Boezio, Severino

Enciclopedia Dantesca (1970)

Boezio, Severino

Francesco Tateo

Filosofo e letterato romano, discendente dalla nobile gente Anicia, vissuto fra il V e il VI secolo durante la dominazione ostrogota in Italia.

La condizione sociale e la rinomata dottrina lo sollevarono ad alte cariche politiche e gli procurarono il favore di Teodorico, il quale se ne servì nel suo tentativo di saldare il nuovo regno con la tradizione romana. In seguito, per la svolta che subì la politica del re ostrogoto e perché coinvolto in un complotto, fu imprigionato e condannato a morte. In questa prigionia B. compose la più notevole e fortunata delle sue opere, il De Consolatione Philosophiae, in cui immagina di essere stato visitato da una matrona, la Filosofia stessa, e di aver ricevuto da lei conforto attraverso la soluzione dei fondamentali problemi dell'esistenza. L'opera infatti, composta in cinque libri e articolata come una satura menippea in una successione alternata di ‛ prose ' e di ‛ metri ' (questi ultimi sono in sostanza degl'inni di varia fattura metrica), dopo aver mostrato nel libro I la natura del male consistente nello smarrimento del vero fine dell'uomo, tratta nel libro II della fortuna e dimostra la stoltezza di chi si lamenta di essa, data l'essenziale precarietà dei suoi beni, discute nel III della vera felicità che non può essere riposta che in Dio, nel IV del grave problema costituito dall'apparente contraddizione fra l'esistenza divina e l'esistenza del male, nel V del libero arbitrio, e quindi della possibile conciliazione fra la credenza nella provvidenza divina e nella libertà concessa all'uomo.

Il De Consolatione non è che la conclusione di una lunga operosità rivolta a tradurre nelle forme del pensiero e della lingua latina il patrimonio filosofico della grecità: B. costituì attraverso i secoli del Medioevo il tramite fra Aristotele, Platone e i neoplatonici, e il pensiero cristiano, poiché gran parte delle opere di quegli autori fu conosciuta attraverso la traduzione e la divulgazione da lui fatta. Pur non potendosi asserire con certezza l'adesione formale del filosofo romano al cristianesimo, può considerarsi, il suo, uno sforzo per accostare le dottrine filosofiche pagane, e soprattutto quella platonica, alle prospettive della nuova religione. E di ciò si avvidero i filosofi cristiani, che utilizzarono abbondantemente i suoi scritti e soprattutto il De Consolatione, che all'epoca di D. girava fra l'altro con un commento attribuito a s. Tommaso, che il poeta mostra di aver tenuto presente: cfr. Cv I XI 8, dove è citato B. (III pr. VI 5), a proposito della fallacia della fama, ma con una spiegazione (perché la vede santa discrezione), che corrisponde al commento pseudotomistico.

B. esercitò una suggestione notevolissima sulla fuimazione e sull'opera dantesca, e a ciò non dovette essere estraneo l'insegnamento di Brunetto Latini, che mostra di aver avuto presente B. nelle sue opere enciclopediche. Non solo, infatti, per dichiarazione dello stesso poeta (cfr. Cv II XIII 2, XV 1) il testo del filosofo romano fu uno degli stimoli più efficaci a maturare in lui la vocazione del pensatore, e si pone quindi alle origini dell'approfondimento dottrinale della sua poesia, ma la figura del dotto costretto a un doloroso esilio, in preda a una crisi profonda e capace di trarre da questa crisi l'incentivo a comporre un grande messaggio per alleviare la propria pena e correggere l'altrui errore, divenne agli occhi del poeta fiorentino un grande esempio, ed egli quasi si specchiò in lui. Certo è che nella Commedia il ricordo di B. è legato alla sventura che aveva coronato la sua vita. Ché se nel Convivio, dove più frequente appare espressamente citato il filosofo, questi è chiamato una volta lo Savio per antonomasia (IV XIII 12), e nell'Inferno, dove secondo taluno Francesca indica il filosofo come 'l tuo dottore (V 123), il poeta ha presente proprio una sua massima (Cons. phil. II pr. IV 2; If V 121-122), in Pd X 124-129 B. è incluso fra i sapienti del cielo del Sole e ricordato per aver dimostrata la fallacia del mondo, mentre si dice che la sua anima da martiro / e da essilio venne a questa pace.

