SCUOLA POETICA SICILIANA, METRICA

Federiciana (2005)

SCUOLA POETICA SICILIANA, METRICA

CCostanzo Di Girolamo

Se appare a tutt'oggi accettabile un'idea dei Siciliani come "colonia italiana della poesia occitanica, parallela, con qualche decennio di ritardo, alla francese del Nord, al Minnesang, alle cantigas de amor galaico-portoghesi" (Contini, 1960, I, p. 45), soprattutto se intendiamo questa caratterizzazione, in senso positivo, come adesione in una lingua autoctona all'ecumene della lirica cortese quando il movimento dei trovatori era ancora in pieno rigoglio, gli studi più recenti sulla Scuola, e sulle altre colonie sparse per l'Europa, hanno mirato a sottolineare i tratti differenziali più che quelli di dipendenza rispetto all'indiscusso modello; e ciò non tanto per apprezzarne l'originalità come valore ma piuttosto per aprire una partita doppia in cui contare perdite e incrementi, questi ultimi, nel caso dei Siciliani, valutabili a più lunga scadenza come patrimonio consegnato, attraverso intricate mediazioni, alle letterature europee moderne. Ciò vale per diversi aspetti della Scuola e in primo luogo per la metrica.

Il verso. ‒ La versificazione dei Siciliani è l'erede diretta di quella dei trovatori, gli inventori delle forme strofiche complesse della lirica, fondate sull'invariabilità numerica dei tipi metrici (isosillabismo) e sull'uso sistematico e rigoroso della rima; ma la prima differenza rispetto ad essi è che, mentre i trovatori musicavano in prima persona i loro componimenti, diffusi attraverso l'esecuzione cantata dei giullari, non risulta che i poeti della Scuola lo facessero, anche se non si può escludere che alcuni testi fossero messi in musica da professionisti o, in rari casi, dagli stessi autori. È da pensare che i componimenti avessero, salvo eccezioni, una circolazione scritta o al più che venissero declamati in pubblico.

I Siciliani utilizzano quasi tutta la gamma di versi introdotta dai trovatori, tralasciando unicamente tipi rari come il bisillabo e i versi eccedenti le undici sillabe (secondo il computo all'italiana); l'alessandrino, con primo membro sdrucciolo, compare soltanto, insieme con l'endecasillabo, nel Contrasto di Cielo d'Alcamo, un testo non lirico. Va tuttavia osservata la tendenza a evitare la combinazione di numerosi tipi metrici, alquanto normale invece negli occitani (fino a sei-sette), dove forse la variazione era in stretto rapporto con la melodia. Statisticamente, predominano l'endecasillabo e il settenario, secondo una linea di tendenza ribadita poi da tutta la tradizione italiana, mentre limitata fortuna ha il novenario, assai diffuso presso i trovatori. Torneremo sulle combinazioni di versi quando parleremo della stanza.

Qualsiasi descrizione della versificazione siciliana non può prescindere dalla storia dei testi, precocemente tradotti in toscano e sottoposti a interventi che ne hanno alterato anche la facies metrica: queste vicende servono a spiegare alcune anomalie, diventate poi norma almeno fino alla parziale riforma petrarchesca. La più vistosa, oltre alla rima siciliana (di cui si dirà più avanti), riguarda la libertà di applicazione delle figure metriche che regolano gli incontri vocalici tra le parole e al loro interno. Così come ci sono stati consegnati dai copisti toscani, i versi della Scuola offrono un margine di ambiguità (o, se si preferisce, di interpretabilità) sconosciuto al sistema modello, quello occitano, che ammette oscillazioni solo in misura ridottissima, nonché ad altri sistemi romanzi: in molte parole alcune sequenze vocaliche contano ora come una, ora come due posizioni; lo stesso si dica per gli incontri vocalici tra le parole: la dialefe è talvolta applicata, talaltra no, secondo criteri solo in parte comprensibili. Si tratta di fenomeni difficilmente riconducibili al processo di disarticolazione di un sistema nel passaggio dal centro alla periferia di cui Antonelli scorge tracce nell'uso eterodosso di alcune tecniche, soprattutto strofiche, dei trovatori (1984, p. XX; Beltrami, 1995, p. 96, parla a questo stesso proposito di "allentamento di regole"). È probabile che tali forzature rispetto all'usus occitano, sia pure adattato a una nuova realtà linguistica, siano in rapporto con carenze o eccessi sillabici causati dalla toscanizzazione, che avrà senza dubbio intaccato il numerismo, obbligando a continui e minuti riarrangiamenti sillabici e alla relativizzazione di alcuni abiti metrici. Il riassetto linguistico degli originali non deve essere stato di piccola portata e ne è spia anche il fatto che per garantire la metricità di un grandissimo numero di versi occorre accettare le forme apocopate proposte dai codici o addirittura introdurle quando questi non le presentino: or, andar, par, dir, quel, son, ecc. Tali forme di troncamento non sono giustificabili in quanto estranee al siciliano e ad altre varietà meridionali, mentre sono invece caratteristiche del toscano, una varietà a cui i poeti della Scuola non avrebbero avuto alcun motivo di ispirarsi; va fatto salvo, beninteso, un ristretto numero di termini chiave del lessico cortese spiegabili come occitanismi o latinismi nel siciliano illustre dei poeti (amor, amador, cor, onor, valor, ecc.), ma non è ipotizzabile, allo stato attuale delle nostre conoscenze, un totale travestimento in occitano, il che obbligherebbe a postulare l'esistenza di un siculo-occitano, altra lingua letteraria mista del Medioevo da affiancare al franco-occitano e al franco-veneto. In aggiunta ai danni dell'antica transcodificazione, la tradizione filologica moderna è a sua volta intervenuta pesantemente sulla metrica della Scuola, che è stata ricondotta alla norma stilnovistica e trecentesca. Si leggano ad esempio i seguenti versi di Guido delle Colonne nell'edizione di Contini (1960, I, p. 98): "che m'ave [ms. a 'ha'] fatto in tanto ben [ms. bene] montare", "ched [ms. ch] io non aggio infra la gente ardire", "Ordunque vale meglio poco [ms. di poco] avere" (La mia gran pena, 40, 41, 43), nessuno dei quali è bisognoso, come vedremo subito, di integrazioni, troncamenti o espunzioni rispetto alla lezione del manoscritto.

Il verso più complesso dei Siciliani, e su cui si può misurare sia l'incidenza del modello occitano sia la capacità d'innovazione dei primi poeti italiani d'arte, è l'endecasillabo.

