Sizilien in den Jahren 1291-1302, Berlino 1913; V. Epifanio, Gli Angioini di Napoli e la Sicilia, Napoli 1930. Notevoli, sui precedenti del Vespro, i recenti saggi dello Sthamer. Inoltre: S. V. Bozzo, Note storiche siciliane del secolo XIV, Palermo 1882; E. Haberkorn, Der Kampf um Sizilien in den Jahren 1302-1337, Berlino 1921; H. Rhode, Der Kampf umn Sizilien in den Jahren 1291-1302, ivi 1913; G. B. Siragusa, Sulla guerra di Sicilia al tempo di Giovanna I, Palermo 1890; Hitzfeld, Studien zu den religisösen und politischen Anschauungen Friedrichs VII. von SIzilien, Berlino 1930; E. Stinco, La politica ecclesiastica di Martino I in Sicilia (1392-1400), Palermo 1929; G. Beccaria, La regina Bianca in Sicilia, ivi 1887; V. Orlando, Ricerche sulla storia di Sicilia sotto F. di Castiglia, ivi 1922; G. Pipitone-Federico, i Chiaramonte di Sicilia, Palermo 1891; G. Romano, I Visconti e la Sicilia, in Arch. stor. lombardo, 1896; Storia dell'Università di Catania dalle origini ai giorni nostri... per il quinto centenario dell'Ateneo, Catania 1934.

Per il viceregno: E. Laloy, La révolte de Messine, l'éxpédition de Sicile et la politique franç. en Italie, voll. 3, Parigi 1929-31; G. E. Di Blasi, Storia cronologica del viceré... di Sicilia, 3ª ed., Palermo 1862; C. A. Garufi, Contributo alla storia dell'Inquisizione in Sicilia, ivi 1920; C. Giardina, l'Istituto del viceré in Sicilia, ivi 1930; F. Guardione, Storia della rivoluzione di Messina (1671-1680), ivi 1907; id., Nuovi documenti inediti sulla rivoluzione di Messina, ivi 1924; B. Genuardi, Il comune di Palermo sotto il dominio di Spagna, ivi 1891; G. Scherma, Delle maestranze in Sicilia: contributo allo studio della questione operaia, ivi 1896; G. Longo-Catania, La rivoluzione in Catania del 1647-48 narrata da un'antica cronaca, Catania 1896; G. Capasso, Il governo di don Ferrante Gonzaga in Sicilia dal 1535 al 1543, in Archivio stor. sic., 1906; G. Arenaprimo, La Sicilia nella battaglia di Lepanto, Messina 1892; A. Amore, Emanuele Filiberto di Savoia viceré di Sicilia, Catania 1888; U. Della Vecchia, Cause economiche e sociali dell'insurrezione messinese del 1674, Messina 1907.

Per la dominazione dei Savoia, Asburgo d'Austria e dei Borboni di Napoli: G. Pitrè, La vita in Palermo cento e più anni fa, voll. 2, Palermo 1904; V. E. Stellardi, Il regno di Vittorio Amedeo II di Savoia nell'isola di Sicilia, ecc., voll. 3, Torino 1862-66; R. Martini, La Sicilia sotto gli Austriaci, Palermo 1907; F. Scandone, Il giacobinismo in Sicilia, ivi 1922; E. Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano, ivi 1933; R. De Mattei, Il pensiero politico siciliano tra il Sette e l'Ottocento, Catania 1927; C. A. Garufi, Rapporti diplomatici tra Filippo V e Vittorio Amedeo II, ivi 1907; F. Cordova, I Siciliani in Piemonte nel sec. XVIII, ivi 1913; F. Navarra-Masi, La rivoluzione francese e la letteratura siciliana, Noto 1919; G. Leanti, La Sicilia nel secolo XVII e la poesia satirico-burlesca, ivi 1907.

Per il periodo dal 1792 al 1815: F. Scandone, Il giacobinismo in Sicilia (1792-1802) in Archivio storico siciliano, n. s., XLIII-IV (1921-1922); A. Sansone, Gli avvenimenti del 1799 nelle due Sicilie, Palermo 1901; H. M. Lackland, Lord W. Bentinck in Sicily, 1811-12, in Engl. hist. Review, XLI (1927); id., The Failure of the Constitutional Experiment in Sicily, 1913-14; ibid., LXI (1926); N. Palmieri, Saggio storico e politico sulla costituzione del regno di Sicilia infino al 1816, Palermo 1848; N. Niceforo, La Sicilia e la costituzione del 1812, in Arch. storico siciliano, n. s., XXXVIII e XLVI (1813 e 1825); L. Genuardi, Tommaso Natale e la costituzione siciliana del 1812, ib., XLIII (1921); E. Pontieri, Ai margini della costituzione siciliana del 1812, in Atti XXV Congresso Soc. Nazionale del Risorgimento, Roma 1932.

Per il periodo dal 1815 al 1860: utili sull'epoca del Risorgimento i volumi di F. Guardione, A. Sansone, La rivoluz. del 1820 in Sicilia, Palermo 1888; id., Gli avvenimenti del 1837 in Sicilia, ivi 1890; G. Bianco, La rivoluz. sicil. del 1820, Firenze 1905; N. Cortese, Il governo napol. e la rivoluz. del 1820-21, Messina 1934; V. Finocchiaro, La rivoluzione del 1848-49 e la spedizione del generale Carlo Filangieri, Catania 1906; Memorie della Rivoluzione siciliana del 1848 pubblicate nel cinquantesimo anniversario del 12 gennaro di esso anno, voll. 2, Palermo 1898; A. Genoino, Le Sicilie al tempo di Francesco I, Napoli 1934; V. Labate, Un decennio di Carboneria in Sicilia (1821-31), Roma-Milano 1909; E. Librino, I Liberi Muratori in Sicilia dal regno di Carlo III a quello di Francesco I, Palermo 1924; G. Reisoli-Matthieu, la campagna di guerra di Garibaldi per la liberazione della Sicilia, in Atti della Società per il progresso delle scienze, XXIV (1936), p. 281 segg.; G. Avarna di Gualtieri, Ruggero Settimo nel Risorgimento siciliano, Bari 1928; F. Lemmi, Le società segrete nella Sicilia dal 1814 al 1819 nell'autodifesa dell'abate Luigi Oddo, in Arch. stor. sic., XLIII; E. De Marco, la Sicilia nel decennio avanti la spedizione dei Mille, Catania 1898; G. Leonardo, La preparazione politica in Sicilia avanti la spedizione dei Mille, Palermo 1920; F. Crispi, I Mille, Genova 1930; S. Chiaromonte, Il programma del 1848 e i partiti politici in Sicilia, in Arch. stor. sic., 1901. Per le polemiche, implicite o esplicite, tra Siciliani e continentali, circa l'impresa dei Mille, oltre agli scritti di Guardione, De Marco, Leonardo, Cigni, ecc., cfr. Rassegna Storica del Risorgimento, XVIII (1931): XVII Congresso sociale di Palermo.

Per l'età contemporanea: anche per questo paragrafo giovano i varî scritti del Guardione su Aspromonte, G. Gentile, Il tramonto della cultura sic., Bologna 1917; L. Franchetti e S. Sonnino, La Sicilia, 2ª ed., voll. 2, Firenze (1925); A. Maurici, Il regime dispotico del governo d'Italia in Sicilia dopo Aspromonte, Palermo 1915; P. Villari, La Sicilia e il Socialismo, Milano 1894; Rassegna storica del Risorgimento, XVIII (1931): XVIII Congresso sociale di Palermo; G. Paolucci, Da Francesco Riso a Garibaldi, in Arch. stor. sic., 1904; E. Loncao, Il lavoro e le classi rurali in Sicilia durante e dopo il feudalesimo, Palermo 1900.

Arte.

I monumenti del periodo cristiano in Sicilia hanno grande importanza e molto rivelano sulla penetrazione della nuova religione nell'isola. La Sicilia orientale conserva il più gran numero di necropoli; nell'occidentale, oltre alle catacombe di Palermo d'incerta origine, sono da ricordare: un cimitero a Carini e le fosse mortuarie con iscrizioni in una chiesetta del IV o V sec. a S. Miceli, a circa due km. da Salemi. I cimiteri più importanti sono quelli di Siracusa, vastissimi e notevoli anche sotto l'aspetto architettonico; altri pur notevoli si trovano a Catania, numerosi nei dintorni di Modica. A Molinello presso Augusta, a Ferla, a Licodia, a Priolo, ad Agrigento (Cimitero Fragapane) altri ne sono stati scoperti di recente. Le catacombe siracusane ci hanno conservato anche avanzi di affreschi e alcuni sarcofagi. Dei sarcofagi istoriati il più celebre è quello di Adelfia, opera di artisti romani del sec. IV, che fu trovato in una delle "rotonde" delle catacombe di S. Giovanni ed è attualmente nel museo di Siracusa. Altri sarcofagi cristiani di varie epoche con figure simboliche sono raccolti nella cripta della cattedrale di Palermo.

Con la conquista bizantina, l'arte cristiana si orientalizza rapidamente anche in Sicilia, e il classicismo romano svanisce dinnanzi alle nuove forme. L'arte del dominio bizantino ha lasciato purtroppo pochi monumenti. Si svolse, in quel periodo, nell'architettura delle chiese, in piccole costruzioni, il tipo derivato dall'Oriente a pianta quadrangolare con tre absidi e con cupola centrale, impostata sulle arcate o sorretta su trombe d'angolo, ma pochi sono i monumenti superstiti e di scarso valore. Anche della pittura, che continuerà a fiorire con forme bizantine nel periodo della dominazione normanna, non rimangono, dell'epoca della dominazione bizantina, che poche tracce in rozzi affreschi di piccoli oratorî trogloditici.

La stessa dispersione è avvenuta dell'arte degli Arabi. Contribuì anch'essa alla formazione dell'arte del periodo normanno, ma dei monumenti del periodo arabo, delle tante moschee e dei tanti palazzi non resta quasi nulla. L'unico avanzo di qualche conto è la moschea accanto a S. Giovanni degli Eremiti a Palermo.

Sotto il temperato dominio dei re normanni, l'arte bizantina, praticata da artefici greci ancora numerosi in Sicilia, e quella delle maestranze arabe, impiegate dai nuovi sovrani, prosperano e si uniscono fra loro. Ambedue volte a effetti pittoreschi, favorite dall'eclettismo dei dominatori, si fusero facilmente.

Le architetture di questo periodo risultano anche in Sicilia, come in molte regioni dell'Italia meridionale, di motivi di diversa origine accostati fra loro. Predominano nella disposizione generale delle chiese, consacrate in gran numero dai sovrani normanni e dagli alti dignitarî della corte, gli elementi dell'architettura bizantina. Specialmente nelle chiese di piccola mole: piante a croce inscritte in un rettangolo perimetrale e triabsidate, cupole su tamburo poligonale. Anche le chiese maggiori - come le grandi cattedrali di Catania, di Mazara, di Messina, di Cefalù, di Monreale e di Palermo - pur essendo connesse all'architettura romanica anche di oltralpe e pur rivelando una concezione latina anche nella pianta basilicale, hanno transetti triabsidati di derivazione bizantina, santuarî rialzati e separati e altri elementi bizantini pur con alcuni caratteri originali d'impronta locale.

Agli elementi bizantini s'innestano, con felici soluzioni, elementi musulmani: cupole a calotta impostate su nicchie angolari con grandi e ripetuti costoloni che le incorniciano, archeggiature murali cieche leggermente rilevate e collegate fra loro e spesso costruite con conci di colore alternato, elementi decorativi sulle pareti a intarsî geometrici di marmi colorati, decorazioni di stucco e di legno.

Le chiese più importanti di questo periodo rimangono a Palermo; altre, oltre a quelle già menzionate, si trovano a Forza d'Agrò, a Mili, a Frazzanò (S. Filippo di Fragalà), a Itala (Ss. Pietro e Paolo), a Burgio (S. Maria di Rifesi), a Caltanissetta (S. Spirito), a Sciacca (S. Nicolò la Latina), a Delia (La Trinità), a Messina (Annunziata dei Catalani).

Questo intenso movimento artistico dell'epoca normanna, non produsse soltanto monumenti misti di forme, ma elaborò, assimilandoli e compenetrandoli, i diversi elementi e venne anche a creare tipi di un carattere inconfondibile, armonici nelle proporzioni, nettamente stagliati nelle masse, al tempo stesso di logica, semplice struttura e di effetto pittoresco.

L'architettura dei palazzi è composta spesso all'esterno con i motivi usati per le chiese, ma nell'aspetto d'insieme e nella disposizione degli ambienti ricorda soprattutto l'architettura musulmana.

La pittura fu nel periodo normanno quasi completamente dipendente da quella bizantina, quando non era opera di artefici musulmani, come nel soffitto della Cappella Palatina a Palermo. Definendola bizantina non si vuol negare a essa una propria originalità, comprovata anche da una varietà di maniere e di stili che la mostrano vitale e in evoluzione. Palermo e Monreale nei musaici delle loro chiese possiedono la massima parte delle pitture dell'epoca: importantissimi sono anche quelli dell'abside della cattedrale di Cefalù.

Se si confrontano i musaici dell'Oriente greco con quelli della Sicilia, si vede in questi uno stile più lineare e più rigido, e anche una maniera diversa di lumeggiare e di colorire, e gran divario è anche fra i musaici della stessa Sicilia, fra quelli, ad es., della Martorana a Palermo e quelli della cattedrale di Cefalù; tra quelli del transetto, quelli della navata centrale e gli altri delle navatelle nella Cappella Palatina. Monreale accoglie i più vasti cicli di musaici: sono più recenti degli altri e anche meno accurati nello stile e si possono riconnettere a quelli della navata centrale della Palatina. In tutte queste opere sono probabilmente maestranze bizantine che lavorano, e, se anche vi furono artefici latini che cooperarono, essi non giunsero a creazioni indipendenti, né a formare una scuola locale che perdurasse. Infatti, dopo la caduta del regno normanno, cessò ogni attività di musaicisti e di pittori in genere.

La scultura nella stessa epoca accoglieva più largamente forme e ispirazione dall'arte romanica. Nel chiostro di Monreale, nelle sculture dei capitelli, si scorge come un repertorio delle varie influenze penetrate in Sicilia: quelle dell'arte classicheggiante della Campania, quelle di varie correnti di arte bizantina, e altre provenienti dalla Borgogna e da altri centri di oltralpe. I rapporti con l'arte continentale sono comprovati anche dalle porte di bronzo di Bonanno pisano e di Barisano da Trani nel duomo di Monreale.

Le arti minori rimasero legate all'arte bizantina e a quella musulmana. Fiorirono specialmente le arti tessili che produssero magnifici lavori, specialmente nel ṭirāz (laboratorio) del palazzo reale, con forme miste di motivi orientali. Le oreficerie continuarono a essere prodotte secondo i modelli bizantini, con largo uso di smalti incastonati nell'oro, e notevole fu anche la produzione di avorî dipinti o intarsiati al modo musulmano o scolpiti alla bizantina.

A questo intenso periodo di movimento artistico, ne succede un altro sotto gli Svevi, in cui la pittura e la scultura sembrano in decadenza, mentre l'architettura si evolve profondamente. Nella prima metà del Duecento, Federico II diede impulso soprattutto all'architettura militare. Dei molti castelli che l'imperatore aveva fatto costruire, importando nell'isola le forme gotiche, che si erano maturate nell'Italia continentale, rimangono: Castel Maniace a Siracusa, Castello Ursino a Catania, il castello di Salemi, quello di Augusta, la Lombardia di Enna. L'architettura religiosa appare diversa di forme e di tendenze nel sec. XIII, con influenze gotiche francesi (chiesa di S. Maria Alemanna a Messina), gotiche cisterciensi nella Badiazza di Messina e romaniche lombarde (S. Maria di Randazzo).

L'età aragonese, che s'inizia alla fine del Duecento, segna la decadenza del potere regio e il prepotere delle baronie. Sono le famiglie più potenti, i Chiaramonte, gli Sclafani, che fanno costruire i loro magnifici palazzi ed elevano chiese e monasteri nelle terre a loro soggette. L'architettura di questo periodo, nei monumenti soggetti all'influenza chiaramontana specialmente nella parte meridionale dell'isola, fa uso di alcuni motivi orientali derivati dalla normanna, e li innesta alle forme e alle modanature del gotico. Nel palazzo Chiaramonte e nel palazzo Sclafani a Palermo si vede, meglio che altrove, la geniale commistione di questi motivi; ma anche in altre costruzioni ritornano alcuni partiti di decorazione pittoresca, presi dalle architetture normanne, come le alternanze di tufo e di pietre laviche e gli ornati a zig-zag. Il gotico prende anche in Sicilia aspetti diversi da regione a regione; tra le costruzioni più notevoli occorre menzionare: il monastero di S. Spirito ad Agrigento, la chiesa di S. Francesco d'Assisi di Palermo, il S. Giovanni di Baida, presso Palermo, i palazzi Bellomo e Montalto di Siracusa e i numerosi monumenti di Taormina e di Randazzo.

Le influenze catalane cominciano a infiltrarsi nell'architettura in questo periodo e divengono più forti nel Quattrocento, quando gli edifici si rivestono delle forme ricche e fantastiche del gotico, ignorando quelle del Rinascimento. Le costruzioni di Matteo Carnelivari a Palermo, nella rielaborazione di elementi gotici e di forme tradizionali, raggiungono una loro espressione originale.

Solo nel Cinquecento il classicismo del Rinascimento si diffonde in Sicilia, ma poco riesce a creare di notevole, salvo alcune costruzioni. Il cui carattere consiste in una originale mescolanza di forme gotiche e classiche, con elementi ancora tolti all'architettura normanna, come nella chiesa di S. Maria dei Miracoli a Palermo, e salvo alcune opere di difesa militare contro le incursioni piratesche.

Fu invece ricchissima l'architettura barocca. Nei suoi primi svolgimenti nella parte occidentale dell'isola, la sola che conservi in gran numero edifici del primo barocco, essa appare in lenta evoluzione, ancora come trattenuta entro gli schemi cinquecenteschi. Gli architetti di Trapani, con le loro bizzarre invenzioni precorrono gli altri, anche quelli di Palermo. In questa città soltanto con Giacomo Amato si afferma potente lo stile barocco, con derivazioni eclettiche romane, svincolandosi dalla tradizione cinquecentesca. Un'altra corrente a Palermo è rappresentata dall'arte di Paolo Amato, ricca in ridondanze decorative, frammentaria e sotto l'influenza del barocco spagnolo. Nel Settecento nella Sicilia occidentale si fanno strada con Giovanni Amico trapanese le forme borrominiane, ma in genere continua a predominare un carattere a fondo classicheggiante e misurato. Nella Sicilia orientale invece la fioritura è più ricca e le correnti più varie. Dalle fantastiche architetture guariniane, che derivano dagli esempî lasciati dal Guarino a Messina, e che si vedono a Modica e a Ragusa (chiese di S. Giorgio) si passa alle forme diversamente ridondanti e fronzute di derivazione spagnola di Andrea e di Antonino Amato, nel convento dei benedettini di Catania, e a quelle di Lorenzo Di Benedetto, di Antonio e di Carmelo Battaglia, e infine alle costruzioni solide e severe di G. B. Vaccarini a Catania, e a quelle agili e mosse di Stefano Ittar.

Una corrente di fondamento classico e romano rappresentano P. Picherali e G. Vermexio a Siracusa, quest'ultimo con derivazioni da F. Iuvara. Le costruzioni del Settecento che abbelliscono Noto - che offre una visione completa di architetture di quel secolo - hanno un'impronta di elegante accademismo che pare preannunziare il neoclassico. Di questo stile il più rinomato architetto fu G. V. Marvuglia a Palermo, il quale sa accoppiare la grazia settecentesca a un sobrio vigore.

Nell'Ottocento lo studio dell'antico condurrà a una certa freddezza scolastica G. Damiani Almeyda, ma troverà invece un interprete profondo e ispirato in G. B. Filippo Basile, il cui capolavoro, il Teatro Massimo di Palermo, è una delle più notevoli costruzioni di quel secolo. L'architettura moderna ebbe impulso in Sicilia soprattutto per opera di Ernesto Basile. Egli attinse ispirazione specialmente dai monumenti del Rinascimento siciliano creando opere in cui lo stile floreale si sposa a forme tradizionalistiche, come la Cassa di Risparmio di Palermo, il villino Florio e altre numerose. Ebbe molti imitatori e scolari specialmente a Palermo.

Nell'architettura degli ultimi anni, dopo un periodo eclettico, si nota un più deciso orientamento verso forme razionalistiche. In tutta l'isola sono stati elevati numerosi edifizî pubblici per opera del governo fascista e molte città si vanno trasformando secondo nuovi piani regolatori.

La pittura, dopo la fioritura del periodo normanno, continuò nel Duecento a bizantineggiare in piccole tavole e in affreschi in gran parte perduti. Nel Trecento rivive, incoraggiata dalla munificenza dei signori feudali, che fanno abbellire di affreschi e di soffitti dipinti le loro dimore e le chiese. Cicco di Naro e Simone di Corleone decorano il soffitto di una sala del palazzo Chiaramonte a Palermo, con figurazioni interessantissime soprattutto per il loro contenuto, attinto a diverse fonti medievali. È la sola grande pittura decorativa, che rimanga del Trecento siciliano; eseguita in uno stile ingenuo e paesano, non si può riconnettere all'evoluzione di una scuola.

Influssi dell'Italia centrale cominciano a penetrare nella pittura siciliana nel Trecento, ma soltanto nel Quattrocento s'inizia una vera rinascita. Influenze fiamminghe e spagnole, della scuola lombarda e di altre dell'Italia centrale, sono vive allora nell'isola. Diverse opere fiamminghe, tra le quali eccelle il trittico di Polizzi Generosa, dimostrano la penetrazione di questa scuola di pittura in Sicilia, dove non le mancarono imitatori. Gl'influssi spagnoli precedono anche quelli nordici. Già nella prima metà del Quattrocento si trova nell'isola come pittore reale Jaime Sánchez di Siviglia, e del Quattrocento sono anche gli affreschi di S. Maria di Gesù presso Palermo che mostrano influssi di arte catalana. Il genio di Antonello da Messina assimila queste varie tendenze e da questa arte ibrida di forme fiammingo-catalane si eleva alla rappresentazione potente di un suo mondo plastico e spirituale. Nella sua patria, donde partì nel 1475, ebbe alcuni seguaci, tra i quali i più diretti furono Iacobello di Antonio suo figlio, Antonello e Pietro de Saliba; ma la sua arte non portò un rivolgimento nella pittura siciliana, che continuò ad accogliere con diverse tendenze forme dalla Spagna e dall'Italia continentale.

Gli altri pittori siciliani del Quattrocento sono soprattutto decoratori, che amano forme eleganti e fastose. Chi si accosta a modi spagnoli come Pietro Ruzzolone, chi segue forme umbre come Antonello Panormita, chi risente anche delle asprezze della pittura germanica, come Riccardo Quartararo. Il solo di questi artisti secondarî, che riesca a infondere un sentimento suo d'ingenuo misticismo, in forme d'imitazione, è Tommaso de Vigilia. Le influenze fiammingo-catalane continuano a predominare anche nella seconda metà del Quattrocento, e l'opera più rappresentativa di questa tendenza è l'affresco del Trionfo della Morte a palazzo Sclafani a Palermo.

Nel Cinquecento le influenze esotiche scompaiono, le sopraffà un certo manierismo derivato da Raffaello, e rappresentato in Palermo da Vincenzo de Pavia, che stempera le forme del Sanzio in un dolce colorito lombardo, e a Messina da Girolamo Alibrandi, da Antonello Riccio derivato da Andrea da Salerno, e da Polidoro da Caravaggio. Questo stile, con mescolanze eclettiche di forme romane e fiorentine, perdura anche ai primi del Seicento. Filippo Paladino, educatosi in Toscana nella cerchia di Andrea del Sarto, Giuseppe Sirena e Giuseppe Albina, continuano con monotonia a riecheggiarne i motivi. Anche nelle opere di Gaspare Vazano (lo Zoppo di Gangi) e di Giuseppe Salerno, abili disegnatori, i ricordi della scuola fiorentina predominano, mentre riflessi di colorismo veneziano animano quelle di Pietro d'Asaro.

Nel Seicento l'influenza del Caravaggio, che fu a Palermo e vi dipinse una Natività nel 1608, ravvivò l'arte della pittura e in parte la tolse dalle formule manieristiche, ma il carattere dominante della scuola siciliana continua ad essere l'eclettismo. Anche il più grande pittore del Seicento siciliano, Pietro Novelli, cercò di fondere l'influenza del Caravaggio con quelle di altri maestri, e in molte opere riuscì scolastico e freddo. A diffondere il caravaggismo in Sicilia, contribuì anche l'olandese Matteo Stomer, derivato dal Honthorst.

