SCULTURA

Enciclopedia Italiana (1936)

SCULTURA

Pericle DUCATI
Michele GUERRISI
Raffaello BATTAGLIA

. Nella parola scultura, dal verbo latino sculpere, è insita l'idea dell'intaglio; nella parola analoga plastica, dal verbo greco πλάσσω, è invece insita l'idea del plasmare, del modellare. Solo in questi ultimi tempi la parola plastica ha assunto un significato più ampio, comprendendo essa tutte le arti figurative.

In realtà le due parole, scultura e plastica, alludono alla materia e al modo col quale questa materia veniva adoperata per formare sia statue o gruppi, cioè figure o gruppi di figure, non legate ad alcun piano ma sviluppate a tutto tondo, sia busti ed erme, sia rilievi (altorilievi, bassorilievi, rilievi incavati). Per la scultura si presuppone l'uso o del legno, o dell'osso, o della pietra più o meno tenera (steatite, tufo, calcare, marmo, granito, ofiolite, basalto, porfido); per la plastica l'uso dell'argilla o della cera.

Tecnica e arte. - È facile, trattando la storia e la critica dell'arte, fraintendere il significato della parola "tecnica", la quale è adoperata o per specificare quell'insieme di procedimenti meccanici che servono per la riduzione e l'utilizzazione della materia allo scopo espressivo della fantasia, oppure il modo particolare di lavoro, l'impronta, il tono, il carattere della composizione, cioè l'arte stessa. In realtà, l'artista scultore ha pensato sempre la sua opera come una necessità dello spirito a superare la materia, a illuminarla della sua idea. La frase famosa di Michelangelo "la scultura è quella che si fa per forza di levare" non solamente esprime il concetto platonico dell'idea preesistente, chiusa nel rigore del blocco dal quale l'artista deve liberarla levando il "soverchio", ma anche, e soprattutto, esprime una lotta contro la pietra che dovrà essere soggiogata dal fantasma, dovrà, come la mano "ubbidire all'intelletto". Lo stesso concetto di lotta contro la materia esprime, ma per una diversa concezione fantastica, la frase di Bernini, che la pietra voleva ridurre molle e ubbidiente come la cera.

In ogni opera plastica è da supporre, non come un limite, ma come una necessità stessa dell'immagine, la preesistenza di alcune determinate esigenze della materia scelta. E dicendo scelta, si usa una parola impropria in quanto che un'immagine plastica non può n asce re che già impressa in una certa materia e non come un 'idea la quale indipendentemente può essere espressa in bronzo, marmo, cera, ecc. Le statue del Buonarroti per le tombe medicee, tradotte in bronzo (come possono vedersi a Firenze nel Piazzale Michelangelo) costrette cioè a un chiaroscuro, a luci che non hanno niente a che fare con il marmo, sono tanto assurde quanto certe famose tele dipinte ad olio e poi tradotte in mosaico.

A questo criterio parrebbe dovesse opporsi la storia stessa di una statua, la quale di solito nasce in una materia per essere tradotta in un'altra, come accade per la statua di bronzo, il cui modello di terra sarà gettato dopo in gesso, e poi in cera, prima che nel bronzo definitivo. Ma forse sarà inutile dire che, durante questo passaggio dell'immagine plastica da una materia in un'altra, il lavoro dell'artista diventa sempre più attento, e che la fantasia, anche quando crea il modello d'argilla, ha presente nell'atto stesso creativo l'idea della materia definitiva, del bronzo, al cui effetto ultimo sono intesi ogni più esperta preparazione della superficie d'argilla, ogni ritocco al modello successivo di gesso, e il lavoro di raspinatura della cera. Si può dire infatti che il lavoro dello scultore consiste nel risvegliare quanto in questi varî passaggi di materia in materia si ottunde, diventa generico o stentato.

Fatto il modello in creta, la quale materia non si reggerebbe per la sua sensibilità al calore e per la sua facilissima evaporazione, di cui sono conseguenza l'indurimento e lo screpolamento, il problema è quello di rendere in qualche modo duratura la forma già ottenuta in terra. A tale bisogno la materia più adatta, perché è la più sensibile alla minima differenza di superficie, è il gesso. Il gesso serve dunque per formare la statua di argilla. La forma in gesso si ottiene con il sistema del calco (v. forma: Arte).

Per eseguire in pietra o in marmo una scultura di cui precedentemente si sia fatto il modello in argilla, e da questo si sia fatto il calco in gesso, il primo lavoro da fare è di vedere se realmente entro quel tale blocco di pietra o di marmo può essere contenuto il modello in gesso. Sarà anche bene assicurarsi che gli strati del marmo o della pietra non siano tali che il lavoro di urto continuo dello scalpello non faccia saltare e scheggi i piani previsti dal modello. La conoscenza del marmo è data unicamente dalla pratica, che al riguardo non è mai soverchia. Anche ad un espertissimo conoscitore del marmo, quale fu Gian Lorenzo Bernini, è capitato, facendo il ritratto del cardinale Scipione Borghese, di avere incontrato un pelo (una incrinatura interna non prevista nel blocco) che lo ha costretto a rifare il lavoro da capo.

Il sistema della traduzione in marmo è basato essenzialmente sulla teoria dei piani e dei punti. Siccome ogni parte del modello è caratterizzata da una quantità di punti in rapporto ad altri tre presi come punti di riferimento, il lavoro si riduce, come si dice in linguaggio di bottega, alla "messa a punti". Ecco come si procede praticamente in questa operazione: sul modello di gesso che si vuol riprodurre, si scelgono e si segnano tre punti, che devono essere tra i più sporgenti, quelli che più possono essere utili alla ricerca di tutti gli altri. Su questi tre punti fondamentali ("capi punti" li chiamano i marmisti) viene posata una "crocetta" di legno alla cui estremità sono assicurate tre punte di ferro che combaciano perfettamente con i tre punti del modello, i quali sono segnati da tre bullettine di metallo con un foro in testa, fissate col gesso sul modello. Per cercare un nuovo punto, si adopera la "macchinetta", uno strumento che è fissato sulla crocetta e che, mediante tre viti, è spostabile in tutti i sensi e quindi può essere fissato. Cercato il punto con la macchinetta sul modello (avendo cioè spostata la quarta punta), con lo stesso procedimento quel punto va cercato sul blocco, e fissato. Per fissare ogni nuovo punto sul blocco è necessario, servendosi del mazzuolo e degli scalpelli, levare il "soverchio" della pietra o del marmo che si oppone alla visibilità di quel punto. Si procede così fino a quando l'opera è messa a punti, è, come si dice in linguaggio tecnico, "sbozzata e smodellata". Verrà dopo il lavoro di "rifinitura" che consiste nel ritrovare l'unità del modellato, la più fluida scorrevolezza del piano ove il lavoro dei punti, anche se numerosissimi, lascia sempre un non so che di freddo e di meccanico, che spetta alla sensibilità dell'artista di far scomparire nella chiarezza della forma. Mentre nel lavoro di sgrossatura e di abbozzatura servono le "mazze", con le quali si fanno saltare i grandi scheggioni secondo il verso del marmo, per il lavoro di smodellatura servono i varî scalpelli, che, convenientemente picchiati dal mazzuolo, servono per gradinare la superficie, per ridurla alla grana più rispondente alla qualità voluta dal modellato. Con le raspe di acciaio si leviga, si lustra, con il trapano si cercano e si definiscono quelle parti che, situate molto in profondità (entro sottosquadri di panneggi, ecc.) non sono trattabili con gli altri ferri che farebbero saltare la pietra. Sistemi non molto diversi hanno adoperato gli antichi. Anche la gabbia e il sistema dei fili a piombo adoperati dagli scultori del Rinascimento (sistemi ancora oggi in uso per gl'ingrandimenti e per le riduzioni) non sono che sistemi basati sulla teoria dei piani e dei punti.