Il verso occitano di dieci posizioni (o decenario, décasyllabe), da cui deriva, era stato introdotto nella lirica tra il 1133 e il 1137 da Marcabru, che a sua volta lo aveva ripreso dall'epica francese (ma nello stesso metro è anche il poema occitano Boeci, del sec. XI). Il tipo più frequente è cesurato dopo la 4a posizione forte (negli schemi si prescinde dagli accenti secondari): P1 P2 P3 P4+ | P5 P6 P7 P8 P9 P10+(s); si tratta in sostanza di due membri giustapposti di quattro e sei posizioni e, come il secondo membro può presentare una sillaba atona finale (s), allo stesso modo può presentarla il primo: P1 P2 P3 P4+ (s) | P5 P6 P7 P8 P9 P10+(s); l'eccedenza sillabica è solo apparente, perché l'atona che fa seguito alla 4a posizione forte è considerata sopranumeraria. Tale forma di cesura, detta 'epica' perché abituale nelle canzoni di gesta francesi e occitane, è nei trovatori molto più rara, ma ben documentata. Rara è anche la cesura definita (con terminologia anacronistica) italiana, che comporta l'accorciamento del secondo membro (l'atona di 5a fa perciò posizione): P1 P2 P3 P4+ P5 | P6 P7 P8 P9 P10+(s). In italiano, tutti questi tipi si direbbero a minore, cioè comincianti con il membro minore; nella lirica trobadorica quelli a maiore, comincianti con il membro maggiore ‒ P1 P2 P3 P4 P5 P6+ | P7 P8 P9 P10+(s) ‒, sono del tutto sporadici e comunque non ammettono la cesura epica ‒ P1 P2 P3 P4 P5 P6+ (s) | P7 P8 P9 P10+(s) ‒ né quella italiana ‒ P1 P2 P3 P4 P5 P6+ P7 | P8 P9 P10+(s) ‒; in versi rigorosamente a maiore, con la variante epica e italiana, sono tuttavia composti la canzone di gesta franco-occitana Girart de Roussillon (ca. 1155-1180) e alcuni poemi francesi. Altra cesura molto rara è quella mediana, con la 5a forte: P1 P2 P3 P4 P5+ P6 | P7 P8 P9 P10+(s) oppure P1 P2 P3 P4 P5+ | P6 P7 P8 P9 P10+(s). Assai più frequente di tutti questi tipi e secondo solo al tipo canonico è invece il verso con cesura cosiddetta lirica, che consiste nell'anticipazione dell'ictus dalla 4a alla 3a posizione (la 4a posizione è confine di parola): P1 P2 P3+ P4 | P5 P6 P7 P8 P9 P10+(s).

I Siciliani riproducono ognuno di questi tipi, compresi quelli rari o non attestati negli occitani; ma è importante osservare come i valori statistici siano profondamente modificati. Al tipo canonico, l'a minore, si affianca infatti l'a maiore, eccezionale, come ora si è detto, nei trovatori; abbastanza frequenti le cesure liriche (Guido delle Colonne: "ch'io non aggio ^ | infra la gente ardire"), rare le mediane (Id.: "che m'à fatto in tanto | bene montare"; Pier della Vigna, testo dei mss.: "sì m'è sua figura ^ | al core impressa"; Contini, 1960, I, p. 126: "sì m'e[ste]...", Amando con fin core, 9). Quanto alle cesure epiche, su cui più si è accanita l'opera correttoria dei filologi e prima ancora, presumibilmente, dei copisti, la loro esistenza è provata da parecchi versi irriducibili con i troncamenti (talvolta perché la sillaba eccedente è in rima interna), se non a costo di aggiustamenti molto onerosi. Si è già citato il verso di Guido, in cui Contini aveva soppresso il "di" partitivo, che costituisce una peculiarità sintattica di questa canzone ("Ordunque vale [in rima] | meglio di poco avere"); lo stesso filologo adotta in più occasioni il "m enclitico" occitano (poi ripreso da altri editori, scritto 'm o ) dove i manoscritti hanno mi: "senza misfatto | no'm dovea punire", "poi valimento | no'm dà, ma pesanza" (Giacomo da Lentini, Poi non mi val, 22, 26; Contini, 1960, I, p. 65); ma anche in questo caso c'è da dubitare della reale esistenza di un fenomeno, che tocca la fonetica e la morfologia, sconosciuto al siciliano, ad altre varietà meridionali e allo stesso toscano, e a cui si fa ricorso solo per ridurre versi in apparenza ipermetri. Si sarà anche notato, in alcuni degli esempi riportati, che in sede di cesura compare spesso la dialefe ( ): anche questo sembra un abito ripreso dagli occitani (e dai francesi), sicché un verso come "l'amor ch'eo porto | a la vostra persona" (Giacomo da Lentini, Amando lungiamente, 28) era probabilmente percepito come un verso a cesura epica, con dialefe tra i membri, come lo sarebbe stato presso i trovatori. Il caso dell'endecasillabo, con la sua complessità, ci fa capire attraverso una serie di spie come la versificazione siciliana riprendesse da vicino quella occitana, anche se non è ovviamente possibile alcun restauro metrico dei testi dopo la radicale revisione operata da copisti che si ispiravano a nuove regole (lo è invece rispetto alla tradizione critica): in effetti, ciò che sarebbe parso aberrante di lì a pochi decenni rispecchiava, pur con diverse innovazioni, fenomeni e usi legittimati dalla norma trobadorica. L'innovazione più notevole, per quanto riguarda l'endecasillabo, reso proprio dai Siciliani il verso principe della poesia italiana, consiste nell'impiego simultaneo e paritetico dei tipi a minore e a maiore, alternati saltuariamente con altri, e nell'estrema variabilità delle cesure.

Dal momento che il modello di riferimento non ammetteva alcuna deroga al più rigoroso numerismo, l'isosillabismo originario deve essere dato per scontato, quale che sia lo stato attuale dei testi. Nei generi cortesi l'ipermetria di alcuni versi comincianti per vocale è stata giustificata con una forma di sinalefe interversale, come in "fina donna, pïetanza / ^ in voi si mova" (Giacomo da Lentini, Guiderdone, 30-31), dove il secondo verso deve essere un quadrisillabo: ciò è possibile in teoria, se si ammette che nella declamazione la vocale poteva essere fusa con la precedente, come in una normale sinalefe, ignorando il confine del verso reso perentorio solo dalla disposizione grafica moderna dei testi poetici; ma lascia perplessi, nella stessa canzone, l'occorrenza della medesima figura, se non c'è errore, a inizio di stanza ("In disperanza no mi getto", 15, che deve essere un ottonario). Forse qui e in altri casi simili si può sospettare che la grafia nasconda la caduta della vocale iniziale davanti a n + consonante senza appoggio a vocale precedente, che è fenomeno siciliano e meridionale (sicché: 'n voi, 'N disperanza; altri esempi, nello stesso Giacomo: 'Nviluto, 'nfino, 'nver', 'n sì, 'Ntro, 'nde, ecc.); non si tratterebbe perciò né di una figura metrica né di una comune aferesi, impossibile in toscano in alcuni contesti, bensì di un tratto linguistico originario imperfettamente amalgamato. Altre ipermetrie o ipometrie sono imputabili a guasti di trasmissione. Un caso circoscritto è dato da un piccolo numero di componimenti di tono meno aulico del grande canto cortese o decisamente tendenti al mediocre e interessa soprattutto l'oscillazione ottonario/novenario (non riscontrabile però nel caposcuola), il cui riassetto è operabile solo con continui e capillari interventi: forse solo in essi è possibile scorgere tracce di anisosillabismo. Con questo termine s'intende l'escursione sillabica, entro certi limiti e con l'ausilio di figure metriche particolari, di alcuni tipi metrici: in Italia l'anisosillabismo è specifico della poesia giullaresca, ma venne fatto proprio anche da poeti d'arte quando adottavano forme tradizionali (si pensi alle ballate sacre di Guittone d'Arezzo); non stupisce quindi che in un ambiente letterario raffinato come quello dei Siciliani esso possa essere stato talvolta coltivato, in alcuni generi, come l'altra faccia della loro poetica. In linea di principio, tuttavia, ci si dovrà sforzare di discernere tra un anisosillabismo primario, voluto dagli autori, e un anisosillabismo secondario, effetto della trasmissione: se anche il secondo è generalizzato, non è detto che sia agevolmente riparabile, ma si tratta di due fenomenologie distinte di cui il lettore deve essere consapevole e che richiedono, in sede editoriale, comportamenti diversificati.

