SICILIA - Pittura e miniatura

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1999)

SICILIA - Pittura e miniatura

P. Leone de Castris

Nel corso dei secc. 13° e 14° la S. assunse, più ancora che nel passato, un ruolo determinante di snodo culturale fra Oriente e Occidente, sfruttando al meglio la sua posizione geografica e geo-politica di cerniera fra il bacino orientale e quello occidentale del Mediterraneo per proporre nuovi confronti e nuove sintesi fra la tradizione bizantina, le sue varianti gerosolimitane e latine, il mondo arabo e le esperienze del Gotico d’Oltralpe.

Il regno e la figura dell’imperatore Federico II dominarono - proprio all’insegna di queste caratteristiche - il primo tratto di questo percorso e di quest’arco cronologico, traghettando nel nuovo secolo la grande e passata stagione artistica della S. normanna in un delicato equilibrio fra continuità e innovazione. Gli ultimi anni del sec. 12°, oltre alla morte di Guglielmo II (m. nel 1189), di Tancredi (m. nel 1194) e dell’arcivescovo Riccardo Palmer (m. nel 1195), avevano infatti visto da un lato la chiusura dei cantieri musivi - e in primis di quello di Monreale - e dall’altro la costituzione di un brillante centro miniatorio, verosimilmente a Messina, dal 1182 sede episcopale di Palmer, capace di fondere nei propri prodotti la tradizione bizantina isolana con elementi di cultura appunto gerosolimitana e occidentale. E mentre le maestranze specializzate operose in quei cantieri dovevano, con buone probabilità, lasciare l’isola per altri lidi, l’esperienza in particolare di questi miniatori - e dei codici di Madrid (Bibl. Nac., 6; 9-11; 14; 31-47; 52; 197; 217), di Messina (Bibl. Painiana, 10-11), di Oxford (Bodl. Lib., Laud. Misc. 257), di Malta (Mdina, Cathedral Mus.), di Montecassino (Bibl. dell’abbazia, 578 CC) e di Roma (BAV, Vat. lat. 42) - doveva invece proseguire nei primi decenni del nuovo secolo e probabilmente in più scriptoria, dando vita, forse sempre a Messina o forse a Palermo, a episodi di straordinaria ricchezza e qualità, dal Sacramentario di Roma (BAV, Arch. S. Pietro, 18) alla Bibbia di Madrid (Bibl. Nac., 229), datata al 1259, all’altra Bibbia di San Daniele del Friuli (Civ. Bibl. Guarneriana, 3) e all’Evangeliario di Firenze (Bibl. Riccardiana, 227); senza dire che anche il Salterio di Firenze (Bibl. Riccardiana, 323), realizzato verosimilmente a Gerusalemme nel 1235-1237 per la terza moglie di Federico II, Isabella d’Inghilterra (m. nel 1241), partecipa attivamente della medesima cultura di scambi e di intrecci figurativi fra la S. e l’Oriente latino.

I manoscritti cronologicamente più avanzati di questo gruppo testimoniano inoltre del fatto che, fra gli anni trenta e gli anni cinquanta del secolo, le componenti di cultura romanica o anche protogotica di matrice prevalentemente anglosassone, già presenti in questo bacino culturale, andavano rafforzandosi e rinnovandosi a contatto con le esperienze più moderne dell’arte francese; e tuttavia conservando una qualità preziosa del colore e una ricchezza esornativa di matrice bizantina che sembra sempre differenziare la produzione isolana da quella del Mezzogiorno continentale, napoletana o pugliese. È in questa direzione, così, che occorre ipotizzare gli sviluppi della miniatura federiciana in S.: non tanto perciò nella direzione di spiccato naturalismo laico e di accentuato sapore gotico franco-germanico della Bibbia di Manfredi (Roma, BAV, Vat. lat 36) e dei manoscritti connessi - o addirittura del De arte venandi cum avibus di Federico II (Roma, BAV, Pal. lat. 1071) e del De balneis Puteolanis di Pietro da Eboli (Roma, BAV, Ross. 379; Roma, Bibl. Angelica, 1474) - quanto in quella di graduale innesto nella tradizione ‘bizantina’ isolana di un nuovo lievito plastico, dinamico, narrativo, nonché di apertura alle influenze della miniatura gotica transalpina e presto anche bolognese, che si legge nella citata Bibbia di Madrid (Bibl. Nac., 229), nel codice con gli scritti medici di Dioscoride, Ippocrate e altri (Vienna, Öst. Nat. Bibl., 93) e nei Libri Sententiarum di Pietro Lombardo (Cava de’ Tirreni, Bibl. dell’abbazia, 22-23), e che - già passato il crinale di metà secolo - avrebbe dato verosimilmente vita all’opera del Maestro della Bibbia di Corradino.

