SCISMA

Enciclopedia Italiana (1936)

SCISMA

Alberto PINCHERLE
Agostino TESTO
Alberto PINCHERLE
Mario NICCOLI
Eugenio DUPRE' THESEIDER

. Il termine latino schisma è semplice traslitterazione del gr. σχίσμα (cfr. σχίξω e il lat. scindo) che originariamente significa "fenditura", e in tal senso è usato talvolta anche nel Nuovo Testamento. Ma da questo è abbastanza facile il trapasso al significato "rottura, divisione" così materiale quanto morale; ed è in questo ultimo senso che S. Paolo adopera il termine, parlando dei dissensi che laceravano la chiesa di Corinto (I Corinzi, I, 10; cfr. anche XII, 25). Meno facile è intendere esattamente l'altro passo, in cui S. Paolo parla di "scismi" di cui egli ha notizia, e dice che vi devono essere a Corinto anche "eresie" (αἱρέσεις; I Cor., XI, 18 seg.). Vi sono infatti interpreti i quali negano che si possa distinguere esattamente fra i due termini; reagendo così contro l'opinione comune, e la tendenza spontanea, a ravvisare nello scisma la scissione di carattere disciplinare e nell'eresia il dissidio di natura dottrinale. Già S. Ireneo (Adv. haer., IV, 33, 7) usa "scisma" a indicare quella rottura dell'unità ecclesiastica che è un peccato contro l'amore fraterno, un aver di mira più il proprio utile che l'unità della Chiesa, pur senza attentare alla purezza della fede.

Per questa via, e con maggiore precisione, procede anche S. Agostino allorché nel De fide et symbolo (21; dell'anno 393) dichiara che "haeretici de Deo falsa sentiendo ipsam fidem violant; schismatici autem discissionibus iniquis a fraterna caritate dissiliunt, quamvis ea credant quae credimus. Quapropter nec haeretici pertinent ad ecclesiam catholicam, quoniam diligit Deum, nec schismatici, quoniam diligit proximum". E già S. Ottato di Milevi (I, 11 e 12), nel rispondere al donatista Parmeniano, aveva nettamente distinto gli eretici "veritatis exules, sani et verissimi symboli desertores" dai seguaci dello scisma che "sparso coagulo pacis dissipatis sensibus generatur, livore nutritur, aemulatione et litibus roboratur". Più tardi, però, nel corso della stessa controversia contro i donatisti, Agostino si trovò a dover difendere la costituzione, emanata dall'imperatore Onorio il 12 febbraio 405, la quale sottoponeva i donatisti alle stesse pene sancite contro gli eretici. E allora, pur senza respingere del tutto la distinzione consueta, si sentì portato a trascurarla e a preferirne una, che si potrebbe dire cronologica, basata sul fatto che ogni dissenso, anche d'origine puramente disciplinare, di solito ha già dall'inizio, ma comunque finisce prima o poi per assumere anche un aspetto dottrinale (Contra Cresconium, II, 7, 9: "Proinde quamvis inter schisma et haeresim magis eam distinctionem adprobem, qua dicitur schisma esse recens congregationis ex aliqua sententiarum diversitate dissensio - neque enim et schisma fieri potest, nisi diversum aliquid sequantur qui faciunt - haeresis autem schisma inveteratum, tamen... Si enim schisma faciunt, quibus cum eis a quibus se dividunt una religio est, eadem sacramenta, nihil in christiana observatione diversum, hinc..."). È il concetto che ispira anche S. Girolamo, allorché osserva che lo scisma finisce sempre col diventare eresia (In epist. ad Tit., 3, 10: "Inter haerisim et schisma propter episcopalem dissensionem ab Ecclesia separetur. Ceterum nullum schisma non sibi aliquam confingit haeresim, ut recte ab Ecclesia recessisse videatur").

Anche da un punto di vista esclusivamente storico, queste parole esprimono molto bene ciò che di fatto è accaduto. Infatti, nel periodo più antico, la maggior parte degli scismi ebbe il carattere di ribellioni al vescovo: si tratta per lo più di dissidî locali, spesso di breve durata, dovuti al formarsi di partiti, non di rado su basi personali, i quali si combattevano soprattutto al momento dell'elezione di un nuovo vescovo. Ma poi, mutate molte condizioni, gli scismi di tal genere si fecero sempre più rari; non solo le ragioni dei dissensi furono sovente d'ordine dottrinale, ma - anche quando gli scismi non scoppiarono in conseguenza d'una predicazione ereticale - i loro autori, o i seguaci, per giustificare la propria condotta, ricorsero ad argomenti di carattere dottrinale: discussero cioè della costituzione e della natura della Chiesa e attaccarono il primato del pontefice romano.

Dopo il Concilio Vaticano che dichiarò verità di fede tale primato, non è pertanto più possibile lo scisma senza l'eresia. Ma già prima si era accolta, anche da un punto di vista dottrinale, la tesi contenuta nelle citate parole di S. Girolamo, passate anche nel Corpus iuris canonici. La ragione intima sta in questo che, avendo Gesù Cristo fondato la sua Chiesa una nella fede e nel governo e nella comunione, scelse Pietro e i suoi successori perché di tale unità fossero il principio e il centro; perciò chi rigetta l'autorità del romano pontefice si separa dalla fonte perenne dell'unità e della purezza nella fede, e, privo di tale benefico influsso, cade fatalmente in qualche errore dottrinale. Difatti la fede delle chiese scismatiche non solo è priva di quelle verità che la Chiesa romana è venuta a mano a mano scoprendo nel deposito della rivelazione affidatole, ma anche si è oscurata dalla purezza primitiva e mescolata con molti errori. Pur tuttavia i loro antichi libri liturgici, i loro documenti restano sempre una buona fonte per la scienza teologica, la quale attraverso ad essi riesce ad attingere alla pura sorgente primitiva e comune.

Una comunità scismatica, sebbene separata dalla vera Chiesa se nella sua liturgia dei sacramenti mantiene ciò che come loro elemento essenziale fu stabilito da Gesù Cristo, può ritenere la vera gerarchia sacra, e i suoi vescovi e sacerdoti essere realmente rivestiti dell'ordine sacro relativo; perciò non raramente la Chiesa romana, nel caso del loro ritorno all'unione con essa, riconosce loro la dignità goduta.

Una particolare forma di scisma è quella proveniente da duplice elezione papale; in tal caso è scismatico il gruppo di fedeli aderenti al papa illegittimo.

Abbiamo parlato sinora soltanto del cristianesimo. È in esso infatti che si è precisata la nozione di scisma. