Shoah

Libro dell'anno 2001

Affrontare il tema della Shoah, oggi

di Mario Pirani

27 gennaio

Nell'anniversario della liberazione dei sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz da parte dei soldati dell'Armata Rossa, avvenuta il 27 gennaio 1945, si celebra per la prima volta in Italia - secondo quanto stabilito dalla l. 20 luglio 2000, nr. 211 - il 'Giorno della memoria', dedicato al ricordo dei milioni di ebrei vittime del genocidio nazista.

L'unicità storica della Shoah

La legge istitutiva del 'Giorno della memoria', tenacemente proposta nella XIII Legislatura dal deputato Furio Colombo, consta di due soli articoli. Nel primo si legge: "La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, 'Giorno della memoria', al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati". Il secondo articolo stabilisce che in occasione della 'giornata' siano prese una serie di iniziative, specie nelle scuole, per riflettere "su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti".

È possibile affrontare un tema così complesso e per tanti versi ancora dolente, sfuggendo alla retorica d'obbligo e traendone, viceversa, spunto per una elaborazione storica e politica che permetta di comprendere in che senso si può parlare di unicità della Shoah e se esiste o meno il pericolo che una tragedia simile si ripresenti? La risposta è positiva solo riconoscendo che su questo terreno si può procedere, ma a condizione di affrontare alcuni quesiti che suscitano non poche polemiche. Il primo contro cui si urta è, appunto, quello della 'unicità'. Storici e opinionisti si sono contrapposti sull'argomento: il Genocidio è stato un evento senza paralleli nelle vicende dell'umanità oppure un massacro, per quanto di enormi proporzioni, simile ad altri che hanno insanguinato il mondo, sia nel passato sia nell'ultimo secolo? Va seguito, quindi, un criterio comparativo o, così facendo, si arriverebbe ineluttabilmente a ridurre il Genocidio a una delle tante crudeltà della storia? In particolare, una tesi, che ha suscitato molte polemiche, è stata quella dello studioso tedesco Ernst Nolte, secondo cui lo sterminio ebraico è stato deciso da Hitler quale risposta al terrore di massa staliniano. Ma, a parte le tesi di Nolte, anche molti altri opinionisti hanno manifestato perplessità verso la valutazione di unicità, quasi da essa derivasse una conseguenza etico-politica limitante l'esecrazione per la 'barbarie genocidaria' unicamente alla vicenda ebraica, mentre, su un piano diverso e secondario, verrebbero collocati, in primo luogo, lo sterminio nei gulag staliniani e, altresì, i massacri in Cambogia, nel Ruanda, nella ex Iugoslavia e, oggi, in Cecenia.

Certo, se si proietta tutto questo nel presente, sia pure in un presente lungo tutto l'ultimo secolo, la riserva può apparire fondata e il discrimine poco giustificabile. Non è, però, così. Il carattere di unicità si colloca in un altro contesto: quello di una persecuzione più che bimillenaria, che risale all'antichità pagana, quando l'ebraismo era esposto a un disprezzo sferzante a causa del monoteismo che lo contraddistingueva dall'universo circostante; cui seguì l'antigiudaismo cattolico, almeno da quando il cristianesimo messianico delle origini si tramutò, da setta ebraica eterodossa, in religione dell'Impero e trovò in san Paolo l'impianto accusatorio di condanna perenne del popolo deicida. Da allora, massacri innumerevoli, roghi di innocenti e dei loro libri di preghiera, legislazioni restrittive, chiusura nei ghetti, discriminazioni, processi, forzate conversioni, tutti atti accompagnati da una permanente predicazione tendente a indicare negli ebrei la causa prima della loro stessa dannazione, che predispose per secoli l'animo di centinaia di milioni di gentili ad accettare o a volgere il capo dall'altra parte. Fino a quando un carnefice munito di potere totalitario propose la 'soluzione finale'. Basta, del resto, comparare i documenti hitleriani alle maledizioni di Lutero per ritrovare analoghe teorizzazioni sulle colpe degli ebrei: "Essi sono cani assetati di sangue di tutta la cristianità e assassini di cristiani per volontà accanita e gli piace talmente farlo che sovente sono stati bruciati vivi sotto l'accusa di aver avvelenato le acque e i pozzi, rapito bambini e averli smembrati e fatti a pezzi, con lo scopo di raffreddare la loro rabbia con del sangue cristiano" (Von den Juden und ihren Lügen, 1543).

È questa, quindi, l'unicità storica e metastorica che segna la Shoah e la rende tragicamente specifica. Se così non fosse, se questo intrecciarsi di ancestrali odi e teologiche condanne, di anatemi religiosi e ricorrenti razzismi non avesse rappresentato una perversa costante attraverso i millenni, lo straordinario anelito di Papa Giovanni Paolo II per spezzarlo, culminato con il perdono invocato ai piedi del Muro del Pianto, non avrebbe senso. Illuminanti, per contro, sulla revisione operata dalla Chiesa le parole del cardinale Jean-Marie Lustiger, arcivescovo di Parigi, che in un saggio proprio sulla unicità della Shoah, scrive: "Non si può capire la singolarità della Shoah che in rapporto con la singolarità del Sinai. La Shoah è la radicale negazione del Sinai [...] la rivelazione del Sinai illumina il tesoro etico, comune a tutta l'umanità. Ecco perché lo sterminio del testimone dell'Unico è, anche sotto questo aspetto, un crimine contro l'umanità. […] La Shoah è la nera luce che ci rende possibile dare un nome agli orrori commessi in Bosnia o in Ruanda, ai crimini di Pol Pot, al genocidio armeno e agli infiniti altri massacri che si dissimulano sotto la veste menzognera delle giustificazioni politiche [...] per questo il significato orribile della Shoah non banalizza affatto le altre ferite del secolo. [...] Se dalla Shoah risulta che ogni offesa alla dignità dell'uomo diviene intollerabile, è perché la volontà di sterminare il popolo testimone ha reso attenti alla vocazione e alla condizione di ogni persona umana".

La Shoah mito fondante dello Stato di Israele?

Oltre al criterio di unicità vi è un altro nodo che s'intreccia con la valutazione della Shoah e, cioè, il considerare il Genocidio come mito fondante dello Stato d'Israele. Ora, considerare 'mito' (che secondo la definizione dei dizionari corrisponde a un'immagine schematica o semplificata, spesso illusoria, di un evento) una tragedia storica, recentissima e tuttora percepibile nella sua spaventosa fattualità, può ingenerare, quanto meno, qualche confusione semantica. Una cosa, per esempio, è dire che il valore fondante della Repubblica Italiana risiede nella Resistenza e nella Costituzione quale riflesso della rottura con il fascismo, mentre qualche ambivalenza riduttiva può suscitare la dizione 'il mito della Resistenza'. Comunque si tratta di un rilievo secondario, come anche secondaria è la perplessità, espressa da alcuni studiosi, per il termine Shoah - "annientamento" o "sterminio" - quasi gli ebrei non volessero tradurla in altre lingue per affermarne l'unicità. Il termine Shoah o Genocidio è preferito da molti, compreso il sottoscritto, alla parola Olocausto, la quale potrebbe lasciar trasparire la metafora di un sacrificio espiatorio.

Tornando al problema del Genocidio come origine legittimante dello Stato d'Israele, va rilevato che recentemente, anche all'interno della storiografia israeliana, si sono manifestate voci discordanti. Valga per tutte l'opinione di Yehuda Elkana, che su Ha'aretz ha incitato i suoi concittadini a "non considerare più l'Olocausto come asse centrale, determinante del nostro essere nazione". Queste prese di posizione hanno suscitato forti reazioni e confortato le posizioni ostili alla legittimità di Israele. D'altra parte va ribadito che le idee di uno studioso ebreo non hanno in sé una valenza speciale, ma pesano quanto quelle di uno storico di diversa credenza o di un altro ebreo che la pensi in modo opposto. Del resto, la questione è controversa fin dalle origini: i pionieri, che edificarono i primi kibbutz fra il 19° e il 20° secolo e che nel 1947 videro coronato il loro sogno con la creazione dello Stato, si rifacevano al programma sionista, soprattutto nella sua versione socialista. Si può aggiungere che, fino al processo ad Adolf Eichmann, nel 1961-62, l'aver subito il Genocidio veniva vissuto in Israele con un sentimento di silenzioso dolore, non scevro da vergogna perché gli ebrei non avevano saputo reagire. Non è casuale che, agli albori del nuovo Stato, di quel periodo si celebrasse ufficialmente soltanto la rivolta del ghetto di Varsavia. Fu solo in un secondo momento che i sopravvissuti cominciarono a parlare, il lutto venne penosamente elaborato e la Shoah assunse la sua dimensione storica, uno spartiacque fra il prima e il dopo. Per contro, la maggioranza degli ebrei diasporici aveva sempre inquadrato la prospettiva di un futuribile ritorno nella Terra Promessa in quel "l'anno prossimo a Gerusalemme", pronunciato la sera di Pesah (Pasqua ebraica), a significare l'affidamento atemporale di una speranza al permanere della memoria e della tradizione. Infine, tutta una corrente ultraortodossa, soprattutto nei primi anni Cinquanta, considerò la pretesa di creare uno Stato ebraico come un'eresia laica, dal momento che non si era ancora verificata la venuta del Messia, premessa per la ricostituzione di uno Stato religioso nella Terra Promessa.

Si ricava da questo rapido excursus che la questione della legittimità o meno del Genocidio come base fondante di Israele precede di gran lunga l'attuale dibattito storico. Resta, peraltro, il fatto che, senza l'immane trauma del Genocidio né l'impegno sionista, né l'auspicio pasquale, né le attese messianiche avrebbero portato alla creazione dello Stato, alla sua accettazione da parte delle Nazioni Unite, al suo ripopolamento da parte di milioni di scampati da ogni angolo della Terra, come la 'legge del ritorno' prevede. Senza quella tragica legittimazione la presenza ebraica in Palestina non avrebbe superato, al massimo, le dimensioni di una testimonianza locale non istituzionale. E se, oggi, l'esigenza di diventare uno 'Stato come gli altri' - che spiega l'attuale revisionismo storico israeliano - dovesse alla fine prevalere, con la cancellazione di una memoria legittimante saldata alla Shoah, è probabile che, nel migliore dei casi, il popolo di Israele finirebbe riassorbito, in qualità di minoranza religiosa tollerata, all'interno del mondo arabo circostante. Nel peggiore dei casi potrebbero verificarsi un'altra devastazione e una terza diaspora.

La paura di nuove Shoah

Dal quadro tracciato scaturisce, del resto, un terzo interrogativo, dopo quelli sull'unicità e sulla legittimazione di Israele. Esso riguarda l'ossessione di una nuova Shoah. Per alcuni opinionisti, abitualmente critici nei riguardi della politica israeliana, questo sentimento è alimentato ad arte sia per delegittimare ogni polemica contraria sia per avvolgere in un alone di permanente intoccabilità le pretese dello Stato ebraico. Anche in questo caso, peraltro, vi è un'ampia pubblicistica ebraica che si sofferma sul perché "la paura di sempre nuove shoah occupa le menti" della maggioranza della gente, sul perché "ogni avversario è sospettato di essere un duplicato di Hitler", tanto da far pensare a "una memoria mitica [...] bisognosa di nemici mortali". Non crediamo sia esattamente così. La sopravvivenza di Israele, infatti, è condizionata dalla pace e senza la conquista, ancora tutt'altro che percepibile, di una pace duratura, questo paese, forte ma minuscolo, potrebbe finire per soccombere. Non si può ignorare che i suoi nemici sono tutt'altro che mitici o mitizzati. In tutte le guerre che negli ultimi cinquant'anni si sono svolte in quei pochi chilometri tra il Mediterraneo, il Mar Rosso, il Mar Morto e le alture del Golan, la posta in gioco è stata sempre la salvezza o la distruzione totale dello Stato d'Israele, non una modifica dei confini o un regime politico diverso. È l'unico Stato per cui il conflitto bellico ha un significato così radicale. E, del resto, ancora oggi il sentimento di gran lunga prevalente nel mondo arabo è di riuscire un giorno a gettare a mare gli ebrei, così come vi furono ributtati i cristiani delle Crociate. La percezione di questa condizione geopolitica non può non saldarsi nell'animus ebraico con la memoria storica e religiosa in senso lato. La sindrome di un 'eterno ritorno' la percorre dalle origini fino ad Auschwitz. Lo spiega bene Yosef Hayim Yerushalmi, nelle sue lezioni raccolte in Zakhor: storia ebraica e memoria ebraica (1983), dove ricorda come l'esodo dall'Egitto e l'esilio da Gerusalemme ricorrano da sempre nel ricordo collettivo, come "perfetta dimostrazione di un conflitto strutturale ricorrente nelle esperienze storiche ebraiche, invariabilmente costruite intorno alla drammatica polarità di due grandi partenze (Egitto/Gerusalemme; Esodo/Esilio), ciascuna delle quali reca con sé, taciti ma non esorcizzabili, grovigli di significati e di implicazioni". E sempre Yerushalmi illustra, con molteplici casi, per quali ragioni, molto tempo prima della 'soluzione finale', le comunità della diaspora abbiano sempre vissuto le persecuzioni come un continuo 'ritorno'. Egli rileva, per esempio, come la prima accusa di infanticidio rituale mossa agli ebrei risalga al maggio del 1171, al tempo della prima Crociata, quando a Blois, in Francia, trentadue ebrei, fra i quali diciassette donne, furono mandati al rogo, avendo anche rifiutato il battesimo quale condizione per salvarsi. L'impressione sui contemporanei fu enorme e ne derivarono numerose selihot, preghiere penitenziali, sovente di tono poetico, inserite nella liturgia della sinagoga. Ebbene, nel 1648, parecchi secoli dopo, in una situazione molto diversa e in un'altra regione d'Europa - in Polonia e in Ucraina- i cosacchi si abbandonarono a sanguinosi pogrom contro le comunità ebraiche orientali, devastarono centinaia di paesi, massacrarono o vendettero come schiavi migliaia di ebrei. Una ferita che non doveva più cicatrizzarsi. Come era accaduto dopo Blois, furono composte varie selihot ma "sebbene la situazione degli ebrei polacchi fosse considerevolmente diversa […] i due avvenimenti erano stati omologati e molti scrittori avevano descritto il massacro del 1648 come una ripetizione del martirio delle Crociate. […] Nella prefazione a una selihot, stampata a Cracovia

nel 1650, si legge: "Quanto è accaduto oggi è simile alle persecuzioni del passato, e tutto quello che è accaduto ai padri si è verificato anche per i loro discendenti [...] La storia è la stessa"". Con questo retroterra - di cui abbiamo dato solo un esempio fra mille - come è possibile giudicare la 'paura di sempre nuove Shoah' una sindrome ingiustificata o un artificio strumentale di strategia politica? Ciò detto, è possibile sottrarsi alla ripetizione della Storia? Molti credono che la risposta risieda nelle trattative di pace in Medio Oriente, ma, anche se queste andassero in porto, come tutti sperano, esse non chiuderebbero definitivamente un'antinomia millenaria. Essa è radicata nella storia recente e antica, nella religione, nella cultura, nei profondi e sedimentati rancori e, soprattutto, nel convincimento, che coinvolge anche i laici delle due sponde, che quel territorio sia 'sacro', locus originario e 'promesso', per cui è sacrilega l'altrui presenza.

La speranza al di là della politica

Non c'è quindi speranza? Forse, così come le radici dell'odio affondano in un passato biblico, così i germogli della speranza possono essere coltivati procedendo al di là della politica. Se si riflette alla portata epocale del pellegrinaggio papale a Gerusalemme nel marzo 2000 s'intravede anche il profilo di una difficile ma più confortante conclusione. Se comincia a emergere il percorso di un rapporto giudaico-cristiano che cancella l'antica maledizione e perdona i tormenti subìti, così esiste, pur se ancora ricoperto dalla sabbia del deserto, un cammino che può portare a una pacificazione duratura tra arabi ed ebrei. Sul piano della buona volontà politica, della mediazione internazionale e, persino, degli interessi concreti reciproci, essa rimarrà, comunque, fragile. L'incontro autentico potrà venire solo quando i due popoli sapranno assieme ritrovare la comune origine abramitica. Certo, tutta la Torah è attraversata dal tema del fratricidio, ma il Signore salvò anche Caino "e gli impose un segno perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato". Se arabi ed ebrei sapranno riconoscere la loro fratellanza biblica, quel giorno la spirale senza fine di sangue e diffidenza potrà aver davvero termine. Conclusione forse inaccettabile per chi rifiuta razionalmente di confondere la sfera religiosa con la ricerca storica e l'analisi politica. È una obiezione in principio giusta ma, d'altra parte, anche il pensiero laico, senza un ancoraggio alla tradizione biblica e al complesso svolgersi delle tre religioni monoteiste, non arriva a decifrare pienamente il tragico contenzioso medio-orientale. Persino la cronaca politica del giorno per giorno appare a volte incomprensibile. Del resto nessuno è arrivato a dare una risposta convincente sul perché, proprio nel momento in cui la pace era apparsa più vicina, durante le ultime trattative di Camp David, quando il premier Ehud Barak si era mostrato disposto a discutere sul destino e la spartizione di Gerusalemme - cosa che nessuno dei suoi predecessori aveva mai osato fare esplicitamente -, perché proprio da quel momento si è scatenata la rivolta palestinese. Molte spiegazioni sono state avanzate sulle responsabilità delle due parti. Non sono, però, esaustive se non vengono collocate in un contesto a più lungo termine, dove né l'impiego della forza né gli strumenti della politica sono bastevoli per pacificare un'avversione millenaria. Per questo, tanto più ci si avvicina al cuore del problema, al rapporto tra terra e sacralità e, quindi, a Gerusalemme, tanto più gli equilibri diplomatici raggiunti tendono a saltare, le irrazionalità emotive (ma non per questo meno devastanti) a esplodere, i sentimenti di appartenenza a contrapporsi con cieca determinazione, i compromessi, anche i più lungimiranti, a essere giudicati alla stregua di cedimenti inaccettabili. I leader politici di cultura moderna hanno difficoltà a capire davvero la struttura emozionale che provoca tanti sconquassi. Ma mentre Yasser Arafat, pur essendo un laico, ha il vantaggio di percepire come l'antico dogma coranico possa trasformarsi, a suo vantaggio, in dirompente esplosivo, tanto Barak quanto Ariel Sharon diffidano persino del fondamentalismo ebraico (che hanno sempre cercato di addomesticare con qualche lusinga pratica): figurarsi se riescono a essere comprensivi nei confronti di quello islamico. Anche se risaliamo alla storia del secolo appena trascorso, che ha visto l'emergere del sionismo come del nazionalismo panarabo, non si può ignorare che ambedue si sono affermati in quanto movimenti laici, contrapponendosi alle vecchie leadership religiose, ebraiche e islamiche. Basti pensare alle repressioni contro i 'fratelli musulmani' da parte del regime nasseriano in Egitto (analogo il caso della Siria, dell'Iraq, dell'Algeria) o alle maledizioni degli ebrei ortodossi contro la creazione blasfema dello Stato d'Israele. È, quindi, per una radicata tradizione culturale che, soprattutto da parte ebraica, si vorrebbero sminuire gli aspetti religiosi del confronto. Così, mentre Arafat punta ultimamente a proporsi come guardiano dei luoghi santi, l'ex ministro degli Esteri israeliano, Shlomo Ben-Ami, dichiara al giovane re del Marocco che "il conflitto non è di natura religiosa, anche se Arafat cerca di trascinarci su questo terreno nella disputa sul Monte del Tempio. Egli fa un grosso errore se vincola la soluzione di tutto il problema palestinese e del conflitto medio-orientale alla questione simbolica di una moschea". Parole che dimostrano la comprensibile insofferenza di molti israeliani laici per l'ortodossia religiosa, sia araba sia ebraica, tanto che le parole di Ben-Ami trovano speculare completamento in quelle del grande romanziere, Abraham Yehoshua: "Gli ebrei che vogliono il Monte del Tempio sono dei pazzi che sognano un giorno di distruggere le moschee che vi sono sopra per ricostruire al loro posto il tempio di re Salomone". Eppure 'c'è del metodo in questa follia' e rifiutarsi di leggerne il senso impedisce di individuare percorsi di convivenza, alla lunga forse più duraturi di quelli, pur indispensabili, della trattativa politico-diplomatica. Neppure un osservatore ateo può capire ciò che è accaduto o accadrà in quella peculiarissima striscia di terra fra il Mediterraneo e il Mar Morto se non usa, assieme agli strumenti dell'analisi storica, anche i fondamentali testi delle tre religioni monoteiste e il credo in un Dio che tutte in partenza le accomuna. E poco capirà persino delle odierne cronache se non inforcherà occhiali biblici.

Nel ristretto perimetro murario dell'antica Gerusalemme e soprattutto in quelle poche centinaia di metri del Monte del Tempio, Al-Haram al-Sharif, come lo chiamano gli arabi, che si affaccia a oriente sulla valle di Giosafat, dove la tradizione colloca il Giudizio Universale, in quel fazzoletto di terra si è da sempre incrociato il vissuto ideale e religioso delle genti giudaiche, arabe e cristiane. Lì il fulcro della loro fede e della loro storia, lì lo scenario, ripetuto attraverso i secoli, di infinite rappresentazioni artistiche, sotto ogni forma che l'uomo conosca, lì il conteso quadrivio dove si sono alternati i guerrieri di re Davide e quelli del Profeta, i consoli romani e i crociati.