Con la figura di questo grande illustratore, dalle discusse origini, ma la cui matrice meridionale pare ormai provata dalla committenza e destinazione di diverse sue opere, si chiude la splendida stagione sveva della miniatura siciliana; la stessa Bibbia di Corradino (Baltimora, Walters Art Gall., Walters 152), la Bibbia di Parigi (Bibl. Sainte-Geneviève, 14), la Bibbia di Oxford (Bodl. Lib., Canon bibl. lat. 59), il Liber Aynade di Bonifacio Veronese (Parigi, BN, lat. 8114), - ornati rispettivamente degli stemmi dei d’Auria di Lucera e del legato papale a Napoli verso il 1235, Ottaviano degli Ubaldini - e ancora la collegata Bibbia proveniente dall’abbazia di San Martino delle Scale (Palermo, Bibl. Centrale della Regione Siciliana, I.C.13), e la Bibbia Bassetti (Trento, Bibl. Com., 2868), segnano il percorso di un’esperienza artistica di grande rilievo spesa, fra gli anni cinquanta e gli anni settanta del secolo, e in parallelo con il percorso di Nicola Pisano, a gettare un ponte dal Meridione federiciano verso Bologna e l’Italia centro-settentrionale all’insegna di un fecondo e crescente innesto fra tradizione isolana, naturalismo svevo, componenti gotiche francesi e linguaggio proprio, originale, laico, della miniatura emiliana del tempo.

Se questa è la linea di sviluppo della cultura artistica siciliana secondo quanto indicato dalla traccia, quantitativamente consistente ma per più punti del tutto ipotetica, fornita dalla produzione miniatoria, non diversa sembra per altro la traccia, apparentemente più tenue ma allo stesso tempo più radicata sul territorio, lasciata dai pochi e rari esemplari di pittura ‘monumentale’: grandi croci dipinte, ‘icone’ della Vergine, tracce di cicli a fresco, tavole d’iconostasi e travi di soffitto, che rappresentano le tipologie in auge nel corredo ornamentale, illustrativo e devozionale delle chiese isolane all’indomani della chiusura dei cantieri musivi e della citata diaspora delle maestranze in essi operose.

Proprio in apertura del nuovo secolo, per es., la grande croce dipinta della cattedrale di Mazara del Vallo rappresenta fra questi il caso più alto e problematico - con il contrasto vivace dei suoi colori puri, la sigla bizzarra e aggressiva degli animali simbolici sul retro, il corpo stecchito ed elegante del Cristo e l’espressività sintetica delle larghe fasce scure a definire le ombre - d’una cultura isolana aperta a stretti rapporti con la Terra Santa e l’Oriente latino, ma non priva neanche di componenti islamiche; e appena più tardi l’altra, guasta, croce di Sciacca (Bibl. Comunale), a essa collegata, e quella di Siracusa (cattedrale), assai più tradizionale, raffinata e attentamente disegnata al modo degli smalti cloisonnés, dimostrano - in parallelo con i minî del citato Sacramentario di Roma (BAV, Arch. S. Pietro, 18) - la capacità d’innesto di queste esperienze gerosolimitane nell’alveo d’una più aulica tradizione bizantina.

Così come nel caso della produzione miniatoria, Messina e il nodo Palermo-Monreale paiono inoltre i centri principali di questa brillante attività di decorazione monumentale: quest’ultimo con le icone della Vergine di Monreale, appunto, e di S. Niccolò all’Albergheria (Palermo, Mus. Diocesano) e con i lacerti d’una Crocifissione a fresco nell’altra chiesa palermitana della Ss. Trinità della Magione, uniti da un medesimo e accentuato gusto lineare, o ancora con le tavolette d’iconostasi provenienti dal monastero di San Martino delle Scale (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia), dichiaratamente in debito con i mosaici di Monreale; Messina, invece, con i mosaici di S. Gregorio e con le travi dipinte del soffitto del duomo, e comunque con una costante di fedeltà alla tradizione bizantina e una capacità di potenziarne gli spunti cromatici, esornativi e persino plastici, che rendono credibile e anzi verosimile l’ipotesi critica d’una realizzazione in loco - piuttosto che a Costantinopoli - delle due grandi e ricchissime Madonne in trono di Washington (Nat. Gall. of Art, Cahn Coll.; Mellon Coll.).

