MARCHIONNE, Sergio

Dizionario Biografico degli Italiani (2020)

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MARCHIONNE, Sergio

Franco Amatori

Nacque a Chieti il 17 giugno 1952, secondo figlio di Concezio e Maria Zuccon. Il padre, di origine abruzzese, aveva intrapreso la carriera militare come carabiniere e aveva conosciuta la moglie a seguito del suo trasferimento in Istria alla vigilia della seconda guerra mondiale. La famiglia Zuccon aveva poi vissuto il dramma delle foibe; la sorella della madre, Anna, si era imbarcata sulla Toscana, l’ultima nave di esuli italiani a lasciare Pola, per trasferirsi con il marito in Canada, avviando un negozio di abiti da sposa a Toronto.

Anche il padre Concezio, dopo il pensionamento nel 1966, decise di trasferirsi con la famiglia a Toronto per dare maggiori opportunità ai figli Luciana e Sergio. Dopo un inizio difficile, Marchionne imparò rapidamente l’inglese, tanto da inserirsi nella vita locale, mentre aiutava il padre a gestire il circolo dei carabinieri di Toronto. All’Arma rimase legato a lungo, tanto da svolgere le funzioni di segretario, dal 1985 al 1992, dell’associazione dei carabinieri (intitolata alla memoria del padre scomparso nel 1984) della cittadina di Woodbridge, nella vasta area suburbana di Toronto, dove viveva buona parte della comunità italo-canadese.

Gli anni della formazione in Canada

Dopo aver frequentato la Saint Michael’s College School, prestigiosa scuola privata cattolica gestita dai padri basiliani, il giovane Marchionne studiò filosofia alla University of Toronto e nel 1980 conseguì un Master in Business administration alla University of Windsor, mentre nel 1983 si laureò in legge alla Osgoode Hall Law School della York University. Nel 1980 morì la sorella Luciana, studiosa brillante e docente di letteratura italiana presso la University of Toronto, a cui era molto legato.

Accantonata l’idea di seguire egli stesso la carriera accademica, dal 1983 al 1985 esercitò la professione di commercialista e consulente tributario presso la sede di Toronto della Deloitte Touche. Dal 1985 al 1988 ricoprì il ruolo di controller (rivolto al controllo di gestione e alla pianificazione strategica di supporto al management) e poi di responsabile dello sviluppo aziendale presso il Lawson Mardon Group di Toronto, una società di packaging industriale. Fra 1989 e il 1990 assunse la carica di executive vice president della Glenex Industries e dal 1990 al 1992 quella di direttore finanziario (CFO, chief financial officer) presso la Acklands Ltd, la maggiore azienda canadese di produzione e distribuzione di componentistica e soluzioni per l’industria. Nel 1992 fece infine ritorno, in veste di direttore finanziario e vicepresidente, al Lawson Mardon Group.

In questo periodo nacquero, dal matrimonio con l’italo-canadese Orlandina, i figli Alessio Giacomo, nel 1989, e Jonathan Tyler, nel 1994.

Industria e finanza nel periodo svizzero

Quando la Lawson Mardon fu acquisita dal gruppo chimico e metallurgico elvetico Alusuisse-Lonza, con sede a Zurigo, Marchionne si trasferì in Svizzera e scalò velocemente la gerarchia aziendale, fino a diventare nel 1997 amministratore delegato della società. Già in questa prima esperienza a capo di un’impresa emersero i caratteri della sua azione manageriale. L’Alusuisse, storica società del settore dell’alluminio fondata nel 1888, aveva progressivamente diversificato il complesso delle sue attività nel settore elettrico e, in particolare dopo l’acquisizione del gruppo Lonza nel 1973, nel settore chimico. Le difficoltà incontrate nel corso degli anni Ottanta avevano imposto una revisione della strategia industriale attraverso il taglio dei posti di lavoro, la chiusura delle linee di prodotto più obsolete e la modernizzazione accelerata degli impianti metallurgici per la produzione di semilavorati in alluminio. Fino all’arrivo di Marchionne la necessità di proseguire con l’ormai decennale strategia di diversificazione non era stata tuttavia messa in dubbio, come dimostrò la stessa acquisizione della Lawson Mardon, attiva in un settore caratterizzato da un livello di investimenti fissi inferiore, e da una redditività meno volatile, rispetto ai settori dell’alluminio e della chimica. Nel 1997, al momento della nomina di Marchionne ad amministratore delegato, la Alusuisse-Lonza impiegava in tutto il mondo circa 31.000 dipendenti, di cui 5800 in Svizzera, con tre divisioni principali: alluminio (Alusuisse), chimica (Lonza) e imballaggi (Lawson Mardon). In Svizzera l’impresa produceva soprattutto elementi pressati e laminati per autocarri e vagoni, materiali compositi, imballaggi destinati all’industria alimentare e farmaceutica e lingotti greggi di alluminio.

