SCRIVERE E DIGITARE

XXI Secolo (2009)

Scrivere e digitare

Giuseppe Antonelli

Il ritorno alla scrittura

Fino a una ventina d’anni fa, il dominio dell’audiovisivo – dei media detti non alfabetici – faceva prevedere una progressiva perdita d’importanza della parola scritta a vantaggio delle varie forme di oralità ‘secondaria’ (ben lontana dall’oralità ‘primaria’ di chi non sa scrivere). All’interno «dell’attuale cultura tecnologica avanzata», scriveva Walter J. Ong, «una nuova oralità è incoraggiata dal telefono, dalla radio, dalla televisione e da altri mezzi elettronici, la cui esistenza e il cui funzionamento dipendono dalla scrittura e dalla stampa» (Orality and literacy. The technologizing of the word, 1982; trad. it. 1986, pp. 29-30).

Ne derivava, nel campo degli studi linguistici, un grande interesse per le varietà trasmesse: quella della televisione – innanzi tutto – e della radio, ma anche quella del telefono, che qualcuno assimilava a una «lettera simultanea» (G.P. Caprettini, Il colpo di telefono. Per una semiologia della lettera simultanea, in La lettera familiare, a cura di G. Folena, 1985, pp. 223-31). L’analfabetismo di ritorno – cioè la tendenza, da parte della popolazione scolarizzata, a perdere con il tempo la capacità di scrivere correttamente – appariva come una china inesorabile; la scrittura stessa veniva data per spacciata in molte prognosi autorevoli.

Dall’audiovisivo al multimediale

Nel frattempo, però, lo sviluppo della telematica ha fatto sì che l’elettronica fosse associata ad applicazioni diverse e si riferisse soprattutto a una serie di operazioni svolte a distanza con la mediazione del computer (basti pensare ai tanti neologismi con e- «electronic»: e-business, e-government, e-learning, e-mail). Per mezzo delle reti telematiche è ormai possibile inviare contemporaneamente testi scritti, immagini fisse e in movimento, suoni; anche nei telefoni cellulari di ultima generazione la trasmissione della voce è diventata solo uno dei diversi impieghi.

Così il concetto di audiovisivo è stato riassorbito all’interno di quello più ampio di multimedialità: l’evoluzione tecnologica ci ha abituati a una fruizione integrata della comunicazione, in cui la parola scritta ha riconquistato uno spazio importante. «È con la rete, o meglio con le diverse forme di Comunicazione mediata dal computer (CMC), che la parola sembra davvero conoscere un poderoso ritorno», notava dieci anni fa Franco Carlini (Lo stile del Web. Parole e immagini nella comunicazione di rete, 1999, p. 40): oggi sono in molti a riconoscere nella rete un atteggiamento decisamente «testocentrico».

Qualunque discorso sulle più recenti evoluzioni degli usi linguistici deve fare i conti con il luogo comune che vede nel progresso tecnologico un condizionamento decisivo per le forme dell’espressione umana: «la tecnologia costituisce ormai la principale interfaccia con il mondo» (R. Silverstone, Why study the media?, 1999; trad. it. 2002, p. 45). Nella declinazione di questo luogo comune – figlio della medium theory («il mezzo è il messaggio») e del cosiddetto determinismo tecnologico – non mancano i toni enfatici. Spesso si descrive il cambiamento in termini di mutazione antropologica, accomunando l’avvento dei nuovi media alla diffusione della stampa, con l’intento di sottolineare il parallelismo tra il passaggio all’era moderna (segnato dalla ‘rivoluzione inavvertita’ provocata dalla stampa fra Quattro e Cinquecento) e quello al postmoderno (legato ai media telematici).

Chi pone l’accento sulla scrittura, parla di una «terza fase» – dopo quelle aperte dalla scrittura alfabetica e dalla stampa – in cui all’intelligenza ‘sequenziale’ si va sostituendo un’intelligenza ‘simultanea’, che «guarda» invece di leggere (Simone 2000). Chi al contrario si concentra sul parlato, rifacendosi a un’analoga scansione tripartita, segnala lo sviluppo di un’«oralità terziaria, quella dei sistemi multimediali, della realtà virtuale e della rete. È un’oralità elettronica, come la ‘seconda’, ma diversamente da quella si fonda sulla simulazione della sensorialità, piuttosto che sulla sua trasmissione» (Il pensiero digitale e l’arte della connessione. Conversazione con Derrick de Kerckhove, a cura di A. Buffardi, 2004, www.politicaonline.it/?p=46).

Il paradigma digitale

Nell’attesa di sapere dove ci porterà il paradigma multimediale – la cui unica vera novità, in fatto di scrittura, sembra consistere negli ipertesti –, stiamo vivendo appieno il dispiegarsi del paradigma digitale (l’idea di una «rivoluzione digitale» in atto è stata divulgata da Nicholas Negroponte nel suo Being digital, 1995; trad. it. 1995). Ciò significa che allo stato attuale – indipendentemente dalle future conseguenze, prevedibili solo in minima parte – il diffondersi della comunicazione telematica ha significato una netta rivincita per la scrittura.

Da quando la corrispondenza in simultanea è diventata una realtà alla portata di tutti, si è verificato un clamoroso ritorno alla comunicazione per iscritto, che sta dando vita a diverse e fortunatissime forme di ‘neoepistolarità tecnologica’: la posta elettronica (l’e-mail, appunto), gli SMS (i ‘messaggini’ inviati tramite il telefono cellulare) e – su un piano diverso – le chat line (le conversazioni a più voci che si svolgono in rete) e l’instant messaging (la conversazione in simultanea tra due soli interlocutori: IM, se avviene da personal computer; MIM, Mobile Instant Messaging, se avviene tramite telefono).

Tutto questo ha profondamente modificato l’assetto delle varietà trasmesse, che ora contemplano una vasta gamma di media scritti. L’effetto più rilevante è stato sicuramente quello di desacralizzare la scrittura: non soltanto perché «i confini del testo definitivo, e delle gerarchie di ogni forma e peso che da esso derivano, si erodono [...] passibili di continue, infinite modificazioni» (Fiormonte 2003, pp. 14-15), ma soprattutto perché adesso si scrive ovunque per raggiungere chiunque e comunicare comunque. Si scrive, quindi, in condizioni di concentrazione e di pianificazione del testo molto diverse da quelle tradizionali.

Ciò comporta il venir meno delle coordinate che avevano caratterizzato e condizionato la scrittura per secoli. Se il testo diventa labile, la scrittura passa nella sfera dell’effimero; se si scrive così spesso, scrivere diventa un gesto quotidiano, lontanissimo da quella solennità di cui si era sempre ammantato. Lo schermo è facile da riempire, piccolo come quello del telefonino o già predisposto a rispondere come quello dei messaggi di posta. E la risposta dev’essere pronta, se non immediata, perché un’attesa troppo lunga – nella pragmatica di queste forme di comunicazione – può essere considerata un segno di freddezza o addirittura di ostilità (cfr. Y.M. Kalman, G. Ravid, D.R. Raban, S. Rafaeli, Pauses and response latencies. A chronemic analysis of asynchronous CMC, 2006, jcmc.indiana.edu/ vol12/issue1/kalman.html).

Ben lungi dall’essere effimera, in realtà, la corrispondenza elettronica viene implacabilmente archiviata giorno per giorno dai nostri personal computer e dai nostri telefonini. Un aspetto che, in prospettiva storica, presenta un problema ben diverso: l’eccesso di conservazione tipico di una società libera dall’ingombro della carta e ormai disabituata alla selezione e alla gerarchia dei materiali (cfr. M. Ferraris, Sans papier. Ontologia dell’attualità, 2007). Il progetto Email Britain, promosso nel maggio 2007 dalla Brit-ish Library in collaborazione con la Microsoft (www.newhotmail.co.uk/emailbritain), mirava a raccogliere un milione di messaggi divisi per tema: già il primo giorno le e-mail ricevute erano diverse migliaia. Il progetto Faites don de vos SMS à la science lanciato dall’Università di Lovanio alla fine del 2005 ha raccolto in poco più di due mesi 75.000 messaggi (30.000 sono andati a creare il corpus di riferimento del lavoro di C. Fairon, J.R. Klein, S. Paumier, Le langage SMS, 2006). Resta in ogni caso difficile, di fronte a questa disponibilità potenzialmente illimitata, fondare una ricerca scientifica su un corpus che possa considerarsi davvero rappresentativo (M. Beisswenger, A. Storrer, Corpora of computer-mediated communication, 2007, www.michael-beisswenger.de/pub/hsk-corpora.pdf).

L’italiano digitato

Sono molti i teorici della comunicazione per i quali, alla luce dei cambiamenti appena accennati, bisognerà ripensare completamente la scrittura (per es., R. Harris, Rethinking writing, 2000; trad. it. La tirannia dell’alfabeto. Ripensare la scrittura, 2003). Per il momento, quello che si può fare è cercare di individuare gli aspetti innovativi di questa ‘scrittura digitale’ e provare a misurare, sulla base degli studi esistenti, le eventuali conseguenze sulla lingua comune.

Di sicuro, il moltiplicarsi dei mezzi di comunicazione ha accelerato alcuni processi in atto da tempo, come il progressivo avvicinamento tra parlato e scritto. La nuova confidenza con la scrittura acquisita da larghe fasce della popolazione aumenterà ancora quella pressione del parlato sullo scritto a cui già da qualche tempo sono addebitati i principali movimenti in atto nell’italiano. Si tratta di «una rivoluzione iniziata con l’avvento dei word processor e proseguita con la telematica […] l’attuale primato della scrittura [...] non è pensabile fuori dal contesto multimediale che ne ha ridefinito il ruolo, poiché la scrittura è oggi solo uno dei tanti linguaggi che le nuove tecnologie consentono di allineare, sovrapporre e contaminare» (Pistolesi 2004, pp. 10-11).

Per parlare di queste nuove forme di scrittura, si sono usate diverse definizioni: quella di italiani trasmessi scritti (ma nella coscienza collettiva l’idea di ‘trasmissione’ è ancora intimamente legata alle trasmissioni televisive o radiofoniche); quella di italiano digitale, che sottolinea la differenza rispetto ai vecchi media analogici (peraltro non scritti: per es., il telefono) e anche quella di italiano digitato (E. Gastaldi, Italiano digitato, «Italiano & Oltre», 2002, 17, pp. 134-37), che pone bene l’accento sulla nuova e comune modalità di produzione della scrittura.

«Da dove dgt?», si domanda in rete quando si entra in contatto con un nuovo ircatore (IRC, Internet Relay Chat, è il programma più diffuso tra quelli che gestiscono le chat line). Digitare su una tastiera era, fino a non molti anni fa, un’attività quasi esclusivamente professionale e in generale legata all’idea di una copia in pulito. Oggi rappresenta un gesto quotidiano per un’ampia fetta della popolazione (specie fra i più giovani) ed è identificato con una comunicazione rilassata, confidenziale. Moltissime persone che fino a poco tempo fa non avrebbero scritto un rigo, producono incessantemente una mole impressionante – sia pure frammentaria e quasi atomizzata – di testi digitati, dando vita a una diffusione senza precedenti della comunicazione scritta.

Eppure – specie nella prima fase, quella degli anni Ottanta e Novanta – la dimensione scritta della CMC è stata a lungo messa in dubbio dagli stessi linguisti. Quando Daniela Bertocchi si chiedeva in un suo saggio L’e-mail si scrive o si parla? («Italiano & Oltre», 1999, 14, pp. 70-75) non faceva che riassumere il nodo centrale del dibattito linguistico di quegli anni intorno alle nuove tecnologie. Formule molto fortunate come written speech o writing conversation, infatti, insistevano sull’idea di una nuova forma di espressione linguistica. Una forma ibrida, in cui un medium scritto era usato per veicolare un tipo di comunicazione molto simile – nelle funzioni, nei modi, come anche nella percezione degli utenti – a quella parlata.

Tra le voci più autorevoli, Naomi S. Baron (2000) si esprimeva nei termini di una «modalità mista», sottolineando da un lato l’inedita vicinanza al parlato (largo uso di pronomi di prima e seconda persona, del tempo presente, di forme contratte; livello di formalità generalmente basso), dall’altro gli ineliminabili caratteri che legano la CMC allo scritto: la distanza fisica tra gli interlocutori, la natura grafica del messaggio e dunque la sua durevolezza nel tempo, ma anche la sintassi complessa e l’ampia scelta lessicale.

David Crystal (2001), dopo aver svolto un’analisi dettagliata dei vari tipi di CMC esistenti all’epoca – web, e-mail, chat e quelli che allora si chiamavano mondi virtuali (MUD, Multi User Domain, e MOO, Mud Object Oriented), giungeva a una conclusione leggermente diversa. «La lingua della rete», scriveva, «possiede di gran lunga molti più tratti che la legano allo scritto di quanti non la riconducano al parlato»; ne consegue che «andrà vista come una lingua scritta che è stata attratta in qualche modo verso il parlato, piuttosto che come una lingua parlata che è stata trasferita nello scritto» (p. 47).

I tratti più caratteristici della scrittura elettronica rispondono al tentativo di forzare i limiti della comunicazione scritta. Dal tono di voce alla mimica, dalla gestualità al contesto comunicativo, questo tipo di scrittura cerca di rendere la concretezza sensoriale di una conversazione a faccia a faccia, trasformando il testo in un luogo d’incontro virtuale. Ma per far questo, lavora proprio sullo specifico del mezzo scritto e – all’interno di una generale vocazione al gioco linguistico – insiste in particolare sugli aspetti grafici e paragrafematici. Ecco il motivo per cui, secondo alcuni studiosi, quella della comunicazione elettronica non andrebbe considerata una «cyberlingua», come continua a sostenere la vulgata giornalistica, ma piuttosto una «cyberscrittura» (Véronis, Guimier de Neef 2006); non di «neolingua» bisognerebbe parlare, ma di «neografia» (J. Anis, Communication électronique scripturale et formes langagières, 2002, http://edel.univ-poitiers.fr/rhrt/document.php?id=547).