La prima espressa citazione di B. che s'incontri in D. nasce appunto dall'intento di proporre la propria opera nei termini di quella boeziana: come B., infatti, nel Convivio D. ha inteso parlare in sua difesa, convinto che non possa apparire presunzione l'aver parlato di sé, perché anche l'antico filosofo scrisse in sua difesa acciò che sotto pretesto di consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo essilio, mostrando quello essere ingiusto, poi che altro escusatore non si levava (Cv I II 13; cfr. Cons. phil. I pr. IV 20 ss., e partic. 46 " insontes autem non modo securitate, verum ipsa etiam defensione privatos ").

Nel dare inizio al commento allegorico della seconda canzone del Convivio, D. narra il suo incontro col testo del De Consolatione ricercato da lui, assieme al De Amicitia ciceroniano, per trovare consolazione alla perdita di Beatrice. La lettura di questi libri avrebbe rappresentato per il poeta, al di là del conforto, l'incontro con la scienza, che veniva ad aggiungersi, come esigenza nuova e irresistibile, a una formazione grammaticale e a un nativo ingegno, che pur gli avevano consentito, nonostante difficoltà e sforzi, di penetrare in questi libri latini. Anzi, l'immagine stessa della Filosofia veniva configurandosi nella sua mente nel modo indicato da B., ossia come donna misericordiosa che lo indirizzava sul cammino della speculazione (II XII 6). Da quello stimolo provenne la nuova esperienza del poeta, che prese a frequentare le scuole de li religiosi e le disputazioni de li filosofanti, che in capo a circa trenta mesi lo misero in grado di superare il dolore del primo amore e di sottoporsi alla virtù di un nuovo amore. Tale vicenda sarebbe stata cantata nella canzone allegorica Voi che 'ntendendo, scritta verso la fine del 1293, cioè quando il nuovo indirizzo di studi, dopo una crisi nella quale il poeta avvertì quasi uno smarrimento (cfr. v. 40), aveva ormai conquistato il suo animo. Che la prima canzone del Convivio non trovasse solo nel più tardo commento questa spiegazione allegorica che la poneva come il primo documento dell'esperienza boeziana, ma fosse in realtà costruita sull'esperienza del De Consolatione, si può arguire da un'altra citazione dantesca del testo di B., fatta a proposito della spiegazione letterale della canzone stessa: i vv. 40 ss., descriventi lo smarrimento del poeta, risponderebbero infatti a un'osservazione psicologica fatta nel De Consolatione (II pr.I 3 " verum omnis subita mutatio rerum non sine quodam quasi fluctu contingit animorum " ), che D. traduce ogni subito movimento di cose non avviene santa alcuno discorrimento d'animo (II XI 3), concetto che non c'è ragione di non ritenere al fondo del concepimento della canzone.

Ma l'influsso di B. non era solo al fondo di questa canzone e delle altre, come poi lo sarà dell'intera composizione del Convivio, che si presenta appunto con l'alternanza di prose e di versi e con un'ambizione di organico assetto della problematica filosofico-morale, nata dall'esigenza di riparare alla sventura che aveva ‛ cacciato ' lui in esilio, come B. dalla sua patria. E dalla composizione della Vita Nuova che si deve forse già avvertire l'influsso boeziano, perché la composizione organica del libello, misto di prose e di versi, in cui si parla già della consolazione operata sul poeta da una donna misericordiosa, cade appunto in quell'epoca nella quale D. ci dice di aver preso in mano il De Consolatione e il De Amicitia: e se l'influsso di quest'ultima opera sul libello è indiscutibile, è facile pensare che non mancasse quello della prima. L'utilizzazione dello spunto boeziano potrebbe essere appunto racchiuso, nella Vita Nuova, nei termini indicati dal D. maturo, quando ricorda di aver dapprima letto quei libri nel modo consentitogli da quella grammatica e da quell'ingegno di cui disponeva, ossia di non averne inizialmente compresa con lucidità la profonda ricchezza filosofica: per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, sì come ne la Vita Nuova si può vedere (Cv II XII 4).