Messina fu un centro più vario di pittura barocca. Alonso Rodriguez vi rappresentò il caravaggismo, con profonda assimilazione, G. B. Quagliata propagò le forme decorative di Pietro da Cortona, Domenico Maroli le veneziane, Agostino Scilla subì soprattutto l'influenza di Andrea Sacchi.

Nel Settecento la pittura si fece soprattutto decorativa e vantò numerosi frescanti di chiese e di palazzi. L'arte di costoro è sempre di derivazione romana e napoletana, ma con intonazioni assai originali, di ispirazione vivace, piena di movimento e di vita. A Palermo, il maggior centro di pittura settecentesca, lavorarono oltre al fiammingo Guglielmo Borremans, Olivio Sozzi, Antonio Manno e altri, e, superiore a tutti per originalità d'ispirazione, Vito d'Anna. Giuseppe Velasquez e Mariano Rossi da Sciacca, sono gli ultimi rappresentanti di questa numerosa schiera di decoratori; la loro arte si raffredda e scolorisce nella compostezza del neoclassicismo, che anche in pittura ebbe largo seguito. Tra i più illustri pittori di questa tendenza ricordiamo Giuseppe Patania, Vincenzo Riolo, Giuseppe Errante a Trapani. Salvatore Lo Forte, vigoroso ritrattista e apprezzato pittore di scene sacre, segna il ritorno a uno schietto naturalismo.

La pittura dell'Ottocento risentì soprattutto l'influenza della scuola napoletana ed ebbe artisti assai notevoli, specialmente pittori di paesaggio tra i quali Francesco Loiacono, derivante dal Palizzi, Michele Corteggiani, Gennaro Pardo, Antonino Leto, Michele Catti. Nella pittura contemporanea predomina un senso di vigoroso realismo nel ritrarre gli aspetti più rudi e solenni della Sicilia e del suo popolo, ma in generale non si può dire che la scuola di pittura siciliana abbia nello stile una forte impronta originale.

La scultura del Duecento mostra una grande decadenza. Nel Trecento principia la penetrazione di artisti dal continente: Bonaiuto da Pisa lavora a Palermo, il senese Goro di Gregorio nella tomba di Guidotto de Tabiatis a Messina. Nel Quattrocento la scultura decorativa risente spesso del gotico catalano, ma quella figurata è collegata alle forme del Rinascimento italiano, e specialmente alle lombarde e alle toscane. I Gagini furono i più fecondi rappresentanti di questa corrente d'arte, che riecheggiò per due secoli le forme del Rinascimento toscano e lombardo, raggiungendo in molte opere una propria originalità di creazione. L'arte di Francesco Laurana che fu in Sicilia verso il 1468 ebbe minor seguito, troppo astratta per diffondersi in un ambiente dove l'elemento illustrativo e sentimentale fu sempre ricercato.

A Messina nel Quattrocento lavorano Antonello Freri e altri artisti carraresi, e l'emigrazione di scultori da Carrara continua anche nel Cinquecento. Incontriamo allora Giuliano Mancino e Bartolomeo Berrettaro nella Sicilia occidentale, mentre a Messina lavorano i Mazzola da Carrara e il Montorsoli importa le forme michelangiolesche, continuate di poi da Domenico e da Andrea Calamech. La scultura barocca rielabora senza vitalità i temi cinquecenteschi e soltanto con Giacomo Serpotta, trova forme originali e una nuova e calda ispirazione, che si libera da tutte le tradizioni manieristiche del primo Seicento e crea capolavori, che sono anche un prodigio di tecnica dello stucco.

Dopo di lui con Ignazio Marabitti e con Filippo Pennino la scultura ritorna a riecheggiare le forme del continente e specialmente le audacie pittoresche dei berniniani, con grande abilità, ma con scarsa ispirazione. Il neoclassicismo vanta l'arte di Valerio Villareale, la corrente veristica dell'Ottocento quella di Benedetto Civiletti. Molti artisti contemporanei con varietà di modi diedero lustro in Sicilia e fuori all'arte della scultura; ricordiamo fra i più noti: Ettore Ximenes, Domenico Trentacoste, Mario Rutelli, e, tra i viventi, Antonio Ugo, Giovanni Nicolini. Anche nei giorni nostri la scultura siciliana è assai fiorente e mostra diverse tendenze. Perdura nella maggior parte degli artisti uno stile di fondo classicheggiante e volto verso un'armonica compostezza di forme; altri si esprimono con un realismo più immediato e a volte anche crudo.

Tra le arti minori tiene il primo posto l'oreficeria, che anche dopo il periodo normanno continuò floridissima, risentendo nel Rinascimento specialmente delle forme catalane, e dando nel periodo barocco una produzione ricchissima, specialmente a Palermo, dove le corporazioni degli argentieri furono numerosissime. Le arti del ricamo ebbero pure una tradizione ininterrotta che è fiorentissima anche oggi. Tra le industrie artistiche occorre rammentare anche quella dei carretti dipinti e intagliati, i cui più antichi esemplari conosciuti non risalgono oltre il sec. XIX e che è fiorente specialmente nella provincia di Palermo e in quella di Catania, con caratteri diversi.

Bibl.: Hittorf e Zanth, Architecture moderne de la Sicile, Palermo 1835; G. Di Marzo, Delle belle arti in Sicilia, ivi 1858; id., I Gagini e la scultura in Sicilia, ivi 1880; id., La pittura in Palermo nel Rinascimento, ivi 1899; G. Frizzoni, Rassegna di alcuni notevoli opere di pittura e scultura a Messina, in Rass. d'arte, 1909, pp. 25-30; Palermo e la Conca d'oro, Palermo 1911; G. Arata, L'architettura arabo-normanna e il Rinascimento in Sicilia, Milano 1914; A. Venturi, Storia dell'arte ital., VII, ix, 5, ivi 1915 (con bibl.); P. Toesca, Storia dell'arte italiana, I, Il Medioevo (Torino 1927; F. Meli, L'arte in Sicilia, Palermo 1929; G. Bottari, Il duomo di Messina, Messina 1929; L. Biagi, La scultura romanica nel chiostro di Monreale, in l'Arte, XXXIV (1931), pp. 468-85; E. Levi, E. Gabrici, Lo "Steri" di Palermo e le sue pitture, Milano 1932; F. Valenti, L'arte nel periodo normanno, in Il Regno Normanno, Messina 1933; P. Orsi, in Atti del III Congresso di archeologia cristiana, Roma 1934; R. Van Marle, The development of the Italian Schools of Painting, XV, L'Aia 1934; F. Fichera, G. B. Vaccarini e l'architettura del Settecento in Sicilia, Roma 1934; G. Di Stefano, L'architettura gotico-sveva in Sicilia, Palermo 1935; V. Lasareff, The Mosaics of Cefalù, in The Art Bull., XVII (1935), pp. 184-232.

Dialetti.

Non è qui il luogo di discutere nuovamente se il siciliano sia il continuatore diretto del latino portato nell'isola dalla colonizzazione romana, ovvero sia in diretto legame con una neo-romanizzazione avvenuta dopo la cacciata dei musulmani. Questione complessa, per risolvere la quale (dato che sia possibile una soluzione) occorrerebbe avere una precisa illustrazione degli elementi arabi del lessico che assommano a non meno di due centinaia e che si riferiscono in particolare all'agricoltura, alla pastorizia, alla vita domestica. Neppure vogliamo indugiarci sui caratteri peculiari del lessico di origine latina, che meriterebbe un'indagine lunga e minuziosa, nei confronti con quello comune romanzo e più particolarmente italiano letterario. Né parleremo degl'influssi notevolissimi greci, francesi e spagnoli. La nostra breve descrizione sarà precipuamente fonetica.

Ciò che distingue, nell'ordine vocalico, il siciliano e lo caratterizza, è il prezioso fenomeno, che stringe linguisticamente l'isola alla Calabria (v. calabria: Dialetti) e alla Puglia meridionale, dei riflessi delle vocali latine ē ĭ e ō ŭ rispettivamente: i e u (p. es., vina "vena", pilu, "pelo"; suli "sole", jugu "giogo"). Questi i e u si vogliono ricondurre all'esito di lat. volg. è (per ē, ĭ di lat. class.) e î (per ō e ŭ di lat. class.); ma non è escluso che la Sicilia abbia mantenuto intatti l'ĭ e ŭ latino (come è accaduto nel sardo) e abbia ridotto a i e u gli è e î derivanti dal lat. class. ē e ō. Vi sono ragioni che militano in favore di quest'ultima ipotesi, che deve essere affacciata, anche se tutti non la ritengano definitivamente provata.