La distinzione dei caratteri più precisamente adatti alla materia bronzo non ha più importanza di quella che nei riguardi della poesia avrebbe la distinzione delle varie forme metriclhe. Il bronzo permette disposizione di forme e di movimenti più liberi, più staccati dalla necessità di un nucleo centrale, maggiori spostamenti delle masse dal centro di gravità. Dalla rigidità geometrica dei quattro piani del cubo della scultura egizia, fino alla spirale faticosa dei Prigioni di Michelangelo, fino alle nuvole e alle sofficità ondeggianti delle figure del Bernini, è sempre possibile risentire quelle immagini inscritte entro una massa, che risente sempre il blocco di pietra primigenio. Il bronzo invece permette composizioni più "sfinestrate", più ariose, più profilate. La qualità stessa della materia che può dare alla funzione espressiva creste vibranti, luci inattese, contrasti violenti, si presta per sensibilità più inquiete e vivaci. Mentre la serena bellezza delle forme di Fidia trova la sua espressione di maestà nel pacato chiarore del marmo, la mobilità nervosa delle figure di Lisippo e del Verrocchio trova nella secchezza e nel luccicore del bronzo la sua realtà più sicura. Della fusione in bronzo si è già trattato in altro luogo (v. fusione, XVI, p. 223).

Per quanto riguarda la storia della tecnica del bronzo, il sistema attuale poco o nulla ha modificato quello più antico. Oltre alla fiamma ossidrica per le saldature e per i ritocchi, e a qualche sistema più sicuro per saggiare la lega del metallo, qualche altra particolare conoscenza tecnica più perfezionata, e qualche tentativo di galvanoplastica, si può dire che si getta oggi come si è sempre gettato in metallo sin dai tempi più antichi.

Con la pietra e il bronzo abbiamo esaminato i processi tecnici più diffusi per la scultura, ma non bisognerà dimenticare che tante altre materie possono prestarsi alla funzione plastica, dalla terracotta al vetro, dal legno ad ogni genere di metalli (oro, argento, alluminio), dal granito e dalla pietra artificiale all'avorio, ecc.; né vanno dimenticati i metodi che legano insieme le varie materie. Tra questi va soprattutto ricordata la tecnica crisoelefantina, tecnica che fu legata ai massimi capolavori di Fidia, e nella quale l'oro e l'avorio erano disposti, in lamine di varia grandezza, ad aderire ai piani plastici già preparati nel legno.

Più fortuna ebbe nell'antichità la tecnica che legò insieme marmi e pietre di vario colore; tecnica che fu ripresa in quel periodo pittoresco della scultura, che fu la civiltà barocca, e ha animato alcune insigni opere del Bernini. Il gioco pittorico delle varie pietre, se non è regolato da un gusto attento e sottile, conduce facilmente verso forme in cui pittura e scultura non riescono a fondersi nell'unità dell'immagine e lasciano sensibile la meccanica insopportabile del processo tecnico. Con ciò non si vuol dire che la pittura e la scultura abbiano ognuna un campo proprio. Tale affermazione sarebbe un voler misconoscere la genialità della Grecia, che fu essenzialmente plastica e che vide la scultura quasi sempre legata alla pittura (v. policromia).

Concludendo: non c'è materia che all'arte della plastica sia ignota, ed entro cui la fantasia umana non abbia voluto porre il suggello della creazione. Lo scultore, non meno del poeta e del pittore, cerca di rendere i sentimenti dell'anima. Dallo Scriba egizio ai Prigioni, dagli dei greci ai ritratti romani, dal chiuso rigore di Donatello alle musicalità sensuali del Bernini e del Canova, la materia, attraverso l'asprezza del ferro fatto acuto dall'anima, è diventata assorta contemplazione, slancio dell'anima ribelle, perfezione divina, certezza di caratteri, cristiana investigazione dello spirito, sogno meraviglioso dei sensi: poesia.

Storia della tecnica. - Antichità. - Nell'età preistorica, anzi nel Paleolitico superiore, noi abbiamo le prime testimonianze della scultura; naturalmente il materiale impiegato è l'argilla, l'osso (esempî pregevolissimi si hanno nella civiltà magdaleniana), la steatite, le rocce vulcaniche (es., le sei statuette di Mentone; la statuetta steatopigica di serpentino di Savignano sul Panaro; v. figura, V, p. 373). Il marmo comincia a essere usato nel bacino dell'Egeo nella civiltà cosiddetta cicladica, con gli idoli muliebri più o meno schematizzati; ma il marmo appare anche nell'antica civiltà mesopotamica, dove si osserva anche l'uso della diorite e del calcare, a cui poscia si aggiungono l'alabastro e la terracotta smaltata. Nella scultura egizia, grazie alle speciali condizioni climatiche del paese, si è conservato il più gran numero di sculture in legno che l'antichità ci abbia lasciato; sono adoperati il legno di sicomoro e talora legni molto duri, il cedro del Libano e l'ebano. Abbondano le terrecotte invetriate e maiolicate. Predominano poi le dure rocce vulcaniche cioè il granito, il basalto e il porfido. La terracotta, o semplice o maiolicata, e la steatite prevalgono invece nella civiltà cretese-micenea, a cui manca la scultura di grandi proporzioni. In Grecia dopo la scultura in legno (ξόανα), in tufo (πόρος) o in terracotta di carattere arcaico, che permane più a lungo in regioni più lontane dai centri creatori e innovatori (in Sicilia e nell'Italia meridionale) si ha l'uso del marmo policromato per esprimere statue e rilievi. Prevale il marmo pario e accanto a esso il marmo nassio; ma poi, specialmente in Atene, massimo centro di arte, è l'uso preminente del marmo pentelico, mentre in età ellenistica si adottano marmi locali, specialmente asiatici. Naturalmente, accanto alla scultura, è diffusissima, nella coroplastica, ma come materia di arte inferiore, la terracotta. Nella scultura etrusca si ha l'impiego dell'argilla, anche per grandi figure, e delle rocce locali (nenfro, peperino, pietra fetida, pietra serena); e rocce locali calcaree sono usate sia nella scultura iberica sia in quella cipriota. Nella scultura romana, mentre nei tempi repubblicani si usano il tufo, il peperino, la terracotta, nell'epoca imperiale è quasi esclusivo l'uso del marmo, specialmente il lunense o di Carrara, a cui si aggiungono negli ultimi due secoli il basalto e specialmente il porfido.

