SENTENZA

Enciclopedia Italiana (1936)

SENTENZA

Sergio Costa

È l'atto col quale il giudice dichiara esistente o inesistente la norma di legge pretesa. In genere, però, nel diritto positivo, col termine "sentenza" si intende designare il provvedimento che risolve una controversia tra le parti del processo. In dottrina si discute se la sentenza sia un atto dell'intelligenza o della volontà del giudice, o se contenga insieme l'uno e l'altro. Secondo una prima opinione (A. Rocco) la sentenza è soltanto un giudizio logico; in essa non v'è alcuna dichiarazione di volontà del giudice, la cui opera si riduce a un puro giudizio logico circa l'applicazione delle norme al caso concreto, e la volontà dichiarata è quella della legge. Invece, secondo l'opinione più diffusa (G. Chiovenda), nella sentenza sono contenuti entrambi gli atti, dell'intelligenza e della volontà del giudice; per quest'ultimo elemento, anzi, la sentenza si differenzia dal giudizio di un semplice privato, dato che il giudice comanda alle parti rendendo concreto quel comando già contenuto nella legge. Il giudizio logico, che precede l'atto di volontà, è definito comunemente come un sillogismo, e caratteristica di esso è che la premessa maggiore è una norma di legge.

La sentenza può essere osservata da un duplice punto di vista; come attuazione della volontà concreta di legge sostanziale, cioè dal punto di vista dell'azione, o come atto del rapporto processuale. Sotto il primo aspetto la sentenza può limitarsi al puro accertamento d'una volontà concreta di legge (sentenze di mero accertamento); o può realizzare un diritto potestativo che richiede, per attuarsi il concorso del giudice, in modo che dopo di essa esista uno stato giuridico che prima non era, o viceversa (sentenze costitutive); o può accertare la volontà concreta di legge che impone al convenuto una prestazione e insieme prepara l'esecuzione (sentenza di condanna).

La sentenza come atto del rapporto processuale. Origine storica e carattere moderno. - Nella dottrina del rapporto processuale la sentenza è considerata come quel provvedimento del giudice che attua la legge a favore dell'attore o del convenuto. Col nome di sentenza si designano però anche altri provvedimenti del giudice che non chiudono il processo, ma vengono emanati in corso di causa per risolvere questioni tra le parti, e sono attinenti allo svolgimento del rapporto processuale stesso; di qui la differenza fra sentenze definitive e interlocutorie.

Nel processo romano il nome di sententia (che ha anche il significato di giudizio, parere, opinione) è riservato esclusivamente a quel provvedimento col quale il giudice esprime il suo avviso sul fondamento della domanda, accogliendola o respingendola, e non su un punto qualsiasi della lite. Nel processo in iudicio essa dev'esser pronunciata oralmente e al cospetto delle parti, senza necessità però di osservanza di date forme né di motivazione. Il suo contenuto è necessariamente improntato ai termini della litis contestatio; quindi, nel processo per legis actiones, la sentenza consiste nella pronuntiatio sopra la giustizia del sacramentum dell'attore, e solo mediatamente dà luogo alla statuizione del diritto di lui a ottenere dal convenuto la prestazione dovutagli o il suo valore; allorché piu tardi i termini della controversia definiti nella litis contestatio sono concretati nella formula del magistrato, la sentenza del iudex deve attenersi nella condemnatio agli elementi precisamente stabiliti nella formula (v.).

Con le invasioni barbariche la sentenza viene trasformata secondo le correnti germaniche. La concezione del processo come litigio fra le parti, propria dei popoli barbarici, fa sì che nella sentenza si veda soprattutto definizione di controversie, ciò che porta all'emanazione di sentenze anche per risolvere semplici questioni processuali. Si perde quindi la differenza ben scolpita presso i Romani tra le sententiae, che definiscono il merito, e le interlocutiones, provvedimenti emanati in corso di causa, e nasce invece quella sententia interlocutoria ignota ai Romani e propria dell'ordinamento processuale barbarico. L'importanza del processo si sposta dalla sentenza definitiva di merito alla sentenza sulla prova, poiché la risoluzione della lite si fa dipendere non più dalla convinzione del giudice ma dal risultato di un solenne esperimento probatorio; perciò, dopo ammessa la prova, il giudice si limita ad assistervi passivamente e a constatarne i risultati. Tutto questo determina l'ammissione dell'appello anche contro le sentenze interlocutorie, al contrario del processo romano nel quale tale mezzo di gravame era proprio della sententia e non delle interlocutiones. Il mutamento sostanziale, che avviene nel concetto di sentenza durante tutto il Medioevo, porta anche a radicali mutamenti nell'aspetto formale del provvedimento. In diritto romano non si imponeva l'obbligo della motivazione; il principio che la sentenza sia valida anche senza motivazione passa nel diritto canonico e nel diritto comune, gli scrittori del quale anzi lo propugnano o lo consigliano come buona regola di prudenza, per evitare che il giudice venga a scoprire i punti deboli del suo ragionamento. Le numerose formalità, che circondano l'emanazione della sentenza, portano; nel diritto comune, alla formulazione di numerose nullità, e, conseguentemente, di altrettanti motivi di gravame. Col progredire dei tempi, e con le prime codificazioni, la sentenza viene sfrondata dalle numerose e spesso inutili formalità; ne vengono circoscritte le nullità, che dalla dottrina moderna sono state ricondotte alla nota partizione di errores in procedendo ed errores in iudicando. La rivoluzione francese sancisce infine l'obbligo della motivazione, già ammesso in qualche ordinamento statutario italiano (St. Bologna, 1454; St. Arezzo, 1535, ecc.).