Neografia?

Sono di natura grafica o paragrafematica quasi tutti i tratti che nell’immaginario collettivo caratterizzano la scrittura elettronica. In gran parte, si tratta di soluzioni tutt’altro che nuove: la novità è rappresentata, casomai, dalla concentrazione con cui appaiono in alcuni tipi di CMC (e che risulta massima nelle chat, mentre è minima nelle e-mail).

Alcune sono rese grafiche che – sul modello delle forme inglesi, da subito diventate internazionalismi (per l’italiano, G. Fiorentino, F.F. Pellegrini, G. Perucci, Innovazione lessicale e presenza dell’inglese nell’italiano informatico e di Internet, «Lingua italiana d’oggi», 2007, 4, pp. 321-44) – mirano a una maggiore brevità o rapidità di esecuzione. Ciò vale per gli acronimi (per es., inglese AFK away from keyboard, BRT be right there, NP no problem; francese ASV âge sexe ville, PLV pour la vie; tedesco DNF Da nich für, KB, Kein Bock; svedese IAF i alla fall ‘comunque’; ceco ZTP Zatim pa pa ‘ciao per ora’, calco dall’ingl. ta ta for now), le grafie simboliche (inglese CUl8 per see you later; francese a2m1 per à demain; tedesco n8 per nacht; spagnolo d+ per de más; portoghese v6 per vocês; sloveno z5 per zpět ‘indietro’) o fonetiche (inglese da per the; francese kand per quand; tedesco axo per ach so) o contratte (inglese thx per thanks e plz per please; francese bsr per bonsoir e dsl per désolé; spagnolo msj per mensaje; portoghese blz per beleza; olandese gvd per goverdomme ‘accidenti’). Altre sono convenzioni che mirano a rendere aspetti non verbali come il volume della voce – servendosi del MAIUSCOLO –, una pronuncia enfatica – per mettere *qualcosa* in particolare e-v-i-d-e-n-z-a –, un’intonazione concitata – seguita da ?!? – o un’espressione ironica, da non prendere sul serio – seguita da ;-) – .

La presunta oralità della scrittura elettronica si esprime anche in una resa della pronuncia secondo criteri diversi rispetto a quelli dell’ortografia tradizionale. C’è chi ricorda, a tale proposito, che l’ortografia «non è altro che una convenzione e sempre un’astrazione a partire dalla lingua parlata»; in questo senso (almeno per quanto riguarda l’inglese), «come gli appunti lasciati sulla porta del frigo o le trascrizioni fonetiche dei linguisti esperti, molte delle abitudini tipografiche degli SMS offrono rappresentazioni più ‘corrette’, più ‘autentiche’ del parlato» (C. Thurlow, Generation Txt? The sociolinguistics of young people’s text-messaging, 2003, extra.shu.ac.uk/daol/articles/v1/n1/a3/thurlow2002003-paper.html).

Si potrebbe distinguere tra errori volontari, legati a intenzioni di tipo gergale; errori di battitura, il cui aumento va messo in relazione alle nuove condizioni di scrittura e allo statuto informale della lingua digitata; errori di competenza, dovuti cioè all’ignoranza della corretta ortografia. Ma è l’insieme dei tre fattori a creare le condizioni per una diffusa poligrafia. Nel corpus di Fairon, Klein e Paumier, per es., la parola demain conta 4233 ricorrenze scritte in almeno sedici modi diversi: demain (2434), 2m1 (510), dmain (192), dmin (148), 2main (138), dem1 (128), dm1 (130), 2min (65), dems (22), 2m (8), d2m1 (5), 2mains (4), dem’s (3), dms (3), dmai e dem’ (1).

Da questo punto di vista, la scrittura elettronica sembra riprodurre una situazione simile a quella che ha preceduto la diffusione della stampa e il conseguente fissarsi di una norma ortografica (oltre che linguistica) condivisa. La libertà portata dalla CMC nel rapporto tra pronuncia e grafia ha messo in moto un processo centrifugo che – se dovesse estendersi al di fuori degli usi neoepistolari – potrebbe creare le condizioni per una sorta di nuovo Medioevo ortografico (Lorenzetti, Schirru 2006, pp. 74-75; Véronis, Guimier de Neef 2006; Baron 2008).

È interessante che considerazioni analoghe siano state fatte dai paleografi a proposito dell’epistolografia popolare ottocentesca. Anche in quel caso, l’avvicinarsi alla scrittura di una cerchia di persone molto più vasta rispetto al passato (cfr. A. Petrucci, Scrivere lettere. Una storia plurimillenaria, 2008, pp. 130-33) favorì una larga emersione di tratti substandard. «Efficacia e nettezza comunicativa sì», ma «assente o incerta distinzione tra maiuscole e minuscole»; «nella grafia e nella separazione delle parole, tendenza a riprodurre la catena parlata»; «difficoltà nel rendere determinati fonemi oppure, che è lo stesso, nell’uso di alcune consonanti e digrammi»: «a leggere gli autografi ‘popolari’ otto-novecenteschi hai l’impressione che poco o nulla sia cambiato dai tempi iniziali della diffusione dello scrivere volgare» (A. Bartoli Langeli, La scrittura dell’italiano, 2000, p. 166).

Qualcosa di paragonabile accadeva – nello specifico ambito dei tratti paragrafematici – anche nell’epistolografia colta di quegli anni, se dobbiamo fidarci della testimonianza di Giacomo Leopardi: «La scrittura dev’essere scrittura e non algebra [...]. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee. Che altro è questo se non ritornare l’arte dello scrivere all’infanzia?» (Zibaldone di pensieri, 22 aprile 1821).

La scrittura elettronica

Nell’attuale percezione della scrittura elettronica, continua a pesare una certa tendenza all’iperbole veicolata dai mezzi di comunicazione di massa. Un particolare filone della mitizzazione di Internet (cominciata già intorno alla metà degli anni Novanta) è costituito, negli ultimi tempi, dalla descrizione di una favoleggiata «lingua di Internet». Una lingua globalizzata (a cui è stato dato un gran numero di nomi fantasiosi come netlingo, weblish o webbish, netspeak oppure globespeak ecc.) che sarebbe destinata, in breve, a scardinare l’impianto delle lingue nazionali. Soprattutto nei Paesi anglofoni, si è molto insistito – nei primi anni del Duemila – sulle conseguenze di questa presunta «rivoluzione linguistica» artificialmente amplificata dai giornali, al punto da diffondere tra i lettori una sensazione di allarme (Thurlow 2006).