Nei poeti della scuola siciliana (G. da Lentini, ecc.), ai quali è ignota, come a tutta la poesia aulica delle origini, la rima imperfetta, si possono constatare rime con due esiti, quanto alle nostre vocali: in e e o e in i e u. Si è pensato che siano dovuti a copisti toscani gli e e gli o, i quali sarebbero allora ricostruzioni da i e u originali, ma questa spiegazione urta contro un imprescindibile dato di fatto, perché non è possibile ottenere sempre la rima esatta ristabilendo gli i e gli u. La soluzione che si impone è che i due esiti (popolare l'uno; dotto l'altro) fossero a disposizione dei poeti, che potevano servirsene a piacimento.

Veniamo a qualche caso. Giacomo da Lentini (ediz. Langley, p. 22) scrive:

In gran dilettans' era,

madonna, in quello giorno

quando vi formai in cera

le bellesse d'intorno.

Qui abbiamo ÿ (cera) che rima con ú (erat). È esclusa la pronuncia cira. Ma ecco, per contro, lo stesso Giacomo da Lentini (ed. Langley, p. 15):

Donna, eo languisco, e non so qua' speranza

mi dà fidanza - ch'io non mi diffidi;

e se merzé e pietanza in voi non trovo,

perduta provo - lo chiamar merzidi.

Qui abbiamo ÿ (merzede) in rima con ò (diffidi). È necessario pronunciare merzidi.

Passiamo ora ad ō. Lo stesso Giacomo da Lentini (ed. Langley, p. 7):

Non so se lo savete,

com'io v'amo a bon core;

ca son sì vergognoso

ch'io pur vi guardo ascoso

e non vi mostro amore.

Qui occorre pronunciare: amore (non amure, amuri).

Lo stesso (ediz. Langley, p. 4):

così fo per long'uso;

vivo in foco amoroso.

Qui bisogna pronunciare amoruso.

Il siciliano illustre esitava, dunque, fra il riflesso e ed i e il riflesso o ed u; e i verseggiatori potevano ricorrere all'uno o all'altro, perché la più antica condizione vocalica non era scomparsa ancora dalla coscienza dei parlanti. Ma lo studio di queste rime ci permette di fare un passo avanti. Questa oscillazione fra e ed i, fra o ed u, si riscontra soltanto quando la vocale risale ad ē e ō lat., non mai quando si risale a â e ŭ. Si hanno, insomma, rime come fina: mena (corr. mina), ma non mai, ad es., donzèlla: ella; si hanno rime come scusa: amorosa (-usa), ma non mai, ad es., un ū potrebbe rimare con ŭ. Nel compon. Già mai non mi conforto, si ha ducie: crocie, ma l'emendamento in cruce s'impone.

Il mutamento di è (ē) e di î (ō) in i e u si presta allora ad essere spiegato in modo non dissimile da ciò che è avvenuto nell'Italia meridionale cioè grazie alla metafonesi di -i e -u finali, metafonesi che in Sicilia si estese dal plurale al singolare e viceversa. La Sicilia si trovò, insomma, ad avere condizioni linguistiche che hanno una singolare rispondenza con ciò che ha luogo oggi in alcuni paesetti calabro-lucani, in faccia al Golfo di Policastro (dove abbiamo mese accanto a mise a Trecchina, dal plur. misi; pesce accanto a pisce dal plurale pisci, ecc.). Ottenuto questo conguagliamento, il riflesso in i e u si estese anche ai casi non metafonici per analogia (tela, tila; vena, vina, ecc.).

L'antico siciliano dovette avere, dunque, le condizioni metafoniche italiane centro-meridionali (salvo il suo accordo con la Sardegna per ĭ e ŭ, che rimasero inalterati). Del resto, permangono in alcuni dialetti dell'isola talune vestigia della metafonesi, soprattutto per quanto riguarda le vocali ê (da ĕ lat.) e ó??? (da ŏ lat.), che attestano a Caltanissetta, ad Agrigento, a Modica, ecc., il trattamento centro-meridionale. P. es., ad Agrigento: bieḍḍu, femm. beḍḍa; viekkiu, femm. vekkia; cuornu e corna; a Modica: buonu, bona; muortu, morta; a Caltanissetta: pedi, plur. pidi, ecc. Questi dittongamenti di ragione antica vanno tenuti distinti da altri frangimenti relativamente moderni, come avviene nella provincia di Messina, a Bauso, Rometta, Malvagna, ecc. (dove abbiamo jerba "erba", viespa "vespa", fuossa "fossa"), eppoi a Partinico (cuorna, ecc.), a Carini, Cefalù, ecc., e, come avviene, a ragion d'esempio, ad Adrano (Catania), dove il frangimento ha luogo per effetto dell'accento affettivo (bonu miédecu, ma medecu buonu). Altri fenomeni importanti vocalici sono: l'incontro delle finali -o e -u in -u e di -e ed -i in -i (p. e. saćću "so"; šuri "fiore", ecc.) in tutto il territorio; il ripercuotersi qua e là (S. Cataldo, Vallelunga, ecc.) di u nella sillaba seguente quando questa abbia la vocale a: lu guaḍḍu, per lu gaḍḍu, ecc.; il mantenimento di au (tauru "toro").

Il consonantismo ha i caratteri di quello italiano meridionale (v. italia: Dialetti); ma è da notare che lo sviluppo di -nd- in -nn- (e di mb, mv in mm) non è così antico e non è stato così diffuso in Sicilia, come nell'Umbria, nel Lazio, ecc. Anche oggidì vi sono paesi che conservano (p. es., Milazzo, Castroreale, Bronte, ecc.) -nd- intatto; e, inoltre, l'assimilazione era ignota all'antica lingua illustre. I poeti della scuola siciliana, che usano forme con -nn-, per -nd-, non sono siciliani. Certi fenomeni meridionali comuni (pl- bl- in kj-, øj: kjù "plus"; øjanku "bianco") in alcuni luoghi (Noto, Modica, ecc.) hanno progredito (ću "più", ćanu "planu", ecc.). Vario è, a seconda delle località, il trattamento di g- (gaḍḍu, aḍḍu, jaḍḍu "gallo"); fl- dà š (šuri "fiore"), ma anche ć e h??? (ćuri, h???uri); -pj- dà ćć (aćća "apium"); -lj volge a øøj (fiøøju); ma anche qui abbiamo diversi sviluppi a seconda delle località (p. es., ad Agrigento: figliu). Il consonantismo non ha avuto, insomma, in Sicilia uno sviluppo così uniforme da poter permettere una descrizione fondata su norme generali. Gli sviluppi sono varî da luogo a luogo. Altrettanto si dica di d- e -d- in r (cririri "credere"), di l + cons. in u (se la consonante è una dentale) e in r (se è una labiale o gutturale), ecc. Tuttavia, in alcuni luoghi l volge a n (p. es. fanci "falce", fanzu "falso") e all'atona il gruppo può risolversi in a: fadali "grembiule", satari, ataru, fasía "contegno, sussiego", ecc. È comune lo sviluppo di -ll- nella cacuminale -ḍḍ-; e cacuminale è anche la pronunzia degli esiti di tr e str. Le colonie italo-gallo-ladine (v. lombardia: Dialetti) hanno subito, in varia misura, l'influsso del vocalismo e consonantismo siciliano (caḍa "colla", iegghj "aglio", ecc.).

Venendo alla morfologia, sono da menzionare i plurali in -a largamente estesi e i resti di -ora. Nei parlari nisseni si ha -ira (p. es., curpira e curpi; urtira e urti). Resti di ipse, in funzione di articolo, si riscontrano non solo negli antichi testi, ma in dialetti moderni. Fra questi, ricorderemo Modica e Noto. Il territorio del perf. in -au (lat. -avit) comprende anche la Sicilia, insieme con la Calabria, con le Puglie, ecc. Per il passato, si sa che questo fenomeno abbracciò mezza Italia, perché si estendeva al Lazio e agli Abruzzi. Il condiz. è in -ia (a Modica: averra accanto ad averia; vurra a lato a vurria).

Diffuso è l'uso sintattico dell'accusativo di persona preceduto da a (ad). In dialetti orientali troviamo le proposizioni dipendenti rette da modo (mi) con l'ind. pres., secondo le abitudini calabrese e pugliese (quomodo: cu), p. es., ci dissi mi trasi "gli dissi d'entrare". Unde ha avuto il senso di ubi e ha assunto il significato del comune da "presso" (ad es. vaju unn 'u medicu "vado dal medico"). Sono, anzi, i dialetti siciliani che, insieme col còrso, dànno la chiave della soluzione di questo arduo problema riguardante l'italiano da col senso del francese chez.