Metrica e sintassi. ‒ Com'è noto, nella più antica poesia medievale destinata all'esecuzione cantilenata o recitata la fine del verso, o perfino dell'emistichio, coincide normalmente con un confine sintattico di qualche entità: metro e sintassi si condizionano a vicenda. Nella lirica dei trovatori e dei trovieri, probabilmente in ragione di una sintassi più articolata, dell'uso di versi più brevi e dell'esecuzione cantata, le unità metriche e quelle sintattiche appaiono spesso sfalsate, dando luogo a forme di spezzatura (o enjambement) di intensità variabile, talvolta finalizzate alla messa in evidenza dell'elemento rigettato dopo il limite del verso. I Siciliani riprendono questa tecnica, che serve anche a rendere fluido e variato il dettato poetico: "quando pass'e non guardo / a voi, vis'amoroso" (Giacomo da Lentini, Meravigliosa-mente, 35-36); "sì con' si trova ne l'antica istoria / di Iobo ch'ebbe tanta aversitate" (Id., Per sofrenza, 3-4). A differenza tuttavia di alcuni trovatori e poi dei guittoniani, evitano forme estreme ("voler / per / so que [...]", Aimeric de Peguillan), che arrivano fino alla tmesi ("[...] jazer / ser- / tan [...]", Id.). È una normale spezzatura, benché molto intensa, "[...] inamorata- / mente [...]" (Jacopo Mostacci, Di sì fina rasgione, 51-52), per la relativa autonomia di cui godeva il suffisso dell'avverbio nella lingua antica.

La rima. ‒ Vari tipi di figure di suono in fine di verso, al suo interno, e prima ancora nella prosa sono ampiamente documentati nella tradizione classica e mediolatina (omeoteleuto, 'rima' bisillabica consistente nell'identità dell'ultima e della penultima vocale, esametri leonini con un legame fonico tra la parola in cesura e quella finale, rima vera e propria); ed è appunto dalla versificazione latina medievale che la più antica poesia francese, religiosa ed epica, mutua la tecnica dell'assonanza (identità dell'ultima vocale tonica + eventualmente -e atona: mer : citét, tere : bele). Ma la rima in senso moderno, sistematica e con funzione strutturante del disegno strofico, è nella tradizione europea un'invenzione dei trovatori, immediatamente passata ad altre civiltà letterarie e alla stessa poesia latina del tardo Medioevo. La rima dei trovatori consiste nell'identità assoluta delle terminazioni dei versi a partire dall'ultima vocale tonica: qui : aissi, franc : planc, cadena : carantena; nelle rime 'ricche', anche di altri fonemi che la precedono: amadors : parladors, clamada : amada. La qualità delle vocali deve essere identica: e e o aperte e chiuse non possono rimare, rispettivamente, che con se stesse; e lo stesso vale per a stretta (prenasale) + -s, che non può rimare con a normale larga: Gavaudas [= Gavauda(n)s] : cas [= ca(n)s 'cani'; non con cas 'caso']. I Siciliani applicarono certamente la stessa precisione nell'impiego della rima, come avevano già fatto i francesi, i galego-portoghesi e come successivamente faranno i catalani, e non c'è da dubitare che tutte le loro rime fossero, all'origine, perfette; tuttavia il vocalismo tonico del siciliano non conta che cinque vocali, non distinguendo tra e e o aperte e chiuse; e quello atono non ne conta che tre (i, a, u). È ovvio che nel passaggio al toscano un buon numero di rime sia venuto a mancare, a causa di alterazioni riguardanti la vocale tonica, l'atona finale, o entrambe (con asterisco le forme presumibilmente originali): *paisi : misi > paesi : misi; *usu : *amurusu > uso : amoroso; porti : *forti > porti : forte; vidi : *cridi > vidi : crede, ecc. A queste rime diventate irregolari si dà il nome di 'rime siciliane'. Nel caso della rima, si tocca dunque con mano l'opera deformante dei copisti, che solo attraverso piccole spie si riesce a scorgere sul piano del computo sillabico, delle figure metriche e delle cesure dell'endecasillabo.

La nozione di rima siciliana, a rigore, è applicabile solo a testi composti in varietà diverse dal siciliano, perché in siciliano essa è, per ovvi motivi, impossibile. Ma la stessa denominazione copre un fenomeno che, storicamente, è stato interpretato in due modi distinti. I poeti dell'Italia centrale che calcarono le orme dei fondatori della poesia d'arte italiana fecero rimare parole come servire e fui con parole che nella loro varietà suonavano piacere e noi: rime simili compaiono ancora diverse volte in Dante (per esempio, Inferno, V, 95, 97, 99 voi : fui : sui) e una volta in Petrarca (Rerum vulgarium fragmenta, CXXXIV, 11, 14 altrui : voi). A partire dalle prime sillogi umanistiche, come la perduta Raccolta Aragonese, e poi dalle prime stampe dei classici volgari, invalse l'abitudine di correggere questi rimanti modificandone sistematicamente la vocale, a prescindere dalla lezione, talvolta contraddittoria, dei manoscritti (che in maggioranza propongono la rima siciliana imperfetta, cioè con alternanza vocalica, talvolta la livellano a i, u, più raramente a é, ó), in modo da ricavare una rima regolare: così, per esempio, il voi (: dui) di Giacomo da Lentini ridiventa vui, come doveva sicuramente essere in origine, ma diventano vui anche il voi di Dante (che però in alcuni manoscritti trecenteschi della Commedia è già vui) e quello di Petrarca (che è voi nell'autografo); allo stesso modo degli editori del Cinquecento si comportano poi tutti i poeti che occasionalmente adottano, come prezioso arcaismo, la rima siciliana (fino a Leopardi e Manzoni: nui). In sostanza, secondo una tradizione filologica che si è continuata fino in pieno Novecento, per rima siciliana è stata intesa una normale rima, ottenuta però forzando un rimante al vocalismo siciliano (piacire, vui), nella convinzione che tale fosse la forma voluta dai poeti. A questo modo di vedere si è opposto Contini (1960, I, p. XXI e altrove), secondo cui i continuatori dei Siciliani avrebbero fatto proprie le rime i : é, u : ó in forza dell'autorità dei padri fondatori che essi avevano conosciuto da codici già completamente toscanizzati (grosso modo, nella stessa veste in cui li leggiamo noi oggi): la rima siciliana sarebbe pertanto una rima culturale, che non fa appello all'orecchio e nemmeno all'occhio bensì alla tradizione; di conseguenza, l'alternanza vocalica va conservata nelle edizioni. La teoria di Contini è stata accolta dal consenso generale e l'intera questione sembrava passata in giudicato, sennonché Castellani (2000, pp. 517-524) l'ha recentemente riaperta, ricordando che la tradizione manoscritta è tutt'altro che unanime (come era già noto) nel proporre rime siciliane imperfette, le quali restano comunque dominanti, e soprattutto sottolineando che alcuni autografi, in particolare quelli di Francesco da Barberino e di Franco Sacchetti, contengono forme sicilianizzate per livellare la rima (un problematico accenno alle rime del Barberino era già in Avalle, 1973, p. 25); quanto al voi di Petrarca, a cui Contini attribuisce grande importanza, il sonetto CXXXIV nell'autografo dei Rerum vulgarium fragmenta non è di mano sua ma del suo copista, e l'autore potrebbe non avere corretto l'errore. Per Castellani "[la] questione rimane sub iudice. Ma penso si debba ammettere che allo stato attuale delle nostre conoscenze la bilancia [...] pende a favore del Parodi e del Barbi piuttosto che del Contini". In effetti, i copisti medievali adattavano alla propria varietà qualsiasi cosa trascrivevano: questa regola vale per il toscano come per altri dialetti italiani, galloromanzi, ecc., sicché non c'è niente di strano che in questo processo sacrificassero, generalmente ma non sempre, delle rime. Secondo Brugnolo "da un vidiri : finiri originario si passa prima a un vedire : finire o vedere : finere che rispetta la 'perfezione' della rima a scapito della fonetica toscana, e si approda infine a un vedere : finire rispettoso della fonetica toscana a scapito della rima perfetta. Il Laurenziano Rediano [Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Redi 9 (L) per esempio ha ora : pintora : figora, laddove il Vaticano (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 3793 (V)], più recente, ha ora : pintura : figura; in genere il Vaticano tende sempre a sostituire le forme in rima che avverte come contrarie al suo sistema fonetico con quelle toscane più regolari, rompendo appunto la rima: ed è il codice più recente" (Brugnolo 1995-1998, p. 38). Ma più che documentare una tendenza nel tempo, L e V, che sono praticamente coevi o separati solo da pochissimi anni, rivelano due comportamenti opposti che potrebbero rispecchiare un diverso modo di intendere e di praticare la rima siciliana da parte degli stessi poeti. La rima siciliana è spiegabile solo con un equivoco iniziale (Menichetti, 1993, p. 525: "I rimatori toscani del Duecento, che dunque trovavano nelle loro antologie di poesia siciliana avere : servire, uso : amoroso, sospiri : dire, ne ricavarono che fosse legittimo far rimare qualunque é chiusa con i, qualunque ó chiusa con u, qualunque -e finale con -i"): i primi lirici cortesi estranei all'ambiente della Scuola possono avere percepito come autentico un sistema di rime apparentemente irregolare (tanto più che, come si vedrà, non era senza precedenti) e averlo riprodotto; ma che verso la fine del Duecento in un crocevia d'Italia come Firenze, per giunta a poca distanza dalla frequentatissima sede universitaria di Bologna, non si avesse alcuna cognizione del vocalismo siciliano, e in particolare che non l'avesse il Dante del De vulgari eloquentia, appare incredibile, a meno che non si voglia pensare alla vischiosità di una consuetudine, sia pure recente, che avrebbe spinto a perseverare consapevolmente nell'equivoco. La rima siciliana imperfetta potrebbe essere stata coltivata per un certo tempo contemporaneamente a quella perfetta (livellata), per poi lasciare il campo solo a quest'ultima: un indizio di una possibile convivenza è dato dal fatto che rime con forme sicilianizzate sono documentate in Toscana già intorno al 1270 in un sonetto copiato e probabilmente composto da un notaio di S. Gimignano (vive : nive 'neve'; il sonetto fu edito da Castellani, ed è ora anche nella sua Grammatica del 2000, p. 505) e poi giù giù fino in pieno Trecento negli autografi dei poeti. Si configura quindi un quadro più complesso rispetto a quelli finora delineati, sicché le due contrastanti ipotesi sulla rima siciliana non sono forse inconciliabili: se è così, i sicilianismi fonetici entrati a quest'epoca nella lingua poetica sarebbero da assimilare né più né meno ai tanti gallicismi mutuati dalla Scuola e consegnati in parte alla tradizione.