Nel moderno processo civile italiano perdura la distinzione tra sentenza definitiva e interlocutoria. La definitiva, che chiude il processo, si suddivide a sua volta in definitiva di merito, che decide sul merito attuando la legge a favore dell'attore o del convenuto, e definitiva assolutoria dall'osservanza del giudizio, che dichiara di non poter provvedere in merito per mancanza di qualche presupposto processuale (per es., per incompetenza, per nullità non sanata della domanda giudiziale, ecc.) o che assolve il convenuto in contumacia dell'attore. Le sentenze interlocutorie si sogliono distinguere a loro volta in preparatorie, provvisionali, incidentali, interlocutorie in senso stretto. Formalmente, nessuna distinzione passa tra l'una e l'altra categoria di sentenze. In particolare, sono ammessi per entrambe i gravami, ciò che porta a un eccessivo frazionamento del processo. Da tempo perciò si sono levate autorevoli voci che propugnano il divieto dell'appello immediato delle sentenze interlocutorie, appello che dovrebbe avvenire invece insieme con quello della sentenza definitiva (G. Chiovenda). Tali voti furono tradotti in atto, oltre che per l'ordinamento processuale della Libia (r. decr. 20 marzo 1913, art. 39), per alcuni processi particolari, così per il processo in materia di acque pubbliche (legge 9 ottobre 1919, n. 2161, art. 10), in materia di usi civici (legge 16 giugno 1927, n. 1766, art. 32) e per il processo su controversie individuali del lavoro (r. decr. 21 maggio 1934, n. 1073, art. 21; già nel precedente r. decr. del 1928); in queste ultime due leggi, anzi, a evitare confusioni tra i due provvedimenti, si usa il nome di decisioni interlocutorie, anziché di sentenze interlocutorie. Il fraintendimento di principî romani, a proposito delle interlocutiones, avvenuto nel Medioevo, porta all'affermazione dottrinaria del passaggio in cosa giudicata di tutte le sentenze, anche interlocutorie; la dottrina più recente, nel chiarire il concetto di cosa giudicata, esclude dal passaggio in giudicato le sentenze interlocutorie, per le quali si ammette solo la preclusione delle impugnative, e quindi un giudicato formale nello stesso processo (v. cosa giudicata).