Lo stesso accorgimento di tradurre nell'immagine simbolica di una donna pietosa la scienza dovette provenire dall'esempio boeziano, al quale - come vedremo - D. rimase fedele anche nella Commedia, quando dovette impersonare nella figura di Beatrice la scienza divina, la teologia. Il famoso modello del De Consolatione s'incontrava con la vocazione lirica del poeta, il quale era già teso a indirizzare la poesia amorosa verso una profonda significazione spirituale. Ma la ‛ Donna gentile ', a differenza della Beatrice della Vita Nuova, proprio sotto lo stimolo dell'allegoria di B., assumeva una più evidente funzione di rivestimento allegorico. Nel ripercorrere questo importante trapasso critico della sua arte e della sua vita intellettuale (cfr. Cv II XII 5 ss.) D. non solo ribadisce la dipendenza da B. di questa ‛ figura ' venuta a dominare nella sua lirica, ma mostra di rifarsi all'insegnamento di B. quando istituisce una corrispondenza fra la figura della donna e la sua vera significazione da una parte, la retorica e la filosofia dall'altra. Come B. infatti asseriva che l'opera della retorica è ancora insufficiente, ma pur necessaria per intraprendere la profonda ricerca delle ragioni vere della esistenza (Cons. phil. II pr. III 2-3), così D. intende le parole consolatorie della Donna gentile e la stessa veste poetica della canzone come propedeutica alla ragione filosofica a essa sottesa e che si esplica nelle prose del trattato. In occasione del commento l'autore identifica anzi lo stesso B., accanto a Cicerone, con la retorica, essendo stati essi coloro che l'hanno avviato alla filosofia (v. RETTORICA): donde anche l'identificazione di Venere, della bellezza, con la retorica, e la ribadita sua funzione mitica di indurre all'amore, quell'amore che D. spiega nel Convivio come ‛ unimento ' della mente con la verità, che è proprio della filosofia. Eppure, in quello stesso cap. XII del trattato II, D. spiega con ogni probabilità - in un passo in realtà poco chiaro - il perché egli abbia abbandonato la raffigurazione astratta tipica dell'opera di B., dove la donna non è altro che un puro simbolo, e abbia preferito invece adeguarsi completamente ai modi della tradizione lirica volgare, parlando di una donna ‛ verisimile ' in una ‛ verisimile ' vicenda amorosa, in cui egli sarebbe stato coinvolto.

Tuttavia la dipendenza di D. da B. per quanto concerne la simbologia della donna supera i limiti della consueta imitazione letteraria, perché è lo stesso concetto di filosofia, come scienza che raccoglie insieme la fisica, la metafisica, l'etica, la teologia, che trapassa in D.; sicché non c'è da meravigliarsi se ancora nella Commedia, quando il poeta costruisce il suo insegnamento dottrinale sul fondamento di una lucida distinzione fra la ragione umana e la teologia, nel raffigurare quest'ultima in Beatrice, egli si rifaccia ancora al libro di B. e narri l'apparizione della scienza divina nelle vesti della gentilissima, ma ricalcando i modi dell'apparizione della nobile matrona al filosofo romano. Si veda infatti, per es. in Pg XXX 34-39, come l'apparizione di Beatrice faccia ricordare al poeta il giovanile amore, allo stesso modo che l'apparizione di Filosofia aveva riportato il filosofo romano ai suoi verdi anni (" respicio nutricem meam cuius ab adulescentia laribus abservatus fuerim ", Cons. phil. I pr. III 2). E anche Filosofia rimprovera allo sventurato prigioniero il suo abbandono, e gli rimprovera soprattutto di aver dato ascolto alle Muse " meretriculae ", che ella discaccia: Beatrice, affrontando D. nel Purgatorio, vuol metterlo in guardia dalle Sirene (XXXI 45), interpretate come la falsa apparenza dei beni terreni (cfr. Pg XIX 19: interessante a tal proposito, come osserva il Murari, che Benvenuto interpreti ‛ Sirene ' appunto come " artes liberales et poetica praecipue quae dulciter cantat ecc. "), e cita la controversa Pargoletta come esempio del suo deviare. Del resto D., commentando le sue rime giovanili e spiegando la sostanza del suo secondo amore nel Convivio, sembra voler appunto allontanare da sé la traccia di poeta frivolo, cantore di un amore comune e dedito alla volgare passione terrena.

