SENATO

Enciclopedia Italiana (1936)

SENATO

Plinio FRACCARO
Pier Silverio LEICHT
Francesco ROVELLI

. Il Senato Romano. - I tre elementi originarî dello stato romano sono il re, il consiglio degli anziani (senatus) e l'assemblea popolare. Perciò la tradizione fa istituire da Romolo un senato di 100 membri (Liv., I, 8), numero per il quale si fa valere il fatto che il senato era diviso in dieci decuriae, che dovevano contare in origine ciascuna dieci membri e che 100 membri avevano i senati delle città fondate da Roma. Ma il numero normale dei senatori in età storica è di 300, numero che deve risalire pure all'età regia e che è in armonia con lo schema ternario della più antica organizzazione dello stato romano su tre tribù e trenta curie. Gli antichi cercarono di spiegare in varî modi il passaggio dall'una all'altra cifra, attribuendo a Tazio, a Tullo Ostilio e a Tarquinio Prisco l'aggiunta ai primi senatori rispettivamente di senatori sabini o albani o delle minores gentes. Silla raddoppiò il numero dei senatori, che Cesare accrebbe ancora a circa 900 e i triumviri a mille e più. Augusto ritornò alla cifra di 600, ma non pare che in seguito questa cifra sia stata considerata come normale.

La parola senatus indica di per sé che esso era un consiglio di anziani, come le γερουσίαν dei Greci, presso i quali si diffuse però, a indicare il senato romano, il termine ἡ σύγκληῖος (sott. βουλή), usato per i senati greci di Napoli e delle città della Sicilia. Perciò originariamente, con ogni probabilità, facevano parte del senato romano solo i cittadini che avevano cessato di far parte dell'esercito, e che avevano quindi compiuto 60 anni, o, come altri credono, solo i seniores che avevano compiuto 46 anni; e si accenna infatti a certe restrizioni alle quali erano in senato sottoposti gli ex-magistrati ancora appartenenti agli iuniores. Ma da tempo abbastanza remoto il criterio dell'anzianità fu sopraffatto da quello della dignità che ad un cittadino veniva dalla gestione di una magistratura, di guisa che negli ultimi tempi della repubblica e sotto l'impero l'età senatoria era la stessa richiesta per la gestione della magistratura di primo grado, cioè della questura, e quindi rispettivamente 30 e 25 anni.

L'antica denominazione dei patrizî, patres (patres et plebs nelle dodici tavole), fu applicata, in un senso più ristretto, anche ai membri dell'originario senato romano, reclutato solo fra il patriziato. I plebei sarebbero entrati a far parte del senato, per alcune fonti, già al tempo di Servio Tullio, o, secondo i più, nel primo anno della repubblica.

Comunque, l'ammissione dei plebei alle magistrature, che ha inizio alla metà del sec. V a. C., dovette avere come necessaria conseguenza l'entrata di plebei nel senato. Però anche qui non si venne a un pareggiamento formale dei diritti dei patrizî e dei plebei. I patrizî continuarono a formare, entro il senato patrizio-plebeo, un corpo a sé, esclusivamente idoneo a compiere certi atti che erano fra le originarie attribuzioni del senato, cioè la ratifica delle deliberazioni dell'assemblea popolare, auctoritas patrum, e l'assunzione per turno dell'imperium, se i titolari di esso fossero venuti meno prima della designazione dei successori (interregnum). I plebei ammessi al senato sono, di fronte ai patres, allecti, o si chiamano con il termine conscripti che propriamente indicava tutti i senatori inscritti nella lista del senato, ma che nella formula di convocazione qui patres, qui conscripti (estis) e nell'altra patres conscripti (cioè p. [et] c.), distinto e contrapposto a patres, passò a designare solo i senatori plebei.

I quali senatori plebei pare avessero dapprima tutti solo il diritto di voto, o, come dicevasi, di pedibus in sententiam ire; e perciò erano chiamati pedarii, che sarebbe come "i votanti", cioè quelli che solo votavano. Ma quando ai plebei fu concesso di gestire le magistrature superiori, il diritto di parlare in senato non poté essere negato al plebeo, che come console o come pretore aveva posseduto il diritto di convocare e presiedere il senato e di riferire a esso; e perciò nella situazione di pedarii rimasero solo quei senatori plebei che non avevano rivestito magistrature e che erano entrati nel senato in seguito a libera scelta del magistrato che lo completava, e la categoria scomparve quando l'ingresso al senato fu fatto dipendere esclusivamente dalla gestione della magistratura. Conservarono inoltre i patrizî un diritto di precedenza sui senatori plebei nell'interno delle varie categorie nelle quali, come vedremo, il senato era diviso.

È molto probabile che in età remota il seggio in senato spettasse di diritto ai capi di determinate genti e famiglie o a chi copriva certi uffici; è testimoniato il diritto al senato del flamen dialis. Invece in epoca storica la nomina del senatore (legere in senatum, in casi speciali anche sublegere e adlegere) spetta al re o al magistrato supremo, e nel periodo più antico è affidata soltanto al suo arbitrio e alla sua coscienza. Ma un plebiscito Ovinio, approvato verso la fine del sec. IV a. C. e applicato forse per la prima volta nella celebre censura di Appio Claudio Cieco del 312, tolse questa funzione ai consoli e l'affidò ai censori, prescrivendo che essi ex omni ordine optimum quemque curiati (che si corregge curiatim o iurati) in senatum legerent (Fest., p. 290, 6 L.). Ciò importava intanto la sicurezza del seggio per tutto il periodo che andava da un lustrum censorio a un altro e altre garanzie dipendenti dalle forme che i censori dovevano osservare nella lectio senatus (v. più avanti). Che cosa significasse ex omni ordine non è chiaro e potrebbe darsi che Appio Claudio, quando fece entrare in senato dei figli di libertini, intendesse applicare la prescrizione del plebiscito. Dei moderni, alcuni riferiscono quell'espressione esclusivamente alle varie categorie di ex-magistrati, altri a quelle categorie in primo luogo, ma ammettendo che il magistrato potesse scegliere anche fuori di esse. É certo però, che o già prima della legge Ovinia o poco dopo, si impose il concetto che il cittadino designato dal voto popolare alle magistrature doveva considerarsi optimus; anzi, in attesa che il prossimo collegio di censori li aggiungesse alla lista dei senatori, agli ex-magistrati curuli fu riconosciuto il diritto di partecipare attivamente alle sedute del senato, alle quali si convocavano perciò senatores quibusve sententiam in senatu dicere licet. Per questa via si andò sempre più oltre, sino a estendere l'aspettativa al senato anche ai magistrati non curuli, prima per consuetudine (v. il bell'esempio in Liv. XXIII, 23, 5 seg.) e poi per legge; agli ex-edili plebei nell'età graccana, e poco dopo, con un plebiscito Atinio, agli ex-tribuni della plebe e con Silla ai questori. Silla elevò perciò a 20 il numero dei questori e l'entrata in senato dipese dopo di lui dalla gestione della questura e in piccola parte dal tribunato della plebe, fino a tanto che questo non fu inserito come obbligatorio nel cursus honorum dopo la questura. In tal modo fu resa praticamente superflua la funzione dei censori e la composizione del senato venne a dipendere interamente per via indiretta dal suffragio popolare. Questo sistema offriva il vantaggio di far entrare continuamente nel senato esponenti delle correnti politiche attuali, senza però compromettere la continuità dell'indirizzo politico dell'assemblea, poiché il rinnovamento avveniva molto lentamente nella misura di poco più di 1/30 all'anno. Quando poi Tiberio deferì la nomina dei magistrati al senato, questo venne a completarsi di per sé; ma la crescente influenza del principe sulle elezioni rese infine questo arbitro della composizione del senato. Nomine straordinarie di senatori furono compiute anche da magistrati straordinarî, p. es., da un dittatore dopo Canne, da Cesare e dai triumviri per i loro poteri costituenti. Anche gl'imperatori potevano, per quanto in via straordinaria, far entrare direttamente nel senato personaggi che non avevano sostenuto la magistratura richiesta. La lista del senato era letta pubblicamente dai magistrati e sotto l'impero anche esposta al pubblico (album senatorium).

Il seggio in senato è vitalizio. Se il cittadino romano, per un principio fondamentale della costituzione repubblicana, non poteva detenere l'imperium che per qualche anno della sua vita e, nell'epoca migliore, solo in anni discontinui, egli poteva invece a un certo momento entrare a far parte, per il resto della sua vita, dell'assemblea, che ben presto si attribuì quasi per intero il governo effettivo di Roma e dell'impero. Non pochi Romani spiegarono certo un'azione politica più larga e duratura come autorevoli membri del senato, che come temporanei detentori del potere pretorio o consolare. Per essere ammessi nel senato si richiedeva originariamente il patriziato, poi l'ingenuità, il diritto di cittadinanza completo, e inoltre una onorabilità piena (certe professioni e certe condanne escludevano quindi dal senato) e una condizione sociale elevata: si trovava, ad es., sconveniente la nomina a senatore di chi avesse servito come semplice soldato. La nomina di senatori provenienti da comunità che avevano ricevuto da poco la cittadinanza romana sollevò sempre proteste, specialmente quando Cesare creò senatori dei cittadini romani delle provincie; e i primi imperatori, reagendo a questa tendenza, rifiutarono il seggio senatorio a cittadini nativi della Gallia. Ma la fatale assimilazione dell'Italia a Roma e poi delle provincie all'Italia ebbe per conseguenza che il senato divenne da romano italico e poi imperiale. Negli ultimi tempi della repubblica si ebbero leggi che sancivano come pena la ineleggibilità o l'espulsione dal senato. La repubblica non richiese per legge ai senatori un determinato censo; Augusto fissò invece un milione di sesterzî e Traiano dispose inoltre che una parte del patrimonio dei senatori consistesse in fondi situati in Italia. Il senatore non era però inamovibile. Il console, nel periodo più antico, lo poteva escludere dalla lista a suo arbitrio, e questo potere passò ai censori, che, con l'osservanza di certe norme (v. censore), rifiutavano la nomina all'aspirante o cancellavano dalla lista il senatore che si fosse reso moralmente indegno del seggio: perciò l'esclusione dal senato assunse carattere infamante. Un diverso giudizio di un successivo collegio di censori o l'elezione a una magistratura riaprivano però il senato a chi ne fosse stato espulso. Il venir meno dei requisiti richiesti, e quindi sotto l'impero del censo, faceva perdere il seggio; il principe poteva però reintegrare del suo il censo deficiente di un senatore.