Accanto alle rocce e all'argilla, vediamo l'uso del metallo, principalmente del bronzo; e non mancano esempî di sculture di oro, di argento, di ferro, di piombo. Il metallo appare fuso in piccoli esemplari di sculture in statuette, sia nell'antichissima arte mesopotamica, sia nell'arte cretese-micenea, sia infine nell'arte egizia; ma nella scultura a grandi figure, abbiamo la documentazione di statue o di rilievi a lamina sbalzata. Ciò si constata anche nell'arte greca, ove l'uso della lamina sbalzata si mantiene nella tecnica crisoelefantina, per quanto concerne la parte aurea dei simulacri colossali, specialmente del sec. V a. C. Si aggiunga la scultura in materiale molto duro, ad es., nel cristallo di rocca per minuscole figure o per bustini, ma queste entrano piuttosto nel campo della glittica, ossia dell'intaglio di piccole pietre dure. Infine non manca la scultura in noccioli di ambra, nota a noi sia da esemplari arcaici (sec. VI e V a. C.) dell'Italia centrale e meridionale del versante Adriatico, sia da esemplari romani, specialmente di Aquileia.

Le sculture di terracotta o fittili sono ottenute o a mano libera, rifinite con la stecca e poi cotte, oppure a stampo, da una forma, matrice, che può dare origine a parecchie copie. Queste matrici si facevano di argilla; nell'argilla veniva applicata la scultura madre, plasmata liberamente con le mani e compiuta e perfezionata con la stecca; dalla forma incavata si ritraeva poi il numero di esemplari occorrenti. Le statuette o i rilievi che ne derivavano dovevano essere cotti, ma la cottura era ostacolata e resa irregolare dalla grande quantità di umidità contenuta nella massa di argilla, onde si venne all'uso di due o più matrici per costituire la statuetta o il rilievo in più parti, che venivano poi connesse assieme, sicché più agevole e regolare avveniva la cottura dell'assieme, che non era pieno, ma cavo. Le saldature delle varie parti erano ottenute con l'impiego di un po' di argilla rilevata (à la barbotine); queste statuette, o questi rilievi cavi, prima di essere introdotti nel forno venivano provvisti di un foro di sfiatamento, sicché si agevolava l'evaporazione della umidità durante la cottura.

Con lo sviluppo della coroplastica, cioè nel periodo ellenistico, la statuetta rappresentante una figura con parti sporgenti o un gruppo assai movimentato, veniva fabbricata su un numero rilevante di matrici, ciascuna delle quali dava o una parte del corpo o una parte del gruppo. Così il modellatore con piccole varianti poteva da un numero di matrici ottenere parecchie statuette e parecchi gruppetti, simili tra loro, ma non eguali. Le matrici venivano anche asportate da luogo a luogo, non così le statuette e i rilievi, come si può desumere dalla natura della loro argilla. Ma, quasi sempre, anche le statuette o i rilievi usciti da matrici subivano leggieri ritocchi, da ciò la freschezza, la finezza che noi ammiriamo specialmente nelle cosiddette Tanagre e nelle figurine fittili di Mirina (Asia Minore).

L'applicazione dell'argilla per grandi statue si ha specialmente in Etruria, nel Lazio, nella Campania e in Sicilia. Queste grandi statue o porzioni di statue (es. i busti agrigentini di divinità muliebri terrestri) erano modellate a mano con l'aiuto della stecca e ricevevano una policromia (specialmente usati erano il minio e l'ocra).

Oltre all'argilla fu usata, ma assai più raramente, la cera (v. ceroplastica). Altra materia è lo stucco o infusione di gesso, di cui si hanno da una parte esempî nella civiltà cretese-micenea (stucchi dipinti nel palazzo di Cnosso), dall'altro esempî nell'arte imperiale romana (rilievi decorativi di edifizî).

Dalla plastica passiamo alla scultura propriamente detta. Dapprima furono usate nelle arti dei popoli dell'antichità le rocce più tenere o il legno; il lavoro di intaglio era eseguito con l'ascia e col coltello, non solo, ma con la sega, lo scalpello, la sgorbia. La tecnica era quasi la medesima, sia che si trattasse di tessuti vegetali, sia che si trattasse di masse rocciose.

Sculture in legno si sono ritrovate, come dicemmo, specialmente in Egitto; celebre è la statua detta lo Sheikh al-balad, del museo del Cairo, risalente all'antico Impero, intagliata in legno di sicomoro e a noi pervenuta in mirabile stato di conservazione. Ma, all'infuori dell'Egitto, noi non possediamo che scarsi esempî di scultura lignea dell'antichità: alcuni astucci configurati (colomba, cerbiatta) di Palestrina del sec. III a. C., qualche scultura dei recentissimi scavi di Ercolano, ecc.

Per sempre sono andati perduti i celebri xoana della Grecia arcaica, ricordatici specialmente da Pausania. Ivi il corpo era come un manichino ligneo, indossante un abito di stoffa policroma, da cui uscivano ignude le estremità e la testa e dove le parti anatomiche erano rese con l'intaglio e avvivate dallo stucco policromo. Ma sopravvivenza degli xoana si ebbe nell'antica Grecia nei cosiddetti acroliti, ove il corpo rivestito era pur sempre di legno, mentre la testa e le estremità erano di pietra. E al pari degli acroliti derivano dagli xoana le statue crisoelefantine, statue colossali per il culto, che furono specialmente eseguite nel sec. V a. C., per il quale abbiamo gli esempî fulgidissimi dello Zeus di Olimpia e dell'Atena Parthenos di Fidia, dell'Era Argiva di Policleto. A un'impalcatura di legname, rappresentante l'ossatura del personaggio divino da effigiare, venivano applicate lamine auree lavorate a martello per esprimere le vesti, e laminette eburnee insieme accuratamente connesse per le parti nude, volto, braccia, piedi, e talvolta, come nello Zeus, per il petto.