È per questo che un capitolo di N.S. Baron (2008) può intitolarsi ‘Whatever’: is the Internet destroying language?. A dispetto di tutte le teorie apocalittiche – è la risposta – la scrittura elettronica sta solo assecondando una preesistente tendenza all’informalità dello scritto e all’indifferenza verso la norma linguistica tipica delle ultime generazioni. L’impatto della lingua di Internet sulla lingua comune è per il momento quasi impercettibile, come conviene anche D. Crystal: «gli effetti linguistici sono minimi, un’influenza molto piccola sul vocabolario, trascurabile sulla grammatica»; qualche prevedibile indicazione stilistica, come «l’uso di frasi brevi» (Internet linguis­tics, 2007, www.personal.rdg.ac.uk/~wcl8/sacll/lectures/transcripts/Internet%20Linguistics.pdf).

Nondimeno, la scrittura elettronica rappresenta oggi per i linguisti un campo di notevole interesse, tanto che lo stesso Crystal ha posto le basi per una «Internet linguistics», concentrata «su tutte le aree dell’attività che si svolge in Internet, compresa la posta elettronica, i vari tipi d’interazione delle chat e dei giochi, la messaggeria istantanea, le pagine web, e comprese anche aree contigue alla CMC come i messaggi SMS» (The scope of Internet linguistics, 2005, www.davidcrystal.com/DC_articles/Internet2.pdf).

La lingua di Internet

Si pone a questo punto una questione terminologica. Anche volendo tener distinta la videoscrittura tradizionale dalla scrittura in rete (come suggerisce Fiorentino, in Scrittura e nuovi media, 2004, p. 71), la gamma delle scritture in rete esclude – infatti – tipologie come quella degli SMS o dei più recenti MIM e annovera, al suo interno, generi testuali molto diversi. Per avere a disposizione un’etichetta capace di tenere insieme tutte queste fattispecie, J. Véronis ed E. Guimier de Neef (2006) propongono di ricorrere all’acronimo NFCE (Nouvelles Formes de Communication Écrite), comprendente sia la CMC tradizionalmente intesa sia le forme di scrittura mediate dal telefono sia, infine, le diverse testualità presenti nel web. Jacques Anis, qualche anno prima, aveva proposto di usare communication électronique écrite, escludendo dal raggio di questa definizione il web, assimilato piuttosto a una forma di «pubblicazione». Una distinzione giusta, che però non tiene conto di nuove forme ibride come i blog – dall’abbreviazione di weblog ‘traccia nella rete’ –, ossia quei diari on-line che si pongono a metà tra scrittura privata, narrazione e comunicazione interpersonale (v. Blog-grafie. Identità narrative in rete, a cura di G. Di Fraia, 2007).

In questo contesto si è scelto di usare come definizione generale quella di scrittura elettronica e di riferirsi con l’espressione neoepistolarità tecnologica alle varie forme di comunicazione privata telematica mediate dal computer (e-mail e chat su tutte) o dal telefono (SMS, soprattutto). Con l’etichetta lingua di Internet ci si riferirà in particolare alla lingua della rete intesa: a) come lingua delle pagine web, specie quelle rilevate dai principali motori di ricerca; b) come lingua degli utenti che in tutto il mondo si connettono più o meno abitualmente a Internet.

Per il primo aspetto, va ricordato che – almeno dalla fine degli anni Novanta – «i problemi sulla libertà ipertestuale cedono il passo alla necessità di regolare il traffico di questa massa informativa» e di arginare il «caos interattivo» grazie a una nuova disciplina chiamata Web usability, in cui convergono due diversi saperi tradizionali: la retorica e il design (Fiormonte 2003, p. 121). Per il secondo, bisognerà sempre considerare che i testi presenti su web provengono da lingue, da tipologie, persino da epoche diverse e rispondono a funzioni diversissime tra loro (Prada 2003).

Nel descrivere la cosiddetta lingua di Internet, bisognerà dunque tener conto di tutta una serie di fattori come la ricaduta linguistica che hanno le differenze geografiche (diatopia), l’evoluzione degli ultimi dieci anni (diacronia) e la diversificazione sempre maggiore tra le tecnologie (diatecnia, secondo il suggerimento di Fiormonte 2003, p. 12).

La diversità linguistica

È del 2005 un volume a più mani pubblicato dall’Institute for Statics dell’UNESCO interamente dedicato alla questione della diversità linguistica in rete (Measuring linguistic diversity on the Internet). Tra i vari temi che attraversano gli interventi, due in particolare spiccano su tutti: la difficoltà di individuare metodi sicuri per la misurazione dei dati linguistici relativi alla rete e la predominanza più o meno larga dell’inglese rispetto alle altre lingue.

Riguardo al primo, Daniel Pimienta nota nel suo saggio (Linguistic diversity in cyberspace; models for development and measurement, pp. 13-34) che le misurazioni della situazione linguistica sono svolte quasi sempre da società di marketing, le cui intenzioni sono diverse da quelle delle pubblicazioni scientifiche e i cui criteri di ricerca non sempre sono trasparenti. «Il risultato è stato quello di creare disordine e confusione riguardo allo stato delle lingue» (pp. 27-28). Quanto al secondo aspetto, John Paolillo dedica un paragrafo del suo intervento (Language diversity on the Internet: examining linguistic bias, pp. 43-89) al multilinguismo, valorizzando una serie di studi sociolinguistici dedicati all’uso in Internet di lingue diverse dall’inglese. In questa direzione va anche il volume, pubblicato nel 2007 e curato da Brenda Danet e Susan C. Herring, The multilingual Internet. Language, culture and communication online, in cui sono raccolti articoli relativi alla situazione della CMC in dodici lingue, tra le quali l’arabo, il giapponese e il cinese, oltre a diverse lingue europee.

Se si guarda alla lingua usata nelle pagine web, gli studi che sono stati effettuati dalla Funredes per conto dell’Unione latina (dtil.unilat.org/LI/2007/ index_it. htm) mostrano una presenza complessiva dell’inglese che passa – tra il 1998 e il 2007 – dal 75% al 45% (livello su cui si attesta già dal 2004), a fronte di una presenza delle altre lingue europee che conosce il suo picco massimo intorno al 2002, per poi scendere negli ultimi anni su livelli più bassi (5,9 per il tedesco; 4,4 per il francese; 3,8 per lo spagnolo; 2,6 per l’italiano). Un dato che, confrontato al numero di parlanti nativi di queste lingue, premia – com’è ovvio – l’inglese (presenza ponderata 4,4%), ma anche il tedesco (3,2), l’italiano (2,9) e il francese (2,2).

Contribuiscono al decremento percentuale delle pagine web in inglese sia l’aumento significativo delle altre lingue europee sia la recente diffusione di Internet in Asia (con particolare riferimento a realtà in grande crescita economica come la Cina e l’India) e in Africa (v. rispettivamente nel volume Measuring linguistic diversity on the Internet gli interventi di Y. Mikami, A. Zaki abu Bakar, Z. Pavol et al., Language diversity on the Internet: an Asian view, pp. 91-103; e di X. Fantognan, A note on African languages on the worldwide web, pp. 105-08). Stando ai dati pubblicati da Network Wizards e rielaborati da Gianfranco Livraghi (www.gandalf.it/dati/index.htm), alla fine del 2007 gli Stati Uniti sarebbero scesi per la prima volta al di sotto del 50% di tutti gli hostcount (indirizzi Internet); la Cina si attesterebbe al 2,3% e l’India all’1,2. Ancora: secondo i dati elaborati da Internet World Stats (www.internetworldstats.com/stats.htm), nel marzo 2009 l’Asia conterebbe 657 milioni di utenti (con una penetrazione che risulta salita al 17,4%); l’Europa 393, l’America Settentrionale 251 (con la massima penetrazione, 74,4%, ma con il minimo aumento dal 2000: 132,5%), l’America Latina 173, l’Africa 54 (ma con una crescita pari al 1100% in nove anni), il Medio Oriente 45, l’Oceania 20.

Per la specifica realtà italiana, il rapporto annuale del Censis relativo al 2007 (www.censis.it/files/Rapporto_annuale/2007/Comunicazione_media.pdf) parla di «rivoluzione digitale in atto»: gli utenti hanno raggiunto ormai una quota pari al 45,3% della popolazione e quelli abituali (ossia coloro che si connettono almeno tre volte alla settimana) sono passati dal 28,5% del 2006 addirittura al 38,3% del 2007, «con un indice di penetrazione che ha raggiunto tra i giovani il 68,3% e tra i più istruiti il 54,5%».

Evoluzione e ristrutturazione del sistema

In attesa di studi linguistici che prendano in considerazione l’evoluzione interna alle singole tipologie testuali (soprattutto a quelle di più lungo corso, come le e-mail o le chat), la diacronia più evidente rimane quella determinata dal continuo avanzamento tecnologico. Questo, infatti, consente un’offerta sempre più ricca e diversificata, al cui interno si stanno sviluppando forme di comunicazione integrata, ma anche forme di specializzazione che portano a un continuo sviluppo nei rapporti tra medium e medium. Basta mettere a confronto le due diverse edizioni del volume di D. Crystal sulla lingua di Internet (2001 e 2006) per avere un’idea precisa della rapidissima evoluzione a cui va soggetta la scrittura elettronica. Sono stati sufficienti quei cinque anni, per es., perché cominciassero a diffondersi e a prendere piede forme nuove (o che comunque erano state poco utilizzate fino ad allora) come i blog e gli IM.

Il 13 ottobre 2006, un articolo di Repubblica.it stimava che in Italia ci fossero circa 650.000 blog; la ricerca Eurisko new media del febbraio precedente ne calcolava 350.000 (il doppio rispetto alla stessa ricerca di sei mesi prima); secondo un’inchiesta dell’Associazione editori italiani resa nota nel marzo dello stesso anno, il 9% dei ragazzi italiani tra i 14 e i 24 anni teneva un proprio blog; stando a una ricerca di Technorati del marzo dell’anno successivo, i blogger italiani sarebbero ormai 3,4 milioni, ovvero il 3% del totale stimato nel mondo («Corriere della sera», 1 luglio 2008, p. 11). A conferma della natura ibrida di questa nuova tipologia testuale (A. Canobbio, Blog: la lingua che uccide, «Lingua italiana d’oggi», 2005, pp. 307-18), si può additare la frequenza con la quale appaiono nei blog le stesse convenzioni grafiche che caratterizzano la scrittura delle chat e, in misura minore, degli SMS. Ma anche il grande fastidio che questa presenza provoca in molti utenti. È ormai da qualche anno che circola tra i blog italiani un banner con un motto molto esplicito: Questo blog non è un essemmesse. E nel Corso di blog writing (2008) di Maurizio Barbarisi si raccomanda di evitare in ogni maniera qualsiasi abbreviazione o tipo di scrittura derivato dal linguaggio degli SMS (xké, nn, ki …), in quanto rivelatori soltanto di immaturità linguistica.

Per l’Italia mancano dati statistici relativi all’uso degli IM, assimilati – nelle inchieste ISTAT e Censis – alla tipologia delle chat. Quanto ai motivi per cui questo mezzo viene usato, si può citare un sondaggio commissionato da Yahoo! e Windows Live e condotto da Harris Interactive nel settembre 2006. Il 77% degli intervistati dichiara di amare l’IM per la possibilità di inviare e ricevere messaggi istantaneamente; al 63% piace perché permette di vedere se una persona è disponibile on-line; il 40% apprezza la possibilità che offre di mostrare le emozioni attraverso le emoticon (cfr. l.yimg.com/ it.download.yahoo.com/any/fu/comunicati/interopsurvey270906.pdf).

Ben altro il successo riscosso negli Stati Uniti. Secondo un’inchiesta svolta da America On Line nel 2004, il 90% degli americani di età compresa fra i 13 e i 21 anni faceva uso degli IM e la percentuale complessiva era aumentata – rispetto al 2000 – del 29%. In un’altra inchiesta promossa dal Pew Internet & American life project nello stesso periodo, il 46% degli intervistati tra i 18 e i 27 anni dichiarava di usare gli IM più della e-mail, considerata ormai come un mezzo decisamente vecchio e superato, più adatto alla comunicazione con gli adulti e compromesso con le mode del secolo scorso (E. Shiu, A. Lenhart, How Amer-icans use instant messaging, 2004, www.pewinternet.org/ pdfs/pip_instantmessage_report.pdf).

Allo stesso modo, nel campo della telefonia cellulare, i MIM dovrebbero insidiare – in un futuro non troppo lontano – il predominio degli SMS. Così almeno stando a indagini di mercato come quella svolta dalla Gartner Inc. nel maggio 2008 (www.gartner.com/ it/page.jsp?id=565124) o quella resa nota nell’aprile dello stesso anno dalla TNS Global. Quest’ultima (Global Telecoms Insight), fondata su 17.000 utenti di 30 nazioni diverse, ha rivelato che i MIM sarebbero usati oggi dall’8% degli utenti.

Numerose sono state, in questi anni, le classificazioni dei vari tipi di CMC proposte tenendo conto di vari parametri: la limitazione del canale, l’univocità o biunivocità del messaggio (con l’ulteriore distinzione tra one-to-one, one-to-many e many-to-many), il suo carattere pubblico o privato, il diverso grado di pianificazione del testo. Ma è quasi sempre quest’ultimo aspetto a essere posto in maggiore evidenza, così che al centro della classificazione tipologica si trova da tempo la bipartizione tra comunicazione sincrona (IM, chat, MUD e MOO) e asincrona (SMS, e-mail, forum e newsgroup, blog).