I senatori portavano distintivi esteriori del loro grado: una lista verticale di porpora sulla tunica, più larga di quella dei cavalieri (latus clavus) e una calzatura speciale (calceus mulleus o solea), di solito rossa, alta e legata alla gamba con quattro corregge nere e una fibbia d'avorio (lunula). Questo calzare spettava in origine ai senatori patrizî, poi anche ai plebei che avevano gestito magistrature curuli e fu infine adottato da tutti i senatori; solo la lunula fu riservata ai patrizî e si parla quindi di calceus patricius e di calceus senatorius (questi particolari sono però incerti). Dal sec. II a. C. i senatori portavano l'anello d'oro, uso che si estese poi ai cavalieri. I senatori assistevano da posti riservati alle cerimonie religiose e ai ludi e dal 194 ebbero diritto a seggi separati nei teatri e, più tardi; anche nel circo e sedevano a tavole particolari nei pubblici banchetti. Già sotto la repubblica, dopo che fu stabilito un cursus honorum, alle magistrature maggiori non potevano di diritto aspirare che gli ex-magistrati minori, cioè i senatori. Augusto poi organizzò ufficialmente l'ordine senatorio e i contrassegni esteriori dei senatori furono concessi anche ai loro figli; questi erano obbligati ad aspirare alle magistrature repubblicane, che d'altra parte erano a essi riservate, salvo il caso di speciali concessioni del principe a persone che non appartenevano all'ordine senatorio. Anche una serie di cariche imperiali, specialmente i comandi delle provincie imperiali e dei relativi eserciti, furono riservati ai senatori fino a Gallieno. Nell'età repubblicana, il senatore che si recava nelle provincie aveva diritto a uno speciale trattamento in seguito alla concessione da parte del senato della qualifica di legatus (legatio libera). Almeno da una certa epoca, i senatori avevano il privilegio di essere giudici nelle questioni perpetue e, secondo i più, anche nei processi civili; questo privilegio fu loro tolto, almeno per le questioni perpetue, da Caio Gracco e dato ai cavalieri; fu ridato ai senatori da Silla e, dopo altre vicende, diviso definitivamente fra i due ordini da Cesare. Augusto vietò ai senatori matrimonî con liberte. Già dal sec. III a. C., furono imposte ai senatori limitazioni di carattere economico: essi non potevano darsi alle speculazioni ed erano perciò esclusi dagli appalti pubblici; non potevano possedere vascelli da carico di portata superiore a un certo limite, e sotto l'impero fu anche sottoposta a restrizioni la facoltà di prestare a interesse. Per questo i senatori dovettero rivolgersi alla grande proprietà fondiaria, che era ritenuta la più sicura e onorevole forma di ricchezza. I senatori avevano l'obbligo di risiedere in Roma e non potevano uscire dall'Italia senza permesso del senato; in momenti gravi si poteva ingiungere loro di non lasciare la città.

La riunione del senato dicevasi anch'essa senatus, senatum habere. Essa si svolgeva secondo una procedura costante. Il senato non poteva riunirsi e agire di propria iniziativa, ma solo per invito del magistrato che lo convocava e lo presiedeva. Avevano diritto di presiedere il senato i magistrati cum imperio e, dopo una certa epoca, i tribuni della plebe; poi il principe. Se parecchi magistrati avessero voluto convocare contemporaneamente il senato, c'era un ordine di preferenza stabilito fra colleghi e fra magistrati di collegi diversi. I senatori dovevano tenersi a disposizione dei magistrati, quando una convocazione era prevedibile e appositi senacula erano stati costruiti per essi a questo scopo nel Foro e altrove. Il riunire il senato dicevasi più anticamente cogere senatum, poi di solito vocare o convocare senatum. La presenza alle sedute era in linea di diritto obbligatoria e il magistrato convocante poteva infliggere una multa o la pignoris capio al senatore assente. La convocazione si faceva in età più antica per mezzo di araldi, poi per edictum o in caso d'urgenza con avviso personale a ogni senatore. Nella comucazione s'indicava il luogo e l'ora della seduta, che doveva iniziarsi fra il sorgere e il tramonto del sole (di solito si convocava per il sorgere del sole); non s' indicava invece l'ordine del giorno, tranne nel caso che si dovesse discutere della situazione politica in generale (de re publica). Tutti i giorni erano atti per le riunioni del senato, ma si teneva di solito conto dei comizî popolari, che richiedevano la presenza dei magistrati; una lex Pupia, di epoca e contenuto incerto, pare abbia vietato, nel II o I sec. a. C., le sedute del senato almeno durante lo svolgimento dei comizî, pena la nullità del senatoconsulto. Dopo Silla, il senato poteva vietare la convocazione dei comizî in un dato giorno, riservandolo alla seduta del senato. Sotto l'impero, si fissarono delle sedute ordinarie del senato (senatus legitimi), due al mese, alle calende e agli idi; e l'assenza dalle sedute straordinarie (senatus indicti) non era passibile di pena. I mesi di settembre e ottobre erano considerati di vacanza e l'obbligo di intervenire alle sedute era in essi limitato a pochi senatori tratti a sorte.

La riunione del senato doveva avvenire in Roma o entro il primo miglio dalla città, in un locale chiuso, pubblico o sacro e auguralmente limitato (templum). Essa richiedeva auspici favorevoli, che venivano presi dal presidente. Locali appositi per le riunioni erano la Curia Hostilia sul Comizio e la Curia Calabra sul Campidoglio, ciascuna con il relativo senaculum; Cesare e Augusto innalzarono poi la Curia Julia sul Foro. Ma potevano inoltre servire le cellae dei templi; ad es., in quella del tempio di Giove Capitolino aveva luogo di solito la seduta, che i consoli convocavano per il primo giorno del loro anno di carica. Fuori del pomerio c'era un senaculum presso il campo di Marte e sedute del senato vennero tenute in varî templi a esso vicini; più tardi servivano il teatro di Pompeo e il portico di Ottavia.

Le sedute si tenevano in locale chiuso ma a porte aperte e i tribuni della plebe avevano in antico il diritto di porre i loro scanni nel vestibolo per ascoltare le deliberazioni; quivi potevano stare anche i figli e i nipoti dei senatori, ma non altri cittadini. Persone estranee al senato erano ammesse solo in via eccezionale alle sedute, e lo stesso personale subalterno dei magistrati ne era dapprima escluso; poi si ammise la presenza di littori e scribi. Solo l'imperatore poteva farsi accompagnare in senato da persone al suo servizio e da ufficiali della guardia. Non solo le sedute non erano pubbliche, ma i senatori potevano anche essere richiesti di impegnarsi al segreto. Spettava al presidente nlantenere l'ordine nel locale dell'adunanza. In fondo all'aula, di fronte alla porta d'ingresso, si collocavano le sedie curuli dei magistrati o i banchi dei tribuni, se questi presiedevano; i senatori sedevano sui loro banchi disposti ai due lati della sala, lasciando in mezzo una corsia libera. Sotto la repubblica non v'erano posti fissi; v'erano invece sotto l'impero per i magistrati e forse per le varie classi di senatori. La disposizione dell'interno della Curia Julia fu riconosciuta di recente, quando ne fu restaurato l'edificio, che era stato convertito nella chiesa di S. Adriano (v. curia). Ciascun senatore parlava dal suo posto, non da una tribuna, alzandosi da sedere soltanto se teneva un discorso. La parola era assolutamente libera, anche se un senatore, richiesto del suo parere, usciva dall'argomento; e poiché chiunque poteva chiedere che si ponesse in deliberazione qualunque opinione o proposta affacciata in senato, i senatori supplivano per questa via al diritto di iniziativa e d'interpellanza che ad essi mancava. Non era imposto alcun limite di tempo agli oratori, i quali potevano, a scopo di ostruzionismo, tirare in lungo un discorso sino alla fine della seduta. Tuttavia, le buone tradizioni richiedevano agli oratori brevità e serietà. Augusto, dopo gli abusi degli ultimi tempi della repubblica, impose un regolamento in questo campo.

Nell'ordine del giorno si dava il primo posto alle questioni religiose; per le questioni profane, l'ordine era fissato dal presidente e l'assemblea poteva opporsi all'ordine da lui fissato solo in via indiretta, p. es., rifiutandosi di votare su una questione proposta. Il magistrato presidente aveva il diritto di referre, cioè di aprire la discussione, informando sulla questione che egli intendeva di sottoporre al senato, ma egli poteva prendere la parola in qualunque altro momento, non però interrompendo un senatore. Avevano inoltre diritto di parlare quando credevano tutti i magistrati, fino ai questori, e i promagistrati (questi potevano partecipare soltanto a sedute del senato tenute fuori del pomerio); essi non potevano però né formulare una loro sententia, né votare. Il principe invece votava, se non presiedeva. La seduta poteva cominciare, invece che con la relatio formale, con comunicazioni del presidente o fatte da altri dietro suo invito, orali o scritte; i senatori potevano allora chiedere con acclamazioni una formale relatio sull'argomento. Di qui si sviluppò la procedura per acclamazioni del senato imperiale. Relatio era appunto l'atto del magistrato che consultava il senato (senatum consulere), quantunque referre ad senatum indicasse originariamente, in correlazione a ferre ad populum, il richiedere per una deliberazione popolare l'auctoritas patrum. Essa consisteva nella posizione di una questione ed era un diritto esclusivo dei magistrati aventi la facoltà di convocare il senato; ma sotto l'impero si chiede l'assenso del principe alla relatio. Potevano referre, oltre al presidente, i magistrati a lui superiori, e la relatio del principe passava avanti a tutte le altre, anche se inviata per iscritto. Varî magistrati potevano fare una relatio in comune. La relatio poteva essere aut infinite de re publica aut de singulis rebus finite, cioè o sulla situazione politica generale o su una questione particolare. Il magistrato porgeva ai senatori le informazioni del caso (verba facit) o le faceva comunicare da altri e poi non proponeva una soluzione, ma chiedeva quid fieri placeret. Aveva luogo allora l'interrogazione verbale, fatta dal presidente (sententiam rogare), dei membri del senato quibus sententiam dicere licet, con la formula quid censes? e in ordine gerarchico (ordine consulere). Perciò aveva molta importanza il posto che un senatore occupava nell'ordine gerarchico, che si traduceva nel diritto di esporre prima o dopo gli altri il proprio parere e di preoccupare quindi più o meno le opinioni dei colleghi. L'ordine pare fosse originariamente quello delle gentes maiores e minores e per curie; poi sottentrò quello basato sulle magistrature rivestite. Venivano prima i consulares, e da una certa epoca fino a Silla precedevano fra essi i censorii, seguivano i praetorii e quindi gli aedilicii curules. Queste erano le tre categorie degli ex-magistrati curuli. Si aggiunsero poi le categorie degli aedilicii plebeii, dei tribunìcii e dei quaestorii. Entro alle varie classi avevano la precedenza i patrizî, e l'ordine era poi dato dall'anzianità di magistratura o dalla precedenza di proclamazione. Alla fine della repubblica, si cominciò a collocare certe persone in classi del senato, senza che esse avessero sostenuto le magistrature corrispondenti. Al primo posto della lista, posizione onorevolissima che dava il privilegio d'essere interrogato per primo, stava il princeps senatus, fino al 209 a. C. il più anziano dei censorii patrizî, poi uno di essi. Dopo Silla, invece, il presidente poteva cominciare a interrogare i consolari secondo l'ordine che a lui meglio piacesse; però, se erano presenti i magistrati designati, questi venivano interrogati prima degli altri ex-magistrati della stessa categoria, cioè, ad es., i consoli e i pretori designati prima dei consolari e dei pretorî. Il principe era collocato al primo posto nella lista del senato e di solito esprimeva il suo parere per primo o per ultimo. Il senatore interrogato proponeva una risoluzione, sententiam dicebat, di solito introdotta con placet mihi, motivandola come meglio credeva. L'interrogato poteva aderire a una proposta già fatta (adsentiri), anche senza esporre ragioni (verbo adsentiri): poteva anche proporre di rimandare la decisione (reiicere) o di non prenderne alcuna. Non poteva però rifiutare di rispondere; poteva essere richiesto di giurare di rispondere secondo coscienza. Spesso si leggevano proposte formulate per iscritto. La lunga procedura dell'appello nominale poteva essere sostituita dalla votazione immediata per discessionem sulla relatio del presidente, in quanto questa prospettasse una soluzione; ma questa procedura sommaria non poteva essere adottata che se tutti erano d'accordo; la richiesta consule, avanzata da un senatore, imponeva l'appello. La regola era che ogni senatore parlasse una sola volta e secondo il suo posto nella lista; ma si poteva chiedere di parlare fuori turno, di replicare, di rettificare e di interrogare, ciò che provocava delle altercationes.