Ma altri materiali, oltre l'oro e l'avorio, erano usati in questi colossi statuarî di sommo pregio artistico ed estrinseco, cioè gli smalti, le gemme, il legno (ebano) con intarsî. Speciale abilità dovevano esplicare i lavoratori dell'avorio, chiamati appunto "rammollitori dell'avorio" (μαλακτῆρες ἐλέϕαντος), che sapevano ridurre l'avorio in lamelle e, ammollendole, ripiegarle secondo le forme anatomiche. Inoltre speciale cura doveva essere tributata ai colossi crisoelefantini per preservarli dai malefici influssi degli agenti atmosferici; a ciò si ovviava con periodiche unzioni di olio (tale mansione avevano, p. es., i ϕαιδρυνταί della statua di Zeus in Olimpia). L'effetto dei colossi crisoelefantini era basato sulla policromia e invero la policromia è uno dei caratteri della statuaria antica sia di terracotta, sia di pietre vili, sia infine di marmo.

E possibile, anzi è verosimile, che nell'esecuzione di statue o di rilievi di legno o di rocce tenere, si procedesse senz'altro al taglio del tronco o del masso per esprimere quanto la mente dell'artista aveva già concepito o liberamente o su incarico di committenti. Ciò poteva avvenire anche per il marmo, in modo conforme al metodo seguito da Michelangelo. Ma è ovvio constatare come tale metodo sia pericoloso, perché non dà adito a correzioni, potendo un colpo più forte di scalpello asportare materialmente assai più di quello che occorre. Da tutto ciò deriva la necessità di un modello plastico. Dove, come in Grecia, il carattere saliente dell'arte era l'idealismo, cioè la figura umana come tipo, il modello plastico era precipuamente creazione diretta dell'artista; dove, invece, come a Roma, il carattere saliente è il realismo, cioè la figura umana come individuo, il modello plastico era condotto su modelli viventi. Tali modelli plastici erano costituiti da abbozzi di creta o di cera che venivano accuratamente trasportati nel marmo mediante un sistema di misurazioni in lunghezza e in larghezza e con l'uso di compassi (messa alle punte; v. sopra). Certo questo processo era seguito nella scultura ellenistica e romana. Ma è presumibile che fosse seguito anche prima; è infatti da supporre che tutta la mirabile decorazione scultoria del Partenone sia la creazione di una sola mente, cioè di Fidia, il quale avrebbe concepito ed eseguito i modelli, tradotti nel marmo in parte da lui stesso direttamente, in parte dai suoi aiutanti o scolari, che perciò avrebbero introdotto nel marmo delle divergenze talora non lievi. La lavorazione su modelli ci è del resto documentata dai testi epigrafici del santuario di Epidauro, in cui è espresso il prezzo della lavorazione dei modelli (τύποι) dovuti a Timoteo, che poi, insieme ad aiutanti, li tradusse in marmo. Infine Plinio (Nat. Hist., XXXV, 12, 156, e XXXIV, 7, 45) ci dà notizia che lo scultore Pasitele indicava la modellazione in argilla "madre della fusione in bronzo, della statuaria e della scultura" e ci riferisce sul modello plastico a proposito di Zenodoro, lo scultore che eseguì il celebre colosso di Nerone.

La scultura in marmo veniva eseguita per mezzo dello scalpello (in greco σμίλη, in latino scalprum) e del martello, poi con la raspa; raramente è usato nella scultura greca il trapano, di cui si fa uso assai largo, anzi abuso, nella scultura romana a partire dagli Antonini. Compiuta la statua, essa veniva levigata con la pietra pomice, ma ulteriormente vi si ripassava sopra con lo scalpello per attenuare la lucentezza del marmo e per preparare la superficie per la policromia. Spesso, anche nelle statue di marmo, l'orbita oculare veniva scavata e dentro era collocato l'occhio di smalto, ciò per coerenza col carattere policromo della scultura marmorea. Nella scultura arcaica dei Greci tale policromia era violenta, sfacciata, predominando in essa l'azzurro e il rosso, sicché le statue policrome erano del tutto intonate con l'architettura anch'essa policroma (v. policromia).

Poi la policromia si attenuò, con vantaggio non lieve dell'espressione vitale delle statue e dei rilievi. Si colorarono solo le parti che esigevano il colore, cioè le chiome e le barbe, si avvivarono le pupille, le labbra, le gote; si distesero i colori sui vestiti o sugli oggetti rappresentati, e le parti nude delle figure, specialmente dal sec. IV in poi, furono spalmate con una miscela di olio e di cera (la cosiddetta γάνωσις o anche κόσμησις) che dava ai marmi una patina dorata, con la sensibilità della morbidezza delle carni. Vitruvio (De architectura, VII, 9, 3) e Plinio (Nat. Hist., XXXIII, 120, 2) ci dànno notizia del processo seguito per la γάνωσις; non solo, ma iscrizioni del sec. III a. C. ci attestano un consimile metodo. I κοσμηταί erano gli specialisti in tal genere di rifinimento delle statue e venivano assai bene pagati; per l'immagine di Dioniso a Delo il κοσητής ricevette un emolumento maggiore di quello del pittore e persino dello scultore.

Con la metà circa del sec. IV a. C. s'inizia l'uso delle statue marmoree formate di parti diverse; uno dei primi esempî è la Demetra di Cnido del Museo Britannico, in cui la testa è stata scolpita in un blocco marmoreo separato; così era pure per gli avambracci, oggi mancanti; ma l'uso di marmi bianchi diversi per una stessa statua si manifesta nel periodo ellenistico e si accentua nella scultura romana; si veda per esempio la Fanciulla di Anzio del Museo Nazionale Romano nella quale il corpo è di marmo diverso dal busto, che è di marmo pario; così la statua di Augusto di Via Labicana, pure del Museo Nazionale Romano, è di marmo di Carrara nel corpo, mentre la testa è di marmo greco.

Talvolta si ha pure connubio di materiali diversi nello stesso rilievo o nella stessa statua. Così, per esempio, le metope del tempio E o Heraion di Selinunte, degli anni tra il 470 e il 460 a. C., sono lavorate in pietra calcarea locale, ma hanno di marmo le parti ignude delle figure femminili. Così nell'età imperiale romana frequente è nei busti il connubio dell'alabastro per la parte superiore del corpo e del marmo per la testa, che vi veniva incastrata. Esempio curioso di accozzo, piuttosto che di unione di varî materiali, è la grandiosa statua della dea Minerva dal Testaccio, del Museo Nazionale Romano.

Nella scultura egizia è caratteristico l'uso di materiali durissimi: i graniti, il porfido rosso, i basalti. Certo è che la difficoltà gravissima di lavoro di queste pietre veniva ad essere di danno per la scioltezza degli schemi delle figure rappresentate. Specialmente il porfido è di tale durezza, che è stata perfino avanzata l'assurda supposizione che esso venisse fuso per poterlo lavorare. In realtà tanto il porfido, quanto le altre rocce vulcaniche durissime venivano lavorate con grande pazienza mediante uno scalpello assai appuntito, sì da staccare a poco a poco delle minuscole schegge; compiuto il lavoro, esso veniva levigato mediante lo smeriglio. L'uso di queste rocce vulcaniche, specialmente di quelle porfiriche, si perpetua nell'Egitto tolemaico e dall'Egitto, al tempo di Giulio Cesare, passa nell'ambiente romano. Ivi si hanno opere totalmente porfiriche o opere in cui il porfido si unisce al marmo, come, per esempio, nella statua di Apollo seduto del Museo Nazionale di Napoli, dove di porfido è l'abito, di marmo la testa, le mani, i piedi (si cfr. gli acroliti); si aggiunga la statua della dea Roma del Campidoglio. Ma il trionfo del porfido è specialmente nel sec. IV e nel sec. V.

