SCRITTURA

Enciclopedia dell' Arte Antica (1966)

Vedi SCRITTURA dell'anno: 1966 - 1973

SCRITTURA

Red.
S. Donadoni
G. Garbini
G. Garbini
N. Gray
L. Lanciotti

Ogni s. inizia originariamente in modo pittografico, cioè rappresentando direttamente la cosa (sicché potrebbe esser letta anche senza la conoscenza della lingua nella quale lo scrittore si espresse). Ma la forma pittografica non è più sufficiente non appena sia raggiunta una organizzazione di civiltà più complessa, che presenti necessità di esprimere non soltanto cose dell'esperienza quotidiana, ma anche concetti, astrazioni. La s. pittografica, assumendo in sé anche forme simboliche, si trasforma e presenta quella fase che, per analogia con la s. egiziana, viene detta geroglifica. Nella s. geroglifica specificamente egiziana, per strettissima correlazione fra immagine della cosa e schema pre-concettuale della cosa stessa, si raggiunse una estrema chiarezza plastica, favorita anche dal rapporto magico, ancora vivamente sentito, che veniva dato alla rappresentazione di una cosa, tale da condurre alla convertibilità e all'identificazione tra rappresentazione e cosa rappresentata. Per tal modo il crearsi di una regolata distribuzione dei segni nello spazio, sottoposta a una certa scansione, a un certo ritmo, era inevitabile: la s. geroglifica raggiunse perciò presto una sua estetica. Invece, nelle scritture "corsive", puramente lineari, la deformazione delle linee, entità in sé astratte, conduce facilmente a un disordine formale, che soltanto una più matura e complessa civiltà riesce a razionalizzare e a fissare in modo definitivo in forme esteticamente soddisfacenti e quindi a modificare a seconda dei diversi atteggiamenti del gusto. Non molto diversamente si verifica un analogo processo di variazioni delle forme particolari negli elementi fissi della decorazione architettonica (fregi a fogliami, ovuli, dentelli, ecc.) una volta raggiunta una determinata stabilizzazione dei motivi generali. (Nel presente articolo la s. viene considerata da questo punto di vista formale; in esso non vanno cercati, pertanto, elementi per lo studio della epigrafia).

(Red.)

1. Egitto. - I primi esperimenti di traduzione di concetti o notizie in fatti grafici risalgono in Egitto all'età predinastica tarda (v. egiziana, arte). La rappresentazione delle singole immagini è sottosposta a una sintassi compositiva non naturalistica, che dà pieno senso solo se si "legge" (cioè si descrive con parole che sciolgano i simboli) la scena: ad esempio, un falco che con una zappa fra gli artigli distrugge una cinta fortificata entro cui è una civetta, è una rappresentazione che ha un significato determinato da elementi convenzionali che trascendono la figurazione vera e propria. Il falco è simbolo del re, e si ricorda così la distruzione da parte sua di una città, il cui nome è dato dal segno della civetta.

È questo un processo di s. assai diverso da quello che usa segni convenzionali in funzione di suoni, e che si appoggia pertanto a una analisi fonetica: è una pittografia, una serie di immagini che si appoggiano piuttosto a una analisi semantica.

Questa impostazione pittografica originaria non è stata mai dimenticata nella s. egiziana, e i geroglifici vi fanno ricorso nella loro stessa qualità grafica, caratterizzata dal fatto che ognuno di essi raffigura un essere o un oggetto, e vale per quel che raffigura. Il numero dei geroglifici è, pertanto, in teoria illimitato, e può arricchirsi a seconda di quelle che sono le nuove esperienze di ogni generazione: in realtà i segni in uso si riducono a un mezzo migliaio, anche se l'impiego può esserne triplice. Anzitutto, il segno può valere per quel che rappresenta (ideogramma). In tal caso è accompagnato in genere da un trattino che ne specifica questo carattere. Di fatto, la "scrittura" vera e propria si ha al momento in cui il segno non vale che come indicazione dei suoni che compongono la parola evocata dall'immagine. Se si tiene presente che in egiziano non si indicano altro che le consonanti, e che di regola le radici non oltrepassano le tre consonanti, si vede come questa possibilità di impiego per rebus, si potrebbe dire, sia assai più feconda di risultati di quanto non appaia alla prima. Così lo scarabeo (épr) serve a scrivere tutte le parole in cui si abbia la serie consonantica, é, p, r (ad esempio il verbo épr "divenire"); la zappa (mr), serve per scrivere ad esempio il verbo mr "amare" o il nesso mr in parole più ampie (così ad esempio in mryt "porto"); o lo sgabello (p), serve a scrivere semplicemente ogni consonante p. La serie dei segni che indicano parole che comportino una sola consonante finisce con il costituire un vero e proprio alfabeto nel nostro senso, cui si affianca una serie di segni bilitteri e trilitteri, che non scompare mai e che ha particolari regole di impiego.

Una terza utilizzazione dei geroglifici nasce dalla necessità di definire, in una s. che manca di vocali e che comporta perciò - in nessi così brevi come quelli dell'egiziano - una notevole serie di apparenti omofoni, la vera e propria lettura, diversa a seconda del senso: sono i "determinativi", che seguono la parola scritta in geroglifici fonetici e che mostrano in quale classe di concetti essa debba essere inquadrata (ad esempio rm con determinativo di pesce: "pesce"; rm con determinativo di occhio: "piangere").

È evidente che in egiziano la stessa parola potrebbe essere scritta in varî modi e con varî segni; e infatti c'è quasi sempre una rosa di possibilità grafiche, che tutte però son limitate dal principio che, se anche la s. può essere ellittica o sovrabbondante, essa deve in ogni modo suggerire la parola nel suo insieme, anche quando non ne indichi con precisione tutta l'articolazione fonica. Si ha così da una parte una tendenza a un cristallizzarsi delle grafie, che spesso esprimono condizioni fonetiche arcaiche, e dall'altra una inconsueta tenacia nel mantenere il pieno carattere figurativo ai segni della scrittura.

Lo "stile" dei geroglifici muta durante le varie epoche, e tenendo conto delle funzioni decorative o pratiche che vengono loro affidate. Ma la libertà dispositiva che essi hanno all'origine cede già con la II dinastia a una regola assai precisa: i geroglifici possono essere scritti da sinistra a destra, o (più frequente) da destra a sinistra; in linee orizzontali o in colonne verticali (gli animali e i personaggi guardano sempre verso l'inizio della riga) - in ogni caso i segni sono disposti in modo da occupare una serie di quadrati successivi, e ciascuno di essi ha un formato all'incirca fisso, di un quadrato, o mezzo quadrato verticale o orizzontale, o un quarto di quadrato. Le grafie sono perciò di molto chiara distribuzione, con un uniforme impiego di uno spazio chiaramente limitato.

Questa impaginazione sicura e nitida è, insieme con la chiarezza della forma dei segni, quel che dà ai geroglifici il valore decorativo così frequente in Egitto, dagli oggetti d'uso domestico alle più complesse architetture, ai rilievi (ma invece i geroglifici solo eccezionalmente sono incisi su statue, al di fuori degli zoccoli e dei supporti). La loro forma può talvolta valere in modo autonomo, e singoli geroglifici possono essere trattati come opere d'arte a sé stanti (ad esempio amuleti); o, ancora, in età tarda, la cura con la quale i singoli segni son studiati e resi sottolinea il compiacimento dell'artigiano (ad esempio i geroglifici in smalto per intarsio in Bassa Epoca).