La moschea di Omar e quella di Al-Aqsa che si fronteggiano, sovrastando il Muro del Pianto, sono solo l'ultima versione di una vicenda lunga quanto la storia scritta. Il pavimento della prima è, in parte, formato da una larga roccia piatta. Secondo una tradizione di 3000 anni, comune a ebrei e musulmani, con quella pietra Dio separò il mondo della Creazione dal caos sottostante. Un foro metterebbe in contatto i due emisferi di Sopra e di Sotto. Ma quello era solo l'inizio: su quel masso fu commesso il primo omicidio, l'assassinio di Abele per mano di Caino, con l'entrata dell'uomo nell'era, mai interrotta, della violenza; su quella pietra Abramo incatenò il figlio Isacco, per immolarlo, prima di essere fermato dal Signore, punto di partenza del monoteismo, con l'avvento di un Dio giusto e trascendente e la trasformazione della religione da sentimento di paura ancestrale a legge morale; da quella pietra Maometto salì al cielo su una scala di luce per ricevere il Corano da Allah. La moschea di Omar altro non è che la versione bizantina del tempio di Salomone, da dove Cristo scacciò i trafficanti, prima che le legioni di Tito lo distruggessero, spingendo gli ebrei alla diaspora. Il Muro del Pianto ne costituisce il contrafforte occidentale. Sulle sue rovine i romani edificarono un tempio a Giove, mentre una chiesa cristiana subentrò, nello stesso punto, sotto Bisanzio e sotto i crociati di Goffredo di Buglione. Dal 1187 in avanti vi svetta la mezzaluna islamica. A qualche centinaio di metri in linea d'aria vi sono la chiesa della Natività, la via crucis, il Calvario e il Monte degli Ulivi. Tutto questo ha sedimentato una compresenza religiosa, storica, culturale che nessun altro luogo del mondo conosce. Quel che per gli uni è un atto pio suona profanazione per gli altri. Antichissime avversioni e appartenenze si guatano l'una l'altra. Il confondersi fra antichità e modernità provoca uno straniamento irreale del tempo, il passato si rispecchia nel presente, generando angosce per un futuro dove incombe il fantasma di una paurosa coazione a ripetere, il fantasma, appunto, di un altro Genocidio.

Possono leader politici per quanto illuminati, uomini d'arme per quanto coraggiosi, diplomatici per quanto accorti condurre a compimento la pacificazione di un magma ribollente e da sempre inabbordabile, come le viscere irraggiungibili di un vulcano? Si potrebbe obiettare che altro non è dato, poiché i capi religiosi mosaici e maomettani appaiono come i più intemperanti custodi ognuno della propria fede. Allo stato delle cose è per la massima parte così, anche se hanno cominciato a operare nuclei rabbinici che, sulla scorta degli insegnamenti dei discendenti di Maimonide, ricercano proprio nello spiritualismo islamico il lascito disperso della mistica ebraica. Operazione nient'affatto scolastica perché pone una fondamentale questione geopolitica: Israele può seguitare ancora a riconoscersi in un modello di società di stampo euroamericano o deve tradurne la modernità rapportandosi, in primo luogo, al mondo medio-orientale che la circonda, con la sua cultura e, si potrebbe dire, con i suoi sapori e odori, fantasie ed emozioni ? In questo senso vanno anche interpretati i primi tentativi di alcuni rabbini e di alcuni shekh islamici (guide di confraternite religiose) di pregare assieme, leggendo lo stesso libro e ricercando le comuni matrici dei discendenti di Isacco- gli ebrei - e di Ismaele - gli arabi -, figli ambedue di Abramo ma di due madri diverse, la moglie Sara e la schiava Agar. Questa, per istigazione di Sara, venne allontanata dalla casa (Genesi, 16 e 21) ma Dio dirà ad Abramo: "Non ti dispiaccia questo per il fanciullo e la tua schiava [...] attraverso Isacco da te prenderà nome una stirpe ma io farò diventare una grande nazione anche il figlio della schiava, perché è tua prole". Dunque l'allontanamento consentirà ad Agar di maturare, passando dallo status di schiava a quello di madre del capostipite del popolo arabo. La riprova della positività nascosta dietro l'enigma della storia di Agar, la schiava che seguendo l'ispirazione divina prende in mano il suo destino e quello del figlio, dando vita a un altro popolo, è suggerita anche dal fatto che Isacco e Ismaele, separati in gioventù da un tragico equivoco sulla maternità, si rivedono e si riuniscono alla morte del comune padre Abramo per onorarne la memoria. Di questo discettano oggi rabbini e shekh. Potrà dal recupero simbolico delle inscindibili origini religiose passare l'arduo approccio alla coesistenza pacificata degli animi in quella terra, santa e dilaniata? La risposta non può essere immediata e può apparire molto lontana dal terreno del contendere. Ma anche la difficile amicizia giudaico-cristiana non avrebbe mai visto la luce senza una nuova interpretazione della Scrittura e della Patristica che cancellasse l'accusa di deicidio e senza la richiesta di perdono per la Shoah. Del resto, i suggerimenti di Giovanni Paolo II per risolvere la questione di Gerusalemme, spogliando di ogni sovranità statale il perimetro dove si concentrano i luoghi di culto dei tre monoteismi, dimostrano l'attualità, in un frangente forse altrimenti insolubile, del concorso di una diplomazia religiosa, cooperante con quella laica.

Una persecuzione secolare

Dalla diaspora al 18° secolo

L'avversione e la lotta contro gli ebrei hanno rappresentato, pur con fasi di diversa intensità a seconda dei luoghi e dei periodi, una costante della storia europea a partire dal 2° secolo d.C., quando la distruzione di Gerusalemme da parte di Adriano e la conseguente fine di un'entità politica ebraica in Palestina accentuarono il fenomeno della diaspora (dispersione), già sviluppatosi da secoli attraverso la costituzione di importanti comunità in Babilonia, in Egitto e, in generale, nel bacino del Mediterraneo. All'antigiudaismo determinato dall'inquietudine suscitata da un popolo che non si integrava nelle nuove realtà locali, mantenendo religione, lingua, usanze, norme giuridiche proprie, si aggiunse, con l'affermarsi del cristianesimo, una motivazione di carattere religioso, per l'accusa di 'deicidio' già rivolta agli ebrei da alcuni dei Padri della Chiesa.

Nel 4° secolo, quando il cristianesimo divenne religione ufficiale dello Stato romano, gli ebrei iniziarono a subire fortissime limitazioni, soprattutto nella loro capacità giuridica, con la proibizione, per es., di contrarre matrimonio con i cristiani e l'esclusione dai pubblici uffici. Giustiniano tolse loro gli altri privilegi, proibì l'ufficiatura con la lettura della Mishnah e comminò la pena di morte agli ebrei che avessero negato il dogma della Resurrezione. Il complesso di limitazioni e di 'norme di sfavore' esistente nel Codice giustinianeo costituì nei secoli successivi il fondamento del diritto comune relativo alla condizione giuridica degli ebrei.