Né è difficile scoprire l'origine boeziana (cfr. Cons. phil. I pr. 15) nella raffigurazione della Giustizia con la rotta gonna, in Rime CIV 27. Si tratta pur sempre dell'apparizione di una donna simbolica, che nell'aspetto, questa volta assai simile a quello della Filosofia dai panni laceri, rimprovera lo stato di trascuratezza in cui si trova.

Più complesso è il problema riguardante l'influsso diretto del pensiero di B. sulla filosofia dantesca. Mentre nella Monarchia, con due citazioni boeziane (I IX 3, II VIII 13), l'autore ricorre a versi di B. per sostenere retoricamente il suo pensiero circa l'autorità dell'Impero, nel Convivio il filosofo è più largamente utilizzato, sia per qualche massima occasionale, come in I XI 8, II VII 4, III I 10, sia per introdurre un'autorità a proposito dei fondamenti dottrinali del discorso, come in III II 17, dove si ricava da B. che la ‛ mente ' di cui parla il poeta nella II canzone può attribuirsi solo a Dio e alle divine sostanze. Nel IV trattato il filosofo, che al tema della fortuna e della ricchezza dedicò una parte notevole del suo trattato, non solo è citato (XII 4-7, XIII 12-14), ma costituisce una delle fonti più importanti. Né è il caso di esaminare le numerose corrispondenze, a partire dal concetto di " nobile germen " (Cons. phil. III pr. e m. VI), divenuto in D. il divino seme messo da Dio ne l'anima ben posta (cfr. Cv IV XX 9-10).

Alcune affinità possono però ricondursi alla tradizione del pensiero cristiano; B. può essere stato in questi casi il tramite e lo stimolo di certi motivi della riflessione dantesca, ma non necessariamente la sua fonte. Così il concetto di false immagini di bene ' per indicare i beni terreni, è particolarmente caro a B., come il concetto secondo cui lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo ritornare a lo suo principio (Cv IV XII 14-15) può essere stato ispirato da una pagina di B. (Cons. phil. III pr. II 2); la concezione dell'anima ruotante intorno alla mente divina, che suggerisce il verso finale della Commedia, è illustrata da B. in Cons. phil. III m. VI; la distinzione fra i due generi di amore, naturale e d'animo (Pg XVII 91-93), riprende la distinzione di Cons. phil. III pr. XI 30. Il rapporto fra Cv III III 4, che tratta dello speciale amore di ogni creatura, con l'esempio relativo delle piante, e il discorso di B. sul medesimo tema (Cons. phil. III pr. XI 18) ha fatto anche sostenere al Nardi una difficile congettura (e però vedemo certe piante lungo l'acque quasi criarsi, in luogo del can[s]arsi di Busnelli-Vandelli, del c[ontent]arsi della '21 e del cantarsi dei codici, accettato dalla Simonelli) sul fondamento del corrispondente verbo boeziano (‛ innasci ' cfr. B. Nardi, Nel mondo di D., pp. 78-79). Si aggiunga che la dottrina riguardante l'opera di modellamento svolta dall'intelligenza celeste sull'anima umana, risalente al Timeo platonico, proviene a D. attraverso il tramite di B., se è vero che Pd II 130-138 richiama direttamente il famoso metro IX del 1. III del De Consolatione, da cui il poeta trae non solo il termine di image per indicare la ‛ forma ' della teoria platonica, ma finanche talune espressioni (cfr. si risolve, v. 135; " resolvis ", Cons. phil. III m. IX 14).