La funzione epigrafica e decorativa dei geroglifici perdura per tutta la storia egiziana; ma, in compenso, fin dalle origini se ne ha una interpretazione corsiva, che si può tracciare con un pennello e con l'inchiostro di nerofumo sul papiro. È un sistema grafico che originariamente ricalca da vicino il geroglifico (escludendo tuttavia la possibilità di s. destrorse), eliminandone gli aspetti più figurativi, e riducendolo più francamente a simbolo, ma rispettandone le divisioni d'impiego in ideogrammi, segni fonetici, determinativi e le serie di segni che servono a scrivere le singole parole. Questa dipendenza di struttura dai prototipi geroglifici resta sempre molto evidente in questo corsivo, che si suol chiamare ieratico seguendo Clemente Alessandrino (Strom., v, 4, 20, 3; ai suoi tempi l'uso ne era riserbato agli scribi templari). Ma mentre nello ieratico dell'Antico e del Medio Regno il geroglifico è il punto di partenza immediato, nello ieratico del Regno Nuovo, e più in quello dell'età tarda (fino all'età romana) c'è un consolidarsi di tradizioni grafiche, e il corsivo si sviluppa tenendo presente i suoi precedenti corsivi appunto, e non solo i geroglifici contemporanei. Comunque uno scambio fra le due forme di s. è sempre vivo, fino al punto che ai geroglifici arrivano forme e usi di origine ieratica.

L'uso pratico di questo corsivo non ne esclude una precisa volontà calligrafica, provata dai testi ieratici scolastici dove le forme vengono corrette in rosso dai maestri, e provate nei fatti, dalle splendide pagine dei manoscritti d'origine curiale (esempio i verbali del processo per l'assassinio di Ramesses III) o dai testi funerari della XXI dinastia, dove l'impaginatura è arricchita dalle vignette inserite nel testo.

Questo carattere calligrafico è più evidentemente ricercato dall'età saitica in poi, quando lo ieratico serve fondamentalmente come s. templare, riserbata ai testi sacri, ed è soppiantato nell'uso civile e quotidiano dallo "ieratico anormale" per un breve periodo a Tebe, e poi dal "demotico". Quest'ultima s. si appoggia a forme di ieratico corsivo, ma a differenza di quello finisce per staccarsi dai prototipi geroglifici, che continua assai mediatamente e senza quel processo di osmosi che per lo ieratico non era mai mancato. Il demotico finisce non solo con l'esser s. autonoma, ma anche con il trascrivere una forma di neoegiziano che non è mai stata impiegata nel geroglifico, s. ormai solo epigrafica e arcaica.

Il demotico continua la divisione dei segni in ideogrammi, segni fonetici (a una, due, tre consonanti) e determinativi, ed è ben lontano dal rappresentare un ammodernamento del sistema geroglifico: solo ne oblitera, ancor più che lo ieratico, le qualità figurative (così come le ricerche calligrafiche di quest'ultimo). L'uso del calamo tagliato, sostituitosi al pennello nell'età romana, dà al demotico tardo una incisività di caratteri e una minuzia di tratto che ne fanno una "scrittura" nel senso per noi abituale, anche se sino alla fine della sua storia culturale l'Egitto antico ha mantenuto fermi i suoi principî di rendimento delle parole al di fuori della mentalità analitica che ha immaginato e attuato l'alfabeto.

Bibl.: K. Sethe, Das Hieroglyphische Schriftsystem, in Leipz. Aeg. St., 3, Glückstadt 1935; id., Vom Bilde zum Buchstabe. Die Entstehungsgeschichte der Schrift, Unters. Gesch. Alt. Aeg., XII, Lipsia 1939; P. Lacau, L'origine et la constitution première du système hiéroglyphique, in Ann. Coll. France, 1945, p. 120 ss.; S. Schott, Hierogyphen Untersuchungen zum Ursprung der Schrift, in Abh. Ak. Mainz, 1950, n. 24.

(S. Donadoni)

2. Mesopotamia. - La s. mesopotamica si presenta all'origine come pittografica, riproducendo con disegni più o meno schematici oggetti o parte di essi. Le più antiche iscrizioni note sono quelle sumeriche di Uruk e di Kish, databili alla fine del IV millennio a. C., su tavolette di argilla. La tavoletta di argilla (in sumerico dub, in accadico tuppu) è il materiale scrittorio di gran lunga il più diffuso in Mesopotamia, e tipico della cultura sumerica (e poi di quella assiro-babilonese); "casa delle tavolette" (é-dub) è il nome delle scuole in cui si insegnava la scrittura e in cui venivano tramandati i testi letterarî, e "scrittore di tavolette" (dub-sar) è il nome che designa lo scrivano. I primi testi sumerici attualmente noti presentano già, per quanto riguarda la forma dei segni, uno stadio alquanto evoluto: gli oggetti rappresentati sono assai stilizzati e a volte affatto irriconoscibili. Vi è però in questa s. anche un palese intento ornamentale che si manifesta nella disposizione dei singoli segni sulla tavoletta; essi sono disposti infatti non secondo l'ordine sintattico delle parole, ma secondo un criterio di armonica distribuzione dei disegni nello spazio (ragione, questa, che contribuisce largamente all'incomprensibilità dei testi in questione).

Nel periodo sumerico antico (prima metà del III millennio) la s. subisce una profonda trasformazione: dal punto di vista del sistema, alla pittografia si sostituisce una s. sillabica che fa uso di ideogrammi (chiamati anche "logogrammi"), determinativi e complementi fonetici, secondo un sistema strettamente affine a quello egiziano; per quanto riguarda l'aspetto dei segni, ai pittogrammi schematici si sostituiscono forme stilizzate più regolari, geometriche (triangoli, rombi, rettangoli, graticci), con disegni prevalentemente chiusi. Anche l'andamento della S. cambia; mentre quella monumentale conserva la disposizione verticale, quella su tavolette va da sinistra a destra, con conseguente rotazione dei segni di 90° a sinistra. Alla trasformazione dei segni (trasformazione che, si noti, non si verifica nella s. monumentale egiziana) ha senza dubbio contribuito la natura del materiale scrittorio: la tavoletta di argilla fresca, incisa con uno stilo di canna, non si presta ad un disegno accurato, specialmente se questo comporta linee curve. Questo dato di fatto non sembra però sufficiente a spiegare il rapido e pressoché totale abbandono del segno pittografico per quello astrattamente lineare. Il dissolvimento dell'immagine in un gruppo di linee spezzate ripete nella s. l'analogo processo che si svolgeva contemporaneamente nella decorazione dei sigilli (stile "broccato") e che poco più tardi si ritrova alla base delle più diffuse tendenze stilistiche nella scultura; è il prevalere dell'atteggiamento intellettualistico che caratterizza tuttà la civiltà sumerica più antica.

Sui più antichi monumenti figurati sumerici la s. compare di frequente; dapprima le iscrizioni, di natura didascalica, appaiono disordinatamente collocate negli spazî lasciati liberi dalle figure o magari, come ad esempio nella lastra di Ur-Nanshe (v. vol. iv, fig. 1254), anche sopra i singoli personaggi. Quando però si perviene, nel rilievo non meno che nella glittica, ad un maggiore senso compositivo, anche la s. entra nella composizione come un elemento essenziale: nel rilievo di Eannatum con scena di battaglia (la "stele degli avvoltoi"; cfr. vol. iv, figg. 1251-52), la narrazione dell'impresa raffigurata occupa minuziosamente tutto lo sfondo, svolgendo quasi un contrappunto visivo e logico alla scena scolpita.

Questa complementarietà di parola e immagine trova le sue manifestazioni più significative nel periodo accadico (2350-2150 a. C.). Nella scarsità di opere di tale periodo, sono i sigilli quelli che meglio testimoniano il valore ornamentale della s.: le iscrizioni, a volte racchiuse in cartigli, assumono nell'insieme della composizione un significato essenziale, pari a quello delle varie figure (v. vol. iii, fig. 1199). Nella stele trionfale di Naram-Sin (v. vol. i, fig. 23) l'iscrizione è posta sopra la figura del sovrano, centro ideale della scena, subito sotto i simboli delle divinità, in una posizione di ben studiata evidenza. Alquanto singolare appare invece un altro monumento, l'obelisco di Manishtusu: alla monumentalità dell'oggetto stesso e della s. che ne ricopre le quattro facce corrisponde infatti un contenuto di carattere semplicemente amministrativo; non può tuttavia escludersi la possibilità che il monumento avesse un'importanza sto rica maggiore di quanto oggi appaia, dato che, con molta probabilità, esso fu portato a Susa dagli Elamiti, vincitori di Babilonia, come preda di particolare significato.

Nel periodo neosumerico la s. monumentale raggiunge una grande perfezione formale: i segni, più stilizzati di quelli accadici, tendono a diventare, singolarmente o a gruppi, elementi di una raffinata decorazione; il tratto di decrescente spessore che lo stilo forma sull'argilla fresca viene riportato anche sulla pietra e sfruttato a scopo ornamentale. Anche la s. su tavolette, in questo periodo, raggiunge a volte una grande eleganza, gareggiando con quella monumentale. Quella che però manca alla s. neosumerica è la dinamicità che aveva fatto della s. accadica un insostituibile motivo ornamentale. L'elegantissima s. delle statue di Gudea si distribuisce indifferentemente sulle vesti e sul sedile, (v. vol. iii, fig. 1366), ovvero occupa un qualsiasi spazio lasciato vuoto; la parola scritta ritorna ad una funzione principalmente didascalica, con un ripiegamento sui moduli, più poveri e ovvî, della tradizione arcaica.

La sempre più sensibile insufficienza espressiva dell'immagine, anche rispetto alla parola scritta (il processo, iniziatosi già nel periodo accadico con qualche esempio, raggiunge la più ampia manifestazione nel periodo cassita, nella seconda metà del II millennio), si rivela, specialmente nella glittica, con il prevalere delle parti scritte su quelle semplicemente figurative. Questo fenomeno non va però spiegato, come si fa usualmente, in termini di decadimento artistico, anche se il periodo paleobabilonese non può certo annoverarsi tra i più felici dell'arte mesopotamica. In realtà, tra segno scritto e immagine viene a crearsi un nuovo rapporto, rispondente all'irrigidirsi in formule fisse dell'iconografia ufficiale. La s. non è più il centro ideale di una composizione articolata dinamicamente: le figure, umane o divine, ieraticamente immobili e le fitte linee di s., ritmicamente mosse con una sapiente alternanza di vuoti, partecipano della stessa carica espressiva, impostata sulla monumentalità arcaizzante che rivela la s. ancora verticale (v. vol. iv, fig. 1263).

Nella seconda metà del II millennio a. C. la s. mesopotamica, sia nelle due varianti babilonese e assira, sia nella forma assunta sull'altopiano iranico, si stacca ormai nettamente dalla tradizione sumerica, alla quale restavano ancora fedeli le s. paleobabilonese e paleoassira. Si accentuano la linearità e l'angolosità dei segni, ormai del tutto staccati dal segno pittografico. Mentre però il ductus babilonese mantiene una certa morbidezza e fedeltà ai modelli paleobabilonesi (modelli che saranno poi ripresi più completamente in bassa epoca, secondo il gusto arcaicistico del tempo), i segni medio- e ancor più quelli neoassiri si dànno una nuova impostazione, nella quale predominano i tratti verticali e orizzontali rispetto a quelli obliqui. Si assiste alla prevalenza di un grafismo lineare, a scapito delle forme caratterizzate da più ampie superfici, che si ritrova anche nello stile della glittica e nel carattere generale degli stessi rilievi dei palazzi.

Un accentuato valore ornamentale la s. assume nella cultura elamita della seconda metà del II millennio. Più che la fine s. della statua di Napir-Asu, che quasi si confonde con la decorazione dell'abito (v. vol. iii, fig. 350), o la fascia di fitta s. che corre lungo un rilievo architettonico a Susa (vol. iii, fig. 348) annullando l'organicità della figura, ma unendo questa alle altre che la fiancheggiano, è l'iscrizione che il re Shutruknakhkhunte aggiunge alla stele di Nāram-Sin, trasportata a Susa, che mostra l'abilità con cui la s. viene usata a scopo monumentale: l'iscrizione trionfale del re elamita è infatti incisa lungo la montagna di fronte alla quale si erge Narām-Sin.

Nell'arte assira la s. occupa un posto notevole, pur senza rifarsi direttamente alla tradizione precedente. L'uso di scrivere al di sopra delle figure a rilievo (come si verifica specialmente al tempo di Assurnasirpal II) più che alla tradizione sumerica si rifà forse a quella elamita, anche se il fatto va inteso in maniera diversa: con esso si vuole sottolineare l'unione essenziale tra figura e testo, che formano un'unità più concettuale che artistica (v. vol. iv, fig. 1268). Più tardi, una sensibilità più raffinata fa porre la s., che ha una funzione prevalentemente didascalica, in spazî rimasti liberi dalle figure. Impiego più decisamente ornamentale trova la s. al di fuori della sua connessione col rilievo; nell'"obelisco nero" di Salmanassar (v. vol. i, fig. 928) un'elegante s. occupa la sommità del monumento e le fasce che delimitano i vari riquadri; nel palazzo di Assur, tre righe di s. dipinta corrono tra il fregio e la scena figurata sottostante; nei palazzi di Khorsābād, dove si riscontra una certa preferenza per la decorazione a tre fasce, quella intermedia è occupata dalla s., sia nei rilievi murali sia nelle eleganti soglie decorate a rosette. L'accentuato impiego ornamentale della s. in Assiria si trova del resto documentato anche sulle tavolette (dove le linee finali presentano spesso i segni distribuiti armoniosamente in relazione agli spazî vuoti) e su oggetti minori, quali un bel vaso di alabastro decorato sulla spalla da tre righe di segni racchiusi in linee, o alcune soglie di pietra, contenenti l'incavo per il cardine, sulle quali la S. si dispone, eccezionalmente, in cerchio.

Al termine cronologico della s. cuneiforme in Mesopotamia si trovano le iscrizioni achemènidi (redatte in un sistema grafico sillabico, più semplice di quello babilonese); la loro presenza su monumenti architettonici, in posizione di rilievo, l'accuratezza dell'incisione e l'incorniciatura che talvolta esse presentano, rendono evidente il loro impiego come elemento decorativo (v. Tavola a colori).

Bibl.: E. Unger, Die Keilschrift, Lipsia 1929 (= Sammlung F. Sarre, Berlino 1929, pp. 89-118); G. R. Driver, Semitic Writing from Pictograph to Alphabet2, Londra 1954.

(G. Garbini)

3. Anatolia, Siria, Arabia. - Durante il II millennio a. C. la s. di tipo cuneiforme si diffonde anche nella regione siro-anatolica, con modifiche più o meno sostanziali attinenti sia al sistema di s. sia alla forma dei singoli segni. In Anatolia, dove i cuneiformi mesopotamici sono impiegati per scrivere la lingua hittita, la scrittura sulle tavolette di argilla non presenta aspetti sostanzialmente diversi da quella babilonese; un particolare tipo di s. monumentale è invece quello che compare sui sigilli reali. Sulla superficie circolare di questi la s. si dispone, in genere su due file, intorno ad un disegno centrale; i segni subiscono una sensibile semplificazione nel numero e nella disposizione dei tratti che li compongono, ma la maggiore innovazione consiste nella forma accentuatamente triangolare dei singoli tratti. Nasce così una s. il cui spiccato effetto ornamentale è stato chiaramente inteso dagli stessi incisori di sigilli: non mancano, infatti, esemplari di sigilli anepigrafi decorati con due file di triangoli o di linee che imitano la s. cuneiforme.