Si passava quindi alla pronuntiatio sententiarum, cioè il presidente precisava e ordinava le proposte fatte. Egli poteva anche escluderne qualcuna. I senatori potevano domandare la divisio di una proposta complessa, cioè la votazione punto per punto. Veniva infine la votazione. Pare che un minimo di votanti fosse in generale richiesto per la validità delle votazioni e sappiamo di leggi che prescrivevano per certe deliberazioni un numero legale che variava dall'una all'altra; ma il numero legale era di solito presupposto, se un senatore non ne chiedeva la verifica dicendo: numera. Augusto, per combattere la infrequentia, rese obbligatoria la verifica del numero legale sempre. Non c'era obbligo di votare coerentemente alla propria sententia. Il voto, affermativo o negativo, si esprimeva silenziosamente, rimanendo o trasferendosi a destra o a sinistra del presidente quando questi invitava con le parole: Qui hoc censetis, illuc transite, qui alia omnia in hanc partem. Il voto segreto non fu adottato che in casi eccezionali sotto l'impero, per votazioni elettorali o di giurisdizione criminale. Il risultato veniva annunciato dal presidente con la formula: haec pars maior videtur.

La deliberazione del senato, quando non era auctoritas patrum, era un atto comune del magistrato e dell'assemblea e quindi, con particolare riguardo al primo, si chiamava più anticamente anche decretum, mentre poi prevalse il termine consultum (anche sententia), con maggior riguardo all'assemblea; il verbo è censere, ma rimase nell'uso anche decernere. Così si diceva più anticamente che il magistrato agiva de senatus sententia, poi ex senatus consulto, che suona come ex hac lege ed esprime quasi l'obbligo di seguire il consiglio. La designazione del senatoconsulto col nome dell'autore non ricorre che eccezionalmente dal sec. II d. C. Contro la patrum auctoritas non si intercedeva, bensì contro il senatoconsulto; quando questo era nullo per vizio di forma o per intercessione, si diceva senatits auctoritas. La decisione del senato veniva messa in scritto per cura del magistrato presidente subito dopo la fine della seduta e nello stesso locale, in presenza di almeno due testi che avessero partecipato alla votazione (di solito fra essi era il proponente della decisione) e che erano ricordati nell'atto (scribendo adfuerunt). Se il senatoconsulto si riferiva a stati greci, si stillava una versione ufficiale greca del testo latino. Il senatoconsulto era redatto secondo uno schema fisso, che subì però modificazioni sotto l'impero, e acquistava valore legale con la sua trasciizione in apposito registro dei questori urbani (ad aerarium deferre, in tabulas publicas referre); fino a una certa epoca, i senatoconsulti che interessavano i diritti della plebe venivano registrati anche dagli edili plebei nel tempio di Cerere. La comunicazione agli interessati, se del caso, veniva fatta o oralmente (p. es., ad ambasciate) o per iscritto dal magistrato. I magistrati presidenti solevano prendere sullo svolgimento delle sedute delle note, che essi però conservavano nelle loro case (commentarii magistratuum); tuttavia queste note sono dette anche tabulae publicae. Cesare, da console, nel 59 a. C., ordinò la redazione di verbali ufficiali delle sedute del senato destinati alla pubblicità e riprodotti dagli acta rerum urbanarum. Augusto soppresse questa pubblicità e invece un funzionario imperiale (curator actorum senatus, poi ab actis senatus) redigeva i verbali e li sottoponeva al principe. Il senato poteva però ordinare la pubblicazione parziale del resoconto di una seduta negli acta urbana. In seguito ai progressi della stenografia, questi resoconti divennero pressoché letterali.

Al senato patrizio erano riservate in età storica due funzioni. Una era di ratificare, dare pieno valore alle deliberazioni dell'aasemblea del populus (i deliberati della plebe non vi erano sottoposti), fossero esse leggi o elezioni o verdetti; questa ratifica dicevasi auctoritas (da augere, accrescere) patrum. La ratifica poteva anche precedere la votazione e una legge del dittatore Q. Publilio Filone, nel 339 a. C., ordinò che ciò avvenisse sempre per i progetti di legge da presentare ai comizî centuriati e una legge Menia del sec. III estese la prescrizione alle elezioni. Si evitavano così conflitti fra assemblea popolare e senato; ma l'istituto dell'auctoritas patrum decadde inoltre con l'affievolirsi del potere del patriziato nello stato. L'altra funzione del senato patrizio dipendeva dal principio che, se il magistrato veniva meno, il potere ritornava all'assemblea dei signori (auspicia ad patres redeunt). In tal caso dieci patres, scelti a sorte uno per decuria, esercitavano successivamente l'imperium ciascuno per cinque giorni, fino a che fosse stato creato un nuovo titolare dell'impero: essi si dicevano interreges e interregnum questa forma di governo eccezionale. Ma compito prevalente del senato fu in ogni tempo quello di dare il proprio parere se il magistrato lo richiedeva, parere che in teoria non era vincolante e che fino a epoca tarda era perciò accompagnato dalla formula si eis (ai magistrati) videretur. Il valore pratico di questo parere doveva nell'epoca regia dipendere soprattutto dalla personalità del re e dallo stato dei suoi rapporti col senato; di Tarquinio il Superbo si narrava che non convocò mai il senato. Ma quando alla monarchia vitalizia si sostituì il collegio di magistrati annui con diritto di intercessione reciproca, e la magistratura fu poi ancora indebolita con la moltiplicazione delle cariche, la limitazione delle competenze e il dualismo delle cariche patrizie e plebee, tuttociò condusse a una esaltazione del parere che il senato dava al magistrato. Quando poi l'entrata in senato cominciò a dipendere dalla gestione delle magistrature, il magistrato doveva considerare non solo che il parere del senato rappresentava l'opinione della maggioranza di un'assemblea composta di persone che nella pratica della cosa pubblica avevano acquistato una sicura competenza, ma che era inoltre nel suo stesso interesse che avesse il massimo di efficacia il parere di quel corpo, del quale egli stesso o si trovava già a far parte prima della sua elezione o si sarebbe trovato in seguito a far parte per tutto il resto della sua vita. Quando gli urti fra il senato e i magistrati divennero frequenti, l'oligarchia della nobiltà volse alla fine e fu sostituita da una nuova forma di governo. Così si spiega come gradatamente, e con un processo che nelle linee essenziali si era già compiuto all'inizio delle guerre puniche, il senato sia divenuto in Roma il vero e proprio ente di governo, con requisiti di stabilità, continuità, autorità e competenza che lo rendevano di gran lunga superiore ai magistrati transeunti.

Data la prevalenza della consuetudine nella pratica politica romana, è difficile tracciare con linee precise il processo di sovrapposizione del senato alle magistrature e i suoi risultati. Si può tuttavia dire in generale, che la tutela del senato non si esercitava sugli atti di ordinaria amministrazione spettanti al magistrato, sempreché l'intervento del senato non fosse in questo campo richiesto da superiori esigenze politiche o amministrative. Quindi il magistrato, in via normale, non doveva chiedere consiglio al senato sulla istruzione di un processo, o sul modo di mantenere la disciplina dell'esercito o sulla condotta tecnica delle operazioni militari. Se però il magistrato doveva compiere atti previsti dalla costituzione, ma di carattere straordinario, come la mobilitazione dell'esercito o il prelevamento del tributo, allora la consuetudine voleva che egli richiedesse il parere del senato. Il magistrato poteva non seguirlo, senza che l'atto compiuto fosse perciò privo di valore, ma ciò sarebbe stato sentito come una grave infrazione alle buone norme di governo.

Questa tutela del senato è indicata dalla parola auctoritas nella sua accezione più lata: cum potestas in populo, auctoritas in senatu sit (Cic., De leg., III, 28).

