POMPEO, Sesto

Enciclopedia Italiana (1935)

POMPEO, Sesto (Sextus Pompeius Cn. filius Magnus)

Arnaldo Momigliano

Generale e uomo politico romano. Figlio di Cn. Pompeo triumviro e di Mucia, nato intorno al 75 a. C. La sua carriera pubblica comincia propriamente dopo la morte del padre, che egli si vide uccidere davanti agli occhi, mentre l'accompagnava verso l'Egitto. Da allora egli fu, innanzi tutto, il vendicatore del padre e in quanto tale il pretendente alla sua eredità: perciò assunse, oltre al soprannome di Magnus, che gli veniva dal padre, quello di Pius, intendendo naturalmente per pietà la dedizione alla memoria paterna. Occorre tenere presente questa genesi della sua appassionata e audace attività per rendersí anche meglio conto dei suoi limiti: non politica, essa non portò a un piano politico di ampie prospettive e fu quindi, da un punto di vista politico, poco intelligente. Durante la vita di Cesare seguì la sorte degli altri pompeiani, combattendo sfortunatamente prima in Africa e poi in Spagna. La morte di Cesare lo sorprese, che stava ancora conducendo una minuta guerriglia in Spagna. Allora sarebbe venuto per lui il momento di unirsi con i cesaricidi e di tentare insieme una vasta manovra avvolgente sia ad occidente sia ad oriente dell'Italia. Invece troppo diverso per ideali e per tradizioni da Bruto e Cassio, fece per conto suo e venne a trattative con gli ambienti più ambigui di Roma. In tal modo serviva soprattutto al giuoco del senato, che dopo la guerra di Modena (43 a. C.) avrebbe voluto liberarsi così di Antonio come di Ottaviano: allora infatti P., che si era trasferito con una sua forte flotta a Marsiglia, era nominato praefectus classis et orae maritimae. La pronta reazione, che portò alla costituzione del secondo triumvirato, lo mise però tosto fuori legge elencando il suo nome tra i proscritti. P. rispose con la guerra nell'unico modo che egli la potesse fare: con la flotta. Verosimilmente abile marinaio egli stesso, in ogni caso accompagnato da abili marinai, che, essendo suoi liberti, erano con probabilità degli antichi pirati fatti schiavi e poi liberati da suo padre (Menodoro, Menas, Menecrate, ecc.), P. poté occupare la Sicilia e ridurre sotto il suo dominio anche la Sardegna e la Corsica. Dalla Sicilia saccheggiava le coste italiane e soprattutto impediva i rifornimenti dall'Africa. La sua azione era quindi indiscutibilmente molto efficace per i riflessi immediati che aveva sull'Italia; ma, per l'assenza di un esercito terrestre, che P. non seppe mai costituirsi, e per la scarsa abilità con cui furono sfruttate le situazioni più favorevoli, la posizione di P. fu sempre piuttosto difensiva che offensiva. La fortuna di P. fu in realtà dovuta in gran parte alla rivalità fra i triumviri. Antonio, in special modo, ebbe a lungo interesse a impedire che P. fosse eliminato da Ottaviano e lo considerò come un contrappeso alla potenza crescente di quest'ultimo. Di qui il maggiore successo di P., che fu piuttosto la conseguenza di un'imposizione di Antonio: col trattato di Miseno del 39 era stabilito che egli dovesse conservare il predominio su Sicilia, Corsica e Sardegna, nonché avere quello dell'Acaia, ottenere il consolato ed essere indennizzato per la confisca dei beni paterni. Con la solita abilità Ottaviano aveva però trovato modo di rendere impossibile la continuazione dell'accordo fra Antonio e P., facendo sì che anche una provincia in mano di Antonio, l'Acaia, fosse riconosciuta a P. Così anche Antonio aveva ora interesse a rompere i patti con P. La rottura fu facilitata dal tradimento del liberto di P., Menas, che passò ad Ottaviano, provocando la caduta della Sardegna e della Corsica. Ancora per un po' Antonio esitò, ma poi finì col lasciare mano libera a Ottaviano (trattato di Taranto del 37). Le sorti della guerra, che, rinnovata, si distese fra il 37 e il 36 a. C., furono varie; nonostante i preparativi imponenti di Agrippa, l'ammiraglio di Ottaviano, la flotta del triumviro subì parecchi rovesci e fu anche ripetutamente danneggiata dalle tempeste. Infine la sua superiorità, sia navale, sia ancor più terrestre, s'impose: la battaglia navale di Nauloco (agosto 36) tagliò dalla Sicilia, ormai per grande parte in mano di Ottaviano, P., che con i resti della sua flotta fuggì in Asia. Le relazioni con Antonio non poterono più essere riallacciate. La provincia di Asia, che egli sperò di sollevare, non si mosse. Abbandonato, P. dovette fuggire in Bitinia: inseguito da Antonio, dopo varie vicende, finì ucciso nel 35 a Mileto.

Bibl.: W. Drumann-P. Groebe, Geschichte Roms in seinem Übergange von der republikanischen zur monarchischen Verfassung, 2ª ed., IV, Lipsia 1908, p. 563 segg.; M. Hadas, Sextus Pompeius, New York 1930; M. A. Levi, Ottaviano capoparte, Firenze 1933; Cambridge Ancient History, X (1934), cap. II-III, particolarmente pag. 55 segg.

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