Nell'area di cultura siro-hittita, dove nella seconda metà del II millennio si trovano attestate tanto la s. monumentale hittita (sui sigilli circolari) quanto quella monumentale babilonese ancora nell'arcaico andamento verticale (sui sigilli cilindrici di tipo mesopotamico), verso l'inizio del I millennio a. C. prende ampio sviluppo una s., attestata sporadicamente già nel periodo imperiale, di tipo geroglifico ("hittito geroglifico"). La natura monumentale di tale s. è rivelata dal fatto che le iscrizioni, isolate o in connessione con rilievi figurati, compaiono assai spesso scolpite in rilievo; la s. incisa, in genere priva di eleganza e irregolarmente distribuita, si trova su monumenti di fattura piuttosto mediocre, come ad esempio quelli di Karatepe (v.). La particolare abilità richiesta da questo modo di incidere portò alla formazione di artigiani specializzati che, come sappiamo da una iscrizione, prestavano la loro opera passando da una città all'altra (E. Laroche, in Syria, xxxv, 1958, pp. 275-82). L'uso ornamentale della s. hittita geroglifica si manifesta, più che nelle piccole iscrizioni didascaliche che si vedono sui rilievi di Malatya (v.), nei complessi scultorei di Karkemish (v.), dove le iscrizioni hanno una funzione complementare rispetto ai rilievi figurati, ricoprendo a volte da sole l'intera facciata di un ortostato.

Nell'ambiente semitico di Siria, dove all'inizio del I millennio a. C. è adottata la s. alfabetica fenicia, è difficile parlare di un impiego ornamentale della s., tranne nell'area siro-hittita dove alcune iscrizioni (aramaiche per lo più) seguono gli stessi moduli della S. hittita geroglifica (s. in rilievo su file divise da bordature). Solo intorno all'età cristiana, con la s. palmirena e quella nabatea, derivanti entrambe dal corsivo aramaico in uso presso la cancelleria achemènide, il carattere decorativo del segno scritto viene messo in valore. Le due s. seguono però vie completamente diverse: mentre quella palmirena, dalla quale deriverà poi la s. siriaca, dà ai singoli segni alfabetici una forma ricca di curve, estremamente ondulata, la s. nabatea, che darà origine a quella araba, preferisce i tratti allungati e paralleli, rigidamente verticali.

La s. dell'Arabia meridionale, la cui origine non appare ancora chiara e la cui documentazione va dalla metà circa del I millennio a. C. all'età islamica, assume in età romana un carattere spiccatamente ornamentale, fondendosi armoniosamente, su alcuni rilievi, con motivi ornamentali quali il bucranio e il tralcio di vite. I segni, che passeranno poi in Etiopia, tendono ad assumere una sagoma rettangolare, sviluppandosi in senso verticale. La forte influenza ellenistica che si riscontra in tutta la cultura artistica sudarabica (v. sudarabica, arte) giustifica l'ipotesi, avanzata dalla signorina I. Pirenne, che all'origine del processo di monumentalizzazione della s. sudarabica sia da porre l'esempio della s. monumentale greca.

(G. Garbini)

4. Grecia e Roma. - L'invenzione della s. fu naturalmente di estrema importanza per lo sviluppo della cultura e le informazioni trasmesse per suo mezzo sono il principale materiale della storia: questi due aspetti, però, hanno oscurato il fatto che la s. può anche essere un'arte. La s. dei Greci e dei Romani è alfabetica e i suoi remoti antecedenti pittografici erano dimenticati molto prima che fosse loro trasmessa. Pertanto è in entrambi i casi un'arte puramente astratta. Nel valutare quest'arte si deve per prima cosa tentare di capire in che modo i suoi creatori pensassero la loro s., ed è probabile che fossero molto più consapevoli del suo carattere formale di quanto non si sia oggi. In una società illetterata, dove si guardava alle forme delle lettere prima di leggerle o senza leggerle, il loro aspetto è molto importante; sebbene si debba anche considerare la loro provenienza. Sembra sicuro che i Greci conobbero la s. dal commercio e per usi commerciali; pertanto non fu per loro un mistero così solenne, come per i barbari alla fine dell'Impero Romano, quando la s. era soprattutto associata con la religione. In secondo luogo si deve considerare come cambia la s. e perché. Gli utensili e i materiali su cui è usata giocano una grande parte, e diversi tipi di s. possono essere usati contemporaneamente in tecniche differenti. Gli scopi per cui si scrive, occasionali e temporanei oppure permanenti e monumentali, sono fattori determinanti. Ma sono anche riflessi i diversi caratteri di popoli differenti e le disposizioni mutevoli delle culture. I caratteri estetici di una S. si possono pertanto ripartire in tre elementi, forma, abilità e espressione.

I Greci e i Romani hanno lasciato dietro di loro un'enorme quantità di materiale scritto, per quanto sia pervenuta soltanto una piccola frazione di ciò che scrissero. In particolare del materiale scritto su papiro (v.) che fu comunemente usato per tutti i libri, le lettere, i documenti, ecc., almeno fino al IV sec. d. C. - cioè la parte più importante della loro produzione scritta - non abbiamo quasi niente, eccetto pochi e dispersi frammenti conservati dal clima egiziano. Delle iscrizioni che sono sopravvissute, una grandissima quantità è stata pubblicata, molte raccolte in corpora, ma molte anche disperse in innumerevoli riviste. Tuttavia molto di tutto questo è inutile dal punto di vista estetico, dal momento che il testo è di solito soltanto trascritto, oppure, dove vi sono illustrazioni, si tratta di disegni o fotografie inadeguati. D'altro canto quasi tutto il materiale letterario si trova in pubbliche biblioteche, e molto è stato riprodotto in magnifici facsimili, e la maggior parte dei grandi musei d'Europa hanno grandi collezioni di iscrizioni provenienti da molte località diverse e molte si possono vedere quasi ovunque in Grecia e in Italia. Sebbene al presente non esista nulla che si avvicini a una storia complessiva della s., è possibile riconoscere una successione di stili creativi e di usi nella forma e disposizione delle lettere, innovati dagli alfabeti greco e romano, che rivelano in entrambe le civiltà la s. poter essere un'arte distinta dalla mera utilità. I Greci da principio appresero la s. alfabetica dai Fenici, probabilmente nell'VIII sec. a. C. Sembra che sin dall'inizio abbiano cominciato a modellarla adattandola al loro carattere e alla loro lingua. I Fenici scrivevano da destra a sinistra, mentre sembra che i Greci sin dal principio abbiano scritto boustrophedòn, cioè come il bue ara un solco, la prima riga da destra a sinistra, la successiva ritornando da sinistra a destra; facevano questo sia orizzontalmente che verticalmente. Chiaramente consideravano le lettere come entità che potevano essere girate da tutte e due le parti. È caratteristico come le lettere siano staccate: ci vollero parecchi secoli perché i Greci evolvessero qualcosa di simile a un carattere corsivo. Al principio vi erano molte varianti locali nella forma delle lettere, ma in tutte vi è il medesimo istinto a cambiare le forme fenicie, inclinate e piuttosto curve, in forme geometriche verticali, per esempio ???SIM-41??? o ???SIM-32???, lambda, I iota, Κ cappa, ???SIM-53??? pi, e ???SIM-44??? o Λ gamma, tutte da segni curvi. Anche le diagonali sono molto notevoli, particolarmente diagonali aperte che finiscono come a mezz'aria ???SIM-54???, ???SIM-55???, ???SIM-56???, ???SIM-57??? dando all'intera s. un carattere di disordine, ma anche di movimento e di vitalità; qualche volta aumentato in iscrizioni arcaiche dal fatto che le lettere non sono allineate, ma possono correre attorno alla pietra o, diciamo, su per la gamba di una statuetta. Il disordine è sempre più contenuto, a mano che la s. si sviluppa sotto la spinta della tendenza a forme e disposizioni geometriche. Le nuove lettere ???SIM-42???, Χ e Φ e l'omega a circolo spezzato Ω, sono geometriche; è particolarmente notevole che omicron è sempre circolare; dove la s. è compressa come in molti esempî arcaici, non è ovalizzato, ma è scritto più piccolo.