Importante funzione del senato era di discutere le proposte di legge da presentarsi al popolo o alla plebe. Anche gli atti religiosi straordinarî in genere (ammissione di nuove divinità, espiazione di prodigi, ecc.) esigevano il parere e l'assenso del senato. Nell'amministrazione della giustizia, il senato interveniva nella proclamazione dell'iustitium, nella ripartizione delle competenze civili e nel regolamento della giustizia criminale, specialmente per i processi non sottoposti a provocazione e per i delitti contro la sicurezza pubblica o che avevano ramificazioni oltre i confini del territorio romano. Parte preponderante aveva il senato nelle questioni militari. Esso dava il suo parere sulla mobilitazione dell'esercito e della flotta, fissava l'entità delle forze, concedeva l'arruolamento di volontarî, stabiliva, dal tempo della guerra annibalica, la forza dei contingenti da richiedere agli alleati, prescriveva le modalità degli arruolamenti, dei congedi, dell'impiego degli ufficiali, ecc. In questo campo l'autorità del senato fu limitata solo negli ultimi tempi della repubblica dalla crescente autonomia dei governatori delle provincie e dal ricorso dei capi popolari ai comizî, e infine il principe sottrasse al senato la formazione dell'esercito. Il senato determinava poi i teatri di guerra per gli eserciti consolari. Caio Gracco, con la sua legge sulle provincie consolari, regolò in questo campo l'intervento del senato, che cessò in seguito alle riforme di Silla; tuttavia il senato aveva il diritto di scegliere, fra le competenze fissate dalla legge, le due da assegnarsi ai consoli dopo spirato l'anno di carica, e inoltre di scegliere fra i titolari dell'imperium quello al quale affidare una guerra o di concedere a tale scopo l'imperium a un privato; questo campo fu poi infine invaso dai comizî. Dal tempo della guerra di Annibale, il senato si arrogò la facoltà di prorogare il comando di un magistrato, di creare comandi straordinarî determinandone la competenza e di ripartire fra i varî comandi le forze armate e i mezzi bellici. Anche i legati dei generali furono, sino a una certa epoca, scelti dal senato. Questo fu insomma il vero organizzatore dell'azione militare di Roma nell'epoca delle grandi conquiste, e questa sua attività costituì la base più forte del suo potere di fronte ai magistrati. Viceversa il senato non s'ingeriva nella condotta tecnica della guerra. I generali dovevano però informarlo sull'andamento delle operazioni e a esso spettava riconoscere i loro successi; nell'epoca più recente esso attribuiva il titolo di imperator, decretava le feste agli dei per la vittoria e influiva sulle concessioni del trionfo.

Il senato divenne presto arbitro delle finanze pubbliche di Roma. Esso era consultato così per l'accettazione di doni e eredità, come per acquisti e vendite per conto del popolo, e determinava l'utilizzazione fruttifera dei beni pubblici. La donazione di terre pubbliche era riservata al popolo, ma il senato veniva sentito; e dal suo assenso dipendevano concessioni revocabili di terreni e altre liberalità, come distribuzioni di grano, remissione di debiti, ecc. Per la percezione del tributo bisognava pure sentire il senato. Ma il controllo senatorio si impose soprattutto nel campo delle spese, poiché per ogni ordine di pagamento trasmesso all'erario, il magistrato richiedeva di solito l'assenso del senato e questo fissava le somme da mettere a disposizione dei varî magistrati. La sua ingerenza nell'amministrazione finanziaria si spingeva fino a ordinare ai censori di rifare i contratti, se questi non erano ritenuti equi per lo stato o per gli appaltatori. Anche la monetazione urbana dipendeva dal senato, che autorizzava la nomina dei magistrati monetarî; e Silla ne estese i poteri in questo campo. Gl'imperatori riconobbero i diritti del senato sull'erario pubblico, ma la cassa del principe divenne presto molto più importante. La monetazione aurea e argentea fu riservata al principe, la bronzea al senato.

Nella politica estera, il popolo interveniva solo approvando dichiarazioni di guerra e trattati di pace; essa era riservata al senato e i magistrati erano solo esecutori delle sue direttive. Esso riceveva le ambasciate degli statì alleati e non alleati; il magistrato trattava con gli stati nemici, ma spesso concedeva che le loro ambasciate ricorressero direttamente al senato, e questo in ogni caso stabiliva il trattamento da usare agli ambasciatori. Legati senatorî assistevano e sorvegliavano il magistrato, quando questi conchiudeva trattati internazionali, che non erano resi definitivi che in seguito alla loro approvazione in Roma da parte del senato o del senato e del popolo. I trattati conchiusi in Roma assumono senz'altro la forma del senatoconsulto. Anche in questo campo, quando il senato cominciò a perdere il controllo della politica estera, la fine del suo reggimento fu segnata.

In generale, quindi, tutti i magistrati, o direttamente o per mezzo dei consoli o dei pretori, chiedevano consiglio al senato per tutti gli atti non di ordinaria amministrazione da compiersi in Roma o nel territorio. Gli stessi tribuni finirono per rivolgersi al senato per chiedere istruzioni e ne divennero in genere strumenti come gli altri magistrati. Nessun campo della vita pubblica era così sottratto al suo controllo. Esso sorvegliava l'applicazione delle norme religiose agli atti pubblici, ciò che assunse presto notevole importanza politica; tutelava la purezza della religione nazionale e combatteva le superstizioni straniere; vigilava su comizî, assemblee popolari, feste, spettacoli, sulle associazioni, sulla vita nelle borgate e nei mercati del territorio. La concessione di onori particolari a cittadini vivi o morti dipendeva dal popolo e dal senato, e così pure l'approvazione di misure infamanti straordinarie; sotto il principato questa competenza del senato fu anzi estesa. Il senato aveva poi un alto potere di sorveglianza su tutte le comunità alleate e autonome dell'Italia e dell'impero, e giunse sino a intervenire con la forza nelle loro questioni interne. Esso convocava a Roma i loro capi o i loro rappresentanti per dare informazioni o ricevere ordini, decideva delle controversie fra di esse, dei loro reclami, le assisteva o chiedeva la loro assistenza in caso di bisogno; decideva sulle misure da prendere in caso di ribellione. L'ordinamento delle provincie poteva essere stabilito da leggi comiziali, ma di solito era opera del senato, che vi apportava anche le modificazioni del caso. Il senato non s'intrometteva negli atti di competenza del governatore, ma lo controllava coi suoi legati e poteva intervenire in caso di necessità in base al suo diritto di sorveglianza.

Il senato invitava a procedere alla nomina di magistrati straordinarî (p. es., del dittatore) e da una certa epoca decise di fatto la proroga delle magistrature, che in diritto spettava al popolo; poteva inoltre estendere la competenza dei magistrati. Dopo Silla, il senato nominò anche magistrati straordinarî e da Tiberio ebbe il diritto di nomina dei magistrati in rappresentanza del popolo. Il senato si arrogò negli ultimi tempi della repubblica il diritto di dichiarare nulle le leggi per vizio di forma. In caso urgente, esso poteva dispensare dall'osservanza delle leggi, salva la ratifica dei comizî. Dopo Silla, la dispensa venne concessa anche in casi non urgenti e senza ratifica popolare e invano i popolari cercarono di combattere questa usurpazione del senato, che si tradusse in un diritto di legiferare per casi particolari. Né mancano indizi che il senato abbia negli ultimi tempi della repubblica emanato anche disposizioni aventi carattere legislativo generale. Notevole importanza ebbe negli ultimi tempi della repubblica il diritto che il senato si arrogò di proclamare con il cosiddetto senatusconsultum ultimum lo stato di pericolo pubblico e di attribuire quindi ai consoli i pieni poteri militari che un tempo avevano i dittatori; i cittadini ritenuti pericolosi per la sicurezza dello stato venivano pareggiati a hostes e assoggettati cosi a misure di coercizione, senza possibilità di far valere il diritto di provocazione. Dopo aspri contrasti fra ottimati e popolari questa teoria finì per imporsi. La tendenza del senato a sostituirsi ai magistrati e al popolo si rivela nel fatto che, verso la fine della repubblica, negli atti pubblici e nell'uso comune, quando il senato e il popolo sono nominati, quello tende e finisce per occupare il primo posto: senatus populusque Romanus; e la formula divenne ufficiale sotto il principato e designa nel suo complesso lo stato valendo come soggetto di un verbo al singolare.

Cesare odiava il senato, roccaforte del governo oligarchico, e vi immise in copia senatori presi dalle classi sociali inferiori. Augusto valutò invece la grande forza storica e sociale che il senato rappresentava, ne rialzò la dignità epurandolo e gli assegnò funzioni importanti nel sistema di governo da lui fondato. Il senato, come rappresentante del popolo romano, è anzi teoricamente nel sistema del principato la fonte della legittimità e il depositario della sovranità: nella realtà i poteri del senato valgono sino a dove il principe crede di permettere il loro esercizio. Al senato del principato era affidata l'amministrazione ordinaria dello stato, ed esso governava quindi le provincie che si trovavano in condizioni normali e non richiedevano presidio di forze armate (provincie senatorie) e disponeva dell'erario pubblico alimentato dai redditi di queste provincie. Ma il principe aveva, in virtù dei suoi poteri, un diritto di alta sorveglianza anche sulle provincie senatorie e dopo pochi decennî la gestione dell'erario fu affidata a magistrati presi dal senato ma eletti dal principe (v. erario). La funzione di consigliere, essenziale per il senato repubblicano, passò in secondo ordine per la istituzione e il successivo sviluppo del consilium del principe, nel quale entravano pure non senatori. Anche la nomina o la deposizione del principe erano considerate legalmente come spettanti al senato; ma l'azione delle truppe, per quanto interpretata come espressione della volontà del popolo, era in questo campo decisiva. Il senato redigeva la lex curiata de imperio sui poteri del principe, che veniva poi presentata al popolo: ma era una formalità.

La preponderanza del principe sul senato si rivela anche rispetto ai nuovi poteri, che il principato attribuì al senato. Il potere elettorale fu trasferito al senato (più propriamente al senato e al popolo) da Tiberio e i risultati delle elezioni venivano poi pubblicati nei comizî tributi. Ma questa facoltà fu fin da principio limitata e resa illusoria dall'obbligo di presentare le liste dei candidati al principe, che poteva modificarle, e dal diritto di commendazione del principe stesso. E quindi il formale diritto di completarsi da sé, che risultava da questa facoltà, si tradusse in un potere di completare il senato esercitato dal principe, che poteva inoltre nominare senatori a suo arbitrio (adlectio) in virtù dei suoi poteri censorî. Nel campo legislativo, il senato ebbe ampliato il suo potere di legiferare sui casi singoli, ma non ebbe mai un diritto generale di legiferare; esso invitava, per mezzo di senatoconsulti, i magistrati giurisdicenti a osservare certe norme di diritto privato, e poiché i magistrati le adottavano, il senatoconsulto finì per essere considerato come una legge, ma i giuristi classici discussero sino al sec. II la legittimità di questa opinione. Ma anche in questo campo l'autorità del principe divenne soverchiante e dal sec. II il senatoconsulto non fu che l'approvazione di una proposta che il principe faceva leggere al senato dal suo questore e col sec. III le costituzioni imperiali ne prendono senz'altro il posto. Alla giurisdizione criminale straordinaria del senato si sottoposero casi gravi ed eccezionali, che esso giudicava con grande larghezza di poteri, ma sempre con l'assenso del principe. Anche le decisioni in appello delle cause civili passarono sempre più largamente al principe; e il complesso della giurisdizione senatoria fu poi limitato dai crescenti poteri giurisdizionali del praefectus urbi e del prefetto del pretorio.