Con queste ultime, così come con le miniature dei codici di Vienna e di Cava de’ Tirreni, la cultura artistica della S. sveva assunse inoltre caratteri originali che sembrano aver avuto un’eco consistente nei maggiori centri campani al tempo di Manfredi, a cominciare dai mosaici commissionati dall’ammiraglio Giovanni da Procida nell’abside destra del duomo di Salerno, a dimostrazione che la capacità di espansione linguistica ipotizzata nell’esperienza extra-isolana del Maestro della Bibbia di Corradino non dové essere fenomeno isolato o privo di precedenti.

Negli ultimi decenni del sec. 13°, la S., passata dalla dominazione sveva a quella angioina (1266) e da quest’ultima ben presto a quella aragonese (1282), visse una fase di naturale, graduale spostamento dei suoi legami politici, commerciali, economici e culturali dall’area orientale a quella occidentale del bacino mediterraneo. Tuttavia, proprio sotto il profilo della cultura artistica e del linguaggio figurativo, le premesse d’un più stretto rapporto con la civiltà gotica di Francia, già istituite - come s’è visto - e ben avvertibili nella produzione isolana degli ultimi decenni del regno di Federico II e poi di Manfredi (1258-1266), costringono a guardare a questo stesso spostamento, piuttosto che nei termini d’una radicale trasformazione, in quelli d’una progressiva accentuazione di elementi nel segno d’una sostanziale continuità d’indirizzo.

Nella miniatura, per es., pur all’interno d’un panorama non paragonabile per fertilità d’intrecci e qualità di risultati a quello dell’esaltante stagione sveva, il rapporto con le esperienze degli scriptoria bolognesi già innescato - con vicendevoli scambi - dal Maestro della Bibbia di Corradino trova ora riscontro nelle crescenti influenze emiliane avvertibili nelle illustrazioni di codici come un corale (Messina, Bibl. Univ., 354) o un altro corale proveniente dalla chiesa di S. Domenico a Palermo (Messina, Bibl. Univ., 9), miste tuttavia - non diversamente da quanto succedeva nella Napoli coeva del Missale secundum consuetudinem regiae curiae (Napoli, Bibl. Naz., I B. 22) - con elementi di cultura gotica di matrice occitanica, catalana, maiorchina.

Una tendenza di tal genere verso quel Gótico lineal che negli ultimi decenni del Duecento s’andava imponendo con successo nell’area a cavallo dei Pirenei, fra Francia e Spagna, si legge d’altronde con chiarezza nella decorazione a fresco di carattere monumentale, specie della parte occidentale dell’isola. Episodi come la deperita Crocifissione della chiesa di S. Domenico a Trapani, come il notevolissimo ciclo già nella cattedrale di Agrigento (Agrigento, Mus. Diocesano), come il più tardo Salvator Mundi della chiesa del Crocifisso a Caltanissetta, o anche come il Santo monaco proveniente dalla chiesa di S. Antonio Abate a Erice (Trapani, Mus. Regionale Pepoli), unico lacerto sopravvissuto d’un vasto ciclo da altri considerato prettamente bizantino e di data primo-duecentesca, testimoniano la presenza nell’isola - a cavallo fra Duecento e Trecento - di maestranze o comunque di artisti iberici, verosimilmente immigrati al seguito dei primi sovrani aragonesi, e in ogni caso di più forti influenze ‘occitaniche’ sulla cultura figurativa locale, capaci di caricare la produzione di immagini religiose di nuovi accenti spiccatamente narrativi, patetici e vigorosamente lineari.

Tuttavia, l’attività artistica nei due centri siciliani maggiori, Messina e Palermo, dove più forte doveva risultare la presenza della corte e più definiti dunque i caratteri della committenza e dell’iniziativa regia, sembra in quest’ultimo scorcio del secolo rimanere per molti versi fedele a quella certa tradizione bizantina isolana che tanto peso aveva avuto - come s’è visto - nell’arte della S. normanna e ancora di quella sveva. È anzi verosimile che, com’è stato da più parti proposto, questa rinnovata componente bizantina dell’arte di corte siciliana affondasse le sue radici in una più complessa e conscia operazione da parte dei sovrani aragonesi di esaltazione della tradizione locale - di contro alle pretese angioine - e della sua originalità e autonomia dalle vicende culturali del resto del Meridione appunto angioino e francese; senza dire del fatto che, nel contempo, questa operazione trovava alimento nel nuovo quadro di contatti politici e commerciali con il Levante promossi da Federico II d’Aragona.