L’azienda era stata risanata nel corso dei primi anni Novanta sotto la guida di un gruppo di manager con forte retroterra industriale, fra cui spiccavano l’amministratore delegato Hans Jucker e i direttori della divisione alluminio e della divisione chimica Theodor Tschopp e Ivo Gerster. La nomina al vertice di Marchionne, che fino a quel momento aveva percorso le tappe della sua carriera manageriale nelle funzioni di staff – legale, finanza, controllo – rappresentò una rottura nella storia dell’azienda, un esempio del cambiamento nella cultura manageriale europea che metteva in primo piano la creazione del ‘valore per l’azionista’, una tendenza già affermatasi da diversi anni negli Stati Uniti. Questo obiettivo implicava una svolta nella strategia aziendale a favore di una prospettiva di massimizzazione del profitto a breve termine, a scapito della crescita nel lungo periodo e dello sviluppo di nuovi prodotti. Nel corso dei primi anni Novanta l’Alusuisse-Lonza, tradizionalmente caratterizzata da un assetto proprietario diffuso, era divenuta un obiettivo appetibile per diversi investitori finanziari, tra i quali era emerso ben presto il banchiere svizzero August von Fink jr, diventato consigliere di amministrazione nel 1993 in veste di principale azionista singolo, con circa il 10% delle azioni. Sostenuto da Fink nella sua ascesa ai vertici aziendali, Marchionne aveva a sua volta aderito all’idea del primato dell’interesse dell’azionista fin dai suoi primi interventi pubblici come nuovo amministratore delegato. Il conseguente aumento delle quotazioni di Borsa del titolo Alusuisse-Lonza attirò nei mesi successivi altri investitori fra cui il raider Martin Ebner, fondatore della BZ Bank, che nel maggio del 1998 risultava aver acquisito circa il 17% delle azioni dell’azienda di Zurigo.

Perseguire l’obiettivo di aumentare i vantaggi per gli azionisti attraverso maggiori dividendi e un incremento di valore del titolo significava per Marchionne una radicale ristrutturazione delle attività aziendali, finalizzata alla ricerca di possibili accordi di fusione o alla cessione delle divisioni meno redditizie della società. Dopo un fallito tentativo di fusione con la tedesca VIAG (Vereinigte Industrie-Unternehmungen Aktiengesellschaft), altro storico gruppo dell’alluminio, nell’agosto del 1999 la Alusuisse-Lonza, ora rinominata Algroup, annunciò un accordo di fusione con la canadese Alcan e la francese Pechiney, che avrebbe portato alla creazione della più grande impresa dell’alluminio a livello mondiale. Nei mesi successivi Marchionne procedette a scorporare e a quotare alla Borsa di Zurigo la divisione chimica e le attività di generazione elettrica, con un significativo guadagno finanziario per gli azionisti del gruppo. Tramontata l’ipotesi della fusione a tre con Alcan e Pechiney a causa del rifiuto dell’autorità europea garante della concorrenza di approvare l’operazione, la divisione alluminio venne ceduta alla Alcan nel settembre del 2000. Aspramente criticato dai sindacati svizzeri per il suo ruolo in un’operazione che aveva portato alla scomparsa di un’impresa con oltre 110 anni di storia, Marchionne sostenne pubblicamente la tesi della inevitabilità del processo di concentrazione nel settore dell’alluminio, dovuto alle pressioni competitive insite nella globalizzazione dei mercati.