Le prime lettere pontificie e i canoni dei primi concili che si occuparono degli ebrei si ispirarono a principi analoghi. Particolarmente importanti in tal senso furono le disposizioni del Concilio di Toledo del 633, che esercitarono un notevole influsso sulle fonti canoniche posteriori, fino ai decreti emanati dal quarto Concilio Lateranense (1215), secondo i quali gli ebrei non potevano avere uffici pubblici, dovevano astenersi dal comparire in pubblico durante la settimana santa ed erano obbligati a portare sulle loro vesti un distintivo giallo che li contrassegnasse.

Gli Stati europei regolarono le condizioni degli ebrei uniformandosi più o meno compiutamente alle leggi della Chiesa e dando a esse esecuzione coattiva. Lo status giuridico degli ebrei fu dappertutto precario: considerati fin dall'età carolingia servi regiae camerae, furono fra l'altro obbligati al pagamento di uno speciale tributo. All'ostilità di matrice religiosa si andava intanto aggiungendo un'avversione di carattere economico-sociale, dovuta al fatto che essi detenevano spesso il monopolio dell'usura, o quanto meno del prestito del denaro (che era interdetto ai cristiani), e di alcuni tipi di commercio. Per tutto il Medioevo a momenti di relativa pace e tranquillità si alternarono periodi di intolleranza o di vera e propria persecuzione, nei quali gli ebrei furono a volte costretti con la forza ad abbracciare il cristianesimo, altre volte torturati e messi a morte in seguito all'accusa di omicidio rituale o di vilipendio delle ostie, altre volte ancora subirono massacri (come quello che in Germania, nel 1096, portò alla morte oltre 50.000 persone) o furono espulsi dal loro territorio di residenza (dalla Francia nel 1254 e poi, nuovamente, nel 1394; dall'Inghilterra nel 1294; dai regni di Castiglia e di Aragona nel 1492; dal Portogallo nel 1496). Le persecuzioni assunsero particolare virulenza all'epoca delle Crociate, dopo l'istituzione dell'Inquisizione e in occasione delle grandi epidemie del Trecento, quando gli ebrei vennero accusati di propagare il morbo attraverso l'avvelenamento delle fonti.

Nel periodo della Controriforma, le misure antigiudaiche, soprattutto di polizia, si moltiplicarono. La bolla Cum nimis absurdum, emanata da Paolo IV nel 1555, fece divieto agli ebrei di Roma e di altre città dello Stato pontificio di avere domestici cristiani e, come medici, di curare i cristiani, e soprattutto prescrisse loro di abitare in strade separate dai quartieri cristiani, senza poter acquistare la proprietà delle case e con la sola facoltà di averle in locazione. La residenza coatta nel ghetto (il termine fu usato per la prima volta a Venezia, per indicare il quartiere ove abitavano gli ebrei ponentini, cioè di provenienza tedesca o italiana) fu adottata in diversi Stati europei, venendo a costituire una costante della condizione della vita ebraica per tre secoli, fino alla Rivoluzione francese. In generale, la Controriforma coincise con un peggioramento della situazione degli ebrei in tutta Europa e non solo nei paesi cattolici: essi furono esclusi dalle professioni, talvolta espulsi dai loro paesi di residenza, talaltra fatti oggetto di feroci e sanguinose persecuzioni (per es., in Polonia nel 1648). Un movimento europeo tendente all'emancipazione, o almeno al miglioramento delle condizioni degli ebrei, si ebbe soltanto alla fine del 18° secolo, sulla scia delle discussioni sulla tolleranza e la religione naturale, e soprattutto con il diffondersi dell'Illuminismo e delle idee libertarie propugnate dalla Rivoluzione francese.

Dall'antigiudaismo religioso all'antisionismo

Anche se nell'Ottocento nell'ordinamento giuridico di molti Stati europei ci si incamminò verso una parità effettiva dei diritti degli ebrei con quelli degli altri cittadini, non per questo l'atteggiamento antiebraico cessò di esistere, ma assunse anzi aspetti nuovi. Cominciò infatti a diffondersi il fenomeno 'culturale' dell'antisemitismo (il termine fu coniato nel 1880 da Wilhelm Marr, autore di Antisemitische Hefte, e utilizzato poi sia dai circoli antiebraici come propria definizione, sia dagli ebrei per indicare i loro nemici). Questo si fondava su una contrapposizione non religiosa ma razziale, basata su teorie pseudoscientifiche relative all'equivalenza di lingua e di razza e all'esistenza di lingue e razze 'pure'. Contemporaneamente la libertà concessa agli ebrei dalle nuove leggi consentì ad alcuni di essi di assicurarsi un grande successo economico: ciò determinò un ulteriore motivo di ostilità antigiudaica, soprattutto nei ceti meno abbienti e in quelli più colpiti dalle conseguenze dell'industrializzazione.

L'antisemitismo 'scientifico' ebbe grande sviluppo in Germania, divenendo parte integrante del nazionalismo tedesco, che rivendicava la superiorità della razza ariana (o indogermanica) su tutti gli altri popoli. A partire dagli anni successivi al Congresso di Vienna, si registrò una fioritura di libri antiebraici, che consideravano la questione ebraica dal punto di vista dello Stato nazionale tedesco, ritenendo gli ebrei non adatti a concorrere alla costruzione della vita sociale, e ponevano in genere l'accento sulla loro inferiorità, etnica e culturale, rispetto agli indogermanici.

Nella Russia del 19° secolo l'antigiudaismo conobbe una recrudescenza in coincidenza con l'affermarsi del movimento panslavo. Nell'ebreo si cominciò a vedere il rappresentante tipico della civiltà occidentale e delle sue istituzioni economiche e politiche. Sorsero giornali e una letteratura antisemiti di vasta diffusione e si cercò di attribuire agli ebrei l'assassinio dello zar Alessandro II (1881). Emissari della polizia russa a Parigi iniziarono a far circolare notizie intorno a un presunto complotto, mirante a imporre su tutto il mondo il predominio degli ebrei, e per dar credito a tali voci falsificarono una serie di documenti (una parte di questi confluì in un libro, I protocolli degli anziani di Sion, pubblicato nel 1905 e tradotto in molte lingue, che conteneva fra l'altro il progetto di far saltare in aria le maggiori capitali europee, approfittando delle ferrovie sotterranee). In questo clima fu promulgata a Mosca nel 1882 una dura normativa contro gli ebrei (le cosiddette leggi di maggio), mentre continuavano a verificarsi ripetutamente i pogrom, assalti alla popolazione ebraica di città e villaggi, con rapine, massacri, stupri, perpetrati con la tolleranza se non con il beneplacito del governo zarista. Un'analisi rigorosa della situazione degli ebrei in Russia alla fine del 19° secolo è offerta dal libro Autoemanzipation, pubblicato nel 1882 dal medico ebreo Yehuda Leib Pinsker, che viene considerato tra i precursori del sionismo.