La rima siciliana, del resto, presenta aspetti simili alla molto più rara rima francese, consistente nell'abbinare e e a seguite da nasale + altra consonante, che in francese avevano assunto lo stesso suono (a nasalizzata). Nei Siciliani e soprattutto nei loro eredi incontriamo rime come avenente: amante, dove il primo rimante è, nonostante la grafia, un crudo francesismo, come confermano grafie del tipo possante (: amante) (cf. Concordanze, 1992, I, p. CCXLVII). La grafia avenente, tuttavia, non esclude affatto che il copista percepisse la rima e fosse consapevole che il suffisso andava letto -ante. Nell'epica occitana, la rima francese comporta di norma la forzatura della forma occitana paran 'parente', ardidaman 'arditamente', e che tali francesismi fonetici non fossero meramente virtuali è confermato dalla compresenza nei testi di francesismi morfologici; non mancano però, frammiste a queste, grafie originarie: argen, veramen. A differenza della rima siciliana, la rima francese non è nata da un malinteso ma da un'opzione culturale volontaria e rientra nella stessa categoria della rima siciliana livellata.

Se la rima siciliana resta un capitolo circoscritto, all'incirca, al primo secolo della poesia italiana, salvo successive riprese arcaicizzanti, di più vasta portata è il fenomeno della rima tra vocali chiuse e aperte, dovuto esso pure, con ogni probabilità, all'origine siciliana della lingua poetica: si tratta di vere e proprie rime per l'occhio, inammissibili non solo, come si è detto, nel sistema modello ma in ogni altro sistema romanzo. Rime é : è, ó : ò sono anch'esse impossibili in siciliano, che non conosce l'opposizione tra e e o aperte e chiuse, ma è come al solito il passaggio da una varietà all'altra a creare questo effetto. In siciliano gente : mente (*genti : *menti) è una rima perfetta perché le due vocali toniche sono identiche (è), mentre non lo sono affatto in toscano: gènte : ménte. Quanto a una delle rime più frequenti, amóre : còre, occorre ammettere un originario amòre, forma occitaneggiante e al tempo stesso latineggiante che coesiste accanto all'esito normale amuri, documentato in Pir meu cori allegrari di Stefano Protonotaro e nel frammento zurighese di Giacomino Pugliese (amur); lo stesso si dica per pochi altri rimanti in o chiuso toscano dal vocalismo originario anomalo (ovvero colto), come frore 'fiore', onore, soferitore, migliore (: core), ecc. I continuatori dei Siciliani giudicarono regolare questo tipo di rima, trasmettendolo a tutta la tradizione fino ai giorni nostri, come fecero anche per le rime con s intervocalica, che è sempre sorda in siciliano, ma non in toscano: cosa [s] : rosa [z]. Anche per questi casi, prima o poi l'equivoco dovette essere sfatato, ma fu forse valutato di minore entità rispetto alla rima siciliana imperfetta (almeno l'occhio era fatto salvo) e ormai troppo diffusamente radicato per porvi rimedio.