Dimessosi dal consiglio di amministrazione di Algroup dopo la cessione alla Alcan, il manager italo-canadese mantenne la carica di amministratore delegato di Lonza Group fino al 2001, divenendone presidente nel 2002. Nel febbraio dello stesso anno diventò amministratore delegato della SGS (Société Générale de Surveillance) di Ginevra, leader mondiale nei servizi di ispezione, verifica, analisi e certificazione, altra impresa controllata dalla famiglia von Finck. Marchionne riuscì, nello spazio di soli due anni, a far uscire dalla crisi la società e a raddoppiarne gli utili. In seno al gruppo ginevrino, come già in precedenza nel caso della Algroup, consolidò la propria fama di ‘tagliatore di teste’, sopprimendo buona parte della struttura manageriale di staff.

In questo periodo entrò in contatto con la famiglia Agnelli, secondo azionista della SGS, e venne invitato a far parte del consiglio di amministrazione della FIAT nel maggio 2003. Negli anni successivi, pur fortemente impegnato sul fronte FIAT, continuò a essere ben presente ai vertici del capitalismo elvetico. Oltre alla presidenza di SGS, assunta nel 2006, entrò nel consiglio di amministrazione del gruppo ginevrino Serono, compagine farmaceutica, controllata dalla famiglia italo-elvetica Bertarelli, che fu più avanti ceduta al colosso americano Merck. Grazie al buon rapporto con Ernesto Bertarelli, che ritrovò nel consiglio di amministrazione del gigante bancario svizzero UBS, Marchionne arrivò a ricoprire la carica di vicepresidente non esecutivo di UBS tra il 2008 e il 2010. Particolarmente significativo si rivelò negli anni a seguire anche il rapporto sviluppato in questo periodo con Sergio Ermotti, il top manager ticinese che divenne amministratore delegato di UBS nel 2011, dopo un’esperienza al vertice di Unicredit.

L’approdo alla FIAT: un manager nuovo per il capitalismo italiano

La svolta più importante della carriera manageriale di Marchionne si verificò nell’estate del 2004, quando venne chiamato a prendere le redini della FIAT in qualità di amministratore delegato. In ventiquattro mesi, tra il giugno del 2002 e il giugno del 2004, la FIAT aveva cambiato quattro amministratori delegati, nel disperato tentativo di risanare un’azienda finanziariamente al collasso, che registrava nel 2003 oltre 6 miliardi di euro di perdite. Per molti osservatori la situazione appariva irrecuperabile, gravata da una pesante crisi industriale in coincidenza con la scomparsa dei maggiori esponenti della famiglia proprietaria. Il 24 gennaio 2003 era morto Gianni Agnelli e il 27 maggio dell’anno dopo Umberto Agnelli, che aveva preso le redini del gruppo alla scomparsa del fratello. La dinastia aveva già subito nel 1997 la perdita per malattia, a soli 33 anni, di Giovannino Agnelli, figlio di Umberto, e per suicidio, del figlio di Gianni Agnelli, Edoardo, tre anni dopo. Dopo la morte di Umberto Agnelli, la guida della famiglia e dell’impresa era passata al giovane John Elkann, erede designato dal nonno Gianni Agnelli, che entrò nel consiglio di amministrazione della FIAT nel dicembre del 1997, a soli ventuno anni. Un ruolo cruciale in questa difficile successione familiare venne svolto dai consiglieri storici della famiglia, fra cui spiccavano il legale Franzo Grande Stevens e un manager di grande esperienza come Gianluigi Gabetti.

Fu proprio Gabetti a suggerire a Elkann di incontrare Marchionne nel maggio 2004 per sondare la sua disponibilità a prendere la guida del gruppo FIAT, in quel momento nelle mani di Giuseppe Morchio, manager di lunga esperienza nel settore cavi della Pirelli, nominato amministratore delegato della FIAT nel febbraio del 2003. Convinto di poter negoziare da una posizione di forza, Morchio chiedeva maggiori poteri e la carica di presidente. Su consiglio di Gabetti la famiglia Agnelli decise invece di nominare alla presidenza Luca Cordero di Montezemolo, da sempre suo sodale, e, dopo le dimissioni di Morchio, Marchionne diventò il nuovo amministratore delegato.

