SCOMUNICA

Enciclopedia Italiana (1936)

SCOMUNICA (dal lat. excomunicatio)

Agostino TESTO
Nicola TURCHI

Storia delle religioni. - È l'esclusione di un individuo dal gruppo religioso al quale appartiene, esclusione determinata da motivi di carattere religioso e che lo priva di quei diritti e di quei benefici che gli erano garantiti dall'appartenenza al gruppo stesso sostituendovi, per l'opposto, il ripudio legale e morale.

Negli aggruppamenti primitivi, essendo in essi la vita religiosa e sociale tanto strettamente congiunte da non potersi nemmeno concepire un individuo avulso dal corpo sociale, l'espulsione dal gruppo è di solito anche espulsione dalla vita. Invece, a mano a mano che la vita sociale si sviluppa e il rispetto alla vita umana si fa maggiore e la giustizia degli dei è sentita come completatrice di quella degli uomini, l'esclusione dalla comunità (ἀειϕυγιά, ex-silium) in sostituzione della pena capitale si fa più frequente e prende il nome di esilio.

Presso i Greci e i Romani l'esilio ha invero tutto l'aspetto religioso-sociale di una scomunica, in quanto per il cittadino la patria racchiude tutta la sua ragion d'essere non solo di πολίτης o di civis ma addirittura di uomo; di guisa che, messo al bando da essa, egli si trova fuori di tutte le norme religiose legali e morali che hanno fino allora guidato la sua esistenza, né ha la possibilità di assumerne altre, perché lo straniero è per sé il nemico e il contaminatore dei sacra cittadini e privati.

In Roma questa terribile esclusione era espressa dalla formula interdicere aqua et igni, cioè proibire l'uso dell'acqua (lustrale) e del fuoco (sacro del focolare e dell'ara sacrificale): i due elementi religiosi che purificano individui e gruppi e li pongono in condizione di partecipare al sacro e comunicare col mondo divino. Secondo il diritto romano l'esilio toglie al condannato la potestà sui figli e sulla moglie. Esso equivaleva dunque a una morte civile e questo spiega perché nella città antica era permesso al reo di evitar l'esecuzione capitale con la fuga.

Nelle religioni gerarchicamente costituite e viventi in seno a una comunità statale più vasta, o comunque politicamente separata, la scomunica assume un valore esclusivamente religioso, in quanto l'individuo viene cacciato dal gruppo di cui fa parte, solo per motivi religiosi e per sentenza emanata da potere religioso.

Così, per es., il giudaismo postesilico, divenuto una comunità sempre più rigidamente religiosa, ha avuto e ha la pena della scomunica. Il buddhismo, pur ammettendo l'espulsione di un individuo indegno dalla comunità, non dà a questa la figura canonica di una scomunica. Neppure l'islamismo conosce l'istituto della scomunica. Per ciò la dichiarazione di miscredenza o di infedeltà (kufr) era iniziativa individuale di dotti che poteva o non poteva essere accettata dalla comunità (v. islamismo).

Diritto canonico. - Tiene il primo luogo tra le censure, o pene ecclesiastiche medicinali, aventi per fine primario l'emendazione del reo e per secondario la sua punizione.

Nel diritto antico si distinguevano due scomuniche: la maggiore e la minore. La prima produceva tutti gli effetti penali; l'altra privava solo dell'uso dei sacramenti e della voce passiva, ed era contratta da chi trattava con uno scomunicato vitando; essa fu abolita da Pio IX nel 1869. La maggiore obbligava i fedeli a non trattare con chi n'era colpito; ma poiché questo obbligo causava molte angustie, il papa Martino V stabilì che valesse soltanto con due classi di scomunicati (detti perciò vitandi), cioè con i rei notorî di aver percosso un ecclesiastico, e con quelli colpiti da pubblica sentenza condannatoria o declaratoria. Tutti gli altri erano detti tolerati.

L'odierno codice di diritto canonico tratta della scomunica nel libro V, parte 2ª, dal can. 2257 al 2267. La definisce "una censura che esclude dalla comunione dei fedeli secondo particolari effetti stabiliti nei relativi canoni". Per comunione dei fedeli s'intende il godimento dei diritti e benefizî spirituali e temporali derivanti dall'appartenere alla Chiesa, in quanto società esterna e visibile. Perciò non è da confondersi con la "comunione dei santi", che è del tutto interiore, e fondata sulla fede e grazia santificante, la quale rende tutti i fedeli, vivi e defunti, uniti fra loro e con Gesù Cristo loro capo, e fa gli uni partecipi dei beni spirituali degli altri tutti. L'esclusione dalla comunione dei fedeli non produce un effetto puramente esterno, ma anche interiore, e obbliga in coscienza.

La scomunica non può essere inflitta a un corpo morale, ma solo a singole persone, tanto ecclesiastiche quanto laiche; nella stessa persona può moltiplicarsi o per lo stesso delitto ripetuto o per diversi, puniti con questa pena. Cessa soltanto con l'assoluzione ricevuta dalla competente autorità, avuto riguardo alla qualità della pena, e, se è riservata, anche al suo grado. L'assoluzione non può essere negata al reo che presenta tutte le buone disposizioni di penitenza e di riparazione per il delitto commesso.

Circa gli effetti, conviene distinguere tre classi di scomunicati, cioè quelli di scomunica semplice, quelli colpiti da sentenza o declaratoria o condannatoria, e gli scomunicati vitandi. Lo scomunicato semplice non può ricevere i sacramenti, assistere ai divini uffizî, compire atti legali ecclesiastici, esercitare un ufficio ecclesiastico, usare dei privilegi ottenuti, né eleggere o nominare o presentare; non partecipa alle indulgenze, suffragi e pubbliche preghiere della Chiesa; non può ottenere carica o pensione ecclesiastica, né celebrare e amministrare i sacramenti e i sacramentali, e neppure compiere atti di giurisdizione. Lo scomunicato colpito da sentenza declaratoria o condannatoria, oltre agli effetti precedenti, non può aver parte attiva nei divini uffizî, e deve venire espulso da essi; non può ricevere i sacramentali né avere sepoltura ecclesiastica; è incapace di ricevere qualsiasi grazia pontificia, e perde i frutti della carica o pensione ecclesiastica di cui sia investito. Lo scomunicato vitando, oltre a tutti gli effetti delle due classi precedenti, perde non solo i frutti ma la stessa dignità, carica o pensione ecclesiastica; deve essere espulso se assiste ai divini uffizî, oppure questi si devono cessare; non è lecito trattare con lui, eccezion fatta per quelli della famiglia, per i servi e i sudditi, e per altri ogniqualvolta vi sia un ragionevole motivo scusante. Nel diritto odierno è vitando solamente chi abbia usato violenza contro il papa e chi sia stato scomunicato nominalmente dalla S. Sede con sentenza pubblica, nella quale si dica espressamente che è vitando: è perciò caso assai raro.

Bibl.: F. Cappello, De censuris, Torino 1933.

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