La vitalità tipica delle iscrizioni arcaiche greche è caratteristica anche della s. che troviamo nella contemporanea pittura vascolare a figure nere, ma in modo differente. Qui non sono tanto le forme delle lettere che sono notevoli; di solito appaiono dipinte rapidamente senza finezza o delicatezza, ma il modo in cui la disposizione delle lettere è parte della vita e dell'idea del dipinto (non solo parte del disegno). A volte l'iscrizione o la firma è un fregio che corre parallelo al contorno o alla decorazione di una tazza, a volte corre verticalmente tra statiche figure in piedi sottolineando la loro posa, o diagonalmente tra figure in corsa; ma dove, come accade spesso, il soggetto è qualche azione drammatica, le iscrizioni nominano i protagonisti per mezzo di lettere che corrono fuori dalle figure formando curve e angoli, da destra a sinistra e da sinistra a destra, e angoli che ripetono il movimento delle figure quasi come se i nomi fossero parte della loro vita.

A metà del VI sec. troviamo nelle firme dei pittori vascolari Nearchos, Exekias e Amasis una s. che è divenuta netta e ordinata ed è a volte assai delicata. La stessa padronanza appare nelle migliori iscrizioni greche su marmo della seconda metà di questo secolo e del V e produce il più notevole e caratteristico contributo greco alla s. come arte, l'iscrizione stoichedòn.

Le caratteristiche originali di separazione, vitalità e forma geometrica sono ora chiarificate e ordinate. Ogni lettera ha il suo posto in un ordine da scacchiera, allineata sia verticalmente che orizzontalmente, cosicché è messa individualmente in rilievo. La linea di cui è formata è tagliata nettamente con sezione a V, di discreta larghezza, terminando a punta quadra, cosicché la terminazione di una linea diagonale crea una seconda diagonale (in contrasto con le terminazioni orizzontali delle diagonali delle lettere romane). Qualcuna delle diagonali più antiche scompare, in Ε, Α, Β, Ρ, ma le diagonali "aperte" restano, alcune delle quali ???SIM-54???, ???SIM-55???, Χ, ???SIM-58??? sono deliberatamente tagliate più corte dell'altezza intera delle lettere. L'effetto di vitalità rimane, rafforzato in effetti dalla disciplina dell'ordine e dalla chiarezza dell'intaglio, che è una delle grandi bellezze delle migliori iscrizioni stoichedòn su marmo. Questa chiarezza eguale della linea è parte anche dell'idea geometrica, di cui l'omicron a circolo perfetto è la nota chiave. Il quadrato è adoperato come base della spaziatura, non della proporzione tra larghezza e altezza delle lettere.

La stessa vitale specie di lettere appare nelle monete del V sec. a. C., sebbene la forma della linea sia alterata dalla tecnica differente. Qui le lettere sono concepite come parte integrante del disegno formale, al punto che l'occhio della civetta del tetradracma ateniese è della stessa grandezza e qualità del theta ???SIM-59??? al disotto. L'importanza data alla leggenda e l'abilità di esecuzione variano grandemente; tra gli esempî più importanti sono le monete di Siracusa e di Mende.

Non abbiamo nulla della s. greca contemporanea su materiale deperibile. È probabile che le innovazioni cominciassero qui piuttosto che nelle iscrizioni su pietra, ma il più vecchio manoscritto greco è soltanto del IV sec. a. C. e mostra una mano chiara e regolare con ogni lettera ancora separata. Il cambiamento avviene nel III sec. a. C. quando vi è uno sviluppo caratteristico sia nella mano corsiva che in quella letteraria. Vi è una tendenza naturale verso la velocità e si vede il movimento della penna perfino nella s. formale. Questo movimento è fortemente orizzontale: ⊤, Ø, e ⌐ sono molto forti, diagonali e verticali tendono a divenire curve, e in qualche carattere ornato il tratto di penna termina con un grosso punto decorativo. Si potrebbe a malapena immaginare qualche cosa di più remoto dalla s. classica vascolare e scolpita; ma questo stile trova uno stretto parallelo nelle monete e iscrizioni ellenistiche. Caratteristica di quest'ultime è l'invenzione delle apicature a cuneo, mentre la natura razionale e consistente del tratto è trasformata. Diramandosi verso il cuneo, il taglio è anche più profondo, con un'ombra più scura.

Troviamo inoltre lettere molto più ampie, spaziate molto più strettamente, mentre il carattere orizzontale è accresciuto dalla scomparsa graduale delle forme di lettere più dinamiche di ni Ν, lambda ???SIM-60???, mi ???SIM-61???, e sigma ???SIM-40??? e dalla tendenza ad allineare tutte le lettere in altezza e così abolire l'effetto dinamico dei brevi chi ed omicron. Lo schema è ancora dinamico, ma attraverso il gioco delle apicature a cuneo, si crea un dinamismo di luce e ombra in un disegno strettamente intrecciato. Si tratta delle iscrizioni attorno al III sec. a. C. dove la nuova idea trova una nuova espressione. Vi sono naturalmente numerosi esempî dove l'idea non è così chiaramente sviluppata e dove indugiano vecchie idee, ma qui non ci occupiamo delle origini o delle fasi di transizione, ma delle forme tipiche e cristallizzate.

Un altro esempio dell'interesse estetico per la s. nel periodo ellenistico è l'introduzione di lettere in rilievo, per esempio su pietre tombali della Beozia, un'idea ripresa e sviluppata nei tempi bizantini (sebbene non abbia mai raggiunto la bellezza monumentale del rilievo dell'Arabia meridionale o di Cufa). Naturalmente anche sulle monete la s. è in rilievo, e qui anzi si sviluppa un nuovo stile. Invece dell'apicatura tagliata col cesello vi è la terminazione tonda, fatta presumibilmente col trapano, che è il leit-motiv. Disposte in file verticali semplici o doppie, a volte anche ad angolo retto rispetto a queste, le lettere costituiscono di nuovo un complesso tridimensionale con luci ed ombre, e il movimentato schema interno crea una tensione che è un elemento vitale nel disegno tipicamente asimmetrico di queste monete, presenti in Oriente fino al periodo romano.