A Messina questa ‘continuità’ e ripresa figurativa di una cultura ‘aulica’ costantinopolitana si legge, a fine secolo, nel passaggio coerente dalle due succitate Madonne di Washington e dai mosaici di S. Gregorio, all’altra Madonna a mosaico detta della Ciambretta (Messina, Mus. Regionale) e alle assi dipinte con motivi di santi cavalieri, stemmi e altro provenienti dal soffitto del duomo (Messina, Mus. Regionale), e, già nel corso dei primi decenni del nuovo secolo, nei guasti e rimaneggiati mosaici dell’abside di centro (Cristo in trono con la Madonna e s. Giovanni Battista, angeli e il re Federico II d’Aragona con l’arcivescovo Guidotto de’ Tabatis, 1322-1333 ca.) e delle absidi laterali del duomo (Madonna con il Bambino in trono, angeli, le Ss. Lucia e Agata, la regina madre Eleonora ed Elisabetta di Carinzia; i Ss. Nicola, Giovanni Evangelista e Basilio, il re Ludovico e Giovanni di Randazzo, 1347 ca.), dichiaratamente collegati alla natura indipendentistica di questo progetto politico e culturale pure sotto il profilo più strettamente iconografico.

Anche a Palermo, d’altronde, tracce di questo revival bizantino di tecniche e modelli non mancano. Anche qui riprese vigore una prassi di produzione musiva, come si vede in una piccola Crocifissione (Berlino, Staatl. Mus.) e ancor meglio nella notevole Madonna con il Bambino (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia), proveniente dal castello di Calatamauro (prov. Palermo) e nella quale il legame con Costantinopoli sembra inoltre assumere per la prima volta - com’è stato notato - sapori paleologhi. E dunque palermitani saranno verosimilmente anche tutti quei minî staccati e codici manoscritti individuati da Buchthal (1966) e databili ormai all’inizio del Trecento, disseminati nelle biblioteche di tutto il mondo (New York, Pierp. Morgan Lib., Glazier 60; Torino, Bibl. Naz., I.II.17; Roma, BAV, Vat. lat. 375; Firenze, Bibl. Riccardiana, 881; Firenze, Uffizi, Gab. Disegni e Stampe, 12524; Stoccolma, Nationalmus., MB 1713; Palermo, Bibl. Centrale della Regione Siciliana, I.F.10), in cui questo medesimo carattere paleologo si sposa significativamente con riprese dirette e testuali dai mosaici del duomo di Monreale.

Nel resto dell’isola, infine, non mancarono episodi di rinnovata marca bizantina databili ormai nell’avanzata seconda metà del Duecento. A Lentini, per es., la Madonna con il Bambino stante nella chiesa matrice, datata forse troppo precocemente a prima del 1240, rielabora un più antico e tradizionale prototipo costantinopolitano. A Piazza Armerina, invece, gli affreschi già nella chiesa del priorato di S. Andrea (S. Martino, Martirio di s. Andrea, Madonna con il Bambino, Annunciazione, Natività, Strage degli Innocenti, Deposizione, Morte della Vergine; Palermo, Gall. Regionale della Sicilia) attestano una variante di cultura bizantina in qualche modo più ‘provinciale’, umorosa, patetica, narrativa e non senza collegamenti con la tradizione pugliese coeva, ma in questo caso probabilmente lungo i canali d’una committenza legata alle rotte crociate e agli stabilimenti dell’Ordine dei Canonici del Santo Sepolcro.