Si trattò di una rivoluzione per il gruppo, da anni alle prese con un lento declino industriale e commerciale. Marchionne decise di concentrarsi sul core business dell’azienda, il settore auto, seguendo la linea strategica elaborata da Umberto Agnelli negli ultimi anni di attività. Come aveva già sperimentato negli anni all’Algroup, l’obiettivo di Marchionne diventò smantellare una conglomerata costruita in decenni di investimenti in settori disparati, privi di legami significativi in termini di mercati o tecnologie impiegate: dalla meccanica pesante alla grande distribuzione, dalle banche alle assicurazioni fino alle catene alberghiere. Buona parte delle partecipazioni non legate al settore dell’auto vennero cedute negli anni successivi, e nel 2006 Marchionne arrivò anche a vendere la storica partecipazione della FIAT in Mediobanca, simbolo del ruolo tradizionalmente giocato dal gruppo torinese nel ‘salotto buono’ del capitalismo italiano. La razionalizzazione del gruppo culminò nella creazione di FIAT Group, che comprendeva solo FIAT, Alfa Romeo, Lancia e Abarth, e concentrava la produzione su pochi modelli. Allo stesso modo, il nuovo amministratore delegato si liberò in fretta di un’organizzazione aziendale che nella sostanza era ancora quella gerarchica e rigida disegnata da Vittorio Valletta e Giovanni Agnelli.

Nel 2006, in un’intervista al Wall street journal, affermò di aver trovato un’impresa sovraccarica di dirigenti (overmanaged) e sottodiretta (underled) (Power, 2006). Il management era debole e coloro che fallivano nei compiti a loro affidati venivano semplicemente spostati ad altra mansione, senza mai perdere la posizione dirigenziale acquisita. Già poche settimane dopo la nomina ad amministratore delegato, Marchionne licenziò il responsabile del personale del gruppo, assumendone l’interim e procedendo in tempi rapidi a uno sfoltimento della compagine dirigente senza precedenti nella storia dell’azienda, con oltre duecento licenziamenti.

Oltre alla riorganizzazione interna del gruppo, il maggior risultato della prima fase della sua esperienza manageriale ai vertici della FIAT si rivelò l’accordo con la General motors nel febbraio del 2005, con il quale riuscì a ottenere il pagamento di due miliardi di dollari dal colosso di Detroit alla casa torinese per cancellare la put option – il diritto di vendere la divisione auto agli americani – ancora valida in seguito alla sigla del patto del 2000. Il gruppo FIAT ottenne così le risorse finanziarie per investire in nuovi modelli e ridimensionare le perdite: per Marchionne fu l’occasione per affermare un’immagine di ‘vincente’ che lo proiettò nel ruolo di protagonista assoluto della rinascita di FIAT, consolidato dal ritorno all’utile con il bilancio del 2005. La conferma si ebbe con la grande festa del 4 luglio 2007 in occasione del lancio, a tempo di record, della nuova Fiat 500, a cinquant’anni dal debutto dell’auto simbolo del boom economico italiano del dopoguerra. Per presentare l’auto della riscossa FIAT alla stampa internazionale scelse un luogo importante per la memoria aziendale: la celebre pista di prova sul tetto del primo stabilimento di produzione di massa in Italia, il Lingotto di Torino, che il fondatore della FIAT Giovanni Agnelli aveva fatto costruire sul modello di quello della Ford negli Stati Uniti. Nel 2007 il gruppo realizzava oltre 2 miliardi di euro di utili, il miglior risultato nella sua storia centenaria.