Ma di fronte a queste estensioni di poteri, stava la totale esclusione del senato dalla politica estera, la cui direzione fu assunta dal principe, e la quasi totale eliminazione dalla formazione dell'esercito e dall'amministrazione finanziaria, cioè da quelle attività che avevano costituito le basi della potenza del senato repubblicano. Il senato si ridusse così più che altro a un corpo, al quale il principe comunicava gli affari dello stato, dei quali egli credeva di far partecipe la pubblica opinione, e che il senato divulgava per mezzo degli acta. I tentativi dei migliori imperatori di valersi seriamente della collaborazione del senato urtarono contro l'intima natura autocratica del sistema del principato e l'attività del senato divenne sempre più di carattere formale.

Già nell'età repubblicana il senato era un ordo che tendeva a essere di fatto ereditario. Col principato lo divenne di diritto, poiché i figli dei senatori avevano l'obbligo di presentarsi alle magistrature: l'ordo comprendeva i senatori e i loro discendenti agnatizî fino al terzo grado e a tutti i suoi membri e alle loro donne spettava il titolo di clarissimus. I senatori erano immuni dalle gravi prestazioni municipali. Anche dopo la crisi del sec. III e lo stabilirsi dell'autocrazia assoluta, il lustro del senato (amplissimus, splendidissimus senatus) si conservò, i suoi diritti formali non furono in genere menomati, ed esso era considerato accanto all'imperatore come detentore di potere sovrano. I secoli IV e V conobbero ancora episodi di energia da parte del senato; e Teodosio II e Valentiniano III decisero che le costituzioni imperiali dovessero essere comunicate al senato per avere valore generale e fecero partecipare il senato, accanto al consilium principis, alla redazione delle leggi. L'importanza sociale dell'ordine senatorio era sempre grandissima; ma in linea generale il senato fu in quest'epoca ancor più impotente di fronte all'imperatore e il linguaggio dei suoi atti è l'espressione di questa impotenza e della più profonda servilità. Costantino creò, accanto a quello di Roma, un senato di Costantinopoli, che dapprima aveva grado inferiore a quello di Roma, ma finì poi per essere a quello pareggiato. V'erano due categorie di senatori, gli effettivi, che partecipavano alle sedute e votavano, e gli onorarî; molti di essi abitavano lontano dalla capitale. I senatori appartenevano all'ordine o per nascita, o per nomina imperiale o di diritto, per aver rivestito certi uffici. Quindi il numero dei senatori nell'epoca tarda era grande; ne contava circa 2000 il senato di Costantinopoli verso la fine del sec. IV. I senatori erano sottoposti a un foro particolare e godevano di importanti privilegi fiscali, ma dovevano anche sopportare gravi pesi, dai quali però potevano essere esentati per concessione speciale all'atto della nomina: tuttavia l'onore del laticlavio era molto ambito. Essi erano divisi in tre classi: illustres, spectabiles, clarissimi, dei quali solo i primi votavano. La presidenza del senato era di solito tenuta dal praefectus urbi, se non era presente un funzionario di grado più elevato.

Così visse e si trasformò per più di un millennio questo consesso illustre, che esercitò sulla storia del mondo un'influenza, alla quale quella di nessun altro consesso potrebbe essere paragonata. Ciò spiega l'immenso prestigio del quale godette presso i contemporanei e presso i posteri e il lustro del quale continuò a godere, anche quando la sua funzione si ridusse alla rappresentanza passiva delle alte classi dell'Impero di fronte all'autocrazia.

Bibl.: Opere fondamentali: Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, III, ii, Lipsia 1888 (traduzione francese Le droit public romain, VII, Parigi 1891), e P. Willems, Le sénat de la république romaine, 2ª ed., Parigi 1885 (cfr. anche Musée Belge, 1902). V. inoltre: M. G. Bloch, Les origines du sénat romain, Parigi 1883; Ch. Lécrivain, art. Senatus, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités, IV, p. 1184; E. Herzog, Geschichte und System der röm. Staatsverfassung, Lipsia 1884, I, pp. 83, 868; II, p. 860; O. Karlowa, Röm. Rechtsgeschichte, I, Lipsia 1885, pp. 40, 355, 517, 888; P. De Francisci, Storia del diritto romano, Roma 1926-29, I, pp. 132, 263; II, pp. 220, 269; Ch. Lécrivain, Le sénat Romain depuis Dioclétien, Parigi 1888; O'Brien Moore, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., Suppl. VI, 1935, col. 660.

Dalla metà del sec. VI alla metà del sec. XIX.

I ricordi di un'attività del senato romano dopo la ricostituzione fattane da Giustiniano sono molto scarsi. Si vedono i senatori opporsi, insieme col popolo di Roma, al papa Pelagio I, probabilmente a causa della controversia religiosa relativa ai tre capitoli; più tardi, nel 580, quando i Longobardi minacciano le ultime provincie rimaste in Italia sotto la dominazione romana, il senato e il clero di Roma mandano una deputazione a Costantinopoli per chiedere soccorso all'imperatore Tiberio; nel 603 il senato e il popolo romano accolgono solennemente le immagini dell'imperatore Foca e dell'imperatrice Leonzia mandate da Costantinopoli all'antica capitale dell'lmpero. Dopo questa attestazione c'è una lunga lacuna nelle fonti che dura un secolo e mezzo, ciò che ha dato luogo a supporre che il senato fosse totalmente spento, ipotesi che s'appoggia ad alcune asserzioni enfatiche contenute nelle lettere del papa San Gregorio Magno, il quale esclama: "dove è il senato, dove il popolo? Manca il senato, il popolo è perito". Altri, però, ha autorevolmente obiettato che il ricordo relativo all'imperatore Foca è posteriore al passo di S. Gregorio; d'altra parte, un'attività del senato è ricordata nelle fonti giuridiche dei secoli VIII e IX, come la Summa Perusina e il cosiddetto Constituto di Costantino. Più tardi i senatori sono ricordati dal papa Giovanni VIII (872-882) e nel patto fra i Romani e il papa Giovanni X di poco anteriore al 915 per la lotta contro i Saraceni. Si può quindi ritenere, secondo l'opinione espressa da P. Fedele, che il senato abbia realmente sopravvissuto anche nei tempi più tristi.

È ben difficile, però, stabilire quali lineamenti precisi avesse l'istituto, tanto più che anche a Costantinopoli, dove esso si mantiene vigoroso e ha una notevole influenza sugli affari politici, non ha una fisonomia ben determinata, ma ha, in certi casi, funzioni puramente rappresentative; in altri, consultive; in altri, funzioni di corpo sovrano. Si può ritenere che si trattasse di riunioni dei capi della nobiltà romana, che si facevano nella chiesa di S. Martina, che occupa il posto del Secretarium senatus, cioè della cancelleria dell'antica assemblea senatoria dei tempi romani. Il pontefice Paolo I, scrivendo al re Pipino verso la fine del sec. VIII, parla infatti del clero romano, del cunctus procerum senatus e della diversa populi congregatio, ciò che corrisponde a quanto scrive nell'898 il sinodo di Ravenna. Questa riunione di proceres aveva parte nell'elezione del pontefice, esercitava una limitata funzione legislativa con l'assenso del pontefice stesso, e prendeva disposizioni relative al buon andamento della vita della città, per i commerci, il mercato, ecc. Più tardi, nel sec. X, quando a capo della città sta spesso un solo e potente dominatore, questi prende il titolo (come avviene di Alberico I e di Alberico II) di princeps et senator omnium Romanorum; anche la celebre Marozia si chiama senatrix Romanorum. Esclude ciò la presenza del consesso senatorio? È difficile dirlo, ma è probabile che questi principi non dividessero il potere con alcuno. Quanto ai Crescenzî, è soltanto alla venuta di Ottone III, quando il potere del secondo Crescenzio impallidisce, che una fonte (la Vita Adalberti) ci parla dei Romani proceres e del senatorius ordo, che inviano messi al giovane imperatore. L'ordo senatus è poi ricordato saltuariamente nel sec. XI e nella prima metà del sec. XII e, di certo, si riferisce sempre a riunioni della nobiltà romana.

Un aspetto del tutto differente prende il senato di Roma dopo che il papa Innocenzo II entrò in discordia con i Romani, per il possesso di Tivoli, conquistato con armi comuni. I Romani presero allora d'assalto il Campidoglio e ricostituirono, secondo la narrazione dei cronisti, il senato. Sembra che questa ricostituzione avvenisse subito dopo la morte d'Innocenzo II (1143). Lucio II tentò di riconquistare il Campidoglio, ma il popolo lo respinse ed egli rimase ferito nella mischia. Il senato è a capo del comune di Roma, il quale si costituisce contro l'alta nobiltà. I senatori sono nominati, anno per anno, da un'assemblea che dovette corrispondere all'arengo o alla concio delle città dell'Italia settentrionale e centrale. Il numero varia intorno ai 50; sembra che si fosse fissato un massimo di 56, fra i quali dieci avevano le funzioni di consiliarii e con esse la direzione degli affari comunali. Nel senato si riunivano, fin che esso durò, il potere amministrativo, giudiziario, finanziario sulla città. Il senato batte moneta, regola i pesi e le misure, restaura le mura e i ponti, amministra la giustizia civile e criminale; ha una cancelleria e i suoi archivî sono custoditi nell'arce capitolina. Esso non esercitava però questo potere in modo assoluto, ma negli affari importanti doveva avere l'assenso del consiglio e in certi casi anche dell'assemblea generale o parlamento del popolo romano.

I rapporti del senato con la potestà sovrana del pontefice non furono molto facili, data la tendenza che i senatori avevano d'arrogarsi ogni potere sull'Urbe. Il movimento, che porta alla formazione del senato, s'appoggia agli artigiani, e difatti vediamo alcuni di questi prender posto fra i senatori. Si tratta dunque, per quei tempi, d'un movimento di carattere rivoluzionario, ciò che è confermato anche dai legami che pare esso avesse con Arnaldo da Brescia, nel periodo nel quale questo celebre agitatore eccitava la plebe romana, con le sue infiammate allocuzioni contro il papato e l'impero. Le controversie fra il pontefice e il senato per la giurisdizione, il diritto di coniar monete e altri punti, furon sopite nel 1188, mediante un trattato che riconosceva la sovranità pontificia. Il senato, però, va decadendo per le discordie interne della città. Col 1191 si nomina, per un triennio, un senatore solo; poi nel 1194-95 è ristabilito il senato di 56 membri e altrettanto avviene nel 1203-04. Sembra però che il pontefice Innocenzo III, nel concedere questa rinnovazione, predicesse che tanti capi avrebbero male amministrata la città. Nel 1204 troviamo di nuovo un solo senatore nominato dal papa e ciò avviene, pare, per richiesta del popolo; tale sistema continua d'allora in poi con il solo mutamento che, in certi periodi, anziché uno, ne troviamo due. I rapporti fra la Santa Sede e questi senatori furono regolati da Nicolò III con la sua costituzione del 18 luglio 1278. Da allora la magistratura del senatore unico e dei senatori di nomina papale alternantesi o affiancata con magistrature di nomina popolare (tribuni, riformatori, banderesi, conservatori, ecc.) durò fino al sec. XIX, sebbene dalla metà del 1400 in poi, quando cioè si affermò saldamente il dominio del pontefice sulla città di Roma, essa fosse scaduta da ogni effettiva autorità.