In Europa occidentale una forte ondata antiebraica si determinò successivamente alla guerra franco-tedesca del 1870. In Francia la disfatta di Napoleone III e la Comune di Parigi del 1871 mobilitarono l'antisemitismo dei conservatori e dei nazionalisti di destra, persuasi che la guerra fosse stata finanziata dagli ebrei tedeschi. Numerosi scritti antisemiti furono pubblicati anche dopo il fallimento della banca Union Générale, di cui si attribuì la responsabilità alle manovre dei banchieri ebrei. Alla fine del secolo un grosso impatto sull'opinione pubblica, in Francia ma anche all'estero, ebbe il cosiddetto affare Dreyfus: in occasione del processo per alto tradimento contro l'ufficiale Alfred Dreyfus, l'unico ebreo che facesse parte dello Stato Maggiore, si scatenò fra i nazionalisti un'ondata di violento antisemitismo; ma fin dall'inizio molti ebbero chiaro che Dreyfus fungeva da capro espiatorio del sentimento di frustrazione che i francesi provavano in seguito alla sconfitta del paese nella guerra contro i prussiani del 1870, all'onta subita nel gennaio dell'anno successivo con la proclamazione dell'Impero tedesco nella Reggia di Versailles e agli scandali clamorosi che tra gli anni Settanta e Ottanta avevano coinvolto i governi della Terza Repubblica. Dreyfus fu condannato nel 1894 e deportato nell'Isola del Diavolo, ma il processo fu poi riaperto e, nel 1906, l'ufficiale fu riconosciuto innocente e completamente riabilitato; le correnti socialiste che fin dall'inizio si erano schierate a suo fianco, ebbero allora buon gioco nell'attaccare le forze conservatrici, mettendo sotto accusa anche le loro posizioni antisemitiche.

Ma pure nella vittoriosa Germania, dopo il 1870, si registrò un inasprimento dei toni e degli atteggiamenti nei confronti dei circoli ebraici, considerati non all'altezza di comprendere l'importanza del trionfo prussiano e comunque accusati di detenere un'influenza esorbitante in campo politico, economico, letterario e artistico (così si esprimeva per es. Richard Wagner in Das Judentum in der Musik, 1869). La crisi economica del 1873 esacerbò la situazione: i partiti conservatori si schierarono contro il partito nazional-liberale, accusato di aver favorito l'emancipazione degli ebrei, e attribuirono la responsabilità del fallimento della politica economica di Bismarck agli esponenti ebrei del mondo della finanza. Manifestazioni di intolleranza accompagnavano poi l'arrivo in Germania di una ingente migrazione ebraica, in fuga dai pogrom della Polonia e della Russia. In questa temperie furono adottate varie misure limitative dei diritti degli ebrei, ai quali veniva attribuita ogni sorta di macchinazione, anche contro la sicurezza dello Stato.

Il movimento antigiudaico prese vigore anche all'interno dell'Impero austroungarico. A Vienna gli antisemiti ebbero un proprio organo di informazione, il Deutsches Volksblatt. Loro leader era Georg von Schönerer, che con altri - fra i quali Viktor Adler (uno dei capi del partito socialdemocratico austriaco) - fu l'estensore nel 1882 del programma di Linz, che sosteneva la necessità dell'unificazione di Germania e Austria; nel 1885 in tale programma fu inserito un dodicesimo punto secondo il quale "la corrente nazionalista del partito liberale deve operare al fine di rimuovere l'influenza ebraica da ogni settore della vita pubblica […] cosa indispensabile se si vuole riformare complessivamente la società tedesca in tutti i suoi settori". Questo incontro tra nazionalismo estremistico e antisemitismo rappresenta un concetto destinato ad assumere fondamentale importanza nei decenni successivi.

Il movimento sionista

Al processo di primo grado contro Alfred Dreyfus assistettero il giornalista e scrittore ebreo ungherese Theodor Herzl, inviato del giornale viennese Neue Freie Presse, e lo storico Bernard Lazare, autore di un'opera, in due volumi, intitolata L'antisémitisme: son histoire et ses causes (1894). Sia Herzl sia Lazare, ormai lontani dal ghetto da cui provenivano, si trovavano al di fuori della tradizione religiosa ebraica, ma di fronte all'ondata di antisemitismo che accompagnò il dibattito sulle accuse mosse all'ufficiale ebreo, cominciarono a percepire l'urgenza di un ritorno alle radici giudaiche, nell'ottica di un discorso non religioso, bensì politico e nazionale, certi che ciò sarebbe stato possibile e avrebbe avuto un senso solo se il popolo ebraico fosse stato unito in una nazione.

Il convincimento maturato da Herzl che l'antisemitismo fosse una sorta di 'malattia congenita' della civiltà europea, che soltanto la creazione di uno Stato ebraico avrebbe potuto sanare, trovò espressione nel libretto Der Judenstaat (1895), in cui Herzl espose il suo programma per trovare una "soluzione moderna alla questione ebraica". Fu questo l'atto di nascita del nazionalismo ebraico, che assunse il nome di sionismo (il termine, derivante da Sion, uno dei nomi biblici di Gerusalemme, era stato coniato nel 1882 da Nathan Birnbaum a indicare l'attrazione politica e ideale esercitata dalla Terra Promessa sia sugli ebrei sia sui non ebrei).

Herzl iniziò a prospettare ai diversi circoli culturali ebraici sparsi in tutta Europa la possibilità di una restaurazione nazionale di Israele con mezzi che dovevano essere forniti dagli stessi ebrei. Come sede del nuovo Stato proponeva due alternative: la Palestina o, in subordine, l'Argentina. La scelta della Palestina prevalse per il suo significato particolare, da un punto di vista sia storico sia religioso ed emotivo. Herzl fu infaticabile, nonostante gli svariati ostacoli incontrati lungo il suo cammino, nel tentativo di persuadere il sultano a cedere agli ebrei la Palestina, una delle più povere regioni dell'Impero ottomano, in cambio di vantaggi economici. Parallelamente costituì un organismo, la Società degli ebrei, che doveva agire al fine di ottenere il riconoscimento del nuovo Stato presso i governi europei, ai quali veniva assicurato che sarebbe stata rispettata la totale extraterritorialità dei luoghi santi dei cristiani.

Il 29 agosto 1897 Herzl convocò il primo Congresso sionista, che si inaugurò l'anno successivo a Basilea. In quella occasione furono fissati gli scopi e la natura del movimento sionista nella formula nota come Programma di Basilea: "il sionismo aspira alla creazione in Palestina di una sede nazionale per il popolo ebraico garantita dal diritto pubblico". I mezzi indicati per il raggiungimento di questo scopo erano il graduale ripopolamento della Palestina con lavoratori ebrei, l'organizzazione degli ebrei della diaspora secondo istituzioni conformi alle leggi dei paesi di provenienza, il rafforzamento del sentimento nazionale ebraico. Si decise anche la convocazione annuale del Congresso mondiale sionista.

Herzl, confermato leader del movimento, si dedicò a un'opera di promozione della causa sionista presso vari governi (Germania, Russia, Turchia, Inghilterra, Italia) e creò, nel 1901, il Fondo perpetuo per Israele per l'acquisto di terreni in Palestina e Siria, destinati a costituire un patrimonio inalienabile del popolo ebraico. All'interno del Congresso si andavano intanto formando due schieramenti contrapposti: da una parte i cosiddetti sionisti politici, che si ispiravano direttamente al fondatore e chiedevano un negoziato con la Turchia per poter colonizzare la Palestina, dall'altro i sionisti pratici, persuasi invece che la colonizzazione si dovesse fare indipendentemente da un riconoscimento turco o internazionale. Nel corso del sesto Congresso, nel 1903, fu respinta l'offerta del territorio dell'Uganda fatta ai sionisti dall'Inghilterra: la maggioranza dei delegati, infatti, ritenne offensiva qualsiasi proposta che non fosse la Palestina. Negli stessi anni si costituì in seno al sionismo la frazione radicale e ortodossa detta Mizrahi, formata dagli elementi più conservatori e più legati alle norme tradizionali ebraiche. Alla morte di Herzl (1904) le lotte tra le diverse frazioni all'interno del sionismo internazionale si radicalizzarono, con la spaccatura - poi divenuta una vera e propria scissione - fra la posizione 'territorialista' di Israel Zangville, favorevole a una soluzione del problema ebraico anche al di fuori della Palestina, e quella della maggioranza, guidata da Menahem Ussishkin, che si opponeva nettamente a questa possibilità.