Ma, specialmente in Grecia, il materiale preferito fu il bronzo. Dapprima si ebbe la lavorazione a martellamento (σϕυρήλατος). Tale tecnica si appalesa applicata a grandi statue già nell'antico Impero egizio, nelle due immagini del Faraone Pjôpe I (VI dinastia) e del figlio suo. Sono lamine bronzee dello spessore di mm.1-5, che erano inchiodate su un nucleo ligneo. Tale tecnica è comune alla scultura assiro-babilonese (si vedano, per es., le lastre delle porte di Balawat del Museo Britannico dei tempi di Salmanassar III; 858-824 a. C.). In Grecia con tale tecnica vetusta era stato eseguito uno Zeus Hypatos a Sparta, opera di Clearco di Reggio.

Ma ben presto la fusione, che si seguiva per le statuette, fu applicata alle statue di grandi proporzioni. Prevale naturalmente tra gli altri metalli il bronzo e per il bronzo si ritengono inventori Reco e Teodoro di Samo (circa 600-550 a. C.).

Si ha notizia anche di lavori di ferro; ma forse le statue di ferro fuso di Glauco di Chio, a cui accenna Pausania (III, 13, 10), erano invece di bronzo, e a Glauco si deve attribuire solo l'invenzione della saldatura del ferro (saldatura forte al fuoco). Ma che tuttavia esistessero sculture di ferro non fuso, ma limato, ci è attestato dal rinvenimento di una testa di ferro a Cirene. Per il piombo si ha la documentazione di figurine votive in santuarî greci (di Apollo Amicleo, del Menelaion di Sparta), dell'Etruria e anche di età romana (es., la statuetta policletea di Hermes da Pian di Venola presso Marzabotto). Infine non mancavano statuette, non statue, argentee ed auree, specialmente nell'arte ellenistico-romana.

Le statue di bronzo assumevano in alcuni particolari altri materiali, così per l'occhio si usava lo smalto; talora le labbra e i capezzoli erano accentuati con amalgama di metalli, d'argento erano i nastri attorno al capo e così via. Col tempo la statua di bronzo assumeva una patina, in causa della ossidazione; per tale patina il colore del bronzo si oscura o diventa verdastro. Talora questa patina era provomta artificialmente mediante opportuna miscela di materiali diversi.

Non solo, ma per le statue di bronzo si ricorse, specialmente nell'età ellenistica e nei tempi imperiali romani, alla doratura. Residui di tale doratura si notano, per esempio, nei quattro cavalli della facciata di San Marco a Venezia, nella statua equestre capitolina di Marco Aurelio, ecc. Per la doratura gli antichi usavano il metodo detto oggi allo spadaro; si spalma la superficie della statua con mercurio, poi si applicano sottilissime laminette auree ottenute dai battilori con il martellamento di lamine auree tra due pelli.

Ma, talora, si usò l'argentatura. L'esempio tipico è dato dalla statua di Giocasta dello scultore Silanione (sec. IV), in cui l'effetto del pallore della donna era raggiunto con l'argentatura.

Infine nell'epoca ellenistica si ricorse anche a miscele, ad amalgame per eseguire statue. L'esempio più insigne era il Serapide di Briasside esistente nel santuario del dio ad Alessandria (Clemente Alessandrino, Protrepticon, IV, 48): Briasside avrebbe foggiato la statua impastando limatura d'oro, d'argento, di bronzo, di ferro, di piombo, di stagno con polvere di zaffiro, di rubino, di smeraldo, di topazio, poi avrebbe colorato la statua con colore azzurro cupo.

Medioevo ed età moderna. - Nell'arte cristiana dei primi secoli, in quelle sculture in cui ancora è possibile sentir l'eco della classicità, vediamo adoperati gli stessi metodi tecnici dell'ultimo periodo classico. Nella scultura romana, e in genere occidentale, vengono meno col mancare della classicità il concetto e la pratica della statua di tutto tondo; gli scultori degli ultimi sarcofagi, con un gioco crudo del trapano, cercano di dare meccanicamente rilievo (staccandole quasi dal fondo cui aderiscono) alle ultime larve della decadenza degli schemi classici. La materia del rilievo, così traforata e frantumata, si andò sempre più perdendo come sentimento di profondità e di pienezza. In questo nuovo gusto, sul movimento variato dei piani nel senso della profondità, prevale il piano unico di superficie su cui sono segnate e intagliate le varie figurazioni. Nei sarcofagi, nelle transenne, nelle cattedre, nei capitelli, nei dittici, ecc., fu adoperata con rara sapienza, specialmente dall'arte cristiana d'Oriente e bizantina, questa caratteristica tecnica (v. copti: L'arte copta; bizantina, civiltà; ravenna).

Nel periodo romanico, rinascendo un nuovo fervore di vita e il bisogno di una documentazione sentimentale e veristica delle storie cristiane, rinasce il sentimento del rilievo, e da questo la necessità della statua. Man mano che si procede nel tempo, il rilievo, anzi che dal pieno e dal profondo procedere verso il piatto e la superficie unica (come accade nella prima arte cristiana), si sviluppa dalle masse tozze e profonde (quasi statue a tutto tondo applicate ad un piano di fondo) verso suggerimenti formali più sottili e più capaci di illusione prospettica. Dalle sculture romaniche primitive fino a quelle dell'Antelami e di Nicola Pisano si segue per gradi lo svolgimento di questa tendenza (v. romanica, arte).

Nel periodo gotico, i mezzi più sicuri di escavazione e di lavorazione della pietra dànno sempre più grande importanza al concetto di statua: mentre, anche su modelli e suggerimenti dell'antico, il bassorilievo ha ogni finezza e giunge anche all'espressione pittorica, nelle facciate della cattedrale le statue a tutto tondo acquistano sempre maggiore stacco dall'architettura, come espressioni plastiche individuali (v. gotica, arte).

Nel Rinascimento possiamo vedere vieppiù seguiti, e, per molti riguardi, superati, i procedimenti tecnici della classicità. Basterebbe considerare il nuovo carattere del rilievo che, anche quando è a stiacciato, mira sempre al suggerimento del pieno volume, e come anche nel rilievo si affronti la piena frontalità delle figure.