Di tutt'altra natura è il senato veneziano che si forma, secondo la tradizione più sicura, nei primi tempi del reggimento del doge Iacopo Tiepolo, e forse nel 1229. Si tratta di un consiglio che si chiama secondo l'originaria terminologia "consiglio de' pregadi", oppure "consilium rogatorum" (v. pregadi), formato da 60 persone, numero che resta invariato sino alla metà del sec. XIV. La proposta era fatta da elettori scelti in seno al maggior consiglio e la nomina spettava a questo corpo. Le necessità molteplici dello stato veneziano, che man mano s'accrebbe coi vasti possessi nel Levante e con le provincie della Dalmazia, dell'Istria, del Veneto e della Lombardia, le continue guerre, le trattative diplomatiche, spesso delicatissime, con tutte le potenze d'oriente e d'occidente, resero necessario sottrarre via via al maggior consiglio la trattazione di molti affari, perché corpo troppo vasto e di necessità spesso tumultuoso.

Il consiglio dei pregadi o senato si prestava molto meglio a queste trattazioni; perciò vi è la continua tendenza da un lato ad aumentarne la competenza, dall'altro a rinforzarne la composizione. Ne facevano parte sin dall'origine, e ne costituivano l'elemento direttivo, il doge e il suo consiglio; ma poi vi entrano man mano gli avogadori del comune e le quarantie, supreme magistrature venete, i tre ordini di savî che costituiscono il potere esecutivo della repubblica, il consiglio dei dieci e numerosissimi altri magistrati. Oltre di che si rinforzano i pregadi ordinarî con la "zonta" che ne raddoppia il numero. Così verso il 1500 esso abbraccia circa trecento persone.

La competenza era già nell'origine giudiziaria e politica. Esso era tribunale supremo in materia amministrativa, ricevendo gli appelli dalle decisioni degli avogadori e d'altre magistrature, ma la competenza politica era assai più importante giacché al senato erano demandati i rapporti con le potenze straniere e con le provincie suddite. Questo potere era esercitato secondo le direttive del maggior consiglio, ma il senato provvedeva d'urgenza, di per sé, quando ce ne fosse il bisogno. Un po' alla volta la potenza del senato si estende anche alla materia militare, all'amministrativa, alla finanziaria e così, come ci dice nel secolo XVI il Sanudo, appare il corpo "el qual governa lo stato nostro". Particolare importanza ha l'azione del senato nella materia del commercio e della navigazione, nella quale già sin dal sec. XIV, il maggior consiglio gli aveva riconosciuta la potestà di legiferare. La nomina dei pregadi o senatori è prerogativa del maggior consiglio, che però l'esercita, come avviene in tutte le magistrature venete, per mezzo di elettori ai quali vien deferito il potere di proporre i nomi dei candidati. La nomina è temporanea: per i pregadi ordinarî e per la giunta ha la durata di un anno; per gli altri dura quanto la carica, ma sul finire della repubblica si limita in ogni caso a tre anni. Facevano eccezione soltanto, oltre al doge, i procuratori di S. Marco che appartenevano di diritto al senato, per tutta la vita.

Soltanto il doge, i consiglieri e i capi delle tre quarantie avevano diritto d'iniziativa dinnanzi al senato. Il senato, per attendere alla sua multiforme attività, nominava nel suo seno magistrature speciali alle quali affidava particolari mansioni; tale è il caso dei provveditori sulle fortezze, sull'arsenale, sui beni incolti, sulla vendita dei beni comunali, sugli olî, sui varî dazî, ecc.

Il senato veneziano dura fino alla caduta della repubblica nel 1797, e rimane sempre, durante i secoli XIV-XVIII il corpo nel quale s'accentrano i maggiori poteri della repubblica.

Non molto dissimili da questi sono i senati che si trovano in alcuni comuni italiani, quale quello istituito da papa Giulio II a Bologna nel 1506 su basi aristocratiche, quello di Pisa e altri. Il senato di Lucca era piuttosto rispondente a un consiglio maggiore; da esso si estraeva, ogni sei mesi, il consiglio minore che assisteva i cap del comune nel governo.

D'altra natura sono i senati che troviamo nel Milanese e negli stati della casa di Savoia dalla fine del sec. XV in poi. Essi sorsero a imitazione dei parlamenti del regno di Francia, corpi di carattere più amministrativo che politico, che avevano funzioni giudiziarie e poteri di verifica delle ordinanze regie che loro spettava di registrare. Quando il Milanese fu occupato dai Francesi, il consiglio segreto e il consiglio di giustizia del duca di Milano, che talvolta già erano stati designati col nome di senato, si fusero e ne sorse, nel 1499, il senato dello stato di Milano.

Quello del Piemonte, residente a Torino, ebbe origine invece più tardi da un ampliamento di quello formato nel 1512 dal duca di Milano, per la contea d'Asti, quando tale contea fu incorporata nei dominî della casa di Savoia.

Il senato milanese aveva attribuzioni giudiziarie, giudicava le cause dei feudatarî ed era sede d'appello nelle cause criminali di maggiore importanza. Oltre di che, aveva le importanti funzioni di registrazione degli atti del potere regio, atto che chiamavasi "interinazione" e che permetteva al senato di esaminare l'atto e di presentare osservazioni al sovrano se esso aveva irregolarità o contraddiceva ad altri diritti. I sovrani spagnoli non consentirono però l'esercizio di un tale potere, se non con estrema difficoltà, in particolare per ciò che riguardava privilegi o concessioni, da essi largiti, spesso, a detrimento dei diritti dello stato o della popolazione. Particolare importanza ebbe per questo una costituzione emanata nel 1581 dal re Filippo II, che limitò grandemente l'esercizio del diritto di rimostranza. Il senato era composto da 15 membri, compreso il presidente.

Anche il senato piemontese ebbe potestà giudiziaria ma particolare importanza vi assunse il diritto di "interinazione", per il quale il collegio, udito il parere del magistrato fiscale, esaminava maturamente l'atto sovrano e poi, ove non offrisse materia d'osservazioni, lo "ammetteva e approvava", ordinandone l'osservanza e facendolo trascrivere negli appositi registri. Il diritto d'interinazione fu sostenuto dal senato piemontese con molta fermezza, anche quando ciò portò a conflitti con la corona. Avvenne così, ad esempio, che a proposito della interinazione d'un regio editto, venuto il senato a conflitto col re Vittorio Amedeo II, principe genialissimo, ma talvolta bizzarro, come lo dimostrò la sua tragica fine, il presidente fu mandato a confino e alcuni senatori sospesi dalle loro funzioni. Questo diritto d'esame dei provvedimenti governativi da parte del senato piemontese dà una particolare fisonomia al diritto pubblico della monarchia di Savoia; esso fu elaborato sistematicamente da giuristi piemontesi nei secoli XVII-XVIII. Le decisioni principali del senato della Savoia, che risiedeva a Chambéry, furono invece raccolte e dottamente commentate dal celebre giureconsulto savoiardo Antonio Fabro (1557-1624).

I senati della monarchia sabauda furono ristabiliti dopo il 1814. Essi, però, avevano ormai esaurito il loro compito e non mancarono vivaci critiche alle opposizioni che essi tentarono di fare a qualche parte dell'opera riformatrice del re Carlo Alberto. Furono poi soppressi nel rinnovamento dell'amministrazione dello stato avvenuto nel 1848.

Bibl.: Senato di Roma: A. Parravicini, Il Senato romano dal sec. VI al XII, Roma 1901; L. Halphen, Études sur l'administration de Rome au Moyen Âge, Parigi 1907; F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, Roma 1910, II-III; P. Fedele, Sul Senato romano nel Medioevo, in Résumés des communications présentées au congrès international de sciences historiques, Varsavia 1933, I, p. 90. Senato veneziano: E. Besta, Senato veneziano, Venezia 1899; G. Maranini, La costituzione di Venezia, Venezia 1927-32. Senati di comuni in genere: A. Pertile, Storia del diritto italiano, II, Torino 1898, pp. 1-2. Senati di Milano e della monarchia piemontese: F. Sclopis, Storia della legislazione italiana, II, ii, e III, i, Torino 1863-64; P. Del Giudice, I consigli ducali e il Senato di Milano, Milano 1899; A. Lattes, Interinazione degli editti, Torino 1908; A. Visconti, La pubblica amministrazione nello stato milanese, Roma 1913.

Diritto pubblico vigente.

Nell'ordinamento italiano la funzione legislativa in senso formale viene esercitata collettivamente dal re e da due camere (art. 3 statuto). Come in tutte le costituzioni, che organizzano un regime rappresentativo e hanno accolto il sistema bicamerale, anche nella costituzione italiana una camera, che è la camera dei deputati, proviene direttamente dal corpo elettorale e costituisce, per questa sua origine, l'organo rappresentativo del popolo; l'altra camera, invece, è formata con diverso sistema e non ha, per questo motivo, funzioni di rappresentanza popolare in senso proprio. Questa seconda camera è designata comunemente come camera alta e nello statuto è detta senato.

Nell'ordinamento italiano il sistema bicamerale venne introdotto per imitazione della costituzione francese del 14 agosto 1830, che il consiglio di conferenza del 7 febbraio 1848 aveva deciso di prendere a modello del nuovo ordinamento dello stato piemontese che si voleva attuare. In quella adunanza del consiglio fu approvato all'unanimità l'art. 6 del proclama da pubblicarsi nel giorno seguente e quest'articolo divenne poi l'art. 3 dello statuto. Però, se questo sistema storicamente deriva dalla carta francese del 1830 e attraverso a questa dall'ordinamento inglese, razionalmente si suole appoggiare a considerazioni intrinseche, che valgono, in genere, per tutti gli stati a regime rappresentativo.

Il sistema bicamerale si ispira, anzitutto, a un concetto di equilibrio politico, alla necessità di introdurre nell'organizzazione dello stato un elemento moderatore di fronte alla camera elettiva troppo sensibile alle passioni popolari e inoltre alla maggiore ponderazione e perfezione, con cui si compie il lavoro legislativo, quando le leggi debbano passare attraverso l'esame di due distinte assemblee. Negli stati federali l'esistenza della camera alta dipende da un altro motivo: mentre la camera bassa è l'organo rappresentativo del popolo della federazione, la camera alta ha la funzione di rappresentare gli stati federati, dai quali è costituito lo stato federale (esempio: Stati Uniti, Svizzera).