Con l'espansione del mondo di lingua greca e col perdurare della tradizione il quadro diviene molto complesso. Molti stili di iscrizioni erano largamente diffusi e si scrivevano molti bei caratteri dotti. Gli stili classici erano fatti rivivere e, nel periodo romano, idee romane, la regolarità e la gradazione ottenuta variando la larghezza del tratto, influenzano la s. greca. Una nuova idea è la biforcazione della terminazione a cuneo in una sorta di coda di pesce. Questa a volte è prolungata oltre una giunzione in lettere come pi Π, sigma Σ, delta Δ, e combinata con lettere dalla forma molto ampia e squadrata e un segno sottile crea un nuovo stile, angolare e lineare, essendo completamente dimenticata la separazione delle lettere, la quale tuttavia ricorre in un altro tipo di iscrizione, che sembra essere un prodotto del periodo romano. Certe forme rotonde sono prese a prestito dalla grafia a penna di mi ???SIM-62???, epsilon ???SIM-38???, omega ???SIM-29??? e si usano altre forme arricciate di omega ???SIM-63???. Vi è irregolarità voluta nella grandezza delle lettere e l'esecuzione esprime più forza che finitezza. Vi sono molte iscrizioni cristiane che possono essere incluse in questa categoria. Invero è difficile generalizzare intorno a questa specie di iscrizioni perché di ciascun esempio la qualità che importa è la sua individualità. L'uomo che le fece ha riflettuto su ciascuna lettera, forse perché non era del tutto sicuro della forma "giusta", ha elaborato la sua propria idea, e così ha fatto qualche cosa di vivo, in una opera d'arte unica anche se modesta.

Questa specie di iscrizione è spesso provinciale o fatta per qualche umile committente; può essere considerata non importante dagli archeologi, ma è troppo chiaramente distinta dalle molte iscrizioni di infimo valore della medesima origine, che sono svalutate perché l'esecuzione è meccanica e priva di abilità. Questa distinzione chiarisce un punto importante nella considerazione dell'arte della scrittura. Vi è il lavoro dell'artigiano sensibile e molto abile che lavora per un ente pubblico oppure per un colto committente in un idioma ben definito, e questo è il caso delle iscrizioni stoichedòn o di quelle imperiali romane o del codice biblico, e vi è il lavoro dell'artista tagliato fuori da ogni grande centro di cultura, che forse viveva nelle province, oppure in tempi che precedevano o seguivano un periodo importante; egli non poteva avere l'abilità, i mezzi economici o la necessità per esprimere se stesso con la scultura figurativa: per lui la s. è una viva arte astratta.

Qualcuna delle prime iscrizioni latine nelle province e qualcuna del periodo repubblicano hanno la medesima specie di vigore, e noi lo ritroveremo negli epitaffi cristiani. Nei secoli intermedî i Romani svilupparono lo stile classico della loro s. - che è certamente una delle loro eredità artistiche più grandi - relativamente tardi, non prima della fine del I sec. d. C. Naturalmente da molto tempo avevano differenziato il loro alfabeto dall'antenato greco. Un cambiamento è l'introduzione di più curve in G, P, Q, S e il rigonfiamento delle curve in B e D (i Romani derivarono il loro alfabeto dalla varietà euboica del greco, che già usava forme ricurve di gamma, delta e qualche volta anche di sigma). Nelle prime iscrizioni la linea è eguale, ma non sembra esservi l'idea di terminare con un netto angolo retto, e neppure con un cuneo, ma con una apicatura in embrione. Le lettere non sembrano essere concepite tanto come individualità separate, quanto come membri di un allineamento. Il senso delle invisibili linee orizzontali tra cui si allineano le lettere è molto forte e forse spiega la necessità delle apicature (e l'avversione per il cuneo che lo rompe) e anche l'eliminazione delle diagonali brevi e di tutte le terminazioni diagonali. Sembra anche che quasi da principio i Romani abbiano usato parecchie forme di alfabeto, perfino sullo stesso materiale. Forse questo fu dovuto in parte al fatto che l'alfabeto greco progenitore cambiava e si sviluppava insieme al loro (sebbene l'influenza reciproca sia maggiore più tardi, nel periodo cristiano), ma in parte si deve a un diverso modo di pensare e in particolare al non pensare in modo geometrico alle forme delle lettere. Questo è particolarmente chiaro nella forma che era più comunemente in uso, il rustico, con le sue caratteristiche proporzioni compresse, di uso molto pratico, che non hanno un prototipo greco.

I Romani inventarono e svilupparono tre stili di s. su pietra. Quello che ci è più familiare, perché fu ripreso con l'invenzione della stampa ed è divenuto il prototipo dei caratteri latini, è conosciuto con la denominazione molto adatta di "capitale quadrato", sebbene si possa notare che gli eruditi del Rinascimento che lo fecero rivivere, trovarono estremamente difficile adattare di fatto ciascuna lettera dentro un quadrato. Uno studio dettagliato e senza pregiudizî dell'alfabeto usato nell'iscrizione della Colonna di Traiano e in molte altre magnifiche iscrizioni imperiali, tenendo presenti i suoi antecedenti greci classici, rivela che non fu concepito geometricamente o logicamente, ma in modo empirico. Si può vedere la sua evoluzione in una collezione come quella ad Aquileia, dove le forme squadrate di C e R sono sostituite da curve e giunzioni di corpi ed aste lavorate con sensibilità. (Dal carattere lapidario di età traianea fu ripreso quello composto da Luca Horfei da Fano, scrittore al Palazzo Apostolico, per le iscrizioni fatte apporre da Sisto V sulla base dell'obelisco di S. Pietro e altrove, per il quale si conservano i disegni originali nel mscr. Vat. Lat. 5541).

L'invenzione romana caratteristica è l'ombreggiatura ottenuta variando la larghezza del tratto, così da creare motivi più sottili e curve più eleganti. Così l'O circolare e gli occhielli semicircolari di B, D, P scompaiono e invero non rimane alcuna semplice forma geometrica, neppure I, perché tutte le aste sono terminate da una elegante apicatura chiusa da trattini verticali. Questa è un'altra caratteristica dell'alfabeto romano molto differente nell'effetto estetico dalla terminazione greca a cuneo, perché non è soltanto una terminazione; la sua curva accompagna l'occhio legando le lettere insieme, in modo che si completano a vicenda. Il disegno non è costituito di entità separate, ma di forme che sono complementari l'una all'altra, combinando varietà di movimento con stabilità e perfezione rifinita in ogni parte.

La seconda creazione romana è la grande iscrizione architettonica in lettere di metallo, come quelle del Pantheon e degli archi trionfali. Qui la s. è usata su una scala senza precedenti e riceve nuova importanza come decorazione architettonica. Sfortunatamente il metallo è ora scomparso del tutto, cosicché l'effetto in colore e forse anche in rilievo, se la faccia delle lettere sporgeva, è perduto per noi. Noi possiamo vedere soltanto gli incavi delle forme delle lettere, che sono in generale dello stesso tipo del capitale quadrato scolpito, ma più pesanti, più rozze e più forti e spaziate in modo differente. L'intenzione, e pertanto l'effetto, deve essere stata del tutto diversa.

Il terzo stile delle iscrizioni, il rustico, è diverso anche nelle forme. All'origine deve essere stato usato per la s. a penna e i migliori esempî sono gli avvisi rapidamente eseguiti col pennello sui muri delle strade di Pompei (v.). È basato su un contrasto ancora più forte di linee spesse e sottili, e apicature ondulate orizzontali molto forti. Su pietra è usato con grande effetto in combinazione con una o due righe di capitale quadrato, il suo disegno strettamente intrecciato di forme compresse e diagonali sfuggenti punteggiato di apicature formando un ammirevole contrasto con le imponenti forme quadrate. I Romani fecero anche esperimenti nella composizione dell'epigrafe, mettendo a contrasto linee di differente altezza e lunghezza.