Il ruolo e l’immagine del manager italo-canadese nei primi anni alla guida del gruppo FIAT ebbero un impatto significativo nel panorama nazionale. Al momento della sua nomina, nell’estate del 2004, il berlusconismo era in affanno dopo tre anni di governo, mentre in netta rimonta appariva il centrosinistra di cui Romano Prodi, finita l’esperienza di presidente della Commissione europea, stava di nuovo per prendere la guida. Nell’anno precedente il sindacato, contro il tentativo del governo di abolire l’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, aveva dimostrato un insuperabile potere di veto. Marchionne si adattò a questo clima che connotava il Paese. Proprio verso il sindacato e le sinistre l’amministratore delegato della FIAT mostrava allora una notevole apertura. Secondo Giorgio Airaudo, a lungo responsabile auto della FIOM-CGIL, fra il 2004 e il 2008 Marchionne era «l’uomo che andava dentro gli stabilimenti a parlare con gli operai, che sosteneva la necessità di nuovi modelli, che non addossava la crisi ai lavoratori, che attaccava la speculazione finanziaria» (G. Airaudo, in il manifesto, 22 luglio 2018).

In effetti, nei primi anni alla guida del gruppo FIAT Marchionne dichiarò, in interviste e incontri con associazioni imprenditoriali, che il costo del lavoro rappresentava una quota tanto limitata nella produzione di un’automobile da non giustificare un particolare accanimento negoziale su questo terreno; si spinse addirittura ad affermare la superiorità del modello di capitalismo europeo, con la sua mai superata diffidenza nei confronti del mercato e il suo forte senso di responsabilità sociale rispetto a quello americano. Ma la vera apertura di credito nei confronti del Paese nel quale era nato, e al quale si sentiva legato, era rappresentata dal progetto denominato «Fabbrica Italia», il piano strategico per il 2010-2014 che si proponeva di potenziare le capacità produttive di tutti i maggiori stabilimenti FIAT con un investimento di 20 miliardi di euro. Questa impegnativa operazione avrebbe dovuto, sulla carta, più che raddoppiare la produzione di automobili in Italia, portandola da 650.000 a 1.400.000 unità. Tuttavia, già al momento della presentazione, le condizioni dettate dal contesto del sistema mondiale dell’auto stavano cambiando in modo drammatico, e il progetto venne escluso due anni dopo dai programmi della FIAT.

Dalla crisi globale alla realizzazione del gruppo FCA

La crisi finanziaria iniziata negli Stati Uniti nel 2007 sconvolse l’equilibrio appena raggiunto dal gruppo FIAT. Anche in Europa i consumatori smisero di acquistare beni di consumo durevoli, incluse le automobili. Le vendite FIAT erano allora concentrate in Europa, e in Italia in particolare, con un unico vero mercato internazionale, quello brasiliano. Su quasi 2 milioni di auto uscite dagli stabilimenti del gruppo nel 2007, 1,3 milioni erano vendute in Europa, e da queste proveniva il 67% dei circa 60 miliardi di euro di ricavi (compresi camion e trattori). In Italia la FIAT aveva quasi 80.000 dipendenti, oltre il 40% del totale, e più di metà dei propri stabilimenti produttivi. Meno del 10% dei suoi veicoli veniva venduto al di fuori dell’Europa e del Brasile. La dipendenza della FIAT dal mercato europeo sembrava quindi rappresentare una debolezza insormontabile nel contesto della recessione globale e la ricerca di alleanze, già iniziata da Marchionne nei primi anni alla guida del gruppo italiano, divenne impellente. Al marzo del 2008 risale il suo primo incontro con i vertici della Chrysler. La più piccola delle tre case automobilistiche americane – le Big Three di Detroit –, dopo un fallimentare tentativo di fusione con la tedesca Daimler, fra il 1998 e il 2007 versava in condizioni critiche, con perdite annue superiori agli 8 miliardi di dollari e vendite concentrate per il 90% in Nord America. Nel dicembre del 2008 «piomba in America, e quando è in America è più americano degli americani. Nessuno voleva Chrysler e lui fa un’offerta che gli altri non possono rifiutare. Porta esperienza e tecnologia e non spende soldi» (Pizzimenti, 2018). Il disegno iniziale di Marchionne comprendeva in realtà la costruzione di un gruppo più ampio europeo-americano che includesse anche la tedesca Opel, ma dovette presto ripiegare sui due poli italiano e statunitense.