Ma il diretto influsso di B. può riconoscersi come fondamentale, quantunque intrecciato con altre fonti, nella formulazione della dottrina del libero arbitrio, che occupa la parte conclusiva del De Consolatione e diviene uno dei punti nevralgici del messaggio dantesco. Il libro V dell'opera boeziana, che intende confutare la falsa deduzione da una parte di chi nega il libero arbitrio e ne deduce l'inutilità della preghiera, dall'altra di chi nega la prescienza divina, si ritrova variamente utilizzato nella Commedia. Innanzi tutto lo schema dell'argomentazione boeziana (il discepolo rileva la contraddizione fra necessità e libero arbitrio propendendo per la negazione di quest'ultimo; mentre Filosofia, confutando tale posizione e l'altra opposta ciceroniana, mostra la difficoltà per l'uomo di concepire la coesistenza delle due verità [pr. IV 2], e infine la spiega illustrando la ‛ semplicità ' della prescienza divina) si ripresenta in D., il quale però distribuisce i vari argomenti in modo da limitare al Purgatorio la confutazione degli opposti errori e l'enunciazione dell'esistenza del libero arbitrio (XVI 58-81; XVIII 40-75), per inserire solo nel Paradiso la definizione del concetto di libero arbitrio (Pd V 19-24; cui devono aggiungersi l'accenno di IV 1-3 e l'argomentazione di Mn I XII 1-5) e la precisazione del rapporto intercorrente fra prescienza e libertà (Pd XVII 37-42). Nei due passi del Purgatorio appare fondamentale la difficoltà posta dalla necessaria corrispondenza fra merito e ricompensa (XVI 71-72, XVIII 43-45; cfr. Cons. phil. V pr. III 31), e in ambedue è l'eco dell'impostazione che Filosofia sostiene nel De Consolatione (V pr. II), cioè che la ragione sia indipendente dalla necessità cui obbedisce la natura inferiore (anche D., come B., ribadisce che il peccato offusca la ragione e la rende schiava togliendole la sua propria qualità: Pg XXVII 140, Pd VII 64 ss.).

Particolare importanza ha la definizione dantesca di libero arbitrio, come liberum de libertate iudicium (Mn I XII 2), indicato da Beatrice come il maggior dono di Dio (Pd V 19-22), perché presuppone non la dottrina tomistica che vede la libertà nella facoltà di seguire gli appetiti cui la ragione pone un freno, ma la dottrina per cui la ragione non è condizionata dall'appetito, in modo da poter giudicare secondo le sue leggi quel che debba farsi. Tale principio, che spiega l'occasionale accenno al tema dell'asino di Buridano (Pd IV 1-3), evidentemente approvato dal poeta, era chiarito da B. nel secondo commento al De Interpretatione di Aristotele, e. costituì il punto di riferimento per gli averroisti. " Liberum de voluntate iudicium " era appunto la formula usata da B. (ediz. Meiser, II, 195-196), ma essa è anche alla base del libro V del De Consolatione, dove la distinzione fra l'uomo e i bruti è posta nella capacità dell'uomo, a differenza di quelli, di giudicare prescindendo dagli appetiti.