Secondo Avalle (Concordanze, 1992, I, p. CCXXVIII e altrove) sia la rima siciliana, intesa in accezione continiana, sia la rima tra vocali aperte e chiuse potrebbero avere altre cause giacché gli stessi fenomeni sono osservabili fuori dell'area d'irradiazione della Scuola o prima ancora della sua nascita. Rime i : é e u : ó si trovano ad esempio nei ritmi centromeridionali e in un buon numero di testi settentrionali e sono spiegabili con l'influenza della poesia latina dell'Alto Medioevo o comunque anteriore alla riforma carolingia, quando nel latino merovingico e longobardo queste coppie di vocali si confondevano (lo studioso parla appunto di "rima merovingica"). A giustificazione delle rime tra vocali aperte e chiuse, Avalle adduce inoltre l'uso vigente nelle scuole, e sopravvissuto fino ai nostri giorni, di leggere come aperte le e e o lunghe latine (vidère, auctòres), che in toscano danno e e o chiuse. Queste ipotesi servono certo a fornire una spiegazione complessiva a fenomeni locali non facilmente collegabili, ma nel caso della lirica delle origini la trafila sembra molto più elementare: i Siciliani non potevano che prendere a modello i trovatori, che ignoravano la rima merovingica; e dal canto loro i poeti dell'Italia centrale non potevano che prendere a modello i loro immediati predecessori, che però avevano letto in una forma già irrimediabilmente travisata, salvo poi, in via di ipotesi, ripristinare la rima perfetta sicilianizzando i rimanti; quanto alle rime tra vocali aperte e chiuse, Beltrami pensa che il "latinismo" possa avere "interagito con l'influsso dovuto al toscaneggiamento dei Siciliani" (1999, p. 190). Altra obiezione alla teoria corrente della rima siciliana è venuta da Sanga (1992), secondo cui la rima pentavocalica si sarebbe affermata solo all'inizio del Trecento, mentre in precedenza, in qualsiasi parte d'Italia, la rima sarebbe stata basata su tre vocali: vocale centrale (a : a), anteriore (è : é : i), posteriore (ò : ó : u); rime come voi : dui vanno perciò considerate originarie negli stessi Siciliani. Anche Sanga ritiene che l'origine di tale rima sia da cercare nella poesia mediolatina, imitata dalla poesia volgare, non solo italiana, ma arriva poi alla conclusione che la lingua dei Siciliani non fosse il siciliano, bensì uno degli "italiani" in formazione già da qualche secolo, "una sorta di lingua volgare comune, o koinè", che in quanto latineggiante somigliava già al toscano, "essendo il toscano un dialetto particolarmente conservatore" (1992, pp. 222-224), idea che riprende in parte le vecchie tesi, risalenti all'Ottocento e cadute da tempo in discredito, sulla lingua dei primi poeti (per un'ulteriore confutazione, si veda Castellani, 2000, pp. 509-516).

Relativamente ampia la tipologia delle rime adottate. Nel suo Repertorio metrico della Scuola Antonelli (1994) comprende sotto la denominazione di rime tecniche le rime ricche, di cui si è già detto sopra: tormento : lamento, natura : creatura, iuiusamenti : dilittusamenti; le rime derivative, giocate sulla parentela etimologica dei rimanti: amore : amatore, maldire : dire, giorno : soggiorno, tuttore 'sempre' : nullore 'mai'; le rime grammaticali, che in realtà non sono rime ma collegamenti mediante figura etimologica tra rimanti a loro volta forniti di regolari compagni di rima: amare :: amore, aulitosa :: aulore, genziore 'più gentile' :: gente 'gentile'; e infine le rime ripetitive, tutte foneticamente identiche ma distinguibili in rime equivoche, se i rimanti hanno diverso significato o funzione grammaticale: finise 'fenice' : 'finisce', passo verbo : sostantivato; equivoche-identiche, se i rimanti hanno diversa funzione sintattica o sono inseriti in contesti che ne modificano in qualche modo il significato (per esempio con una negazione, un comparativo, anche una diversa preposizione): gli dà piacimento : non v'è 'n piacimento, fina : più fina, lontan da voi : con voi; identiche, se i rimanti non presentano nessuna differenza semantica. Molto rare le rime frante, coltivate in seguito negli ambienti guittoniani, del tipo a me : chiame (Giacomino Pugliese, Donna, di voi mi lamento, 64, 66), che possono generare perfino aequivocatio: e ò : eo 'io' (An, Al cor tanta alegranza, 9-10); in entrambi i casi l'ictus va anticipato sul primo componente (a, e). Nel complesso, i Siciliani fanno un uso abbastanza piano della rima, evitando i virtuosismi in cui si erano cimentati diversi trovatori, soprattutto quelli facenti capo al trobar clus di Guiraut de Borneill e al trobar ric di Raimbaut d'Aurenga e poi di Arnaut Daniel, come le rimas caras (ricercate) o quelle aspre, con accumuli consonantici. Sporadica ma documentata l'assonanza in luogo della rima, come in Amor mi fa sovente di re Enzo, messere : tene (50, 53); sembrano invece "rime mascherate" coppie come sforzo (= sfozzo, "con assimilazione progressiva della r sulla z") : pozo (= pozzo 'posso') in D'amoroso paese di Tommaso di Sasso (8, 9) (Concordanze, 1992, I, p. CCXXXV); anche in altri casi la grafia nasconde quelle che a un attento esame linguistico si rivelano delle rime perfette. Degni di nota alcuni esempi di rima irrelata (o "anarimia": Menichetti, 1993, p. 121), una tecnica che non aveva che qualche sparuto precedente nei trovatori: non rimano in Tommaso di Sasso, D'amoroso paese, l'ultimo verso di ogni stanza; in Federico II, Poi ch'a voi piace, Amore, il primo della sirma; in re Enzo, S'eo trovasse Pietanza, il primo e l'ultimo della sirma. L'omissione di una o più rime è una deliberata deroga al criterio comune a tutta la versificazione romanza medievale secondo cui non si dà verso senza rima: questa tecnica si diffuse nel secondo Duecento e fu ancora usata da Dante.

La stanza. ‒ I Siciliani arricchiscono notevolmente la struttura interna della stanza della canzone rispetto alla tradizione galloromanza, che comunque rappresenta per loro l'immediato precedente: la perdita della componente musicale originaria è come compensata a dismisura da una maggiore complessità dell'architettura strofica. In un buon numero di canzoni dei trovatori e dei trovieri la discontinuità e/o il disegno delle rime, ad esempio ababccd, individua nella stanza due parti denominate fronte e sirma o coda; la fronte è a sua volta divisa in due piedi, simmetrici o speculari, sicché: ab, ab; ~ oppure ab, ba; ~, come più di rado può esserlo la sirma in due volte (eccezionalmente in tre), ad esempio: ~; ccd, ccd (i termini sono danteschi, ma Dante parla nel De vulgari eloquentia di fronte e sirma solo in assenza di piedi e volte). Queste partizioni possono tuttavia mancare negli occitani e nei francesi, o meglio possono non risultare dallo schema pur essendo percepibili grazie alla melodia, mentre sono la norma nei Siciliani. Si vedano in concreto i seguenti esempi annotati (7 = settenario piano, ecc., secondo il computo all'italiana; tra parentesi le rime interne; separate con + le sottounità metriche: 7+4 = 11).

1) Giacomo da Lentini, Madonna, dir vo voglio, con partizione in piedi e volte: a7 b7 a7 c11, d7 b7 d7 c11; e7 e7 f7 (f)g7+4, h7 h7 i7 (i)g7+4. Si noti come il secondo piede e la seconda volta introducano rime nuove (abac, dbdc, ecc.); resta fissa, come d'obbligo, la misura dei versi nelle varie sedi che si corrispondono (7 7 7 11, 7 7 7 11, ecc.).

2) Id., Uno disio, con sirma indivisa e combinatio (distico finale a rima baciata): a11 a5 b11, a11 a5 b11; c11 c5 d7 d7 e11 e11.

3) Id., La 'namoranza, con fronte e sirma indivise: a9 b9 b9 a9; c9 d9 d5 c11.

4) Id., Meravigliosa-mente, "canzonetta" (come è definita al v. 55) con sirma indivisa: 7a 7b 7c, 7a 7b 7c; 7d 7d 7c.

5) Guido delle Colonne, Ancor che l'aigua, con sirma indivisa, concatenatio (primo verso della sirma che riprende l'ultima rima della fronte) e combinatio: a11 b7 b7 a11, b11 a7 a7 b11; b7 c7 c7 d11 e7 d7 e7 f7 f7 g7 g11.