A fine dicembre 2008 venne firmato un primo memorandum of understanding, che prevedeva l’acquisizione di una quota di Chrysler in cambio dell’accesso alla tecnologia motoristica e al know how del gruppo FIAT. Nell’aprile del 2009 si arrivò invece al momento chiave nelle trattative con il governo americano, che portarono a un accordo che dava inizialmente alla FIAT il 20% di Chrysler, con la possibilità di arrivare al 35% al raggiungimento di obiettivi prestabiliti, inclusi la distribuzione delle vetture Chrysler sui mercati internazionali e la realizzazione di un motore a basso consumo per il mercato americano.

Con l’acquisizione della Chrysler riemerse il Marchionne ‘americano’, quello che ben presto non piacque più all’Italia, o almeno a quella parte più vicina alle istanze del lavoro operaio. Il problema principale non era più solo far crescere, o salvare, il gruppo FIAT: dal 2008 aveva in mano il futuro della Chrysler e delle tute blu statunitensi a cui il presidente Barack Obama aveva promesso lavoro e sviluppo dopo anni di deindustrializzazione.

Per usare una metafora, la parabola di Marchionne alla FIAT si dimostrava in quel momento l’esito del movimento di due ruote dentate che giravano in senso inverso, l’una rappresentando tutte le peculiarità e le idiosincrasie del ‘locale’, l’altra gli implacabili imperativi dell’economia globale, i quali si traducevano in numeri che registrano produttività, redditività e, in ultima analisi, il profitto per gli azionisti. Se le due ruote non si incastravano alla perfezione, non avevano alcuna possibilità di concretizzarsi i grandi disegni come «Fabbrica Italia».

L’acquisizione della Chrysler ebbe precise conseguenze per l’Italia industriale. Una produzione internazionale, sostenne allora Marchionne, richiedeva un metodo di produzione internazionale. Gli stabilimenti italiani si sarebbero dovuti adattare al metodo statunitense, il cosiddetto World Class Manufacturing (WCM), un sistema di produzione integrato di derivazione giapponese che prevedeva maggior efficienza nel ciclo produttivo e ritmi più serrati per i lavoratori. Questo comportava, da un lato, migliorare le condizioni degli operai per far risparmiare loro fatica (con soluzioni ergonomiche) ma, dall’altro, un’intensità di lavoro maggiore, più controlli sulle pause e tempi contingentati e meno flessibili per svolgere ogni mansione. La WCM, la «filosofia del fabbricare» con la quale i giapponesi avevano acquisito una leadership globale, non appariva complicata, ma richiedeva la consapevole partecipazione al processo produttivo di unità operative caratterizzate da deverticalizzazione gerarchica, autonomia operativa, integrazione delle funzioni.

Il problema era che il WCM non si adattava al sistema industriale italiano. Negli anni precedenti, infatti, i metalmeccanici avevano ottenuto garanzie contrattuali, in particolare sui ritmi di lavoro, che lo rendevano di fatto inapplicabile. Era necessario quindi cambiare i contratti stipulati: ora la globalizzazione entrava a pieno titolo nelle relazioni sindacali del nostro Paese. Agli operai della FIAT venne chiesto di accettare un nuovo contratto di lavoro basato sul WCM statunitense, che prevedeva una serie di bonus per ricompensare i lavoratori più produttivi, ma anche un minimo salariale più basso rispetto al contratto degli altri metalmeccanici, turni più intensi, un minor numero di pause e nessuna sosta fino alla fine del turno. Al nuovo contratto si accompagnava anche una maggiore attenzione dell’azienda alla disciplina sul posto di lavoro, ritenuta necessaria per mantenere i ritmi serrati degli stabilimenti. Questo comportò l’introduzione di nuove figure, come i team leader, nominati dall’azienda, con il compito di garantire i ritmi di produzione, assegnare ricompense e segnalare provvedimenti disciplinari.

Una parte dei sindacati accettò fin da subito le nuove condizioni, mentre la FIOM iniziò una lunga e dura battaglia con l’azienda, che si è trascinata per anni anche in tribunale. Lo scontro ha portato a un cambiamento storico nelle relazioni industriali italiane. La FIAT di Marchionne ha condotto la sua battaglia da sola, uscendo dalla Confindustria, iniziando a contrattare direttamente con i sindacati e tagliando fuori la FIOM, che si rifiutava di accettare il nuovo contratto.