Le osservazioni tecniche più raffinate sono consacrate anche nei trattati sulla plastica, di L. B. Alberti, di P. Gaurico, di B. Cellini.

Le fusioni in bronzo che l'arte bizantina non aveva mai tralasciato e che dal sec. XI ritornano nella pratica occidentale (bronzi di Hildesheim; porte di bronzo dell'Italia meridionale, ecc.) nel Rinascimento giungono a rara perfezione tecnica: dalle porte del Battistero fiorentino del Ghiberti, in cui la tecnica del "gettare, polire, nettare", ha raggiunto la più squisita sottigliezza di mestiere, fino alla fusione del Perseo, il bronzo fu la materia di molti capolavori.

Un'altra tecnica degli antichi, che gli scultori del Rinascimento hanno portato ad un progresso notevolissimo, è quella della terracotta dipinta, invetriata. I Della Robbia produssero una grande quantità di queste opere, la cui riproduzione era agevolata moltissimo dalle forme e dai calchi, e dal poco costo dei materiali e della maestranza di bottega. Tale tecnica, già conosciuta dagli antichi (Egizî, Assiri, Etruschi, Greci e Romani, Bizantini, Arabi, ecc.) ha ora una sua nuova vita caratteristica. Il colore non è dato in modo naturalistico, come il colore locale delle varie forme, ma in modo decorativo, come rapporto tonale di colori irreali (v. policromia).

Alla tecnica del marmo Michelangelo diede la più grande importanza. La sua potenza e la sua sicurezza lo conducevano qualche volta a fare a meno della messa a punto già iniziata, e a continuare l'opera dello scalpello direttamente nel blocco, senza riferimenti con il modello.

Il marmo e il bronzo trovano ancora perfezionamenti e miracoli di bravura nella tecnica del Bernini, il cui sentimento pittorico e sensuale voleva dare corpo, nella pietra, alla sofficità pieghevole dei panni, alle nuvole, alla grazia molle delle foglie. Mai gli scalpelli ricurvi ed il trapano ebbero maggior lavoro e maggior felicità di invenzioni.

Poco o nulla, dal punto di vista meccanico e del mestiere, ha aggiunto, dal Rinascimento ad oggi, l'anima moderna alla storia della tecnica, la quale varia non per variare di mezzi, ma piuttosto per mutar di passioni e di visione artistica, fino alle cere impressionistiche di M. Rosso e ai levigati marmi di A. Wildt.

Bibl.: Antichità: H. Blümner, Technologie u. Terminologie d. Gewerbe u. Künste bei den Griechen u. Römern, I-IV, Lipsia 1875-1887; F. De Clarac, Musée de sculpture, Parigi 1841, I; Ch. Dugas, s. v. Sculptura, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des antiquités; K. Kluge, Die antike Erzgestaltung und ihre technischen Grundlagen, Berlino e Lipsia 1927, e Die Gestaltung des Erzes in der archaischgriechischen Kunst, in Jahrb. des Instituts, XLIX (1929), pp. 1-30; K. O. Müller, Handbuch der Archäologie der Kunst, 3ª ed., curata da Fr. G. Welcker, Stoccarda 1878, p. 420 segg.; B. Pace, Introduzione allo studio della archeologia, Napoli 1934, p. 110 segg.; G. Perrot e Ch. Chipiez, Histoire de l'art dans l'antiquité, VIII, Parigi 1903.

Medioevo ed età moderna: L. B. Alberti, L'Architettura (volgarizzamento di C. Bartoli), Firenze 1550; B. Cellini, Trattato dell'oreficeria, Roma 1901; S. D'Agincourt, Storia dell'arte..., Prato 1826-30; Encyclopédie méthodique-beaux arts-sculpture; L. Ghiberti, I commentari, ed. J. v. Schlosser, Berlino 1912; M. Guerrisi, Discorsi su la scultura, Torino 1930; A. Gsell, Conversations avec Rodin, Parigi 1910; A. Hildebrand, Das Problem der Form in den bildende Kunst, Strasburgo 1903; A. Kuhn, Die neuere Plastik, Monaco 1922; A. Melani, Scultura italiana antica e moderna, 3ª ed., Milano 1912; M. Buonarroti, Michelangelo, Lettere, ....., a cura di G. Vitaletti, Torino 1930; A. Ricci, Manuale del marmista, 2ª ed., Milano 1895; R. Romanelli, Alcune riflessioni sulla scultura, Firenze 1930; A. Soffici, Il caso Medardo rosso, ivi 1909, nuova ed., ivi 1929; P. Roesca, Storia dell'arte italiana, Torino 1927, I; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, Milano 1901 segg.; L: Venturi, Pretesti di critica, Milano 1929, pp. 95-125; A: Wildt, L'arte del marmo, 2ª ed., Milano 1921.

Etnografia.

Nel campo delle arti figurative la manifestazione artistica più frequente, e quella che assume maggior importanza nella complessa vita sociale e religiosa dei popoli inculti, è la scultura. Quest'arte raggiunse sviluppi notevoli per potenza d'espressione e perfezione di stile già tra le popolazioni europee della fine dell'epoca glaciale (Miolitico) e tra i Neolitici mediterranei dell'isola di Malta. Figurine umane prevalentemente femminili, di pietra o di argilla, di stili diversi a seconda delle genti che le plasmavano o delle epoche a cui appartenevano, sono comuni durante tutti i tempi preistorici tanto in Europa quanto in Asia e in Africa. Una classe di monumenti che dall'Eneolitico continua fino ai tempi storici sono le stele antropomorfe, per lo più di stile schematico, alle quali si collegano pure le kamennya baba russo-asiatiche. Sculture notevoli lasciarono pure le popolazioni barbariche dell'età del ferro. Degne di nota sono le statue di Nesazio in Istria, rappresentanti figure maschili itifalliche, una figura femminile e un cavaliere, in alcune delle quali è evidente tuttavia l'influenza dell'arte greca del sec. VII-VI. Un interessante gruppo di statue dello stesso periodo esiste nel Portogallo, tra le quali giova segnalare principalmente la gigantesca statua di granito rappresentante un uomo seduto scoperta sul Monte de Pedralva (Guimares).

Nelle cerchie dei popoli primitivi viventi, quali i Pigmei, i Fuegini e i Tasmaniani, la scultura rimase ignota, come rimase ignota ai Boscimani, che furono invece esperti nell'arte del disegno e della pittura. I primi saggi di un'arte plastica s'incontrano presso gli Australiani. Le tribù del centro plasmano sul terreno grossolane figure di animali mitici in occasione delle cerimonie totemistiche. Figure totemiche schematiche vengono profondamente incise su tronchi d'albero parzialmente scortecciati. Pali dipinti con testa intagliata piantano sulle tombe gl'indigeni nell'isola Bathurst. All'influenza della cultura papuana si devono ascrivere le grandi maschere di legno raffiguranti teste di coccodrillo, scolpite da alcune tribù del Capo York, che servono per la celebrazione di certe danze e per le cerimonie iniziatiche.