Le parti metriche del De Consolatione, che costituiscono talora splendidi esempi di lirica religiosa, divennero per D. spunti assai suggestivi, specie per quelle parti della Commedia in cui la narrazione si apre al tono mistico dell'inno. Due metri di Boezio soprattutto tenne presenti D. in tali occasioni, il IX del libro III variamente sfruttato in diversi punti dell'opera dantesca, e il VI del libro IV, ambedue dedicati al tema della presenza di Dio nell'universo. Dando inizio a Pd X, il canto stesso in cui è fatta l'apoteosi di B., D. invita il lettore a sollevare la vista al cielo per coglierne l'ordine perfetto (vv. 7 ss.), richiamando non solo genericamente il tratto iniziale di Cons. phil. IV m. VI, ossia l'invito a considerare la volta celeste (" Si vis celsi iura tonantis / pura sollers cernere mente / aspice summi culmina coeli ", vv. 1-3; cfr. Murari, p. 353), ma riprendendo con stretta aderenza il carme boeziano, che esalta appunto il carattere meraviglioso dell'ordine universale, che pur attraverso una forma fissa produce l'avvicendarsi delle stagioni, e proprio a causa di quell'obliquo cerchio dello zodiaco che D. più esplicitamente indica (Pd X 14). Ma il lirico invito di D. al lettore, indicando come fondamento essenziale dell'ordine universale quella parte / dove l'un moto e l'altro si percuote (X 8-9), oltre a ricalcare il " duos motum glomeravit in orbes " di Cons. phil. III m. IX 15, interpreta forse il " summi culmina coeli ", che probabilmente designa non genericamente la volta celeste, ma l'asse costituito dall'incontro dei due moti circolari donde scaturisce l'obliquità necessaria al vario e pur costante rinnovarsi delle stagioni. È comunque notevole che, come il v. 10 di Pd X dice e lì comincia a vagheggiar ne l'arte / di quel maestro, il v. 4 del metro VI (l. IV) attacca con " illic iusto foedere rerum / veterem servant sidera pacem "; e dell'artifex divino, e della sua provvidenza, oltre che del cardine del moto universale, aveva B. trattato nella pr. VI del 1. IV (cfr. §§ 12, 15, 20). E come D. sviluppa il concetto del vantaggio offerto da tale ordine e dello svantaggio che altrimenti ne deriverebbe (se la strada lor non fosse torta / molta virtù nel ciel sarebbe in vano, / e quasi ogne potenza qua giù morta, Pd X 16-18), così B. concludeva il suo carme, dopo aver precisato che è proprio la varietà a favorire la vita (" Haec temperies alit ac profert / quicquid vitam spirat in orbe ", vv. 30-31), con quell'espressione ipotetica che tornerà in D.: " Nam nisi rectos revocans itus / flexos iterum cogat in orbes, / quae nunc stabilis continet ordo, / dissaepta suo fonte fatiscant ", vv. 40-43).

All'invocazione finale del metro IX del libro III di B. ricorse D. nella preghiera di s. Bernardo: ché non solo la preghiera pronunciata dalla ‛ Filosofia ' boeziana, in nome del suo discepolo pervenuto alla convinzione della fallacia dei beni terreni, corrisponde alla situazione conclusiva del viaggio dantesco (il discepolo ormai purificato dall'esperienza chiede per bocca dell'ultima guida di poter vedere Dio: sì che 'l sommo piacer li si dispieghi, Pd XXXIII 33; cfr. Cons. phil. III m. IX 22 ss. " Da, pater, augustam menti conscendere sedem, / da fontem lustrare boni, da luce reperta / in te conspicuos animi defigere visus "), ma fornisce talune immagini a D.: infatti oltre il " fontem... boni ", che è ripreso dal poeta nell'ultima salute (Pd XXXIII 27), l'immagine delle nubi che offuscano la vista del cielo come il corpo terreno la visibilità di Dio (" Dissice terrenae nebulas et pondera molis ", Cons. phil. III m. IX) torna nelle parole di s. Bernardo tu ogne nube gli disleghi / di sua mortalità (Pd XXXIII 31-32), anche se la metafora appartiene a un diffuso luogo comune (il medesimo tópos aveva suggerito il commiato della canzone di Cv III 77-80, dove si attribuiva all'oscurità delle nubi e al difetto della vista la mancata visione dello splendore del sole). Del resto, il contenuto mistico degli ultimi versi dell'inno boeziano poteva appagare facilmente la concezione mistico-filosofica dantesca, poiché designavano Iddio come principio, guida, termine, fine di ogni visione, appagamento; e se non si ricollegano direttamente a questo passo boeziano i numerosi accenni danteschi a questi attributi divini, certo ancora una volta si potrà parlare di suggestioni operate dal filosofo sul nostro poeta. Soprattutto la definizione di Dio come " serenum ", " requies tranquilla piis ", " finis " dell'ansia umana di vedere, ricorre ripetutamente nei versi danteschi: cfr. la divina pace, Pd II 112; 'n la sua volontade è nostra pace, III 85; da martiro / e da essilio venne a questa pace, X 128-129, riferito proprio a B. (e cfr. anche XV 148 e venni dal martiro a questa pace); che solo in lui vedere ha la sua pace, XXX 102. Il luogo di B. è del resto citato da D. in Ep XIII 89, a proposito dell'ascesa mistica del poema. Sempre in relazione col tema mistico dell'ascesa acquista evidenza il rapporto fra B. e D. in Pd XXII, dove il poeta narra di essere penetrato nel cielo delle Stelle fisse e di aver acquistato coscienza della meschinità della terra. Né solo andrà considerata l'immagine dell'aiuola che ci fa tanto feroci (v. 151), vista da quell'altezza nella sua reale dimensione, immagine che si rifà a Cons. phil. II pr. VII 3, e che già era stata introdotta in Mn III XV 11 (signum ad quod maxime debet intendere curator orbis... ut scilicet in areola ista mortalium libere cum pace vivatur). L'episodio dell'ascesa di D. nell'ottavo cielo, il motivo lirico del suo volgersi indietro a riguardare dall'alto il cammino percorso, pur dipendendo direttamente dal Somnium Scipionis, risente della situazione del libro IV del De Consolatione, dove la simbolica guida promette di dare alla mente dello sventurato filosofo le ali per sollevarsi in alto (" Pennas etiam tuae menti quibus se in altum tollere possit, adfigam ", pr. I 9) e canta: " sunt enim pennae volucres mihi / quae celsa conscendant poli; / quas sibi cum velox mens induit, / terras perosa despicit " (m. I 1-4), analogamente a quanto D. racconta, che cioè la sua guida lo spinse in alto sì sua virtù la mia natura vinse (Pd XXII 102), e accenna alla simbolica ala, più veloce e potente di quant'altra mai sulla terra. E come B. trattava successivamente della libertà di chi si scioglie dalle beghe e dalle terrene passioni e si rende libero di sollevarsi alla vera beatitudine (Cons. phil. IV pr. Il), e cantava nel metro II le misere condizioni dei mortali legati, incatenati alle loro cariche, così D., nel narrare il suo ingresso fra gli spiriti sapienti del cielo del Sole, cantava la sua liberazione dalle cure dei mortali (Pd XI 1 ss.). Quest'ultimo passo dantesco si ricollega, anche nella struttura, direttamente, al metro V del libro III del De Consolatione, dove B. depreca l'ignoranza e la cecità degli uomini, che immersi nei beni terreni sono incapaci di salire alle stelle.