Però, se questi sono i motivi che spiegano, da un punto di vista razionale e politico, l'istituzione o la conservazione di una camera alta a fianco della camera popolare nei moderni ordinamenti rappresentativi, ben diverso, invece, è il motivo che ha dato origine in Inghilterra alla camera alta e al sistema bicamerale, che poi divennero il modello sul quale i moderni ordinamenti hanno organizzato gli istituti parlamentari. In Inghilterra venivano convocati dal re nel gran consiglio non solo i membri dell'alta aristocrazia, i lord spirituali e temporali, ma anche i rappresentanti dei comuni e delle contee. Ma in progresso di tempo, per la diversità degl'interessi rispettivi, i rappresentanti dei comuni e i cavalieri delle contee incominciarono a raccogliersi separatamente dai lord, finché costituirono un'assemblea propria, distinta da quella in cui si adunavano i membri dell'alta nobiltà. Si formarono così le due camere del parlamento inglese. La camera alta si formò per separazione dal gran consiglio della camera dei comuni. Il processo di separazione si può dire compiuto verso la fine del sec. XIV. Solo l'Ungheria, fra gli stati moderni che hanno adottato il sistema bicamerale, ha formato la camera alta con un procedimento analogo a quello che si è avuto in Inghilterra. L'Ungheria aveva un consilium regium, che era consilium praelatorum et baronum. Anche gli altri abitanti del regno, distinti secondo i ceti e ordini, furono poi invitati a mandare rappresentanti alla dieta. Questi costituirono una camera, o, come si chiamò, una "tavola" (Tabula Regnicolarum, seu Statuum et Ordinum), e il consilium regium divenne allora la tavola o camera alta, la camera dei magnati (Tabula Procerum seu Praelatorum Baronum et Magnatum). La divisione della dieta in due camere o tavole fu riconosciuta definitivamente con disposizione del 1608.

Nella carta francese del 1830, come già in quella del 1814, la camera alta era chiamata "camera dei pari"; ma il consiglio di conferenza nella seduta del 2 marzo 1848 decise di abbandonare quella denominazione come "punto conveniente" e contrastante coi principî di uguaglianza giuridica, in base ai quali veniva organizzato il nuovo stato, e stabilì che la camera alta si chiamasse "senato". Con lettere patenti del 4 marzo 1848 il re dispose che le corti superiori, le quali fino dal tempo di Emanuele Filiberto si chiamavano senati, si chiamassero magistrati d'appello.

I sistemi per formare la camera alta sono diversi: v'è il sistema ereditario e quello della nomina da parte del capo dello stato; v'è il sistema elettivo; vi sono anche sistemi misti. Quando la camera alta è formata per mezzo di elezioni, l'ordinamento elettorale per la camera alta è diverso, di regola, da quello della camera popolare, di guisa che la camera alta, quantunque formata con sistema elettivo, non acquista mai il carattere di organo rappresentativo del popolo.

La camera alta più antica, come fu accennato, è quella inglese dei lord. È formata col sistema ereditario: il primogenito di un pari, alla morte del padre, eredita col titolo nobiliare anche il diritto di far parte della camera dei lord come consigliere della corona. Fanno parte però della camera dei lord anche dei pari non ereditarî: i sedici pari scozzesi e i ventotto pari irlandesi rispettivamente eletti, i primi per la durata di una legislatura, i secondi a vita, dall'intero corpo dei pari di Scozia e d'Irlanda; i lord ecclesiastici, rappresentanti della Chiesa anglicana di stato; i sei lord giudiziarî nominati a vita. Dopo la costituzione dello Stato Libero d' Irlanda, avvenuta nel 1922, non si ebbero più elezioni di pari irlandesi. In nessun altro degli stati moderni la camera alta è formata col sistema ereditario; però, la camera ungherese dei magnati, secondo la legge pubblicata il 15 novembre 1926 che l'ha riorganizzata, non solo comprende come membri di diritto i membri della famiglia Asburgo-Lorena, che hanno residenza stabile nel regno e vi posseggono beni immobili per i quali pagano non meno di una data somma a titolo di imposta, ma comprende anche trentotto rappresentanti dell'alta nobiltà eletti dai membri delle famiglie di principi, conti e baroni, che in base a una legge del 1885 sedevano nella camera dei magnati per diritto ereditario.

Fra gli stati nei quali il senato si forma col sistema elettivo ricordiamo la Francia e il Belgio. In Francia la prima costituzione, che ha creato una camera alta e ha introdotto il sistema bicamerale, è quella dell'anno III. In questa costituzione la camera alta è il consiglio degli anziani e la camera bassa il consiglio dei cinquecento (art. 44); però, tanto l'uno quanto l'altro consiglio si formavano con lo stesso sistema di elezione. Secondo la carta del 1814 i membri della camera alta, detta camera dei pari, sono nominati dal re in numero illimitato. In base agli articoli 3 e 4 dell'atto addizionale del 1815 la camera dei pari era ereditaria e i pari erano nominati dall'imperatore senza limite di numero. La legge 29 dicembre 1831 soppresse l'ereditarietà della paria e attribuì al re la nomina dei pari, la quale, però, doveva essere fatta entro alcune determinate categorie di persone. Attualmente, in base alla legge 9 dicembre 1884, che ha sostituito la legge costituzionale del 24 febbraio 1875, i membri della camera alta o senato sono eletti in ogni dipartimento da un corpo elettorale formato dai deputati e dai consiglieri generali e circondariali del dipartimento, ai quali si aggiungono i delegati dei consigli municipali, nominati da ciascun consiglio municipale del dipartimento in proporzione al numero dei proprî consiglieri. Nel Belgio, in seguito alla riforma costituzionale del 1921, i senatori sono eletti per provincia. In ogni provincia parte dei senatori sono scelti direttamente dagli stessi elettori politici dell'altra camera fra gli appartenenti a determinate categorie di persone; parte sono scelti dai consigli provinciali nella proporzione di un senatore per 200.000 abitanti; e parte sono nominati per cooptazione da questi due gruppi di senatori.

Il senato italiano si compone di membri nominati a vita dal re. Fanno parte del senato anche alcuni membri di diritto: sono i principi della famiglia reale, cioè tutti i parenti maschi legittimi del re fino al decimo grado civile, i quali fanno parte del senato per diritto di nascita appena raggiunta la maggiore età, ma non vi hanno voto che a venticinque anni.

Le nomine dei senatori sono fatte con decreto reale previa deliberazione del consiglio dei ministri (art. 2 r. decr. 14 novembre 1901, n. 466). Il decreto di nomina è esente dal visto e dalla registrazione della corte dei conti (r. decr. 27 luglio 1934, n. 1332), ma la nomina non diviene perfetta e non acquista efficacia se non dopo che è stata convalidata dal senato stesso (art. 60 stat.) e il nominato ha prestato giuramento di fedeltà al re e alle leggi (art. 49 stat.). Il numero dei senatori è illimitato. La facoltà della Corona di nominare senatori quanti ne reputi opportuno è considerata come un mezzo per dirimere un eventuale conflitto fra il senato, da una parte, e il governo e la camera dei deputati, dall'altra, procurando al governo la necessaria maggioranza. È un mezzo però non scevro di pericoli e nella storia costituzionale italiana non se ne hanno esempî.

Come condizione per essere nominato senatore lo statuto (art. 33) pone l'età di quarant'anni compiuti. Nei primi tempi della vita costituzionale dello stato fu ritenuta tuttavia valida la nomina a senatore anche di persone prossime a quel limite, le quali furono ammesse in senato ma non al voto, finché non avessero raggiunta l'età prescritta. Nessun dubbio, poi, che la cittadinanza e la piena capacità giuridica di diritto pubblico - che sono requisiti espressi per l'elezione a deputato (art. 40) - siano requisiti necessarî per la nomina a senatore e motivi di decadenza se venissero a mancare, anche se lo statuto non vi accenni. Non possono quindi essere nominati senatori gl'interdetti e gl'inabilitati e quanti siano incorsi in condanne che importino interdizione dai pubblici uffici o producano l'ineleggibilità alla camera dei deputati; né possono far parte del senato le donne. Per la nomina a senatore è necessario, inoltre, appartenere a una delle categorie indicate nell'art. 33 dello statuto, le quali comprendono: gli arcivescovi e vescovi delle diocesi del regno; gli alti funzionarî dello stato sia nel governo sia nell'amministrazione (compresi i governatori delle colonie per la legge 18 giugno 1925, n. 987), nella magistratura e nelle forze armate; i rappresentanti dell'alta cultura quelli che hanno illustrato la patria con servizî e meriti eminenti; che hanno esercitato particolari cariche pubbliche elettive; o che pagano una data somma d'imposte come proprietarî fondiarî o industriali.

Il senato, come la camera dei deputati, non ha propria personalità giuridica, ma è organo dello stato; però, per la sua posizione di organo costituzionale è indipendente di fronte agli altri organi statali e gode di autonomia, la quale si manifesta specialmente nella facoltà di determinare per mezzo di regolamento interno il modo di esercizio delle sue funzioni (art. 60). Anche l'organizzazione del senato è in massima parte determinata dalle norme del regolamento interno.

Il presidente e i vicepresidenti sono nominati con decreto reale (art. 35). Con la XXV legislatura il senato incominciò a designare mediante votazione le persone da nominarsi, in attuazione di una disposizione, che era stata introdotta dal senato stesso nel regolamento interno; tale designazione venne abolita con deliberazione 1° giugno 1933. I questori, in numero di due, e i segretarî, in numero di sei, sono nominati dal senato. L'ufficio di presidenza si rinnova ogni sessione. Il senato per i suoi lavori si divide, per estrazione a sorte, in sette uffici, che si rinnovano ogni anno, e nomina in principio di ogni sessione alcune commissioni permanenti o temporanee variamente costituite. Per l'art. 50 dello statuto le funzioni di senatore (come quelle di deputato) non dànno luogo ad alcuna retribuzione o indennità. Ma da qualche tempo però un'indennità è corrisposta (v. parlamento, XXVI, p. 371).