6) Id., La mia gran pena, con sirma indivisa, concatenatio in rima interna e combinatio: a11 b11 c11, a11 b11 c11; (c)d5+6 (d)e5+6 e11 (in luogo di 5+6, anche 5+7, cesura epica; o 4+7, cesura lirica). Nella quinta stanza d diventa b, rima ripresa dalla fronte, sicché ~; (c)b (b)d d. Antonelli definisce "a sirma variabile" (1984, p. L) le canzoni che presentano questo tipo di alterazione, endemico tra i Siciliani, dello schema di base.

7) Id., La mia vit'è sì fort'e dura e fera, con fronte tripartita e sirma indivisa: 11a 11b, 11a 11b, 11a 11b; c8 d7 c7 (c)d5+7 (cesura epica, o anche 4+7, cesura lirica).

8) Jacopo Mostacci, Allegramente canto, con partizione in piedi e volte; la sirma varia in ognuna delle tre stanze: I: a7 b7 c11, a7 b7 c11; c7 d7 e7, c7 d7 (c)e7+5 // II: ~; c7 b7 d7, c7 b7 (c)d5+6 // III: ~; c7 d7 e7, c7 d7 (b)e5+6.

Come si vede dal primo e dal sesto esempio, la rima interna può avere funzione strutturale (senza di essa alcuni versi sarebbero irrelati). I Siciliani ne perfezionano la tecnica, disarticolando con essa un verso abbastanza lungo come l'endecasillabo, analizzato in componenti, normalmente il quinario e il settenario, che spesso possono presentarsi come versi autonomi nella stessa canzone. Si considerino questi due versi: "La salamandra audivi / che 'nfra lo foco vivi ‒ stando sana" (Madonna, dir vo voglio, 27-28). La rima -ivi di "vivi" è per chi ascolta o legge il segnale di una fine di verso, che in questo caso suona come un perfetto settenario; ma al segnale segue subito un sintagma ("stando sana") che trasforma il settenario in un endecasillabo, il quale troverà a breve distanza la sua rima ("ingrana", 32). La rima interna non è insomma un abbellimento fine a se stesso, ma crea effetti di illusionismo fonico strettamente collegati con l'intelaiatura sillabica del componimento.

Due soli gli esempi di rima-chiave, termine dantesco corrispondente alla rima dissoluda, molto comune nei trovatori: una rima (negli occitani anche più di una o perfino tutte) rimane isolata nella stanza ma trova le sue compagne nelle altre stanze, come la rima g (interna) in a7 b7 c7, a7 b7 c7; d7 d7 e7. e7 (g)f5+6 f11 (Percivalle Doria, Amore m'ave priso) e la rima f in a11 b7 c11, a11 b7 c11; c7 d7 d7 e11 (e)f 5+6 (An, Con gran disio).

Per l'organizzazione e i collegamenti strofici, si segue la terminologia in uso per i trovatori. La maggior parte delle canzoni della Scuola sono a coblas singulars, con rime rinnovate a ogni stanza; undici sono a coblas unissonans, con rime costanti per tutto il componimento; solo due a coblas doblas, con rime comuni alle stanze I-II, III-IV, ecc. I Siciliani riproducono anche le tecniche trobadoriche di allacciamento delle stanze mediante artifici retorici miranti, tra l'altro, a vincolarne la successione. Le coblas si dicono capfinidas quando all'inizio di una stanza è ripresa una parola dalla fine della stanza precedente (la ripetizione può essere tautologica, equivoca o derivativa; il collegamento è definito da Antonelli, 1984, p. LIV, "non rigoroso" se riguarda parole nei due versi anteriori all'ultimo o successivi al primo delle stanze contigue): "[...] vivo in allegranza. // Allegro so' [...]" (La mia gran pena, 9-10); capcaudadas quando la prima rima di una stanza riprende l'ultima della precedente (anche questo collegamento può essere "non rigoroso"): "[...] el abia succurrimento. // O Deo, che 'n tal tormento" (An, D'uno amoroso foco, 28-29); capdenals sono le coblas inizianti con la stessa parola: "Amor [...] // Amor [...]" (Jacopo Mostacci, Amor, ben veio, 1, 13). Va osservato che i Siciliani non fanno quasi mai, a differenza dei trovatori, un impiego sistematico, esteso a tutto il componimento, di questi artifici.

Per quanto riguarda le formule sillabiche, è dominante la combinazione settenario-endecasillabo, che non ha precedenti significativi nei trovatori né nei trovieri e che rimarrà canonica nella tradizione italiana (da cui passerà nel Rinascimento alla castigliana); ma i Siciliani sperimentano comunque una varietà di combinazioni, comprendenti ad esempio il quinario e il novenario, che i loro immediati successori tenderanno a limitare, fino alla severissima selezione petrarchesca, che non ammette che settenari ed endecasillabi. Non infrequenti le stanze monometriche, da quelle di tutti endecasillabi, probabilmente giudicate consone allo stile più solenne e grave, a quelle di tutti settenari o ottonari, adatte alle canzonette (come Meravigliosamente di Giacomo da Lentini).

L'unica canzone siciliana dotata di una tornada formalmente simile a quella occitana, ovvero con versi e rime identici a quelli della parte finale dell'ultima stanza, è Pir meu cori allegrari di Stefano Protonotaro (dove peraltro le rime devono per forza ripetersi perché le coblas sono unissonans), con schema a7 b7 c11, a7 b7 c11; d7 d11 e11, e7 f11 f11; la tornada, che riproduce le volte, è d7 d11 e11, e7 f11 f11. Poche altre canzoni dispongono di una sorta di congedo o invio (appello al componimento stesso, alla dama, ecc.), consistente però in una normale stanza.

Forme metriche e generi poetici. ‒ La poesia dei trovatori ignora forme metriche fisse, o entro certi limiti variabili, che si possano collegare a modalità poetiche specifiche: l'assetto metrico caratterizza solo alcuni generi per coro e solista, per lo più tardivi, che esibiscono un ritornello, mentre il salut d'amor (lettera alla dama) usa di solito il distico di octosyllabes; derogano infine allo strofismo i discordi. Tutti i generi si servono dunque dello stesso tipo di forma metrica e l'unica differenza che si può tracciare è tra generi che richiedono un disegno strofico e una melodia originali, in primo luogo la canzone, e generi che riprendono uno strofismo e una melodia preesistenti, come il sirventese. Un quadro del tutto simile, semmai ulteriormente semplificato per l'assenza del genere satirico-politico e di quello con ritornello, si incontra nei Siciliani, con l'unica significativa eccezione del sonetto, da considerare la prima forma fissa della lirica d'arte europea, non essendolo ovviamente la sestina, che nelle intenzioni di Arnaut Daniel voleva essere, come ogni canzone, un unicum. La quasi totalità dei componimenti è di tema amoroso, il che non vuol dire che in essi sia immancabilmente riprodotta la situazione del grande canto cortese: un certo numero di poesie propone ad esempio il dialogo uomo-donna (socialmente alla pari, a differenza che nella pastorella galloromanza) e non manca qualche canto di donna. Le canzoni siciliane non costituiscono tuttavia un gruppo monolitico, ma presentano modulazioni stilistiche variate: come si è già detto, l'impiego dell'endecasillabo, da solo o con il settenario, o la maggiore complessità dello schema sono spesso associabili a una materia grave; all'opposto, schemi più semplici e versi brevi connotano materie più leggere; in alcuni componimenti, il ricorso all'ottonario o al novenario (o all'ottonario/novenario) ammicca forse alla tradizione giullaresca, e così via. In questo senso, la forma della canzone presso i Siciliani è di per sé portatrice di maggiore informazione di quanto non lo fosse presso gli occitani, se si pensa che alcune tra le più famose canzoni trobadoriche, i modelli per eccellenza dello stile tragico, si servono di schemi molto elementari.