Fuori dell'Australia, continente nel quale la persistenza della primitiva cultura australiana ostacolò l'affermarsi di forme culturali più elevate, la scultura andò incontro a un più grande sviluppo in seno alle popolazioni totemistiche e a quelle in cui l'organizzazione sociale è divisa in due classi matrimoniali esogamiche, e tra le quali il largo uso delle maschere fatto nelle cerimonie delle società segrete maschili condusse alla creazione di forme plastiche talora veramente originali. Nel mondo dei popoli inculti i territorî in cui la scultura trovò larghi sviluppi sono i seguenti: tutta la vasta area del continente africano abitata da Negri Sudanesi e dai Bantu occidentali; il vasto complesso insulare oceanico abitato da popolazioni indonesiane, melanesiane e polinesiane; le regioni settentrionali dell'Asia e dell'America, in cui si svolse la civiltà artica. Tra le popolazioni viventi dell'America la scultura ha scarsa importanza. Si distinguono da tutte le tribù totemistiche del NO., presso le quali la scultura in legno ebbe molta importanza. Scarso è lo sviluppo artistico tra le tribù nomadi pastorali dell'Asia, come pure tra quelle dell'Africa orientale e settentrionale.

La plastica negra conta tra i suoi più caratteristici prodotti le statuette scolpite, nella maggior parte dei casi, in legno, ma talora anche in pietra o plasmate con l'argilla. Queste figure rappresentano antenati o divinità. A queste seguono le maschere e gl'intagli decorativi (sedili, poggiateste, vassoi, tamburi, ecc.). Sono da segnalare principalmente le sculture eseguite dalle tribù congolesi e del Cassai, da quelle del Camerun e della Guinea. Nelle figurine umane, attraverso una stilizzazione spesso esagerata delle singole parti anatomiche, domina sempre l'espressione naturalistica, notevole specialmente nella vigorosa accentuazione dei caratteri somatici proprî della razza. L'elemento fantastico predomina specialmente nelle maschere e nella scultura decorativa, nella quale la figura umana ha un'importanza preponderante. Degne di nota sono le decorazioni delle porte e i troni del Camerun. Dal territorio degli Yoruba provengono alcune antiche teste umane di terracotta (una delle quali rappresenta una divinità marina), le quali per la purezza dello stile, l'equilibrio della forma, la naturalezza e la serenità dell'espressione, si possono comparare a certi prodotti dell'arte classica mediterranea. L'arte attuale degli Yoruba presenta invece affinità stilistiche con l'arte del Benin, i cui antichi bronzi (sec. XVI-XVII) costituiscono una delle più elevate e originali creazioni dell'arte negra. Accanto a queste sculture vanno posti per il loro interesse storico, più che per quello artistico che è molto inferiore a quello dei bronzi del Benin, i bassorilievi policromi in argilla che decorano i palazzi reali del Dahomey. Nei rilievi più recenti, quelli del palazzo di Glele, si osserva una sensibile decadenza nello stile e nella composizione rispetto a quelli del sec. XVIII del palazzo di Agagia. Un materiale che gli artisti negri non mancarono di utilizzare è l'avorio di elefante. Intere zanne e molari di questo pachiderma con incisioni ad alto rilievo rappresentanti teorie di figure umane provengono da Loanda, dal Gabon e dai territorî della Guinea. La scultura negra delle regioni fin qui nominate, per la tecnica vigorosa e per l'originalità dello stile, occupa un posto di primo piano tra i prodotti artistici dei popoli inculti e per il contenuto spirituale è superiore anche alle sculture dei popoli dell'Oceania.

Nelle zone marginali dell'area ora presa in considerazione, tra i Niloti, i Bantu orientali e occidentali, la scultura presenta caratteri più primitivi. La decorazione degli oggetti di legno diviene più rozza e meno frequente. Le statuette di legno dei Mangbetu, dei Bari, degli Zulu, sono molto rozze e primitive. Grossolane sculture in legno, rappresentanti la figura del defunto, pongono i Galla pagani sulle tombe dei capi e dei maghi. La statua viene dipinta in rosso e vestita con gli abiti del morto. Sculture funerarie dello stesso tipo esistono anche nel territorio dei Konso a sud dei laghi Regina Margherita e Ruspoli. Statue antropomorfe di pietra furono segnalate a oriente degli stessi laghi. Stele di pietra funerarie, con armi e figure umane stilizzate, si trovano nel territorio dei Galla Arsi e nel Bali. L'opinione espressa dal Cerulli, che queste sculture funerarie siano dovute all'influenza culturale dei Bantu, influenza che si rivela anche nella divisione in classi di età del sistema dei Gada, è molto plausibile.

Per l'importanza assunta da quest'arte nella vita sociale e religiosa di quei popoli, per l'originalità dello stile e talora anche per l'imponenza dei monumenti, alla scultura dei Negri d'Africa si può far seguire quella dei Melanesiani e dei Polinesiani. Nelle sculture melanesiane prevale l'elemento fantastico, dati gli stretti legami esistenti tra questi prodotti artistici, i riti magici e il culto dei morti. Le statuette di legno e di pietra rappresentanti per lo più immagini di antenati, idoli o divinità, non offrono normalmente speciali caratteristiche, per quanto si distinguano tanto dalle statuette africane ora descritte quanto da quelle indonesiane. L'originalità dell'arte melanesiana si manifesta principalmente nelle maschere e negl'intagli in legno. Caratteristici sono gli astucci per la conservazione dei cranî degli antenati, gl'intagli che adornano gli scudi cerimoniali, le prore dei canotti e in particolare quelle dei grandi canotti da guerra. Tutte queste sculture sono policrome; i colori adoperati sono il bianco, il rosso, il nero e talvolta anche l'azzurro. Negli elementi decorativi domina la linea a spirale, la stilizzazione della figura e della faccia umana e quella dell'uccello fregata. Tra le più originali sculture melanesiane sono da segnalare le maschere da ballo (tatanua), le maschere degli antenati (kepong) e le figure totemiche (mata totok) dell'arcipelago della Nuova Britannia.

La scultura polinesiana ha nella Nuova Zelanda e nell'Isola della Pasqua i due suoi principali centri. L'antica arte maori trovò la sua massima espressione nella scultura in legno, in cui la figura umana stilizzata veniva associata a elegantissimi motivi spiraliformi finemente intagliati. Le capanne e in particolare le abitazioni dei capi avevano i pali di sostegno, gli stipiti della porta e della finestra anteriore, i pali del tetto e le pareti coperte di bassorilievi dipinti in rosso. Intagli a spirale di pregevole fattura servivano di ornamento alle prue dei canotti. Tra i prodotti della scultura maori, oltre a varî oggetti di legno elegantemente intagliati, sono da ricordare i caratteristici hei-tiki, figurine piatte antropomorfe stilizzate, scolpite in nefrite, in ossa di cetacei e talora anche ricavate da ossa del cranio umano. Queste figurine, ritenute amuleti, venivano gelosamente conservate dalle famiglie e si collegavano molto probabilmente al culto degli antenati.