Il momento culminante dello scontro arrivò nel giugno del 2010, quando gli operai dello stabilimento di Pomigliano si espressero con un referendum sull’introduzione del nuovo contratto. La minaccia, se avesse vinto il no al nuovo contratto, era chiara: lo stabilimento sarebbe stato chiuso. I sì vinsero con il 63%, un risultato inferiore alle aspettative della dirigenza. Nel referendum che si svolse poco dopo nello stabilimento di Mirafiori il risultato fu ancora più in bilico: tra gli operai i sì vinsero per soli 9 voti. Negli anni successivi il nuovo contratto venne introdotto in tutti gli stabilimenti dell’azienda.

Vincenzo Boccia, presidente dell’Associazione degli industriali italiani dal maggio 2016 al maggio 2020, sostenne in seguito che Marchionne era nel giusto quando attuò la clamorosa decisione di uscire dalla Confindustria, e che quella decisione rappresentò un salutare segnale per un’associazione non al passo con i tempi rispetto alle esigenze contrattuali delle sue aziende più avanzate. La CGIL invece, per bocca di uno dei suoi leader storici, Sergio Cofferati, apparve meno prodiga di elogi per Marchionne, definito «un uomo coraggioso, ma con un modello industriale sbagliato»: secondo il sindacalista, nella sua azione alla guida dell’azienda, Marchionne non si sarebbe sempre concentrato sull’innovazione del prodotto ma, più spesso, sul costo e sull’organizzazione, mentre ridimensionava drasticamente gli spazi negoziali e alcuni diritti dei lavoratori (Preziosi, 2018).

La FIAT italiana di Marchionne, a cui un case study della Harvard Business School ha riconosciuto nel 2015 di aver sperimentato uno straordinario turnaround fra il 2004 e il 2008, dimostrò in realtà tutte le sue carenze quale player globale, e ciò proprio quando la sua potenza sembrò toccare un apice. Con il convinto e attivo supporto del presidente Obama che, per mantenere il profilo industriale della General motors e della Chrysler aveva stanziato 80 miliardi di dollari, la FIAT, offrendo la sua tecnologia per fabbricare vetture di piccola cilindrata, otteneva nell’aprile del 2009 il 20% della Chrysler newco, a cui avrebbe aggiunto un ulteriore 15% se fosse riuscita a produrre negli Stati Uniti i suoi motori a basso consumo e a venderli fuori dell’area NAFTA (l’accordo nordamericano per il libero scambio); infine, fra il 2013 e il 2016 avrebbe potuto godere delle opzioni di acquisto di un altro 16%. I tempi di realizzazione dell’accordo furono ancora più rapidi: il 1° gennaio 2014 il FIAT Group completò l’acquisizione al 100% del Chrysler Group, acquistando la quota in mano dal fondo VEBA, di proprietà della United automotive workers (UAW), il potente sindacato metalmeccanico statunitense.

La mossa preparava la fusione tra FIAT spa e Chrysler Group. Nacque così la Fiat Chrysler automobiles (FCA), società con sede legale ad Amsterdam e centro operativo e finanziario a Londra, quotata sia a New York, sia a Milano.

Nel nuovo combinato della FCA, la FIAT, in particolare nella sua componente italiana, rappresentò il freno alla crescita, che il gruppo – da 237.000 dipendenti – perseguì con successo, se a un fatturato di 96 miliardi di euro nel 2014 ne corrispose uno di 111 miliardi nel 2017. Su questo incremento la produzione italiana incise solo per l’8%. Il peso assunto dalla componente americana del gruppo è stato evidente anche nella strategia adottata da Marchionne nei confronti di Donald Trump, divenuto presidente degli Stati Uniti nel gennaio del 2017. Mostrando ancora una volta una grande destrezza politica, il manager italo-canadese è stato capace di difendere le posizioni della FCA di fronte alle politiche protezionistiche del nuovo presidente americano, anche se al prezzo di un’ulteriore concentrazione degli investimenti negli Stati Uniti.