I senatori godono di prerogative (v. anche immunità: Immunità parlamentari; privilegio: Diritto pubblico). Queste, però, non sono concesse nell'interesse personale dei senatori, ma come guarentige dell'indipendenza e autonomia del senato, per cui i senatori non vi possono rinunciare. L'art. 51 dello statuto concede ai senatori la prerogativa dell'insindacabilità per ragione delle opinioni emesse e dei voti dati in senato. Ciò importa che delle manifestazioni di opinioni e voti fatte nell'esercizio delle loro funzioni in senato essi non rispondono né penalmente, quando la manifestazione potrebbe costituire un reato, né civilmente, per il danno che potrebbe essere arrecato ad altri, né disciplinarmente, nel caso che il senatore sia pubblico impiegato. L'art. 37 dello statuto concede la prerogativa, cosiddetta, del foro senatorio. I senatori, per quanto riguarda la giustizia penale, sono sottratti alla giurisdizione dei tribunali ordinarî e a quella di tribunali speciali o anche eccezionali e dipendono esclusivamente da un foro speciale costituito dallo stesso senato riunito in alta corte di giustizia. Per questa prerogativa non solo spetta al senato di giudicare i senatori per i delitti o le contravvenzioni che abbiano commesso, ma i senatori possono essere arrestati solo in forza di un ordine del senato, salvo il caso di flagrante reato (cod. proc. pen. art. 237); come pure, solo a richiesta del senato si può procedere a visite e perquisizioni domiciliari presso i senatori a scopo d'istruttoria penale per reati da loro commessi.

Nell'esercizio della funzione legislativa il senato e la camera dei deputati hanno gli stessi poteri, fatta eccezione per le leggi di imposizione dei tributi e per quelle di approvazione dei bilanci di previsione e dei conti consuntivi dello stato, i cui progetti debbono dal governo essere presentati prima alla camera dei deputati (art. 10 statuto). Riguardo a tali leggi il senato può bensì respingere nell'insieme il progetto approvato dalla camera, ma non può apportarvi modificazioni sostanziali, cioè non può introdurvi emendamenti che equivalgano ad esercizio del potere di iniziativa.

Il diritto di precedenza della camera sul senato riguardo all'approvazione di queste leggi è nato nell'ordinamento inglese ed è accolto in tutte le costituzioni moderne, che hanno il sistema bicamerale, perché, come fu già osservato, delle due camere solo quella dei deputati è considerata come rappresentante del popolo. Il Belgio, però, con la riforma costituzionale del 1921 l'ha abolito. In Inghilterra, invece, la difesa di questo diritto da porte dei comuni, dopo essere stato motivo di frequenti conflitti con la camera alta, condusse finalmente all'approvazione della legge sul parlamento (Parliament Act) del 1911. Con questa legge la camera alta è posta in condizione di inferiorità rispetto alla camera bassa non solo relativamente all'approvazione delle leggi tributarie, ma anche per quanto si riferisce alla formazione delle leggi in generale. Un progetto di legge in materia finanziaria approvato dalla camera dei comuni diventa legge, dopo ottenuta la sanzione reale, anche se la camera dei lord l'abbia respinto. I progetti di legge riguardanti altre materie, se sono approvati dalla camera dei comuni in tre successive sessioni e sono stati sempre respinti dalla camera dei lord, dopo il terzo rigetto possono nondimeno ottenere la sanzione reale e diventare legge. Spetta al presidente della camera dei comuni decidere insindacabilmente se un progetto di legge è di natura finanziaria.

Il senato non esercita soltanto funzioni legislative e di controllo politico, ma anche funzioni giurisdizionali, e nell'esercizio di queste prende il nome di Alta corte di giustizia. Quando funziona come Alta corte di giustizia il senato non è più corpo politico, ma costituisce una giurisdizione penale speciale. In tale funzione non può occuparsi se non degli affari giudiziarî per cui fu convocato, sotto pena di nullità (art. 36 stat.). Il corso del giudizio dinnanzi al senato in Alta corte di giustizia non è sospeso dalla chiusura della legislatura o della sessione.

Il senato esercita le sue funzioni giurisdizionali mediante alcuni organi giudiziarî, che sono: la commissione d'istruzione, la commissione di accusa, la commissione per il giudizio, l'Alta corte di giustizia (art. i del regolamento giudiziario del senato approvato nella seduta del 12 dicembre 1931). La commissione d'istruzione è composta di quattro membri ordinarî, di otto supplenti ed è presieduta da un vicepresidente del senato o da un senatore designato dal presidente (art. 6 del regolamento giudiziario). La commissione d'accusa è composta di dieci senatori, oltre a dieci supplenti ed è presieduta da un vicepresidente del senato o da un senatore designato dal presidente (art. 22 del reg.). Le due commissioni sono nominate al principio di ogni legislatura e per la durata della medesima. All'inizio di ciascuna sessione è nominata la commissione per il giudizio, presieduta dal presidente del senato o da un vicepresidente da lui delegato per ciascun procedimento e composta di sessanta senatori. Nella prima udienza di ciascun dibattimento si fa luogo al sorteggio di trenta senatori come giudici effettivi che devono partecipare al giudizio e degli altri come giudici supplenti che, secondo l'ordine del sorteggio, devono sostituire i giudici effettivi in caso di impedimento (articoli 27 e 28 del reg.). L'Alta corte di giustizia è il senato stesso che siede in funzione di giudice. Il presidente del senato, ovvero uno dei vicepresidenti da lui delegato, presiede l'Alta corte per il dibattimento. Il dibattimento non può farsi se non sono presenti in tutte le udienze almeno cinquanta senatori (articoli 46 e 47 del reg.).

Il senato può essere costituito in Alta corte di giustizia in tre casi:

1. Per giudicare dei crimini, da chiunque commessi, di alto tradimento o di attentato alla sicurezza dello stato (art. 36 stat.); ossia, secondo la nomenclatura usata dal codice penale del 1930, per giudicare dei delitti contro la personalità dello stato. Per l'art. 29 del codice di procedura penale la cognizione di questi delitti appartiene alla corte d'assise, e attualmente, fino al 31 dicembre 1936, per la legge 4 giugno 1931, n. 674, al tribunale speciale per la difesa dello stato. Queste giurisdizioni, quindi, debbono conoscere dei delitti contro la personalità dello stato, salvo quando un decreto reale - che rientra nella facoltà discrezionale del governo - costituisca, per uno di questi reati, il senato in Alta corte di giustizia. Il decreto reale è comunicato al senato riunito dal presidente in comitato segreto. Il senato pronuncia un'ordinanza con la quale, dichiarandosi costituito in Alta corte di giustizia, riconosce la propria competenza per il titolo del reato.

2. Per giudicare i ministri accusati dalla camera dei deputati. La competenza del senato riguarda non i reati comuni dei ministri, ma i cosiddetti reati ministeriali, quelli, cioè, che il ministro abbia commessi abusando del suo potere. Il senato, avuta comunicazione dalla camera dell'accusa pronunciata contro un ministro, si dichiara costituito in Alta corte di giustizia con un'ordinanza emanata in comitato segreto.

3. Per giudicare dei reati dei proprî membri. Mentre nel primo e nel secondo caso il dibattimento deve farsi dinnanzi all'Alta Corte, nel terzo caso il senatore è giudicato dalla commissione per il giudizio se è imputato di delitto, e dalla commissione d'istruzione se è imputato di contravvenzione. Dalla sentenza della commissione di istruzione, quando sia di condanna alla pena dell'arresto, è dato appello alla commissione per il giudizio. Le funzioni del pubblico ministero presso il senato sono esercitate, nel primo e terzo caso, da un alto funzionario giudiziario nominato con decreto reale al principio di ogni legislatura, e nel secondo caso da uno o più commissarî eletti a tale scopo dalla camera. Contro le sentenze pronunciate dall'Alta corte di giustizia o dalla commissione per il giudizio non è ammesso ricorso in cassazione (art. 528 cod. proc. pen.); non è quindi possibile contro di esse alcun rimedio giudiziario.

Anche in altre costituzioni sono attribuite alla camera alta funzioni giurisdizionali. La camera inglese dei lord, quando era ancora il Magnum consilium, giudicava delle accuse portate contro i grandi ufficiali del re. Di qui è sorta la competenza della camera alta inglese a giudicare i ministri del re per infrazioni commesse nell'esercizio delle loro funzioni e tradotti dinnanzi ad essa dalla camera dei comuni secondo la procedura dell'impeachment. Ma l'accusa dei ministri da parte della camera dei comuni, specialmente dopo che il governo fu ritenuto politicamente responsabile verso di essa, si può dire che sia andata in desuetudine. Si cita come ultimo caso quello di lord Merville che risale al 1805. La camera dei lord giudica, come fu detto, i pari accusati di un delitto di tradimento o di fellonia. Questi giudizî si svolgono dinanzi alla camera dei lord presieduta dal lord grande intendente (Lord High Steward). Se il parlamento è chiuso, il giudizio si svolge dinnanzi alla corte del grande intendente, alla quale, però, sono convocati tutti i pari. La camera dei lord è, inoltre, la suprema corte d'appello per le isole britanniche. Una legge del 1876 ha restituito alla camera dei lord questa sua antica competenza di giudice d'appello, che era stata soppressa dalla legge sull'ordinamento giudiziario del 1873. Per l'esercizio di queste funzioni giurisdizionali la stessa legge del 1876 istituì due posti (aumentati a 4 nel 1887 e a 6 nel 1913) di pari a vita per giureconsulti col titolo di lord di appello ordinarî (Lords of Appeal in Ordinary).

In Francia, secondo l'art. 9 della legge costituzionale 24 febbraio 1875 e l'art. 12 della legge costituzionale 16 luglio dello stesso anno, il presidente della repubblica può essere giudicato sia per crimine di alto tradimento, sia per reato comune. In ogni caso giudice del presidente della repuhblica è il senato in Alta corte di giustizia. Il senato può essere costituito in Alta corte di giustizia anche per giudicare i ministri per crimini commessi nell'esercizio delle loro funzioni e ogni altra persona per crimine di attentato alla sicurezza dello stato. Per questi crimini le costituzioni francesi del 1791, dell'anno II, dell'anno VIII, del 1848 e del 1852 istituivano un'Alta corte speciale variamente composta. Furono le due carte del 1814 e del 1830 che, sull'esempio inglese, attribuirono, invece, funzioni giurisdizionali alla camera alta, cioè alla camera dei pari, la quale, nell'esercizio di tali funzioni, diveniva corte dei pari. La costituzione francese del 1875 ha seguito in questo punto le due carte monarchiche e ha attribuito competenza giurisdizionale al senato costituito in Alta corte di giustizia.

V. anche Parlamento; poteri: Potere legislativo.

Bibl.: F. Racioppi e I Brunelli, Commento allo statuto del regno, Torino 1909, II, p. 239 segg.; S. Romano, Diritto costituzionale, Padova 1932, p. 206 segg.; A. Lawrence Lowell, Il governo inglese, in Bibl. di scienze pol. e amm. di A. Brunialti, VI, p. 584 segg.; L. Duguit, Traité de droit constitutionnel, Parigi 1921-1925, II, p. 542; IV, p. 470 segg.; I senatori del Regno, voll. 2, Roma 1934.

TAG

Opinione della maggioranza

Senatus populusque romanus

Consiglio dei cinquecento

Pubblica amministrazione

Funzionario giudiziario