Con gli inizi del Trecento e dopo la pace di Caltabellotta (1302) la S. doveva gradatamente riannodare i legami politici e diplomatici, e conseguentemente artistici e commerciali, con la parte ‘continentale’ del Mezzogiorno rimasta sotto il dominio angioino. Nel contempo gli indirizzi della politica dei sovrani aragonesi dell’isola, i loro rapporti - conflittuali talvolta, talvolta di successione e ricambio - con la madrepatria iberica e il trono d’origine, sempre comunque molto forti, e infine i legami commerciali e in qualche caso politici stretti appunto con Barcellona, ma anche con gli altri grandi centri marittimi del Mediterraneo occidentale (Genova, Pisa), dovevano portare a una caratterizzazione per l’appunto sempre più ‘ponentina’ della sua vocazione culturale mediterranea. Questo processo di ‘occidentalizzazione’ e normalizzazione artistica fu graduale; e fu negli anni trenta e quaranta del Trecento che i segnali d’un peso ormai rilevante delle presenze e delle importazioni da Napoli, dalla Catalogna, dalla Toscana e dalla Liguria andarono facendosi frequenti e significativi, incidendo a fondo sulla produzione figurativa isolana.

Da Napoli, se si fa eccezione per il caso della Bibbia di Catania (Bibl. Riunite Civ. e A. Ursino Recupero, A.72), riccamente miniata agli inizi del Trecento nello stretto entourage di Pietro Cavallini, ma che non si sa per quali tramiti e quando sia pervenuta in S., i primi apporti certi datano per l’appunto ai decenni a cavallo di metà secolo; d’altronde la pacificazione effettiva e la riapertura di rapporti fra la corte angioina e quella aragonese di Palermo dovevano concretarsi soltanto con gli accordi fra Giovanna I d’Angiò (1343-1382) e Giovanni di Randazzo (1347) e fra la stessa Giovanna e Federico III d’Aragona (1355-1377), re di S. (1372).

Risale a questi anni la tavola, in qualche modo giottesca, con S. Nicola in trono (Messina, Mus. Regionale), attribuita al Maestro delle Tempere francescane (1335 ca.), un artista con ogni probabilità napoletano, ma le cui opere - seguendo il circuito di una costante committenza francescana - risultano distribuite ab origine in una vasta area del Mediterraneo occidentale, dalla Campania alla S. appunto, e dalla Sardegna alla Provenza. Sempre a questi anni, e meglio ancora a dopo il 1372 e la riapertura definitiva delle relazioni diplomatiche fra i due centri, sono riconducibili un dipinto tardo come la lunetta con la Pietà (Trapani, Mus. Nazionale Pepoli), proveniente dalla chiesa di S. Domenico a Trapani, del maggior seguace partenopeo di Giotto, Roberto d’Oderisio, e l’affresco con l’Ascensione della cattedrale di Agrigento, di un più modesto pittore di cultura giottesca e odorisiana attivo però sicuramente in loco; ancora a questi stessi anni appartengono le tavolette dipinte con Storie di Giasone e fregi vegetali e a testine, realizzate da un altro artista di simile cultura napoletana all’interno del gran cantiere del soffitto del palazzo Chiaramonte (o Steri) di Palermo, e i due codici del Liber celestium revelationum di s. Brigida di Svezia (m. nel 1371) provenienti dal vicino monastero di San Martino delle Scale, illustrati da un miniatore partenopeo ormai dell’ultimo quarto del secolo (New York, Pierp. Morgan Lib., 498; Palermo, Bibl. Centrale della Regione Siciliana, IV.G.2).

Genova e Pisa furono, dopo Napoli, in questo scorcio di secolo, i centri privilegiati di un rapporto di scambio e di alleanza politica e commerciale - e ugualmente affacciati sulla stessa porzione di Mediterraneo occidentale frequentata dai siciliani e dai loro navigli -, che doveva al contempo interessare gli aspetti della produzione artistica. Ancor prima della metà del Trecento le presenze della nota Madonna dell’Umiltà (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia), proveniente dalla chiesa di S. Francesco d’Assisi a Palermo e firmata da Bartolomeo da Camogli, e del rimaneggiato Crocifisso della cattedrale di Cefalù, la cui stesura originaria è stata comprensibilmente avvicinata allo stesso Bartolomeo e alla cultura ligure primo-trecentesca, dimostrano che il contatto con Genova doveva rappresentare per i maggiori centri della S. - specie settentrionale e tirrenica - l’occasione e la valvola di una conoscenza delle più importanti vicende figurative che s’andavano sviluppando sull’asse Siena-Avignone: dalla pittura più ombrosa e drammatica di Pietro Lorenzetti alle invenzioni di raffinato sapore cortese e di estenuata, gotica preziosità di linee e di colori dell’ultimo Simone Martini e del primo Matteo Giovannetti.

