Senso comune

Dizionario di filosofia (2009)

senso comune


Locuz. che ha assunto, nel corso della storia della filosofia, significati diversi e che, in età moderna, è stata prevalentemente utilizzata per identificare, in polemica con gli orientamenti razionalistici, scettici, idealistici, la «ragione naturale», il «sano intelletto» (in alcuni casi anche il «buon senso») in quanto fonte di conoscenze, intuizioni, ecc., dotate di immediata certezza.

Dall’accezione aristotelica a quella moderna

L’etimologia dell’espressione rimonta alla locuzione greca κοινὴ αἴσϑησις («sensazione comune»), con cui Aristotele designò (nel De sensu e nel De anima) l’atto percettivo che fonde in unità i dati dei vari organi di senso, riferendoli all’unico oggetto da cui sono determinati. Unità delle sensazioni singole, la «sensazione comune» (che Aristotele fa dipendere da un κοινὸν αἰσϑητήριον, sensorium commune) accompagna ogni esperienza sensibile in quanto ne rappresenta l’autoconsapevolezza. Questo significato originario si è conservato nelle espressioni cenestesi (calco delle due parole greche) e sensorio comune, adottate dalla psicologia filosofica e sperimentale. L’espressione acquista un nuovo significato nella tradizione latina: Cicerone, per es., se ne serve per designare l’insieme delle nozioni e delle credenze su cui esiste un implicito accordo da parte di tutti gli uomini (communis consensus). Attraverso la tradizione medievale e umanistica, il termine perde sempre più il suo carattere propriamente psicologico per accentuare quello gnoseologico. In vista della ripresa tardo settecentesca del concetto, svolgono un ruolo importante soprattutto Shaftesbury (Sensus communis: saggio sulla libertà di spirito e di umorismo) e Buffier (Traité des premières vérités), le cui opere ispireranno direttamente la rielaborazione di Reid. Né va dimenticata la rielaborazione del concetto svolta da Vico nella Scienza nuova e incentrata sull’aspetto etico-morale del s. c., in quanto sistema di credenze in cui si riconosce immediatamente, nella prassi sociale, una comunità; di qui si avvia infatti un’ulteriore e più specifica tradizione semantica, che troverà corso nella pamphlettistica politica (per es., nello scritto di Th. Paine, Senso Comune, volto a sostenere le ragioni dei coloni americani contro la Corona inglese) e quindi nella filosofia politica del Novecento (per es., in Gramsci, Arendt, e altri).

La scuola del senso comune

Nella seconda metà del Settecento, intorno a Reid, si costituisce quella che verrà definita Scuola scozzese (➔) che proprio nel s. c. individua l’organo fondamentale della conoscenza, nonché del giudizio etico ed estetico. Rifiutando gli esiti scettici dell’idealismo soggettivo di Berkeley e, soprattutto, dell’empirismo di Hume, Reid estende infatti la propria critica a tutte le gnoseologie moderne (risalendo fino a Descartes e a Locke) fondate sulle «idee», in quanto riducono gli oggetti reali, esistenti al di fuori della mente, alle rispettive rappresentazioni mentali, con la conseguente perdita di quel senso della realtà che è connaturato all’uomo comune. Di qui il privilegiamento del s. c. quale istinto originario con cui la mente umana riconoscerebbe in maniera intuitiva e immediata i principi fondamentali della conoscenza (in partic., la nozione della realtà esterna), della morale (il principio della libertà dell’agire) e della religione (per es., l’idea dell’essere divino).

Kant e la tradizione tedesca

Pur riconoscendo un’utilità pratica al s. c. (ted. Gemeinnsinn), specialmente quale guida del giudizio in campo etico-morale (capacità di applicare le regole ai casi particolari), Kant ne svaluta il ruolo dal punto di vista gnoseologico e conoscitivo, a favore dell’uso puro dell’intelletto (facoltà di determinare le regole e i concetti). La nozione di s. c. torna tuttavia al centro della riflessione kantiana nella Critica del giudizio, con specifico riferimento alla fondazione dei giudizi di gusto; in questi, infatti, la rivendicazione di un’universalità slegata da regole e concetti pre-supporrebbe l’idea di un sentimento condiviso, che rende in generale possibile la comunicazione dell’esperienza. La linea critica avviata da Kant subisce una decisa radicalizzazione nell’idealismo post-kantiano, soprattutto per opera di Hegel, che interpreta il s. c. come una forma di «sapere immediato», in cui si esprime l’attitudine propria della coscienza ordinaria, la quale «fa valere la sua veduta che la verità riposi sulla realtà sensibile, che i pensieri siano soltanto pensieri [...] e che la ragione in quanto resta in sé e per sé non dia fuori che sogni». Va anche ricordato che al giudizio hegeliano si ricollega esplicitamente Marx, il quale (nel Capitale) riassume i risultati della propria teoria dell’alienazione e del feticismo in questi termini: «ciò che sembra irrazionale al s. c. è razionale, ciò che ad esso sembra razionale è l’irrazionalità stessa».

Riprese otto-novecentesche

Le influenze della Scuola scozzese si estendono fino a tutto il 19° sec., soprattutto per opera di Hamilton, Mansel, Henry Calderwood. Hamilton, in partic., contribuisce alla diffusione della filosofia della Scuola scozzese sia negli Stati Uniti, dove essa susciterà l’interesse di James, Peirce e Dewey, sia in Francia, dove la tematica del s. c. sarà dapprima ripresa da La Mennais e Cousin, in chiave spiritualista e antilluminista, poi rivisitata da Comte e Bergson, sulla base però dell’identificazione del s. c. con il bon sens (buonsenso), e infine riproposta da Garrigou Lagrange, Gilson e Maritain, in una prospettiva generalmente volta a riaffermare, in chiave anticartesiana, una posizione di realismo neotomista. Notevole importanza avrà poi l’opera A defence of the common sense (1925) di G. E. Moore, il quale si riallaccia direttamente alla scuola del s. c. nel riaffermare, in polemica con lo scetticismo e l’idealismo di Bradley, l’indipendenza dei fatti fisici da quelli psichici, ma soprattutto nell’assegnare alla filosofia il compito non tanto di confutare, quanto di analizzare e fondare le opinioni dell’uomo comune. Accolta (in un primo tempo) da Russell, ma parzialmente criticata da Wittgenstein – il quale, nell’ultimissima fase delle sue ricerche (i manoscritti pubblicati con il titolo Über Gewissheit, trad. it. Della certezza), pur riconoscendo nel s. c. il fondamento di alcune certezze assolute, con riferimento alle varie forme di dubbio iperbolico, lo esclude dall’ambito del sapere vero e proprio –, la dottrina di Moore ha esercitato ampia influenza nell’ambito della filosofia analitica, ed è stata rivisitata da Ayer, Sellars, Searle, ecc. Tra gli altri autori che hanno reinterpretato la nozione di s. c., questa volta in una prospettiva ermeneutica, occorre ricordare infine Pareyson (Verità e interpretazione) e Gadamer (Verità e metodo), le cui letture si ispirano, rispettivamente, alla lezione fenomenologica e alla tradizione vichiana.

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