Bibl.: N. Maccarrone, La vita del latino in Sicilia sino all'età normanna, Firenze 1915; G. Rohlfs, Die Quellen des unteritalienischen Wortschatzes, in Zeitschrift f. roman. Philologie, XLVI (1926); A. Pagliaro, Aspetti della storia linguistica della Sicilia, in Arch. romanicum, XVIII (1934). Per il vocalismo antico e moderno, G. Bertoni, in Arch. romanicum, XI (1927); XVIII (1934). Le principali descrizioni di dialetti siciliani sono registrate in G. Bertoni, Italia dialettale, Milano 1916, p. 206. Oltre ai lavori di carattere generale dello Schneegans, dell'Avolio e del De Gregorio (ricordati anche dal D'Ovidio e dal Meyer-Lübke, Gramm. stor. d. lingua e dei dial. ital., trad. ital., Milano 1906, p. 182), qui si menzionano alcune monografie particolari: L. Pirandello, Laute u. Entwickelung der Mund. von Girgenti, Bonn 1886; A. Cremona, Fonetica del dial. caltagironese, Acireale 1895; G. Lombardo, Saggi sul dial. nisseno, Caltanissetta 1901. Per la sintassi, ricordiamo L. Sorrento, Nuove note di sintassi siciliana, in Romania, XLVI (1920), p. 180 segg. Da citare, infine, le varie rassegne siciliane che si trovano nel Krit. Jahresbericht di K. Vollmöller (voll. I-IX).

Letteratura dialettale.

I poeti siciliani della corte sveva costituiscono la prima manifestazione poetica, e anche linguistica, dell'anima siciliana (v. siciliana, scuola). Ma occorre scendere all'epoca del Rinascimento per trovare una vera e propria coscienza linguistica regionale, con il siracusano Mario d'Arezzo, che impegnò una sua battaglia per reagire all'ormai secolare ossequio dei Siciliani al volgare toscano, che aveva sostituito il siciliano anche negli atti pubblici. In lui agiva non solo l'orgoglio dell'isolano, ma anche la tradizione ininterrotta di quei cronisti che, come l'anonimo autore del Rebellamentu e di testi meno importanti, si erano serviti del dialetto per le loro narrazioni, nonché di quegli autori che nel dialetto patrio avevano scritto le loro rozze composizioni ascetiche, come Giovanni Diez (1499) che scrisse una Vita e Martirio di S. Agata; Vincenzo Spano (1512), autore di una Vita di S. Sofia; Andrea Nicosia cui si deve Lu juditiu di lu diluviu universali. Ma Mario d'Arezzo si appoggiava soprattutto all'autorità di alcuni poeti quattrocentisti, come Andrea Chiaramonte, Francesco Gargana, Velardo di Rocco, Matteo Torelli, Lelio Perdicaro, il barone di Castanea, Bartolomeo Corbera, dei quali accoglieva i componimenti per dimostrare la necessità di sistemare grammaticalmente e linguisticamente il siciliano, senza peraltro accorgersi che essi sono, in fondo, una traduzione semidialettale, fortemente toscanizzata, di motivi poetici d'oltrestretto; del resto egli stesso cedeva al toscaneggiamento (cfr. le sue Osservantii di la lingua siciliana, 1543, ed. a cura di G. B. Grassi, Palermo 1912).

Per instaurare una letteratura dialettale bisognava battere altra strada. Nella seconda metà del Cinquecento, i canzonieri di molti poeti, oltre ai componimenti latini, contengono liriche in perfetto italiano e in puro dialetto, che perciò rispecchiano una psicologia colta. Ad ogni modo nessun compromesso linguistico.

Antonio Veneziano, fu l'iniziatore di tal duplice attività, immune da prevenzioni programmatiche. Tipo d'avventuriero e di poeta, il Veneziano raggiunse in certi versi una potenza rappresentativa non comune, come in quelli ch'egli scrisse uscendo dalla prigione: ricordiamo di lui La Celia, le Canzuni amurusi, le Ottavi, le Canzuni di sdegnu. Contemporaneo all'opera del Veneziano è il famoso poemetto La Baronessa di Carini (v. carini, IX, p. 20). Singolare il fatto che i primi vocabolarî del siciliano si abbiano proprio nel sec. XVI. Uno siciliano-latino ne compilò l'agrigentino Niccolò Valla e uno, spagnolo-siciliano, Cristoforo Scobar.

Fra gl'imitatori del Veneziano lungo i secoli XVI e XVII ricordiamo: Gerolamo D'Avila, Andrea Vatticane, Giovanni Migliaccio, Natalizio Buscelli, Carlo Ficalora, Mariano Bonincontro, Filippo Paruta, Giovanni Giuffredi, Benedetto Maja, Simone Rau e Requesens, Alfonso Salvo e altri, i cui componimenti si possono leggere nella raccolta Muse siciliane di G. Galeani (1615); così come altri numerosi componimenti in dialetto si possono leggere, di autori men noti, nella raccolta di Piergiuseppe Sanclemente (1652). Un posto a parte occupa Paolo Maura da Mineo, d'ispirazione satirica e burlesca.

Importante è notare che il dialetto usato da tutti codesti autori è passato attraverso il vaglio di quell'ideale linguistico del siciliano che, pur liberandosi dagli elementi toscani, non è di questa o di quella provincia siciliana in particolare. Un dialetto purgato, al quale, quando Giovanni Meli (v.) sorge, dà l'impronta indelebile del suo genio.

Nel Settecento si sviluppa una vasta letteratura dialettale; né la personalità dominante del Meli può farci dimenticare i nomi di C. F. Gambino da Catania, d'ispirazione scherzosa; di G. Vitale da Gangi, che scrisse un poema su La Sicilia liberata dai Saraceni; di G. B. La Cetra che osava comporre un poema d'argomento astronomico; di F. Sampolo, di I. Scimonelli, di A. Galfo, di I. Sgadari e di molti altri che fanno, si può dire, a gara con gli scrittori in lingua.

L'Ottocento si apre con D. Tempio (v.), personalità singolare, la cui produzione venne largamente imitata da numerosi oscuri poeti. Infatti nella prima metà del secolo, la poesia dialettale siciliana fu o arcadica o triviale. La reazione alle svenevolezze della lirica idilliaca si ebbe col naturalismo e col verismo, al declinare del sec. XIX. Allora si volsero al dialetto poeti delicati e forti insieme, che formarono, per così dire, il coro lirico della grande arte verghiana dalla quale, pur con molte e varie esagerazioni, parecchi derivano. Né si può trascurare l'influsso della letteratura di altre regioni che venne imitata quando si vollero rappresentare quadretti e scene di vita popolare. Tra i primi poeti ricordiamo S. Amabile Guastella, Saru Platania, Francesco Trassari, Alessio Valore, Vito Mercadante, il vivace e popolaresco Nino Martoglio (Centona) imitato da una pleiade di poeti dialettali per la sua maniera bozzettistica e dialogata. Il più profondo è certo A. Di Giovanni (v.), originale anche perché ha trattato la prosa dialettale (La morti di lu Patriarca Lu Saracinu).

Per merito di alcuni potenti attori siciliani (G. Grasso, A. Musco) grande fortuna ha avuto il teatro, specialmente dopo I Mafiusi, dramma violento e fosco di G. Rizzotto e La Zulfara di Giusto Sinopoli, che ereditano la popolarità delle Vastasate. Un'opera di genio, la Cavalleria rusticana del Verga, tradotta facilmente in dialetto, diede il tono a tutto il teatro siciliano. Il quale può vantare una produzione fortunata perché vi si sono dedicati scrittori di non comune valore; basti infatti ricordare il Capuana, il Martoglio, il Cesareo, il Pirandello, il Di Giovanni.