Questi tre tipi di s. continuarono in uso quasi senza alterazione dal periodo augusteo fino al III sec. d. C. In diversi luoghi è senza dubbio possibile distinguere la mano di artigiani diversi e successivi. Inoltre per tutto questo periodo gli incisori romani e provinciali usarono tra le forme definite di rustico e di capitale quadrato una larga e inclassificabile varietà di stili, giocando su variazioni nella formazione delle apicature e sulla grandezza delle lettere e su poche forme di lettere alternative, in particolare la G, e producendo innumerevoli bellissime opere.

Per la prima s. a penna romana noi dipendiamo di nuovo dai papiri egiziani, a partire soltanto appena prima del I sec. d. C., col supplemento di un po' di materiale da Pompei e Ercolano, ovviamente non rappresentativo e - per quello che è - più interessante dal punto di vista paleografico che da quello estetico. Si vede da questi esempî che i Romani, come i Greci, usavano i due estremi della s., maiuscole formali - cioè lettere separate della medesima altezza, paragonabili al rustico delle iscrizioni - e corsivo rapido, cioè lettere unite eseguite con un colpo corrente di penna, con la tendenza, per alcune lettere, a sporgere sopra o sotto le altre con molte varietà intermedie. La predilezione per ascendenti e discendenti è particolarmente forte nella s. latina, dove le linee inclinate qualche volta si scompongono in parallele informi. Sembrerebbe che fino al IV sec. non si sia sviluppato un modulo soddisfacente di forme corsive, sebbene si veda già cominciare nel II sec. (cfr. Manchal, L'Ecriture Romaine, n. 26 e n. 34). Al contrario il materiale greco è voluminoso e ricco di esempî di magnifica scrittura. Sfogliando le raccolte di riproduzioni vengono in mente esempî di grafia della fine dell'800. Vi è una grande varietà di stili e tra esempî poveri e piatti ve ne sono molti altri chiaramente prodotti da individui altamente civilizzati, con sensibilità artistica. Si nota anche l'evoluzione di un chiaro carattere tondo, con lettere separate, molto bello, che diventa ben definito nel II sec. d. C. Scritto su papiro con una buona penna, ha una affascinante facilità di s. e bellezza senza difetto nelle curve delicate e senza traccia di sforzo, per esempio nell'Omero di Hawara. Ci colpisce come il prodotto di una cultura estremamente civilizzata.

In qualche modo questo carattere è più bello dell'"onciale biblico", giunto a completo sviluppo, che gli succede. La grande differenza è nell'uso nuovo di una penna larga e rigida, che crea un'"ombreggiatura", allargando e assottigliando la linee (come nel rustico romano). Le lettere sono più larghe e lo schema non è più una linea in movimento, ma un contrasto di forti verticali e ampie curve. Nel V sec. la pressione della penna tenuta verticalmente diviene più insistente, riflettendo lo stesso gusto per verticali forti e rigide che appaiono anche in alcune iscrizioni eseguite con una S. rigida, compressa e regolare. I più begli esempî dell'onciale biblico sono alcuni magnifici libri in pergamena, e con l'apparizione nel IV sec. del codice di pergamena l'arte della s. sale a un livello nell'insieme più alto. È qualcosa di simile al cambiamento dalle pietre ruvide o rovinate dagli agenti atmosferici al marmo. L'artigianato può mostrare la sua idea con chiarezza e nei dettagli. Già nel II sec. occorsero cambiamenti tecnici che, combinati con un cambiamento delle intenzioni estetiche, nel IV sec. rivoluzionarono la s. latina. Un nuovo tipo di alfabeto si era sviluppato su monete già sotto gli Antonini, con lettere molto ampie, qualche ispessimento verso le terminazioni, qualche grossa apicatura sporgente e a punta, una embrionica maiuscola gotica. L'idea deve in parte derivare dalla tecnica di incisione delle lettere sul punzone, ma si adatta anche mirabilmente all'idea romana del disegno sulle monete, che è decorativa, con la leggenda che corre attorno all'orlo a costituire un bordo complesso. Lo stesso tipo di lettera è usato nelle tarde iscrizioni romane dipinte su vetro, la sua larghezza e la linea spessa contribuiscono con un elemento compatto al disegno, dove le lettere classiche sarebbero sembrate filiformi. È tuttavia molto più diffuso il nuovo tipo di s. che ha le sue origini nelle catacombe. La maggior parte degli epitaffi devono essere stati incisi da dilettanti, ma il nuovo stile è inconfondibile. La sua derivazione è chiara, le proporzioni compresse sono rustiche (senza quel movimento della linea spessa che diviene sottile) e le apicature a coda di pesce (con le loro implicazioni teologiche) sono greche, e veramente vi sono molti epitaffi greci tra quelli latini. Quello che è nuovo è l'introduzione di simboli cristiani incisi con lo stesso sottile contorno delle lettere, e lo spirito del lavoro che, quando l'esecuzione non è troppo manchevole, ha grande vita e freschezza. Prima del V sec. ha sviluppato una maggiore naturalezza e varie forme di lettere caratteristiche, che richiama le diagonali dinamiche delle prime iscrizioni greche, che formano ora, nei migliori esempî, disegni che non sono bilanciati da un ordine geometrico, ma da un ritmo interiore.

Questa s. appartiene alla categoria di una modesta arte astratta che si sviluppò anche di più nei secoli successivi, spesso per committenti barbari. Ma il mondo civilizzato romano del IV e V sec. produsse anche una s. tra le più superbe. L'onciale latino può o non può derivare dal greco, ma certamente l'intenzione estetica è la stessa, con le sue forme ampie e grandi curve e il forte contrasto di linee spesse e sottili, aumentato negli esempî più grandiosi da un'imponente disposizione su due colonne. L'uso della penna è buono, sebbene divenga più abile e più splendido in grandezza e spaziatura nel VI e VII secolo. Insieme a questo sviluppo dell'onciale (che nella forma delle lettere e stile di s. risale al II sec.) sopravvivono, sempre di questo secolo, al Vaticano, le copie di Virgilio, cioè i codici Vaticano, Romano e Palatino, e anche i codici, sempre di Virgilio, Augusteo e Sangallense; i primi in un rustico largo e artificiale senza precedenti, i secondi in un capitale quadrato della stessa qualità. Ma mentre il rustico è la comune s. originale romana, il capitale quadrato sembra essere un introduzione molto tarda di un alfabeto per iscrizioni nella s. a penna. È significativo che nello stesso periodo vi fu anche un'innovazione senza precedenti nella s. scolpita su pietra. Le iscrizioni firmate da Filocalus (v.) sono completamente differenti da qualsiasi cosa più antica e si sforzano di essere deliberatamente espressive.

Simili forme maestose furono usate dall'artista che disegnò la grande iscrizione del mosaico (del 422-32) di S. Sabina a Roma (v.), che è uno degli esempî supremi della s. come arte. La s. è presente in molti mosaici pavimentali, sia greci che romani, in quest'ultimo caso il tipo delle lettere è di solito il rustico, ma sebbene l'effetto della tecnica sia molto piacevole, i disegni deludono facilmente. A questo punto pertanto vi è un gran salto nella tradizione. Mosaici più tardi usano le forme quadrate, sebbene nessuno raggiunga la medesima magnificenza. Sembrerebbe che nella Roma del tardo IV sec. vi fosse un trattamento consapevole e deliberato della s. come arte importante. Un fattore importante è anche la natura del testo scritto; è stato suggerito che l'onciale fu scelto deliberatamente come un veicolo adatto per le s. cristiane, distinto dal rustico tradizionale e dal capitale quadrato associato con i classici pagani, ma questo sembrerebbe una semplificazione eccessiva.