Molti studi linguistici hanno insistito sulla maggiore vicinanza al parlato delle forme sincrone, misurata sulla base di criteri come maggiore informalità linguistica (Véronis, Guimier de Neef 2006), il diverso scarto nei confronti della grammatica e dell’ortografia (Y. Hård af Segerstad, Use and adaptation of written language to the conditions of computer-mediated communication, 2002, www.ling.gu.se/~ylvah/dokument/ ylva_diss.pdf) o della maggiore brevità delle frasi (in media 4 parole per turno nelle chat; 5,4 per trasmissione negli IM; 7 negli SMS; 6,2 nelle unità intonazionali del parlato; 9,3 nelle «unità interpuntive» dello scritto accademico; N.S. Baron, Discourse structures in instant messaging. The case of utterance breaks in IM, 2005, www.american.edu/tesol/Baron-Summer% 2005%20version.pdf).

La neoepistolarità tecnologica

Nel novembre 2000, l’Istituto per gli studi sulla pubblica opinione (ISPO) svolgeva per conto di Poste Italiane un’inchiesta sul rapporto tra gli italiani e lo scrivere lettere. L’11% degli intervistati dichiarava di dedicarsi alla corrispondenza epistolare almeno una volta al mese, il 9% ogni due-tre mesi; tra i 18-29enni, l’8% affermava di scrivere tutti i giorni o quasi lettere personali ad amici o parenti o conoscenti, il 9% e-mail (il 39% messaggi con il cellulare).

Oggi, dall’indagine ISTAT sugli Aspetti della vita quotidiana svolta nel febbraio 2007 (www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20080116_00/testointegrale20080116.pdf), apprendiamo che tra le persone connesse a Internet – il 37% degli italiani con più di sei anni – più di tre quarti ha utilizzato la rete per comunicare tramite posta elettronica, quasi un terzo tramite altre forme come le chat (nessun dato specifico sugli IM). E dall’indagine del 2006 sull’Uso dei media e del cellulare in Italia (www.istat.it/dati/catalogo/20080429_00/testointegrale20080429.pdf) risultava che tra gli utenti del telefono cellulare – il 77,4% delle persone con più di 6 anni – quasi il 37% se ne serviva per inviare e ricevere SMS (con punte tra il 70 e l’80% nella fascia compresa fra gli 11 e i 24 anni), poco più del 13% MMS (ma la percentuale triplica fra i 15 e i 19 anni), solo il 2,2% e-mail.

Nell’odierna ‘società della comunicazione’, inviare – e più ancora ricevere – continuamente messaggi rappresenta la principale forma di relazione con il mondo esterno. Proprio per questo motivo sempre più spesso si comunica per comunicare. La funzione fàtica della lingua (quella che si occupa di attivare il canale di comunicazione), invece di essere preliminare a uno scambio di informazioni, finisce per rappresentare la sostanza e lo scopo della comunicazione stessa. Ciò vale senz’altro per SMS e IM, talvolta anche per le e-mail, più che mai per le conversazioni in chat. Un fatto che sconcerta chi entra per la prima volta in una ‘stanza’ e trova tutto un affollarsi di saluti senza risposta, tentativi inutili di sottoporre un argomento all’attenzione degli altri, incroci di affermazioni e di battute che si accavallano confusamente (S. Herring, Interactional coherence in CMC, 1999, jcmc.in­dia­na.edu/vol4/issue4/herring.html).

Al centro dei dialoghi che si svolgono in chat, c’è quello che gli anglosassoni chiamano lo small talk: la chiacchiera spicciola, la conversazione effimera. Si tratta, in effetti, di una comunicazione che risponde in gran parte a scopi ‘obliqui’: quello rituale, innanzi tutto, e poi anche quello ludico (B. Danet, L. Ruedenberg-Wright, Y. Rosenbaum-Tamari, «Hmmm... Where’s that smoke coming from?». Writing, play and performance on Internet relay chat, 1997, jcmc.india-na.edu/ vol2/issue4/danet.html).

È soprattutto da queste due spinte (gioco verbale e identità di gruppo) che prendono le mosse anche molte convenzioni tipiche dello stile neoepistolare. Allontanandosi dal cosiddetto determinismo tecnologico, per il quale i caratteri espressivi della CMC sarebbero da imputarsi interamente alle caratteristiche del mezzo, bisognerà quindi avviare «il superamento di una teoria ‘matematica’ della comunicazione intesa come semplice trasferimento di informazione e non invece come costruzione iterativa e interattiva di senso da parte degli attori; in altre parole, si tratta di tornare a concepire la comunicazione nel suo antico significato di ‘rituale’ piuttosto che come ‘trasmissione’» (Paccagnella 2000, p. 39).

Semisincronia e telepresenza

Proprio come accade per l’italiano parlato e per l’italiano scritto (due varietà tutt’altro che compatte e contrapposte), non si può parlare in termini unitari neanche di quello che si è scelto di chiamare italiano digitato. Ciò non toglie che anche in questo caso si possa indicare un nucleo di tratti fondamentali condivisi dalle diverse sottovarietà.

Superando la tradizionale bipartizione tra comunicazione sincrona e asincrona (determinata da fattori tecnologici), si potranno collocare le forme della neoepistolarità tecnologica in una dimensione temporale di scambio determinata da fattori soggettivi. «Tra l’asincrono della comunicazione scritta tradizionale [...] e il sincrono della compresenza sulla scena della comunicazione, nasce la dimensione del semi-sincrono, una nuova scala temporale per la comunicazione. La fondamentale differenza tra il sincrono e il semi-sincrono sta nella peculiarità di quest’ultimo di lasciare al ricevente la discrezionalità del quando ricevere la comunicazione», o – meglio ancora – del quando rispondere (P. Montefusco, I tempi del comunicare. Sincrono e asincrono nel nostro sistema comunicativo quotidiano, «Il Verri», 2001, 16, n. monografico: Nella rete, p. 48). In questo modo, il ritmo della comunicazione può variare tra la quasi simultaneità (tipica delle chat e degli IM, ma anche dei botta e risposta tra SMS) e la dilazione, che in alcuni casi (soprattutto per le e-mail) riporta ai tempi della posta tradizionale.

Strettamente legato alla dimensione di semisincronia è l’altro elemento fondamentale comune a tutti questi modi di scrittura: la telepresenza (J. Steuer, De­fining virtual reality. Dimensions determining telepresence, «Journal of communication», 1992, pp. 73-93; anche on-line: www.cybertherapy.info/pages/telepresence.pdf) o co-presenza (L. Cherny, Conversation and community. Chat in a virtual world, 1999, p. 155). Il fatto che lo scambio di messaggi sia concentrato o diluito non altera la netta percezione, da parte degli utenti, che il proprio interlocutore sia sempre disponibile e raggiungibile; dunque, in qualche modo, sempre presente. Il risultato è che, nella comunicazione neoepistolare, viene esaltata la caratteristica dialogicità della scrittura epistolare tradizionale, definita fin dall’antichità una conversazione tra assenti. La comunicazione è tutta sbilanciata verso il destinatario: chi scrive, mentre scrive, pensa sempre a chi sta per leggere il suo messaggio. Qui va ricercata l’origine di tutta una serie di strategie espressive che mirano a ridurre la distanza comunicativa (e, si direbbe quasi, fisica) tra i due interlocutori.