Bibl.: L. Sorrento, La poesia dialettale e il Parnaso siciliano, in La Rassegna, 1927; id., Folklore e dialetti d'Italia, in Aevum, dic. 1927; id., per la storia della poesia dialettale in Italia, Firenze 1929; id., La diffusione della lingua italiana nel Cinquecento in Sicilia, ivi 1921; Le Muse siciliane, raccolte per cura di G. Galeani, Palermo 1651-52; Le Muse siciliane sacre, raccolte da P. Sanclemente, ivi 1652; A. Di Giovanni, SaruPlatania e la poesia dialettale in Sicilia, Napoli 1896; F. Genovesi, Contro l'Arcadia dialettale di Sicilia, Avola 1903; G. Leanti, Paolo Maura e la poesia satirico-burlesca in Sicilia, ivi s. a.; G. Noto, Di un poeta vernacolo catanese, C. F. Gambino, in Arch. stor. per la Sicilia Orientale, 1919, pp. 71-74; G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, Bologna 1919; L. Natoli, Musa siciliana, Milano 1922; G. Policastro, Il teatro siciliano, Catania 1924; E. Di Marzo, La nuova scuola poetica dialettale in Sicilia, Palermo 1924; F. Fichera, I poeti del popolo sicil., voll. 2, Milano s. a.; Antologia dei poeti siciliani, Catania 1931.

Musica Popolare.

Si vuole che la Sicilia sia stata la culla del canto popolare italiano, mentre dalla Toscana esso si sarebbe divulgato. Come in tutti i miti, c'è qualche cosa di vero, per lo meno nell'affinità di certe poesie. Canta il Siciliano: Dimmillu, amuri miu, comu facisti - Quannu lu cori 'n pettu m'arrubbasti... E il Toscano: Dimmelo caro amor come facesti - Quando dal petto mio cavasti il core? Di qui ripetendo il concetto, il Toscano allargherà e vivificherà la parola, con una sorta di piacevole sviluppo.

G. Pitrè parte dal principio "che ogni genere di poesia popolare debba andar preso quale rivelazione del sentimento speciale dell'individuo del popolo da una parte, e, dall'altra, dell'incitamento dell'individuo e del popolo che lo possiede". La terra dà il carattere al canto e il canto rivela altresì costumi e usanze. Il Pitrè parla di melanconiche cantilene ereditate dagli Arabi; A. Favara ammette un ritmo ionico, e trova che, in talune versioni di canti siciliani, il modo maggiore moderno si muta in frigio puro; F. B. Pratella avverte melismi e passaggi cromatici d'influenza orientale nell'arcaica Lauda del Venerdì Santo di Caltanissetta, e rileva inoltre un senso arcaico di modo plagale nella Canzone alla noticiana. Per E. Romagnoli i canti siciliani si riannodano all'antica musica greca. La Storia del mercante rapito dai pirati, con quei quattro esametri dattilici, appare infatti una derivazione dall'arte classica. Il modo della Vicaria, per esempio, A la vicariota, mostra evidentemente tutte le caratteristiche di un nomos dorico. Schiettamente lidio appare invece il Cantu di caccia, laddove eolico o ipodorico è il tono della Carnascialata dei Pulcinelli. Il Romagnoli trova inoltre affinità fra i canti siciliani e una melodia greca riesumata da un codice, fra alcuni esercizî di cetera, e pubblicata per la prima volta da J. F. Bellermann: qui la presentazione della triade modale lidia (dominante, tonica, terza) è identica al Cantu di caccia.

La Sicilia è ricca di stornelli, di serenate, di ninne-nanne, di canti e giuochi di ragazzi, di satire, di mottetti, di leggende sacre morali profane, e via dicendo. In taluni paesi delle provincie di Palermo e di Agrigento si festeggia il maggio cantando: Primavera vinni, o Vinni Maju, vinni amuri. L'uso del pianto delle cantatrici di nenie (reputatrici, praeficae) è quasi scomparso.

In qualche luogo i poveri cantano anche oggi, chiedendo l'elemosina, antichi frammenti di leggende, derivati forse da sacre rappresentazioni, e i cantastorie (sunaturi) intonano malinconiche orazioni (li Diesilli) e, naturalmente, le storie. Fra le ninne-nanne si trovano canzonette natalizie per Gesù Bambino. Queste si sogliono cantare anche per addormentare i bimbi e rappresentano un anello fra le ninne-nanne vere e proprie e i canti religiosi popolari. Ma le canzoni d'amore sono in primo piano. Cantare l'amata - scrive G. Cocchiara - è qualcosa di sacro e di meraviglioso. "La donna è tutto: regina, madonna, angelo, sole" e ancor più bella del sole e regina fra le belle.

Fra i balli sono sopravvissuti quello nuziale chiovu, lu diavulicchiu (girotondo), la puliciusa (tarantella) e, fra gli altri, la fasola, una volta rappresentata e cantata (affine alla tarantella). Fra gli strumenti si notano il mariolu o marranzanu o ngannallarruni (scacciapensieri), l'azzarinu (sistro), il friscalettu (flauto a becco), il tammurinu (grosso tamburo), la ciaramedda (cornamusa), il circhettu (cembalo di metallo con campanelli).

Singolari e accompagnati talora da metafore immaginose sono i canti e le grida dei rivenditori ambulanti: cicirara, franninara, turrunara, mirceri, cacucciulara, pasturara, che emergono anche dal vocio stentoreo delle fiere. Nelle pescherie i canti s'intrecciano spiritosi, con varie espressioni musicali: Anciòvi vivi: manciativilli a dùrici sordi/ Sardi comu l'argentu vivu/ Ecco il canto di un'erbivendola:

Una canzone di Termini, in minore, si distende nello schema A-B con coda.

Un'aria palermitana, anch'essa in minore, melanconica, si adagia piena di abbandono in una cadenza femminile, che appare sensibilissima in quell'intervallo di terza minore.

La Storia della fanciulla rapita dai pirati, sillabica, bistrofica, in ottava rima, dolorosa, è costituita nello schema A-A': "La vado cercando e non so dove, per amor suo vo' girando il mondo".

'Tunazioni di li Catitàra, modo delle donne di Catitu, quartiere marinaresco di Trapani, è un canto di lavoro che si eseguisce quando si battono i cordami sui blocchi di marmo. La grande spontaneità e la particolare irregolarità e varietà ritmica lo rendono interessante.

Nel complesso dei canti siciliani è da rilevare l'idea ben circoscritta nel fluire della melodia: un impulso a cantare determina la forma. La ripetizione dell'idea si può considerare in un duplice aspetto, di eco, o di imitazione, e di divertimento. In un piccolo ambiente sonoro la frase si dispiega esaurientemente; la vaghezza del suono un po' oscuro, senza ombre e gradi dinamici, in pura linea, più spesso riluce pateticamente nel modo minore. Rari appaiono i movimenti sincopati. Nel periodo, l'equilibrio delle frasi è normale. La cadenza è parte inseparabile del tutto, e si determina, in genere, in senso discendente. L'intervallo più usato e più caratteristico è quello di seconda aumentata. Il disegno risulta nitido e di calda espressione. Quanto ai melismi, non se ne trovano in profusione, come indurrebbe a credere l'influenza della razza e del clima, la quale poi è qualche volta opinabile, o per lo meno vi sono eccezioni. L'arte popolare dei popoli nordici (Germani, Sassoni, Danesi, Scandinavi e via) è certo più sillabica che ornata e, per esempio, la Russia fa vedere una coloritura di canto nelle sue regioni meridionali in contrapposto al modo sillabico delle regioni propriamente nordiche. I popoli meridionali più volubili, più espansivi, più sensuali, e forse naturalmente più artisti, si abbandonano gioiosamente al melisma, come è dimostrato, fra l'altro, dai canti spagnoli. Anche i melismi degli alleluia gregoriani avranno influito. Essi s'impongono all'immaginazione popolare per la loro lunghezza e varietà. Recano tuttavia melismi, probabilmente non sopraggiunti e, certo, non sovrapposti, cioè esterni, introdotti come colore, ma tuttuno invece con la linea melodica, e dunque essenziali, i seguenti canti siciliani: All'arcamisa (modo di Alcamo, provincia di Trapani), A la surfatàra (modo degli zolfatari, provincia di Caltanissetta), Cuntrastu (Termini Imerese, provincia di Palermo), A la liparòta (modo di Lipari), Lodàta (Lauda della processione del Venerdì Santo di Caltanissetta). Si noti che i giubili degli alleluia, come gli innumerevoli melismi del Maggio toscano, sono divenuti essi stessi parte del tutto, melodia della melodia dunque, come, del resto, i sopracitati modi.

In Sicilia vi sono varietà etniche - e Catania, per esempio, con i paesi etnei sta a sé - ma l'unità regionale è indiscutibile. Il servizio militare, l'emigrazione, la vita moderna, la radio possono avere sbiadito talora il nucleo paesano, ma il canto popolare, in complesso, è rimasto.