Infine nel IV e V sec. si svilupparono nel corsivo sia latino che greco stili di s. di grande bellezza. In entrambi i casi vi è una versione dritta e una inclinata. Ma esteticamente la bellezza di tutte e due le versioni in tutte e due le lingue è molto simile. Consiste nel movimento di una penna fine e scorrevole guidata con piacere e veloce padronanza, e nelle legature complesse, paragonabili ai caratteri giapponesi, e nelle forme sfuggenti di certe lettere, che sono state evolute con intenzioni di arte da una scuola di scribi professionali, probabilmente delle cancellerie imperiali. Questa combinazione di libertà e padronanza è unica nella storia della s. occidentale.

Bibl.: O. Marucchi, I monumenti del Museo Cristiano Pio-Lateranense, Milano 1910; E. Diehl, Inscriptiones Latinae, Bonn 1912; L. Schiapparelli, La Scrittura Latina nell'età Romana, Como 1921 (con bibl. relativa alla riproduzione dei manoscritti occidentali); Inscritiones Italiae, Unione Accademia Nazionale, Roma 1931 ss.; E. A. Love, Codices Latini Antiquiores, Oxford 1934 ss.; M. Guarducci, Inscriptiones Creticae, Roma 1935-50; R. P. Austin, The Stoichedon Style in Greek Inscriptions, Londra 1938; Mallon, Marichal, Perrat, L'Ecriture Latine, Parigi 1939; A. Silvagni, Monumenta Epigraphica Christiana, Città del Vaticano 1943; J. Kirchner, Imagines Inscriptionum Atticarum, Berlino 1948; C. H. Roberts, Greek Literary Hands, 350 B. C. to A. D. 400, Oxford 1956 (con bibl. relativa alla riproduzione dei papiri greci); H. W. Pleket, The Greek Inscriptions in the Rijksmuseum van Oudheden, Leida 1958; L. Jeffery, The Local Scripts of Archaic Greece, Oxford 1961. Per Luca Horfei: G. Mardersteig, L. B. Alberti e la rinascita del carattere lapidario romano, Padova 1959; St. Morison, Calligraph 1535-1885 (Catalogo La Bibliofilia) Milano 1962, pp. 21 ss.; 52 ss.

(N. Gray)

5. Cina. - La s., in Cina, è stata (ed è tuttora) considerata un'arte alla pari della pittura o di altre manifestazioni artistiche; anche se è difficile poter datare con precisione il momento in cui essa ha assunto valore artistico agli occhi dei Cinesi, si può affermare che già in antico l'interesse per le iscrizioni arcaiche era al tempo stesso di natura epigrafica ed estetica.

I più antichi esempî di grafia cinese si ritrovano nei pittogrammi incisi sulle ossa oracolari della dinastia Shang-Yin (XV-XI sec. a. C.) e sulle iscrizioni su bronzo delle dinastie Shang e Chou (XI-III sec. a. C.: v. cinese, arte); è quel materiale che i Cinesi chiamano chia ku wên (o iscrizioni su ossa e su gusci di tartaruga parimenti usati per pratiche mantiche) e chin wên (iscrizioni su metallo, cioè su bronzo). Siamo agli albori della s. in Cina e questi caratteri arcaici presentano forme esitanti, malferme, dovute in parte anche allo strumento scrittorio con cui venivano incise o graffite su materiale piuttosto resistente quali l'osso od il bronzo. Alcuni di questi caratteri sono evidenti raffigurazioni pittografiche, ma ad essi se ne vengono via via aggiungendo altri che hanno valore completamente fonetico ed ancora altri nati dalla combinazione di elementi pittografici con elementi fonetici. Lo studio di tali caratteri arcaici, oltre che essere importante per la storia della lingua e della S. cinese, lo è per la raffigurazione primitiva di alcuni concetti ed anche per la stilizzazione di elementi naturalistici. Verso la fine del III sec. a. C., su proposta dello statista Li Ssu, viene attuata dal despota Shih Huang-ti della dinastia dei Ch'in, colui che annientò il feudalismo e costruì il primo impero cinese, la prima grande riforma della scrittura. Si unificano, per decreto imperiale, le diverse s. già in uso nei diversi stati della Cina feudale assorbiti nell'impero e si introducono nuove forme ideografiche più moderne. Tale provvedimento fu favorito dall'invenzione del pennello, che la tradizione attribuisce al generale Mêng T'ien, il costruttore della Grande Muraglia (III sec. a. C.). Il nuovo strumento scrittorio, più maneggevole dello stilo, si adattava ad una s. meno rigida, più sciolta, più elegante quale più o meno la ritroviamo nell'età moderna; si passa, così, da forme angolose a forme più rotondeggianti, quasi da un capitale ad un corsivo. La successiva invenzione della carta, attribuita dalla tradizione all'eunuco Ts'ai Lun (105 d. C.), favorì ancor più una forma moderna di scrittura.

L'ideogramma cinese, inoltre, è una rappresentazione pittorica o pittorico-fonetica non tanto di una parola classificabile in una categoria grammaticale, quanto il simbolo di un'idea, di un'astrazione; così, ad esempio, il carattere jên potrà significare "uomo" od "uomini", "umanità" ed anche "gli altri", l'ideogramma hao renderà l'idea di "buono", "eccellente", ma potrà significare "estremamente" ed anche "amare". Questa imprecisione grammaticale dell'ideogramma cinese ha fatto della lingua che lo usa la più adatta ad esprimere la poesia, appunto per quel senso poetico di vago, di non logicamente definibile.

I rapporti fra pittura e calligrafia, entrambe rese mediante il pennello, sono sempre stati talmente stretti in Cina al punto che un bel saggio calligrafico suscita lo stesso apprezzamento estetico di un bel dipinto e raggiunge analoghe quotazioni sul mercato artistico. Ma la fusione fra arte pittorica, calligrafica e poetica raggiunge fin dall'età antica la sua perfezione nei dipinti accompagnati da elogi poetici scritti o per meglio dire dipinti in maniera magistrale. Per quanto pochi siano gli esempî rimastici di antiche pitture con elogi ed iscrizioni calligrafiche, citiamo come esempio il famosissimo rotolo attribuito a Ku K'ai-chih (IV sec. d. C.), conservato nel British Museum, Londra (v. ku k'ai-chih).

Oltre un centinaio di pietre tombali della dinastia Han (III sec. a. C.-III sec. d. C.) presentano iscrizioni; queste sono tutte scritte con caratteri detti dai Cinesi li-ssu (dal nome del riformatore Li Ssu, di cui si è detto sopra); tali caratteri erano tracciati con spatole e presentano una forma più semplice dei corrispondenti caratteri li-ssu tracciati con il pennello. Ciononostante è il nome di un famoso calligrafo dei Chin Orientali, Wang Hsi-chih (316-420 d. C.), ad esser ricordato quale il capostipite dell'arte calligrafica; a lui si deve da un lato il perfezionamento dei caratten li-ssu in forme più quadrate e dall'altro l'aver stabilito i canoni della s. corsiva; oltre a ciò egli creò una terza forma intermedia fra lo stile quadrato e quello corsivo. Non si conservano suoi esemplari calligrafici, ma copie datate alla fine del periodo delle Sei Dinastie e all'epoca T'ang.

Bibl.: L. Driscoll-K. Toda, Chinese Calligraphy, Chicago 1935; Chiang Yee, Chinese Calligraphy, Londra 1938, 2a ed., 1954; L'inchiostro di Cina nella calligrafia e nell'arte giapponese (con molti riferimenti alla scrittura in Cina), Roma IsMEO, 1956; L. Speiser, China: Geist u. Gesellschaft, Baden Baden 1959 (ediz. italiana, Milano 1960, p. 129 ss.).

(L. Lanciotti)