Più tardi la delicata Madonna con il Bambino della chiesa dei Ss. Paolo e Bartolomeo ad Alcamo - opera di Barnaba da Modena negli anni in cui la sua bottega ligure produceva ed esportava ancone e polittici su vasta scala mediterranea e sino a Murcia in Spagna - e ancora le opere di due seguaci di Barnaba, l’anonima lunetta con l’Annunciazione e la Trinità, proveniente dal monastero di Santo Spirito ad Agrigento (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia), e il S. Giorgio e il drago della chiesa di S. Maria di Gesù a Termini Imerese (prov. Palermo), firmato da Nicolò da Voltri, testimoniano della continuità di questo rapporto attraverso le formule più modeste e narrative in auge a Genova nella seconda metà del secolo.

Analogo il rapporto con Pisa, che trovò tuttavia fondamento soprattutto nel corso dell’ultimo ventennio del secolo. È da Pisa, infatti, che giunse a Palermo, nel 1388, il tabellone con la Madonna e santi e la Flagellazione per la Confraternita di s. Nicolò lo Reale (Palermo, Mus. Diocesano), dipinto da Antonio Veneziano, uno dei maggiori protagonisti della diffusione del linguaggio toscano in area mediterranea, da Firenze e Pisa verso Valencia e Toledo. È da Pisa che, nel decennio successivo, giunsero, nella stessa Palermo, la Madonna in trono con i ss. Antonio Abate, Giovanni Battista, Pietro, Maddalena, Lucia, Caterina e Orsola, opera di Turino di Vanni per il monastero di San Martino delle Scale (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia), i due dipinti del più modesto ma gustoso Jacopo di Michele, detto il Gera, l’uno con i Ss. Agata e Giorgio (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia), l’altro, un trittico con S. Anna Metterza fra i ss. Giovanni Evangelista e Giacomo (Palermo, Mus. Diocesano), commissionato in origine per la locale Confraternita dell’Annunziata, e ancora - in modi e tempi non allo stesso modo precisati - il S. Nicola proveniente da Sciacca e creduto di Giovanni di Pietro (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia), la Madonna con il Bambino dell’altro pisano Giovanni di Nicola (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia) e un’altra simile (Palermo, Coll. Federico).

Pisa doveva inoltre risultare, oltre che centro di produzione autonomo e tramite per la cultura fiorentina di secondo Trecento, utile canale di smistamento via mare verso la S. di prodotti dell’arte senese, o addirittura di artisti senesi: dapprima Andrea di Vanni d’Andrea, che vi soggiornava nel 1384, e un riflesso delle cui formule si legge in un S. Michele Arcangelo (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia), e in seguito, ormai negli ultimi anni del secolo e nei primi di quello successivo, Nicolò di Magio, un artista minore dell’orbita di Paolo di Giovanni Fei, autore nell’isola, fra altre cose, d’un dipinto firmato, già nella chiesa palermitana di S. Cristina la Vetere.

Fuori, infine, da un circuito più limitatamente tirrenico, ma nell’ambito del medesimo, fitto intreccio di rotte commerciali e marittime mediterranee, rientrano le importazioni dalle sponde del dominio politicamente più collegato: la Catalogna di Jaume e Pere Serra - il primo attivo in S. nel corso degli anni sessanta del Trecento e responsabile di un’Ultima Cena (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia), e il secondo autore di una più tarda Madonna con il Bambino e angeli e le ss. Eulalia e Caterina (Siracusa, Mus. Naz. di Palazzo Bellomo) - e, ormai a fine secolo, dell’altro pittore barcellonese Guerau Gener, della cui documentata presenza nell’area occidentale dell’isola resta la sola testimonianza d’una modesta Ascensione (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia).

Tutte queste importazioni, e questo crogiuolo di esperienze figurative diverse, spesso reso ancor più cogente dalla presenza e immigrazione degli artisti stessi, dovevano portare - sul finire del secolo e dopo molti decenni di assenza d’una propria e originale fisionomia produttiva - alla formazione d’una ‘scuola’ locale, isolana degna di tal nome; il suo raggiungimento più antico e significativo, e insieme il massimo esempio del carattere feudale - e comprensibilmente legato all’illustrazione del mito cavalleresco - della committenza artistica d’una S. ormai spartita politicamente e territorialmente fra i grandi poteri e domini familiari dei Peralta, dei Chiaramonte, dei Ventimiglia e degli Aragona, è nel citato soffitto picto del palazzo Chiaramonte (o Steri) di Palermo. Qui, nelle varie travi dipinte con le Storie di Susanna, di Paride, di Tristano e Isotta, di Salomone e di Aristotele, comparvero, per la prima volta tangibili, i nomi di artisti trecenteschi sicuramente isolani, come Cecco di Naro, Simone da Corleone e Pellegrino Darena da Palermo; e insieme comparve per la prima volta - alla data certa del 1377-1380 - un linguaggio pittorico dai toni certo semplificati e correnti, ma allo stesso tempo vivacemente narrativi, del tutto aggiornato sui risultati maturi del Gótico lineal iberico fra la Castiglia e l’Andalusia, da Córdova a Toledo fino ai soffitti di Santo Domingo di Silos e della parrocchiale di Vileña.