Ogni avvenimento della vita è stato cantato dal popolo. Quest'attitudine della coscienza, questa collaborazione poetica anche istintiva e semipsichica, dura da secoli. Il suo sentimento è sempre presente nell'infinito del tempo e la sua facoltà d'invenzione, con il potere di espansione onde il suo canto si prolunga, in risposta, in ripresa, in eco, in sviluppo, nel canto dell'isola intera, non cessa giammai d'agire. Certi caratteri del popolo siciliano s'intendono facilmente dalla predilezione per i contrapposti: dalla gioia piena di sole alla pace solitaria e calma alla dolente o tragica sentimentalità. Il canto è ricco e intenso. La vita, dalla culla alla bara, è stata sempre capace d'interessarlo, in ciò che è vivo e aderente all'anima popolare che vi si adegua. Invenzioni casalinghe e rusticane fatte di semplicità e misura, spontanei canti di campagna e di mare, di festa e di lavoro, con un fondo di poesia nelle parole e una luminosa umanità nella musica, contemplativi, entusiastici, impressi di forza primitiva. In essi si sente un'unità che rimonta ad un tempo antichissimo. E la natura trasmette l'eco di quelle voci, mentre la campagna viva e continua, le foglie, i venti, i ruscelli ne sono lo scenario.

Bibl.: J. F. Bellermann, Anonymi Scriptio de Musica, 1841; G. Pitrè, Canti popolari siciliani, con melodie, Palermo 1891; G. Ragusa Moleti, Canzoni e musiche siciliane, Genova 1891-92; A. Favara, Le melodie tradizionali di Val di Mazzara, in Atti del Congresso int. di scienze storiche, Roma 1903; G. Arcoleo, Canti del popolo in Sicilia, in Saggi e discorsi, Catania 1909; E. Romagnoli, I canti popolari siciliani e la musica greca, in Rivista d'Italia, 1920, fasc. i; G. Fara, L'anima musicale d'Italia, con esempî musicali, Roma 1921; E. Romagnoli, I canti popolari della Sicilia, in Musica d'oggi, 1921, fasc. 7; B. Rubino e G. Cocchiara, Usi, costumi, novelle e poesie del popolo siciliano, Palermo 1924; G. Cocchiara, L'anima del popolo italiano nei suoi canti, con musiche raccolte da F. B. Pratella, Milano 12929; G. C., Canti popolari, in La Stampa, 28 ott. 1929; Trenta ninne-nanne popolari italiane, Roma 1935; M. Dauge, Essai sur la vocalise, in La Revue musicale, 1935, fasc. 2; A. Favara, Canti della terra e del mare di Sicilia, Milano; L. Sorrento, Isola del sole, con esempî musicali, Milano.

Folklore.

Le tradizioni popolari della Sicilia si possono dire meglio conosciute che quelle di ogni altra regione dell'Italia e a questo fatto, oltre che alle condizioni storiche dell'isola, e al succedersi di civiltà e genti diverse, può essere attribuita la grande ricchezza e varietà di elementi che il folklore siciliano ci presenta. Circa 14.000 sono i proverbî raccolti, i quali accanto alle forme comuni ne presentano altre, senza riscontri nelle regioni del continente; un migliaio i racconti di varia specie (fiabe, favole, leggende, novelle, aneddoti, ecc.); circa 5000 i canti, di vario genere (canzoni, storie, orazioni, parti, fiori o mottetti, ninne-nanne). La canzone, che è la forma più nota, si differenzia in barcarola, marinara, campagnuola, furnariana, vicariota, carrettiera, ecc.; essa si sarebbe diffusa, variamente adattandosi, anche nell'Italia centrale e oltre (A. D'Ancona).

Anche le tradizioni oggettive (costumanze, credenze, superstizioni) si presentano, al pari delle tradizioni orali, in innumerevoli forme, in parte comuni ad altre regioni, in parte diverse o addirittura caratteristiche dell'isola. Accentuato è in Sicilia il carattere della famiglia patriarcale, onde il proverbio: "casa senza omu, casa senza nomu", e altri, che ribadiscono lo stesso concetto; nonché il maggiore rispetto per l'autorità del paterfamilias. Negli usi nuziali, accanto a riti noti in altri paesi (p. es., la 'nzinga o 'ntrizzata, che si fa mediante l'anello, l'intrecciatura, lo spadino per i capelli, ecc.), ve ne sono di peculiari, come quello (ora dismesso) di radere le sopracciglia alla promessa sposa. Così pure per gli usi funebri: quanto riguarda la cura del cadavere o il lamento (v. prefica) ha riscontri in altri luoghi; mentre non ne hanno, o rarissimi, l'uso di gridare il nome del morente, affetto da lunga agonia, in tre crocicchi del paese, o l'altro di lasciare socchiuso l'uscio di casa per tre notti dopo aver preparato un bel pane fresco, illuminato da un candeliere a tre luci nella prima notte, a due nella seconda, a una nella terza. Nei casi gravi il lutto assume forma tetra, tingendosi a nero la camera mortuaria, le imposte, i mobili, l'uscio di casa. Invece, per la morte di una fanciulla, che si considera come sposa di Dio, i parenti e gli amici convenuti mangiano, come nelle nozze, calia, o scaccia, o spinnaghi (ceci abbrustoliti); e per la morte di un bambino, che come innocente si ritiene beato, si fanno suonare le campane a gloria.

Singolare della Sicilia è il culto dei "Corpi decollati", ai quali si raccomandano, con scongiuri, invocazioni e formule, quanti desiderano vendette. Tra questi decollati (detti anche anime 'mpilluse, da Andrea Belluso, impiccato il 2 febbraio 1679), vanno compresi i giustiziati e gli annegati volontarî, in onore dei quali si fanno anche, a Palermo a notte inoltrata, i viaggi muti, dalla propria casa alla chiesa di S. Giovanni Decollato.

Poche feste superano in Italia lo splendore delle feste siciliane. Oltre ai canti, i suoni, i balli, le luminarie, le vivande rituali, i fuochi di devozione, vi si vedono portatori di ceri e di candelieri giganteschi (cilii), di pali e di aste, di bare e di altri oggetti votivi; cavalieri e pedoni con rami d'alloro, animali parati e in fila che portano offerte al padrone, o sono essi stessi un'offerta; carri trionfali (S. Rosalia in Palermo, Annunziata in Trapani, S. Lucia in Siracusa, Madonna delle Milizie in Scicli, S. Ciro in Marineo, l'Alma in Messina); cavalcate sontuose e storiche (festa della Vergine in Canicattì, Invenzione della Croce in Casteltermini); processioni figurate, con personaggi simbolici, bambini vestiti da angeli, fanciulle da Madonne, vecchi da S. Giuseppe, santi e santoni, demonî, mostri, diavolazzi; spettacoli scenici e tenzoni fra Cristiani e Saraceni, tra Normanni e Turchi; pantomime e rappresentazioni di prodigi e di miracoli. Nelle cerimonie della settimana santa, non di rado la predica della passione, la visita ai sepolcri, la sfilata dei penitenti col corteo, ecc., si convertono in vere rappresentazioni sacre.

Connessa con le tradizioni cavalleresche, che hanno larga eco nella Sicilia, e i cui riflessi si osservano nei quadri che adornano i carretti (v. carro e carrozza), è l'Opera di li pupi, fastoso teatro di marionette (v. marionetta, XXII, p. 357), di cui la rappresentazione più clamorosa è la Rotta di Roncisvalle, la quale chiude la storia dei paladini e porta appunto il titolo di Morte dei paladini.

Bibl.: G. Pitrè, Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, Palermo-Torino 1871-1913, voll. 25; id., Bibliografia delle tradizioni popolari in Italia, Torino 1894; S. Amabile Guastella, Canti popolari del circondario di Modica, Modica 1876; S. Salomone Marino, Costumi ed usanze dei contadini di Sicilia, Palermo 1897; id., Le reputatrici in Sicilia nell'età di mezzo e moderna, ivi 1886; id, Tradizione e storia, in Nuove effemeridi siciliane, s. 3ª, IV (1876), p. 311 segg.; id., Leggende popolari siciliane in poesia, Palermo 1880; C. Grisanti, Folklore d'Isnello, ivi 1899-1909; B. Rubino, Folklore di S. Fratello, ivi 1914; G. Schirò, Canti tradizionali ed altri saggi delle colonie albanesi di Sicilia, Napoli 1923. - Per la storia degli studî, v. G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, Bologna 1919; R. Corso, Sviluppo storico dell'etnografia siciliana, in Atti del 2° Congresso di chimica pura e applicata, Roma 1926.

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