Sei i discordi siciliani pervenutici, di cui tre anonimi. Il descort occitano si colloca, tematicamente, in prossimità della canzone e come la canzone, di cui ha più o meno la stessa lunghezza, dispone di una melodia originale. Il poeta-amante fa corrispondere alla sua condizione di sconcerto l'infrazione della simmetria strofica: "Il testo si compone infatti di articolazioni metriche e musicali differenti tra loro, che chiameremo 'periodi', strutturate al loro interno per segmenti modulari iterati due o più volte, che chiameremo 'frasi'. Le frasi si compongono a loro volta di unità testuali stichiche iso- o eterometriche delimitate da una o più rime. La struttura musicale relativa ai singoli periodi è generalmente ripartibile in frasi, che possono anche non coincidere con le partizioni metriche. L'ultimo dei periodi, facente le veci della tornada, è spesso non modulare" (Canettieri, 1995, pp. 55-56; la terminologia risale a Antonelli, 1984, p. LXV). Questa descrizione risponde solo in parte alla reale configurazione dei discordi siciliani, che presentano frequentissime irregolarità non tutte giustificabili con danni di trasmissione; secondo Canettieri (1995, p. 297), essi andrebbero piuttosto accostati ai lais lirici francesi (altro tipo di composizione eteromodulare ma con regole interne meno rigide del descort), come lascerebbe pensare il fatto che lais e discordi hanno, a differenza dei descorts occitani, un'estensione maggiore della canzone. Dal punto di vista tematico, soltanto il discordo di Giacomo, Dal core mi vene, risponde al modello transalpino del disordine mentale, mentre gli altri intavolano contesti genericamente cortesi e finanche gioiosi: re Giovanni riprende ad esempio da una canzone di Raimbaut d'Aurenga (Non chant), come dimostrano precisi riscontri testuali, il motivo dell'amore segreto e peccaminoso, ma perfettamente appagato, di Tristano (Donna, audite como, 48-65).

Giacomino Pugliese denomina il suo discordo "caribo", termine, quale che ne sia l'etimologia e l'esatto significato, indubbiamente collegato alla musica, come confermano i versi che seguono e il riferimento a uno strumento: "A tale convento / isto caribo / ben distribo; / [...] / lo stormento / v[o] sonando / e cantando, / blondetta piagiente" (Donna, per vostro amore, 48-50, 53-56). Con il suo discordo, Giacomino sembra dunque rappresentare l'eccezione al "divorzio tra musica e poesia" sostenuto da Roncaglia, e infatti Roncaglia stesso lo definisce un "poeta-musico-esecutore" (1978, p. 386). Secondo Canettieri, tale eccezione riguarderebbe quasi tutti i discordi siciliani, da considerare "con un buon margine di ragionevolezza [...] componimenti eteromodulari per ballo, con musica non originaria" (1995, p. 314); e del resto in re Giovanni c'è un esplicito invito alla danza (vv. 38-47). Se questo può essere vero per i discordi, si apre qui un altro spiraglio alla tesi di Carapezza, che ha ipotizzato che anche le canzonette isometriche avessero i requisiti strofici per essere accompagnate da una melodia, e insieme con esse alcune composizioni formate con blocchi isometrici, qual è ad esempio Ispendiente dello stesso Giacomino (1999, p. 342). Si potrebbe perfino sospettare che i testi musicati viaggiassero, semmai in circuiti amatoriali e talvolta oralmente, con maggiore facilità e speditezza: se Ispendiente disponeva effettivamente di una melodia, questo aiuterebbe a spiegare perché se ne trovi traccia nell'Italia nordorientale a pochi anni forse dalla sua composizione (frammento di Zurigo edito da Brunetti, 2000, che lo data al 1234-1235). Un caso affine è quello della canzonetta, non necessariamente siciliana, Amor, mercé, prontamente copiata in Catalogna, insieme con la sua melodia, in una carta notarile risalente al terzo quarto del Duecento (cf. Bond, 1985; Schulze, 2002; De Riquer, 2003).

Il sonetto, destinato al dialogo tra i poeti ma anche alla materia cortese e gnomica, è con ogni probabilità una creazione dello stesso caposcuola. Nonostante la bibliografia imponente e più che secolare, ha ragione Brugnolo quando insiste sul "mistero" che ancora circonda la sua genesi, chiedendosi perché il sonetto si presenti "fin dall'inizio, fin dalla sua nascita, come una forma fissa e immutabile, una forma in cui sono rigidamente predefiniti non solo i costituenti morfologici, ma anche il loro numero e le loro reciproche relazioni" e sottolineando come sia tutt'altro che ovvia la scelta dei soli endecasillabi per un genere diverso dalla canzone (1999, pp. 96-97, 98). Brugnolo fa propria la tesi di Pötters (1998), secondo cui i numeri che si ricavano dalla sua formula strofica e sillabica (11, 14, 11×14 = 154, 8, 6, ecc.) sono quelli impiegati dai matematici medievali per la misurazione e la quadratura del cerchio e sono inoltre valori ricorrenti in architettura. Lo studio di Pötters, pur robustamente argomentato, è stato accolto con scetticismo, ma non c'è ragione di escludere che l'inventore del sonetto fosse sensibile al fascino di modelli geometrico-matematici, che sono peraltro alla base della musica. Un modello astratto, tuttavia, non genera di per sé strutture concrete, storiche, ma sono queste che possono ispirarsi a quello, alludendovi. Nel nostro caso, le strutture concrete sono degli schemi strofici che devono affiancarsi, se si vuole evitare di ragionare in termini di derivazione, ad altri schemi riconoscibili e circolanti all'epoca; e infatti come organismo metrico il sonetto non è del tutto senza precedenti nella poesia medievale: scartata l'idea che sia uno sviluppo dello strambotto, ovvero dell'ottava siciliana o canzuna (abababab), si tende da tempo a vedere in esso una stanza isolata di canzone, corrispondente, anche dal punto di vista funzionale, alla cobla esparsa dei trovatori, che aveva però dimensioni e formule strofico-sillabiche del tutto variabili. E si torna con ciò alla vera innovazione di questa forma: la delimitazione di uno spazio poetico, articolato al suo interno e giocato su simmetrie e dissimmetrie, ma chiuso e ogni volta uguale.