Fra questi non eccelsi pittori, e in questo fervido cantiere ‘feudale’, dové inoltre formarsi - e a esso collaborare - l’unico artista siciliano di alto profilo qualitativo attivo nel contesto locale di fine Trecento, il Maestro del Polittico di Trapani, il cui nome deriva dal polittico conservato nel Mus. Nazionale Pepoli di Trapani. In questa figura di artista confluiscono con le caratteristiche di un linguaggio originale le componenti pisane, genovesi - alla Turino di Vanni e alla Taddeo di Bartolo - e napoletano-fiorentine che avevano sino a quel momento connotato il panorama delle importazioni nell’isola. Il corpus di opere che a lui o alla sua cerchia sono riferibili - dal ricco polittico appunto di Trapani, in origine proveniente dalla locale Confraternita di s. Antonio Abate, a quello, smembrato, con la Trasfigurazione già in Coll. Hearst, il S. Giovanni Evangelista (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia), la Madonna del fiore (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia), la Madonna del latte con angeli (Trapani, Mus. Nazionale Pepoli), il Crocifisso della chiesa di Santo Spirito a Palermo e la Trinità della Coll. Pirrotta, nonché il trittico del suo entourage con l’Incoronazione della Vergine (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia) - chiude con un nuovo e forte acuto la vicenda artistica siciliana negli anni ormai dell’‘autunno del Medioevo’.

Bibl.:

R. Longhi, Frammento siciliano, Paragone 4, 1953, 47, pp. 3-44; S. Bottari, La cultura figurativa in Sicilia, Messina-Firenze 1954; A. Daneu Lattanzi, Ancora sulla scuola miniaturistica dell’Italia meridionale sveva. Suo contributo allo sviluppo della miniatura bolognese, La Bibliofilia 66, 1964, pp. 105-162: 134-136; H. Buchthal, Some Sicilian Miniatures of the Thirteenth Century, in Miscellanea pro arte. Festschrift Hermann Schnitzler, Düsseldorf 1965, pp. 185-190; id., Early Fourteenth Century Illuminations from Palermo, DOP 20, 1966, pp. 103-118; A. Daneu Lattanzi, Lineamenti di storia della miniatura in Sicilia, Firenze 1966; V. Lazarev, Storia della pittura bizantina, Torino 1967; F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli, 1266-1414, Roma 1969; id., Il soffitto della Sala Magna allo Steri di Palermo, Palermo 1975; Die Zeit der Staufer. Geschichte-Kunst-Kultur, a cura di R. Haussherr, cat., I, Stuttgart 1977; M. Rotili, La miniatura nello ‘‘scriptorium’’ della badia di Cava nel Duecento, in Federico II e l’arte del Duecento italiano, «Atti della III Settimana di studi di storia dell’arte medievale dell’Università di Roma, Roma 1978», Galatina 1980, II, pp. 113-125: 116-117; G. BrescBautier, Artistes, patriciens et confréries. Production et consommation de l’oeuvre d’art à Palerme et en Sicile occidentale (1348-1460) (CEFR, 40), Roma 1979; H. Toubert, Autour de la Bible de Conradin: trois nouveaux manuscrits enluminés, MEFR 91, 1979, pp. 729-784; P. Santucci, La produzione figurativa in Sicilia dalla fine del XII secolo fino alla metà del XV, in Storia della Sicilia, V, Napoli-Palermo 1981, pp. 141-230; P. Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, Firenze 1986; id., Pittura del Duecento e del Trecento a Napoli e nel Meridione, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, Milano 1986, II, pp. 461-512; Federico e la Sicilia, dalla terra alla corona. Arti figurative e suntuarie, a cura di M. Andaloro, cat. (Palermo 1994-1995), Palermo 1995.