Alla vigilia della Prima guerra mondiale, gli ebrei in Palestina erano complessivamente 110.000; si erano costituite 54 colonie agricole ed era coltivata una superficie di circa 40.000 ettari. Nel 1908 era stato fondato il quartiere di Tel Aviv, inizialmente come sobborgo ebraico di Giaffa. Le trattative condotte durante la guerra con il governo inglese dal presidente dell'organizzazione sionista, Chaim Weizmann, portarono, nell'agosto 1917, alla formazione della Legione ebraica - che in Palestina partecipò accanto agli inglesi a diverse battaglie contro i turchi - e nel novembre successivo alla Dichiarazione del ministro degli Esteri britannico, Arthur James Balfour, con la quale il governo di Londra riconosceva il diritto degli ebrei alla costituzione di una sede nazionale in Palestina.

Nel 1920, a San Remo, il Consiglio delle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale decise che la Dichiarazione Balfour - cui si erano associate prima che il conflitto avesse termine anche la Francia e l'Italia - fosse inclusa nel trattato di pace con la Turchia e che il mandato sulla Palestina venisse affidato all'Inghilterra. Su questa base, nel Trattato di Sèvres, stipulato il 10 agosto 1920 tra le potenze alleate e la Turchia, venne compresa la clausola della Palestina come sede nazionale ebraica.

Il testo del mandato britannico in Palestina, approvato dal consiglio della Società delle Nazioni nel 1922, prevedeva la costituzione di una rappresentanza ebraica (Jewish Agency) riconosciuta come ente pubblico, con la funzione specifica di collaborare con il governo inglese della Palestina per tutto ciò che riguardava la creazione della sede nazionale ebraica, e assegnava alla potenza mandataria l'obbligo di facilitare l'immigrazione ebraica, vigilando al contempo che non si recasse danno agli altri popoli residenti nella regione.

Gli immigrati ebrei proseguirono il loro lavoro di bonifica di vasti territori palestinesi, soprattutto nella vallata di Esdrelon. Un evento importante fu segnato il 1° aprile 1925 dall'inaugurazione dell'Università ebraica di Gerusalemme. Weizmann dirigeva con autorevolezza e moderazione le attività della Jewish Agency, mirando a non suscitare tensioni con la popolazione araba. Tuttavia, nel 1929, una serie di manifestazioni antiebraiche da parte degli arabi spinse l'autorità britannica ad adottare misure di restrizione del flusso di migrazione ebrea.

La persecuzione nazista

Il periodo fra le due Guerre

Mentre gli ebrei in Palestina cercavano di affermare il loro diritto a uno Stato nazionale, in Europa cominciava la più grave persecuzione antiebraica mai registrata nella storia. L'inizio fu segnato dall'avvento al governo in Germania del Partito nazionalsocialista di Adolf Hitler (gennaio 1933), il cui programma prevedeva la lotta contro gli ebrei, considerati di razza diversa e inferiore, nonché responsabili della sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale.

Con una prima serie di leggi (aprile 1933) gli ebrei furono esclusi dagli impieghi civili e dalle libere professioni. Due anni dopo, la promulgazione delle leggi di Norimberga (15 settembre 1935) li privò del diritto di cittadinanza e vietò i matrimoni misti. Il criterio di selezione fu la religione dei nonni: se un individuo aveva almeno tre avi ebrei veniva definito ebreo a sua volta, a prescindere dalla sua religione; nel caso di due nonni ebrei, l'appartenenza alla razza ebraica era determinata dalla sua religione o dalla razza del coniuge. La religione, quindi, assumeva il carattere di indicatore di appartenenza razziale. Individuato così il bersaglio, le vessazioni furono all'inizio soprattutto economiche. Nel novembre 1938 fu revocato il riconoscimento legale alle comunità israelitiche e fu stabilito il censimento delle loro proprietà, come premessa alla confisca.

Ulteriori provvedimenti antisemiti furono decretati dopo l'uccisione, a Parigi, del diplomatico tedesco Ernst von Rath per mano dell'ebreo polacco Herschel Grynszpan: fu ordinata la consegna degli oggetti preziosi, imposto l'obbligo di un segno di riconoscimento sui vestiti, limitata la facoltà di mostrarsi in pubblico e infine imposto il lavoro obbligatorio a condizioni durissime. A tali coercizioni legislative si accompagnarono manifestazioni di violenza di crescente gravità.

Agli ebrei non restava che tentare di abbandonare il territorio tedesco e la Jewish Agency richiese alle autorità inglesi l'incremento delle quote di immigrati ebrei nei territori della Palestina, soprattutto relativamente a donne, bambini e anziani. Tuttavia l'autorità britannica, nonostante gli appelli che le venivano rivolti da tutto il mondo, adottò una politica di grande cautela e innumerevoli furono gli episodi di visti rifiutati agli ebrei in fuga.

L'espansione della Germania portò all'estensione dei provvedimenti antisemiti ai territori via via annessi (Saar, 1935; Austria, 1938; Cecoslovacchia, 1939). Intanto, mentre a salvaguardia del delicato equilibrio internazionale l'Inghilterra e la Francia si astenevano dall'affrontare la questione ebraica, sotto l'influenza tedesca l'antisemitismo si diffondeva o si intensificava anche fuori dalla Germania.

In Italia, in seguito all'intesa fra Hitler e Mussolini e all'allinearsi della politica fascista a quella del più forte alleato, si arrivò, nonostante una sostanziale impopolarità, alla promulgazione delle leggi razziali del 17 novembre 1938, successivamente integrate. Dovevano considerarsi ebrei: a) i figli di genitori entrambi ebrei; b) i figli di un genitore ebreo, se appartenenti alla religione israelitica, o con l'altro genitore straniero, o con padre ignoto. La legislazione proibiva i matrimoni misti, prevedeva l'espulsione degli ebrei stranieri e l'esclusione di quelli italiani dall'esercito, dal partito fascista, dai pubblici impieghi e dalle scuole; venivano inoltre limitate la proprietà, le attività industriali e commerciali, l'esercizio delle professioni.

Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale (1° settembre 1939), i governi filonazisti che si formarono nei territori occupati dall'esercito tedesco si uniformarono alle legislazioni razziali antisemite in vigore in Germania. Ciò accadde in Norvegia, in Francia, in Croazia, dove il governo di Ante Pavelic si distinse per il suo fervore antiebraico, organizzando una sistematica caccia antisemita a opera degli ustascia.