Anche negli altri arcipelaghi polinesiani si hanno pregevoli lavori d'intaglio in legno. Notevoli fra tutti sono le clave cerimoniali delle Tonga e delle isole Cook. Occupano un posto a parte nella scultura dei popoli inculti le toki tikitiki di Mangaia nell'arcipelago di Cook. Sono asce dal grande manico di legno a tronco di piramide o cilindrico intagliato a traforo con motivi simbolici, derivati - almeno in alcuni casi - dalla stilizzazione della figura umana. Questi superbi esemplari dell'arte polinesiana furono scolpiti con ossa taglienti e specialmente con denti di squalo.

Statuette di legno rappresentanti figure umane in stile schematico si trovano nelle isole Marchesi e nelle Hawaii.

Una delle principali caratteristiche dell'Isola della Pasqua (v.) sono le statue monumentali di pietra, scolpite in una trachite rossiccia del vulcano Rano Rarako. Si possono distinguere due tipi: uno più antico di fattura rozza con la testa quadrata o rotonda sormontata da un alto cilindro e con gli occhi formati da un foro profondo; un tipo più recente con testa larga e piatta, e con gli occhi formati da un lungo solco incavato sotto la fronte sporgente. Quest'ultimo tipo trova riscontro nelle statuine di legno della Melanesia. Numerose di queste statue sono disseminate alla base del Rano Rarako; alcune di esse sono ancora in piedi, altre sono rovesciate. Sulle pendici del vulcano si conta oltre un centinaio di statue rimaste incompiute e ancora aderenti alle pareti rocciose del monte, nel quale venivano direttamente scolpite. Molte di queste statue sono poste sopra alte piattaforme funerarie di pietra, ahu, erette lungo le coste dell'isola e nelle quali venivano esposti i cadaveri prima della definitiva sepoltura delle ossa. In tutta l'isola esistono 460 di queste statue gigantesche. Statue monumentali di pietra esistono anche nell'isola Pitcairn, nelle isole Tubuai e nel gruppo delle Marchesi.

La scultura indonesiana ha carattere prevalentemente decorativo. Abili scultori in legno sono i Batacchi di Sumatra. Grandi mascheroni scolpiti con tecnica vigorosa in stile schematico adornano la sommità del tetto e la base delle loro abitazioni. Figure umane sovrapposte sono scolpite nei bastoni adoperati dagli stregoni. Di legno sono pure le maschere per le danze. I Batacchi, come i Daiaki, i Nias, gl'indigeni delle Filippine, scolpiscono in legno numerose figurine, molte delle quali hanno lo scopo di allontanare gli spiriti maligni. Molte di esse sono lavorate in modo grossolano. Si distinguono tra queste talune statuine schematiche delle Filippine, lavorate a larghi piani, e gl'idoli e le immagini degli antenati dei Nias, alcune delle quali superano un metro di altezza. I Nias usavano scolpire in pietra i sedili di onore dei capi. Sopra uno di questi sedili stava una grande statua rappresentante la figura del capo. Molto eleganti sono i manici in corno di cervo delle corte spade adoperate dai Daiaki. Degni di nota sono i grandi e originali monumenti commemorativi elevati dai Naga dell'Assam, i quali decorano pure con grandi figure umane e teste di bufali i pali delle loro abitazioni e le massicce porte dei villaggi. Grossi pali rozzamente scolpiti, terminanti in una figura umana, circondano le tombe dei Moi dell'Annam. Caratteri primitivi hanno anche le numerose divinità dei villaggi, plasmate in argilla e dipinte, dalle tribù di bassa casta del Deccan.

Nelle cerchie dei popoli artici e specialmente tra gli Eschimesi è molto diffusa la scultura in osso, in avorio e, dove è possibile procurarsi questa materia, anche in legno. Dall'osso e dall'avorio gli Eschimesi ricavano statuette rappresentanti figure umane e animali, con cui compongono anche gruppi rappresentanti scene della loro vita. Anche gli utensili vengono spesso intagliati in forma di animali. Simili a quelle degli Eschimesi sono le figurine d'osso e di avorio eseguite dai Ciukci. Tra gli Eschimesi dell'Alasca sono molto diffuse le maschere di legno, alcune delle quali sono di forma piatta e molto semplici, altre invece sono articolate come quelle degl'Indiani del NO.

Gl'indigeni americani dimostrano scarse attitudini per le arti plastiche. Nell'America Settentrionale si distinguono fra tutte le tribù totemiste della costa del nord-ovest (Haida, Tlingit, Kwakiutl) e le tribù della Columbia Britannica per le loro sculture in legno. Oltre alle sculture che decorano gli utensili e altri oggetti di uso comune di legno e di pietra, sono da segnalare gli alti pali totemici scolpiti in legno e dipinti, che vengono innalzati davanti alle abitazioni, e le maschere da ballo. Tutte queste opere sono ben riconoscibili per l'originalità dello stile e della decorazione. L'epoca aurea della scultura, la quale raggiunse espressioni veramente monumentali, fu quella in cui fiorirono le grandi civiltà precolombiane del Perù, del Messico e dello Yucatán. Invece tra le popolazioni attuali dell'America Meridionale le arti plastiche decaddero molto. Le maschere da ballo delle tribù dell'alta Amazonia (Tikuna) e di quelle del bacino del Xingu (Tupi, Bacairi), rivelano mancanza di senso artistico e anche poca abilità manuale. Oltre alle maschere sono da segnalare le statuette di argilla policroma dei Caragià, le quali riproducono figure umane con le estremità inferiori molto ingrossate. Si tratta anche in questo caso di prodotti artisticamente inferiori. (V. tavv. XXXVII-XLVI).

Bibl.: Th. Bossert, Geschichte des Kunstgewerbes, I-IV, Berlino 1928-1932; L. Frobenius, Das unbekannte Afrika, Monaco 1923; A. C. Haddon, The decorative Art of British New-Guinea, Dublino 1894; F. v. Luschan, Die Altertümer von Benin, Berlino 1919; A. B. Meyer u. R. Parkinson, Schnitzereien u. Masken vom Bismark Archipel u. Neuguinea, in Publ. aus dem ethnographischen Museums zu Dresden, X (1895), v. anche VII e XIII; E. W. Nelson, The Eskimo about Bering Strait, in Ann. reports of the Bureau of Am. Ethnology, 1896-97, Washington 1899; F. Sculze-Maizier, Die Osterinsel, Lipsia 1926; E. v. Sydow, Die Kunst der Naturvölker, Berlino 1923.