Ancora nel Paradiso, nell'introdurre il racconto dell'estremo momento dell'ascesa mistica, D. ricordava quella prosa VII del libro III del De Consolatione, cui si era ripetutamente rifatto, per indicare l'incommensurabile differenza fra il finito e l'infinito, e spiegare l'impossibilità della sua ulteriore narrazione, a questo punto del viaggio. I versi di Pd XXXIII 94-96 Un punto solo m'è maggior letargo / che venticinque secoli a la 'mpresa / che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo, pur fondati sulla concezione cristiana di Dio come un punto al di fuori del tempo, sono costruiti sul modulo del § 7 della citata prosa di B., dove questi trattava della caducità della fama (letargo corrisponde a " oblivio " del passo boeziano), mostrando come un momento al paragone di diecimila anni è pur qualcosa, mentre quest'ultima misura è nulla al confronto dell'eternità. Questo tópos, riguardante la fama, e già utilizzato da D. in Pg XI 106 ss. con maggiore aderenza alla fonte (mill'anni... è più corto / spazio a l'etterno ch'un muover di ciglia / al cerchio che più tardi in cielo è torto), risulta originalmente trasfigurato nel Paradiso per effetto dell'immagine del punto assunta a designare l'eternità e della sostituzione della misura del tempo designante per gli antichi la durata del grande anno con la determinazione storico-mitologica del tempo intercorso dalla prima impresa umana all'epoca attuale. Si trasfonde comunque in D. il senso più profondo della pagina di B., dominata dall'inesplicabile concetto dell'infinito, e il suo tono, che sviluppa dal discorso dottrinale un effetto intensamente lirico.

Bibl. - Oltre gli autorevoli e comuni commenti delle opere dantesche, v. R. Murari, D. e B., Bologna 1905; L. Alfonsi, D. e la ‛ Consolatio philosophiae ' di B., Como 1944; B. Nardi, Nel mondo di D., Roma 1944; Id., Saggi di filosofia dantesca, Firenze 19672; F. Tateo, Una reminiscenza da B. nel ‛ Paradiso ' dantesco, in " L'Alighieri " IX, f. 2 (1968) 59-65.

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