La 'soluzione finale'

Fino al 1940, pur reiterando l'affermazione che era necessario liberare il territorio tedesco dalla presenza ebraica, le autorità naziste si orientarono verso soluzioni 'legali', come l'espulsione degli ebrei o il loro esodo forzato. Per ordine di Heinrich Himmler, comandante supremo delle SS, si costituì nel gennaio 1939 un ufficio centrale di controllo e pianificazione dell'emigrazione ebraica, di cui nei mesi successivi fu nominato direttore responsabile il capo della Gestapo, Reinhard Heydrich. Alla fine del 1940 alcuni esponenti della diplomazia tedesca proposero di deportare in massa centinaia di migliaia di ebrei in Madagascar, ma il piano presentava complicazioni insormontabili, per cui fu abbandonato.

La pratica dello sterminio di massa - la Shoah - iniziò soltanto nell'estate del 1941, in coincidenza con la grande offensiva tedesca in Unione Sovietica. Il 29 settembre 1941, in Ucraina, a Babij Jar, tra Kiev e Leopoli, più di 30.000 ebrei furono massacrati dai nazisti con la collaborazione dei poliziotti ucraini: prima denudati e poi gettati in un dirupo, furono il bersaglio di mitragliatori che spararono su di loro senza sosta fino a ucciderli. Nei mesi successivi, sempre in Ucraina, furono compiute numerose altre stragi. In Polonia, in quello stesso periodo, gli ebrei subirono la perdita di quasi tre milioni di persone.

Il 20 gennaio 1942 Heydrich, coadiuvato da Adolf Eichmann, capo della famigerata sezione della Gestapo IV B4 'per le questioni ebraiche', convocò a Wannsee, presso Berlino, una conferenza alla presenza dei massimi esponenti del regime nazista, nel corso della quale furono pianificate in tutti i dettagli le iniziative che sarebbero culminate nella 'soluzione finale' (Endlösung). La soppressione della popolazione ebraica era già teorizzata nel Mein Kampf, scritto da Hitler durante la prigionia successiva al colpo di Stato di Monaco del 1923. Hitler, sul quale aveva esercitato grande influenza l'antisemitismo di Georg von Schönerer, concepiva "un mondo completamente epurato dai giudei": a costoro Hitler imputava "la responsabilità della snazionalizzazione germanica, l'imbastardimento degli altri popoli mediante la fusione con essi, l'abbassamento del livello razziale dei migliori", nonché la volontà di conquistare un'egemonia permanente in Europa; per salvare il popolo tedesco e tutta la razza ariana dall'estinzione, era necessaria "un'energica esclusione dell'elemento ebraico". Siffatte teorizzazioni si trasformarono, a Wannsee, in un programma organico, mirante non solo ad allontanare gli ebrei dalla società civile, ma a neutralizzare completamente l'etnia semitica, a "liberare l'umanità dall'infezione ebraica", così come sosteneva Alfred Rosenberg (propagandista e teorico nazista tra i più accesi e intransigenti dell'antisemitismo). Heydrich presentò dunque a Wannsee le iniziative previste per il 'trattamento' di tutti gli ebrei, indipendentemente dall'età, dal sesso, dallo stato civile, dall'attività svolta.

Le sedi deputate all'annientamento furono i campi di sterminio, di cui i maggiori (Auschwitz, Belzec, Chelmno, Majdanek, Sobibor, Treblinka) si trovavano nella Polonia occupata. Le vittime venivano uccise nelle camere a gas e incenerite. Ad Auschwitz e a Majdanek i prigionieri giudicati idonei venivano inizialmente impiegati in squadre di lavori forzati o adibiti alle operazioni di genocidio, finché la penuria di cibo e le terribili condizioni igieniche non li privavano delle forze, ed erano allora soppressi. Auschwitz era il campo più grande: poteva contenere 100.000 persone; le camere a gas erano in grado di uccidere 2000 vittime alla volta, fino a un numero di 12.000 al giorno. Migliaia di prigionieri vi furono anche utilizzati come cavie degli esperimenti medici di Josef Mengele (metodi di sterilizzazione, impiego di materiali radioattivi, sperimentazioni farmacologiche ecc.). La stessa sperimentazione medica era praticata in alcuni dei campi di concentramento, come Dachau, Buchenwald, Bergen-Belsen.

Le efferatezze compiute nei campi, di cui hanno dato testimonianza i pochi superstiti (molti documenti, fra cui 51.000 interviste, sono raccolti negli archivi della Shoah foundation, costituita da Steven Spielberg nel 1994, dopo l'uscita del film Schindler's list), sono tristemente note. A titolo di esempio basti ricordare la storia di Ermine Bronsteiner raccontata in una recente intervista (Corriere della Sera, 14 marzo 2001) da Simon Wiesenthal, il fondatore del Centro ebraico di documentazione sulle persecuzioni subite dagli ebrei durante il nazismo, dedicatosi dopo la fine della guerra alla caccia dei criminali nazisti riusciti a fuggire (Wiesenthal stesso fu internato nei campi di concentramento; la sua città, Buczacz, in Galizia, abitata nel 1940 da 150.000 ebrei, nel 1945 ne contava solo 500). La Bronsteiner, che Wiesenthal ritrovò nel Maryland, ove conduceva un'esistenza tranquilla, serenamente sposata con un americano, ha raccontato che iniziò giovanissima a occuparsi dei bambini nei campi di sterminio: li uccideva sparando alla cieca contro gli zaini in cui le madri li nascondevano e, se sopravvivevano alle pallottole, ne fracassava il cranio a calci.

Retate e deportazioni iniziarono in Francia nel 1942 e proseguirono negli altri paesi occupati, in Romania, Ungheria e Croazia, con il concorso dei diversi regimi filonazisti che si erano insediati. In Italia un programma sistematico di deportazioni fu applicato dopo l'Armistizio dell'8 settembre 1943, quando i tedeschi occuparono l'Italia settentrionale e centrale. Uno degli episodi più famosi fu la deportazione degli ebrei del ghetto di Roma, avvenuta il 16 ottobre, dopo che i nazisti avevano imposto alla comunità israelitica una taglia di 50 kg d'oro. Gli ebrei italiani deportati furono più di 8000 (dei circa 33.000 che erano presenti al momento dell'occupazione tedesca): di essi ne sopravvissero solo 630.

Il primo campo di sterminio liberato fu quello di Auschwitz, dove i sovietici arrivarono il 27 gennaio 1945, data assurta ad alto valore simbolico. Il 20 aprile 1946, a Losanna, nel corso della presentazione ufficiale della relazione da parte del Comitato d'inchiesta anglo-americano, furono rese note le prime cifre sulle perdite ebraiche nei paesi occupati dalla Germania durante la fase più intensa delle persecuzioni. In base a testimonianze documentali e alla comparazione dei dati relativi al totale della popolazione ebraica in Europa, risultava che il numero di ebrei nel 1939 era di 6.015.700, ridottosi a 1.153.100 nel 1946. Tali cifre sono state successivamente incrementate, acquistando una dimensione definitiva e ufficiale con la pubblicazione di Auschwitz 1940-1945, opera in 5 volumi, redatti utilizzando il gigantesco archivio ospitato presso il museo del campo. Solo ad Auschwitz furono sterminate 1.100.000 persone, di cui circa 232.000 di età inferiore ai 18 anni. La grandissima parte (960.000) era ebrea; gli altri erano zingari, omosessuali, nemici del regime e circa 15.000 prigionieri di guerra sovietici.

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