Fra queste, anche le strategie basate sull’imitazione (o meglio simulazione) dell’oralità. Già l’antica precettistica epistolare invitava chi scrivesse lettere familiari a ricercare nello stile un effetto di naturalezza e (almeno apparente) spontaneità. Oggi la scrittura neoepistolare si spinge molto oltre e l’emulazione di tratti linguistici tipici del parlato è piuttosto spinta in tutte le forme neoepistolari. Nel dialogo in chat, in particolare, si giunge a livelli tali da porre in dubbio lo statuto stesso della comunicazione: scritta, perché digitata su una tastiera, ma vissuta da chi se ne serve come se fosse una conversazione a faccia a faccia.

E-mail

La maggiore continuità con le lettere tradizionali si avverte nelle e-mail. Non sarà un caso che la terminologia della posta elettronica sia una tra le poche aree lessicali dell’informatica in cui il calco italiano prevale sull’anglicismo: i vari inoltro per forward o allegato per attachment (ma anche, più banalmente, mittente, destinatario, risposta) si sono affermati perché hanno alle spalle la terminologia della posta cartacea. Si tratta di un transfert terminologico che ha aggiornato il significato dei vecchi termini, un po’ come è accaduto nel passaggio dalla nautica all’aeronautica prima e all’astronautica poi.

L’e-mail, d’altra parte, è – di questi – il medium più disponibile a usi formali. Il tradizionale caro continua a essere utilizzato per aprire moltissimi messaggi di posta elettronica, se del caso sostituito dal più formale gentile (di solito seguito dal titolo: dottore e simili) in messaggi che talvolta non rinunciano neanche alle formalissime maiuscole di reverenza (Lei, dirLe ecc.). In chiusura, dopo i saluti di prammatica, si trova spesso l’appendice del post scriptum. Ulteriore conferma – si direbbe – della stretta parentela con le lettere cartacee, visto che è un vecchio espediente utilizzato per dare la sensazione di una scrittura libera di seguire il corso dei pensieri.

Tuttavia, mai come in questo caso bisogna stare attenti a non generalizzare: è «difficile, se non impossibile, trattare l’e-mail come un oggetto unico e omogeneo», avverte E. Pistolesi, perché «l’e-mail è solo un contenitore tecnologico che oscilla, a seconda dei casi, tra la lettera cartacea e gli SMS; può avere il suo centro esperienziale nella distanza come la prima oppure concentrarsi sul presente come i secondi» (2004, pp. 178, 182). E non è solo il diverso tasso di formalità a determinare comportamenti linguistici differenziati: le variabili che entrano in gioco in un caso o nell’altro sono molto più numerose e comprendono aspetti sociali, comunicativi, culturali, generazionali.

Se si tratta di un messaggio destinato a un forum di discussione istituzionale – per es. – a risentirne sarà il modo in cui ci si rivolge al destinatario (non un tu o un lei, ma un voi) e più in generale il grado di formalità e di pianificazione del testo (tendenti complessivamente verso un tono sostenuto); l’editing sarà più curato e difficilmente si ricorrerà alle emoticon o a grafie connotate come quelle simboliche o consonantiche. Se il messaggio è scritto in un contesto professionale, si avrà una maggiore attenzione alle formule di apertura e di chiusura, e si ricorrerà spesso a espressioni stereotipate (molto diffuse sia in ambito burocratico sia in ambito aziendale); di solito mancherà quel coinvolgimento emotivo che altrove porta a un tono confidenziale o a scatti linguistici come i cosiddetti flames ‘insulti, provocazioni, offese’ (A.K. Turnage, Email flaming behaviors and organizational conflict, 2007, jcmc.indiana.edu/vol13/issue1/turnage.html). Più lo scambio è serrato, più il testo sarà breve e ‘granulare’, ricco di segnali discorsivi e di riferimenti impliciti: un messaggio scritto quando i due corrispondenti sono on-line mostrerà un atteggiamento più spiccatamente dialogico, sarà meno pianificato da un punto di vista sintattico e testuale e più trascurato dal punto di vista dell’editing e dell’ortografia.

Indipendentemente da queste variabili, possono considerarsi caratteristici dell’e-mail alcuni tratti relativi al paratesto, cioè alla cornice in cui il testo epistolare viene presentato. L’indicazione della data e dell’ora di spedizione è sempre generata direttamente dal sistema, così come – nel messaggio che si riceve – quella del destinatario e del mittente (il che, però, a differenza di quanto accade negli SMS, non esclude il ricorso alla firma). Spia dell’originaria funzione professionale della posta elettronica è proprio un tratto del paratesto che fino all’avvento della telematica compariva soltanto nella corrispondenza commerciale e burocratica: l’indicazione dell’oggetto. Si tratta di un uso ormai metabolizzato anche nella corrispondenza privata, in cui assume funzioni simili a quelle del titolo giornalistico e viene spesso usato per effetti creativi che giocano sul rapporto fra titolo e testo.

Rispetto alla comunicazione scritta tradizionale, inoltre, una maggiore disinvoltura si avverte – in generale – negli aspetti che riguardano la confezione esterna del testo. Colpisce, per limitarsi a qualche tratto, l’indifferenza per gli errori di battitura, anche al di fuori della corrispondenza strettamente privata; lo scarso ricorso alle iniziali maiuscole, anche là dove l’ortografia lo richiederebbe; un uso distratto degli elementi paragrafematici (accenti, apostrofi, punteggiatura). La novità, più che linguistica, è sociolinguistica: la desacralizzazione della scrittura legata ai nuovi media ha alzato la soglia di tolleranza. Tuttavia, finché l’atteggiamento rimarrà circoscritto alla neoepistolarità tecnologica, non si potrà parlare di un vero allentarsi della norma, ma solo del progressivo strutturarsi di un sottocodice particolare.

Tutti i messaggi di posta elettronica condividono tra loro, e con altri generi testuali della rete, quel nuovo galateo epistolare che va sotto il nome di netiquette (net ‘rete’ + etiquette ‘etichetta, codice di comportamento’). I tanti manuali depositari di questo cerimoniale forniscono indicazioni non sempre concordi e le norme sono molto fluide, adattate di volta in volta alle esigenze dei diversi gruppi. Ci sono, comunque, alcuni principi condivisi che riguardano anche aspetti linguistici e paralinguistici. Tra gli altri, l’invito a essere stringati, a organizzare i contenuti per blocchi informativi distinti (chunks) e a servirsi – nel rispondere – della tecnica detta quoting. Questa consiste nella citazione selettiva di brani del messaggio ricevuto (che quasi sempre il client di posta elettronica ripropone automaticamente per intero) preceduti dal simbolo < e seguiti dalla risposta o da un commento.