Requisiti formali della sentenza civile. - La sentenza deve essere redatta per iscritto. Fra i requisiti formali sono essenziali il dispositivo, il tenore delle conclusioni delle parti (esclusi il fatto e i motivi), e i motivi della decisione in fatto e in diritto; le sentenze dei pretori contengono le domande, le eccezioni, i motivi e il dispositivo (art. 436 cod. proc. civ.), quelle dei conciliatori le domande, le eccezioni, le circostanze influenti e il dispositivo (art. 460 cod. proc. civ.). Oltre queste indicazioni, le sentenze devono essere intestate in nome del sovrano, e devono contenere il nome, cognome e domicilio delle parti, il nome e cognome dei procuratori, l'indicazione della qualità di attore, convenuto, appellante, ricorrente, ecc., l'indicazione della natura della causa civile o commerciale, la data e la sottoscrizione di tutti i giudici che l'hanno pronunziata e del cancelliere; se fu sentito il pubblico ministero si deve indicare, ma non a pena di nullità (articoli 360, 157, 436, 361, 54 cod. proc. civ.; 267 reg. gen. giud.). Se la sentenza emana dal collegio, questo dev'essere costituito col numero dei giudici prescritto dalla legge. La deliberazione avviene in camera di consiglio in seduta segreta con l'intervento dei soli votanti; il primo a votare è il meno anziano in ordine di nomina, e così continuando sino a chi presiede; quando la relazione della causa sia fatta da un giudice, il primo a votare è il relatore. Le sentenze si formano a maggioranza assoluta di voti; poiché la sentenza è pur sempre una emanazione del collegio, non deve farsi menzione della votazione a maggioranza né tanto meno del parere della minoranza (come è invece prescritto per la perizia, data la diversità sostanziale di questi atti). Può accadere talvolta che, allorché possono accogliersi più di due opinioni, non si riesca praticamente a raggiungere una maggioranza. In tal caso il presidente porrà ai voti due delle opinioni per escluderne una; la rimanente è messa ai voti con un'altra, e così di seguito sino a che le opinioni non siano ridotte a due sulle quali i giudici votano definitivamente (art. 359 cod. proc. civ.). Chiusa la votazione, il presidente designa tra i membri della maggioranza il giudice che deve compilare la sentenza, e che è detto estensore. Redatta la sentenza, essa viene sottoscritta da tutti i votanti (eccezione vi è però per le sentenze in materia di controversie individuali del lavoro, per le quali non è necessaria la sottoscrizione dei cittadini esperti anche quando abbiano fatto parte del collegio giudicante, art. 22 r. decr. 21 maggio 1934, n. 1073; altra eccezione per le sentenze arbitrali, art. 21 ult. capov. cod. proc. civ.) e dal cancelliere, e indi da quest'ultimo pubblicata non più tardi della prima udienza successiva al giorno in cui fu sottoscritta. La pubblicazione della sentenza è un atto necessario per la sua esistenza, e avviene a impulso d'ufficio; dopo la pubblicazione, la sentenza diviene definitiva anche per il giudice che l'ha emanata. Occorre, però, ulteriormente la notifica della sentenza per altri particolari effetti (decorso dei termini per le impugnative, esecuzione), eccetto qualche caso speciale in cui la sentenza pubblicata presenti le parti si ha per notificata (art. 437 cod. proc. civ.).

La sentenza penale e i suoi requisiti formali. - Nel processo penale la sentenza può definirsi come quel provvedimento che chiude una fase del processo, sia pronunciando definitivamente sulla norma sostanziale, sia su norme di carattere processuale, sia infine chiudendo la fase istruttoria e quindi rinviando a giudizio o prosciogliendo l'imputato (sentenza istruttoria). Ai provvedimenti di carattere interlocutorio è invece riservato il nome di ordinanze.

La sentenza, redatta per iscritto, deve contenere le generalità dell'imputato o le altre indicazioni che valgano a identificarlo, le generalità della parte civile, della persona civilmente obbligata per l'ammenda e del responsabile civile (art. 384, n.1; 474, n. 2, cod. proc. pen.); l'enunciazione del fatto, del titolo del reato, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono importare l'applicazione di misure di sicurezza, l'esposizione dei motivi in fatto e in diritto, il dispositivo (questi due ultimi a pena di nullità, anche se soltanto incompleti); inoltre, la data e la sottoscrizione dei giudici che l'hanno pronunciata e del cancelliere (le sentenze delle corti d'assise sono però sottoscritte solo dal presidente e dal cancelliere, articolo 20, r. decr. 23 marzo 1931, n. 249). La sentenza istruttoria deve contenere le richieste del pubblico ministero e le istanze proposte dalle parti. Per la sentenza definitiva è prescritta anche l'indicazione degli articoli di legge applicati e l'intestazione in nome del sovrano. L'una e l'altra possono contenere anche provvedimenti accessorî (relativi alla libertà dell'imputato, articoli 375, 381 e 479, capov. 4, cod. proc. pen.; alla condanna nelle spese del querelante, art. 382 cod. proc. pen.). La sentenza definitiva è deliberata dagli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento senza interruzione, e il dispositivo è letto immediatamente alla pubblica udienza, questa lettura sostituisce la notificazione per tutte le parti che sono state o che debbono considerarsi presenti al dibattimento anche se non presenti alla lettura. La deliberazione della sentenza è sempre segreta; il presidente sottopone separatamente a decisione le questioni pregiudiziali, quelle incidentali la cui decisione sia stata differita, quelle di fatto e di diritto riguardanti l'imputazione, e quindi, se occorre, quelle sull'applicazione delle misure di sicurezza. Tutti i giudici dànno il loro voto su ciascuna questione, qualunque sia stato quello sulle altre. Il primo a votare è il giudice meno anziano; nelle corti d'assise votano prima gli assessori, cominciando dal meno anziano d'età. La sentenza è deliberata a maggioranza; qualora si manifestino più di due opinioni, si procede come per la votazione per esclusione nel processo civile (articoli 472 e 473 cod. proc. pen.). Se su di una questione vi è parità di voti (possibile nella corte d'appello che, in sede penale, è costituita da quattro votanti) prevale l'opinione più favorevole all'imputato.

Impugnabilità delle sentenze in genere. - Le sentenze sono impugnabili con varî mezzi di gravame, entro termini perentorî. Si è discusso perciò quale valore abbia la sentenza soggetta a impugnativa, ritenendosi da qualcuno che debba considerarsi come sottoposta a condizione risolutiva (L. Mortara, I. Kohler), da altri come un atto sottoposto a revoca (U. Rocco), da altri come una situazione giuridica, cioè un atto che può diventare la sentenza (G. Chiovenda, P. Calamandrei), da altri infine come un atto di per sé pienamente imperativo ma non definitivo (F. Carnelutti). L'impugnazione può investire tutta la sentenza o parte di essa; ciò dipende dalla possibilità di scindere quest'atto formalmente unico in tanti capi di sentenza, in modo che possa verificarsi una soccombenza reciproca di ambo le parti; la legge ammette anzi che, allorché una parte abbia interposto appello per alcuni capi, possa l'altra parte, anche scaduti i termini, proporre appello incidentale. Questi riflessi pratici giustificano la disputa dottrinaria intorno al concetto di capo di sentenza, se cioè per capo debba intendersi una parte autonoma della sentenza che possa esistere a sé contenendo un'attuazione concreta di legge, o una parte contenente la risoluzione d'una questione della lite. (V. appello; corte: La corte di cassazione; La corte d'appello; revocazione; ricorso.V. anche delibazione).

Bibl.: In generale e sulla sentenza civile: W. Kisch, Beiträge zur Ursteilslehre, Lipsia 1903; A. Rocco, La sentenza civile, Torino 1906; P. Calamandrei, La genesi logica della sentenza civile, in Riv. crit. di scienze soc., Firenze 1914 (ripubbl. in Studi sul processo civile, I, Padova 1930); G. Chiovenda, Principî di diritto processuale civile, Napoli 1923; id., Istituzioni di diritto processuale civile, I e II, Napoli 1933-35; L. Mortara, Commentario al codice di procedura civile, IV, Milano 1923, pag. 58 e segg.; F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, II, III, IV, Padova 1926. Sul processo penale: E. Florian, Principî di diritto processuale penale, Torino 1931; V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale, Torino 1932, III e IV; E. Massari, Il processo penale nella nuova legislazione italiana, Napoli 1934.

Su particolari questioni: G. Chiovenda, Pubblicazione e notificazione della sentenza civile, in La legge, 1901 (ripubbl. in Saggi di diritto processuale civile, II, Roma 1931); id., Rapporto giuridico processuale e litispendenza, ibid., 1931, I, 3; id., Azioni e sentenze di mero accertamento, in Riv. dir. proc. civ., 1933, I, 3; F. Menestrina, La pregiudiziale nel processo civile, Vienna 1904; E. Betti, Efficacia delle sentenze determinative in tema di legati d'alimenti, Camerino 1919; S. Costa, Le sentenze civili con la clausola rebus sic stantibus, in Studi senesi, 1930; id., Contributo al concetto di capo di sentenza nel processo civile, in Studi sassaresi, 1931-32; P. Calamandrei, La sentenza come atto d'esecuzione forzata, in Studî in onore di Ascoli, Messina 1931 (ripubbl. in Studî sul processo civile, III, Padova 1934); id., La condanna, in Studi in onore di F. Cammeo, Padova 1933 (ripubbl. in Studi sul processo civile, III, citato); F. Carnelutti, Capo di sentenza, in Riv. dir. proc. civ., 1933, parte 1ª.

Per la storia: A. Pertile, Storia del diritto italiano, VI, parte 2ª, Torino 1902; C. Bertolini, Appunti didattici di diritto romano. Il processo civile, I-III, ivi 1913-15; P. Calamandrei, La teoria dell'error in iudicando nel dir. ital. intern., in Riv. crit. scienze sociali, 1914 (ripubbl. in Studî sul processo civile, I, cit.); E. Costa, Profilo stor. del processo civ. rom., Roma 1918; G. Salvioli, Storia del diritto ital., Torino 1921; B. Biondi, La sentenza civile romana, in Studî in onore di P. Bonfante, IV, Milano 1930; G. Chiovenda, Cosa giudicata e preclusione, in Riv. ital. scienze giur., 1933; id., Ist. di dir. process. civile, I cit.

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