La struttura del sonetto può essere dunque studiata esattamente come quella di una stanza. I quaranta sonetti della Scuola presentano tutti una fronte con schema abababab, salvo uno (Re glorioso), falsamente attribuito a Giacomo, con fronte abbaabba. Ciò significa che il sonetto originario aveva una fronte indivisa a base binaria (ab.ab.ab.ab). Più complessa la struttura della sirma, che come tipi principali presenta cdcdcd, a base apparentemente binaria, e cdecde, a base ternaria, che individua due volte: cde, cde; i tipi secondari esibiscono la stessa partizione, tutti con ripresa di una rima, e in un caso di entrambe, dalla fronte: aab, aab; acd, acd; bcd, bcd; cad, cad; cda, cda; cdb, cdb (si aggiunga per l'inventario cde, edc nell'anomalo Re glorioso). Secondo Antonelli (1989, pp. 66-75), sia la fronte che la sirma sono spiegabili come varianti allungate o duplicate di alcuni schemi della stanza trobadorica, che come abbiamo detto aveva un disegno più semplice, mediante una tecnica usata dal Notaro nelle sue stesse canzoni; ma se è evidente che le sirme xyz, xyz e xxy, xxy (con rime riprese o no dalla fronte) sono a base ternaria, più problematica appare la sequenza a rime alterne (cdcdcd): diverse ipotesi di analisi sono possibili, ma anche per questo tipo è da escludere una base binaria e la sequenza va anch'essa interpretata come ternaria, cioè cdc, dcd. Ciò appare confermato dalla configurazione sintattica, che suggerisce quasi sempre uno stacco a metà del sestetto. Per quanto riguarda invece l'ottetto "l'andamento sintattico è per lo più binario, non quaternario" (Beltrami, 1991, p. 244), ma è pur vero che molti sonetti presentano, sicuramente per ragioni di bilanciamento interno della fronte, uno stacco dopo il quarto verso: questo deve avere indotto alla graduale trasformazione della fronte, all'origine indivisa, in due quartine e al diffondersi verso la fine del Duecento del tipo abba, abba che sottolinea l'articolazione in piedi. È in questa forma quadripartita che il sonetto, soprattutto attraverso Petrarca, si diffonderà in Europa, a cominciare dalla Spagna verso la metà del Quattrocento e dalla Francia nel secolo successivo.

Ma il sonetto arcaico presenta anche delle "implicazioni retoriche", come le definisce Menichetti (1975), rigorosamente osservate dagli autori siciliani, che consistono nel collegare ottetto e sestetto con uno o più elementi lessicali. Si vedano ad esempio i vv. 7-10 di Sì alta amanza di Giacomo: "e lo diamante rompe a tutte l'ore / de lacreme lo molle sentimento. // Donqua, madonna, se lacrime e pianto / de lo diamante frange le durezze, / [...]", che esibiscono un duplice collegamento capfinit. In questo caso il collegamento è letterale e ravvicinato; in altri può essere etimologico (vista :: veden, apareggiare :: pare 'pari' agg., dispregianza :: pregio) e distanziato, quindi più debole, ma raramente manca. L'analisi di Menichetti è stata poi estesa da Santagata a forme del tutto analoghe di connessione esistenti tra la fronte e la sirma della canzone (1979, pp. 79-127).

Nel suo complesso, la versificazione dei Siciliani si modella da vicino su quella occitana, ma manifesta al tempo stesso caratteri propri, come la ristrutturazione dell'endecasillabo, la scelta selettiva delle formule sillabiche della canzone, il disegno marcato della stanza, la creazione di una forma fissa. L'eredità metrica della Scuola è presentissima in tutta la tradizione europea, sebbene se ne debba la sopravvivenza al suo trasfondersi, fin quasi al suo dissolversi, nella nuova civiltà poetica toscana e nella sua lingua.

Fonti e Bibl.: salvo diversa indicazione, i testi della Scuola sono citati secondo la nuova edizione critica collettiva allestita per il Centro di studi filologici e linguistici siciliani; si è anche fatto riferimento all'antologia di G. Contini, Poeti del Duecento, I-II, Milano-Napoli 1960. Strumento fondamentale è R. Antonelli, Repertorio metrico della Scuola poetica siciliana, Palermo 1984. Manuali: C. Di Girolamo, Elementi di versificazione provenzale, Napoli 1979; P.G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna 1991; A. Menichetti, Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova 1993. Studi che toccano la versificazione dei Siciliani e dei loro continuatori e i problemi linguistici connessi: E.G. Parodi, Rima siciliana, rima aretina e bolognese, "Bullettino della Società Dantesca Italiana", 20, 1913, pp. 113-142 (poi in Id., Lingua e letteratura. Studi di teoria linguistica e storia dell'italiano antico, I, a cura di G. Folena, Venezia 1957, pp. 152-188); d'A.S. Avalle, Sintassi e prosodia nella lirica italiana delle origini, Torino 1973; G. Sanga, La rima trivocalica. La rima nell'antica poesia italiana e la lingua della Scuola poetica siciliana, Venezia 1992; P.G. Beltrami, Elementi unitari nella metrica romanza medievale: qualche annotazione in margine ad una 'Storia del verso europeo' [di M. Gasparov], in Il verso europeo. Atti del seminario di metrica comparata (4 maggio 1994), a cura di F. Stella, Firenze 1995, pp. 75-101; F. Brugnolo, La teoria della 'rima trivocalica' e la lingua della Scuola poetica siciliana, "Quaderni di Filologia Romanza della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Bologna", 12-13, 1995-1998, pp. 24-43; P.G. Beltrami, Osservazioni sulla metrica dei Siciliani e dei Siculo-toscani, in Dai Siciliani ai Siculo-toscani. Lingua, metro e stile, per la definizione del canone. Atti del Convegno (Lecce, 21-23 aprile 1998), a cura di R. Coluccia-R. Gualdo, Galatina 1999, pp. 186-216; C. Di Girolamo-A. Fratta, Gli endecasillabi con rima interna e la metrica dei Siciliani, ibid., pp. 167-185; A. Castellani, Grammatica storica della lingua italiana, I, Introduzione, Bologna 2000; M.S. Lannutti, Rime francesi e gallicismi nella poesia italiana delle origini, "Studi di Lessicografia Italiana", 18, 2003, pp. 5-67. È importante l'Introduzione alle Concordanze della lingua poetica italiana delle origini (CLPIO), I, a cura di d'A.S. Avalle, Milano-Napoli 1992. Sul sonetto: A. Menichetti, Implicazioni retoriche nell'invenzione del sonetto, "Strumenti Critici", 9, 1975, pp. 1-30; M. Santagata, Dal sonetto al Canzoniere, Padova 1979 (19892); R. Antonelli, L''invenzione' del sonetto, in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia, I, Modena 1989, pp. 35-75; W. Pötters, Nascita del sonetto. Metrica e matematica al tempo di Federico II, Ravenna 1998; F. Brugnolo, Ancora sulla genesi del sonetto, in Dai Siciliani ai Siculo-toscani. Lingua, metro e stile, per la definizione del canone. Atti del Convegno (Lecce, 21-23 aprile 1998), a cura di R. Coluccia-R. Gualdo, Galatina 1999, pp. 93-106. Sul discordo: P. Canettieri, 'Descortz es dictatz mot divers'. Ricerche su un genere lirico romanzo del XIII secolo, Roma 1995. Sulla questione musicale: A. Roncaglia, Sul 'divorzio tra musica e poesia' nel Duecento italiano, in L'ars nova italiana del Trecento, IV, Atti del 3o Congresso internazionale sul tema 'La musica al tempo del Boccaccio e i suoi rapporti con la letteratura' (Siena-Certaldo, 19-22 luglio 1975), a cura di A. Ziino, Certaldo 1978, pp. 365-397; F. Carapezza, Un 'genere' cantato della Scuola poetica siciliana?, "Nuova Rivista di Letteratura Italiana", 2, 1999, pp. 321-354. Su Ispendiente e Amor, mercé: G. Brunetti, Il frammento inedito 'Resplendiente stella de albur' di Giacomino Pugliese e la poesia italiana delle origini, Tübingen 2000; G.A. Bond, The Last Unpub-lished Troubadour Songs, "Speculum", 60, 1985, pp. 827-849; J. Schulze, Eine bisher übersehene sizilianische Kanzone mit Melodie in Katalonien, "Zeitschrift für Romanische Philologie", 118, 2002, pp. 430-440; J. De Riquer, con la collaborazione di M. Gómez Muntané, Las canciones de Sant Joan de les Abadesses. Estudio y edición filológica y musical, Barcelona 2003.

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