Una tecnica che mal si addice alla resa di emozioni e sentimenti: meglio, allora, una scrittura più effusiva, che presenti i vari temi come generati uno dall’altro secondo un ordine estemporaneo. Meglio legare i vari nuclei del testo con giunture che diano un’idea di continuità (per es., gli evocativi puntini di sospensione) o riprodurre gli intercalari di una chiacchierata (dai, guarda, uffa) o ancora rendere, con l’ausilio delle faccine, la mimica che nel parlato accompagnerebbe certe affermazioni. Una consapevole messinscena dell’oralità attraverso soluzioni che (faccine a parte) rimangono saldamente nel dominio della scrittura, se non della retorica. La riprova si ha guardando alla sintassi, che «spazia dallo stile telegrafico a quello elaborato e compatto», ma con una costante: «la distanza dal parlato è massima, a meno che non lo si voglia simulare di proposito» (Pistolesi 2004, p. 185).

Chat

Nelle conversazioni che si svolgono in chat, la contemporanea presenza on-line e la rapidità (di fatto simultaneità) con cui si susseguono nel tempo i vari turni di parola rimandano a uno scambio che – anche nella sua cornice pragmatica – è impostato proprio come una chiacchierata a più voci.

«Chatti con uno. Parli. E va bene. Ma quando lo conosci? Quando lo vedi?», risponde una diciannovenne intervistata dal sociologo Antonio Roversi (Chat line. Luoghi ed esperienze della vita in rete, 2001, p. 124). Ciò che interessa in questa sede non sono tanto le domande, che aprono questioni come la «relazionalità iperpersonale» o il «multitasking identitario», quanto piuttosto l’esplicita equivalenza tra chattare e parlare. Testimonianza ulteriore del fatto che, come affermano concordi tutti gli studi sul tema, questo tipo di comunicazione è percepito dai suoi utenti come una comunicazione orale. In chat ci si incontra e ci si dà appuntamento per sentirsi (verbo usato anche nelle e-mail) o – più significativamente – per vedersi.

Quella che viene simulata è una conversazione a faccia a faccia, con tanto di messa in scena del contatto fisico (te stai bòno se no poi ce n’è anche pe’ tte.. una falangina per uno ve spIezzo) e di creazione di un ambiente virtuale (cche è sta puzza?) in cui si muovono persone dai caratteri somatici analiticamente descritti come in un ideale autoritratto («<ShyGuy> ti puoi descrivere pls [‘please’] / <Birdie> alta 1,70 cm / peso: 52 kg / gambe lunghe / capelli biondi / occhi azzurri / e ho le fossette :)»).

Come nelle conversazioni reali, è normale – anzi necessario – manifestare la propria attenzione a chi parla, dando segnali di generica conferma (certo, eh, già, ) o semplicemente facendo una risata (resa attraverso ideofoni come ah ah o acronimi del tipo di LOL laughing out loud ‘sto ridendo a crepapelle’). Non essendoci il tempo di pianificare i propri turni, il rischio di errore è molto alto, ma la rapidità della digitazione è la cosa più importante: in caso, si ricorrerà all’autocorrezione in una stringa successiva («<GaVaMaN> così e’ la vorta bona ke ci rimango di degato // fegato»).

Più che al parlato reale, però, la lingua delle chat rimanda ad altre tipologie di parlato riprodotto. In questa direzione sembra andare, per es., una spia microlinguistica come la prevalenza di dislocazioni a destra – lo capisci che il mio boy mi spezza? – rispetto a quelle a sinistra, che corrisponde a un tratto tipico del dialogo filmico (tutti gli esempi da Pistolesi 2004).

Nelle chat, in cui la telepresenza si fa sentire molto più forte e la semisincronia si risolve in simultaneità, i tratti peculiari della comunicazione telematica risultano esasperati. Ogni battuta viene suddivisa in stringhe che di solito non superano le quattro parole. Particolarmente densa è la presenza di forme univerbate (vabbè, eddài, ce ‘c’è’), acronimi (mof ‘maschio o femmina’?, pvt ‘private’ ovvero ‘in privato’) e grafie espressive (ci bekkiamo, mi annoioooooooooo, eddai). C’è, in particolare, tutta un’allografia di diffusione internazionale (1 rUL3 7h1z w0rLd: I rule this world ‘sono il migliore’): quel leetspeak, ovvero ‘lingua dell’élite’ (31337: eleet) che originariamente prende le mosse dal gergo degli hackers (h4xor2), i cosiddetti pirati informatici. Nelle chat, la maggiore concentrazione di gergalismi (e dunque il più ampio scarto dalla lingua comune) si deve proprio al fatto che gli utenti costituiscono un insieme ancora relativamente circoscritto, unito dalla condivisione di una notevole – e a volte ostentata – alfabetizzazione informatica.

Bibliografia

La bibliografia relativa alla CMC è ormai amplissima; ci si limiterà qui a citare due riviste telematiche come il «Journal of computer-mediated communication» (www.ascusc.org/jcmc) e «Language@Internet» (www.languageatinternet.de), oltre a pochi testi ritenuti significativi, soprattutto per la realtà italiana (tutte le pagine web s’intendono visitate per l’ultima volta il 29 aprile 2009).

N.S. Baron, Alphabet to email. How written English evolved and where it’s heading, London-New York 2000.

L. Paccagnella, La comunicazione al computer, Bologna 2000.

R. Simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Roma-Bari 2000.

D. Crystal, Language and the Internet, Cambridge 2001, 20062.

D. Fiormonte, Scrittura e filologia nell’era digitale, Torino 2003.

M. Prada, Lingua e web, in La lingua italiana e i mass-media, a cura di I. Bonomi, A. Masini, S. Morgana, Roma 2003, pp. 249-89.

E. Pistolesi, Il parlar spedito. L’italiano di chat, e-mail e SMS, Padova 2004.

Scrittura e nuovi media: dalle conversazioni in rete alla web usability, a cura di F. Orletti, Roma 2004 (in partic. G. Fiorentino, Scrittura elettronica: il caso della posta elettronica, pp. 69-112).

L. Lorenzetti, G. Schirru, La lingua italiana nei nuovi mezzi di comunicazione: SMS, posta elettronica e Internet, in Guida alle pratiche della comunicazione, a cura di S. Gensini, Roma 2006, pp. 71-89.

C. Thurlow, From statistical panic to moral panic. The metadiscursive construction and popular exaggeration of new media language in the print media, «Journal of computer-mediated communication», 2006, 11, 3, pp. 667-701 (anche on-line: jcmc.indiana.edu/vol11/issue3/thurlow.html).

N.S. Baron, Always on. Language in an online and mobile world, Oxford 2008 (in partic. il cap. VIII, ‘Whatever’: is the Internet destroying language?, pp. 161-81; anche on-line: www.american.edu/tesol/Whatever-Is%20the%20Internet% 20Destroying%20Language.pdf).

Si veda inoltre:

J. Véronis, E. Guimier de Neef, Le traitement des nouvelles formes de communication écrite, 2006, www.univ-provence.fr/veronis/ pdf/2006-livre-sabah.pdf.

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