Rimase invece non realizzata l’aspirazione di Marchionne alla costruzione di un’impresa veramente globale attraverso un piano di acquisizione che avrebbe dovuto avere come obiettivo l’icona dell’industria automobilistica del Novecento: la General motors (GM). L’ipotesi, che tenne banco nei primi mesi del 2015, di una scalata che Marchionne avrebbe potuto lanciare nei confronti della GM per conquistarne il controllo, si scontrò con il netto rifiuto dell’amministratrice delegata del colosso americano, Mary Barra. Si sarebbe trattato di un’operazione temeraria, dettata dal crescente volume di investimenti richiesto dall’industria automobilistica, che rendeva inevitabile un’ulteriore razionalizzazione del settore a livello mondiale attraverso una politica di fusioni e concentrazioni. Il fallimento del progetto di fusione fra la FCA e la GM ebbe effetti anche sugli ultimi anni della gestione aziendale di Marchionne, meno aggressivi e innovativi rispetto al suo stile precedente. Adempiendo al mandato dell’azionista, egli si concentrò infatti sulla riduzione dell’indebitamento del gruppo e sul mantenimento degli equilibri aziendali, in vista di future operazioni societarie, alleanze o vendite, che non sarebbe più toccato a lui progettare e realizzare.

Il 27 giugno 2018 venne ricoverato presso l’ospedale universitario di Zurigo. Nelle settimane successive le sue condizioni si aggravarono, al punto che il 21 luglio venne sostituito nel ruolo di amministratore delegato della FCA da Michael Manley (già a capo della divisione Jeep) e della Ferrari da Louis Carey Camilleri (già nel consiglio di amministrazione e senior non executive director della stessa Ferrari). Morì il 25 luglio 2018 assistito dai due figli e dalla compagna Manuela Battezzato.

A fine 2019 è stato annunciato un accordo di fusione paritaria fra la francese PSA e la FCA, che sarà sancito dalla nascita entro il primo trimestre del 2021 di una nuova holding di gruppo che prenderà il nome di Stellantis. Fra i primi effetti di questo accordo si è annoverata la decisione della FCA di interrompere i contratti con i fornitori italiani di componentistica destinata alla produzione di auto del segmento B, le cosiddette utilitarie.

Fonti e Bibliografia

W. M. Fruin, Knowledge works. Managing intellectual capital at Toshiba, New York 1997; S. Power, For FIAT’s CEO, The glass is half full. Marchionne expects sales momentum to continue. Doesn’t plan to cut unused capacity, in Wall street journal, June 22, 2006; A. Knoepfli - B. Boehm, Alusuisse: From the Buoyancy of the 1970s to the Loss of Autonomy, in Cahiers d’histoire de l’aluminium, 2011, n. 46-47, pp. 90-113; R. Kaplan - B. Bertoldi, S. M. at Chrysler, in Harvard business review, Harvard business school case, 415-045, 2015; M. Hogan, Donald Trump’s early trade moves favor FIAT Chrysler, Cnbc, 1° febbraio 2017, (24 ag. 2020); P. Bricco, Marchionne lo straniero. L’uomo che ha cambiato per sempre l’industria mondiale dell’auto, Milano 2018; M. Ferrante, Marchionne. L’uomo dell’impossibile, 2018; D. Di Vico, Intervista a V. Boccia, “Ruppe con noi, aveva ragione”, in Corriere della sera, 23 luglio 2018; D. M. De Luca, La FIAT prima e dopo Marchionne, in Il Post, 25 luglio 2018, https://www.ilpost.it/2018/07/25/marchionne-fiat/ (24 ag. 2020); C. Pizzimenti, Intervista a Giuseppe Berta: “Sergio Marchionne, il rivoluzionario”, in Vanity Fair, 25 luglio 2018; D. Preziosi, Cofferati: “Marchionne uomo coraggioso ma con un modello industriale sbagliato”, in il manifesto, 26 luglio 2018; T. Ebhardt, S. M., Milano 2019; Marchionne. Il sogno incompiuto, a cura di N. Saldutti, Milano 2019; F. Amatori, Marchionne, “uno di loro”, in Passato e Presente, 2019, n. 106, pp. 7-17.

Foto per cortesia Brookings Institution

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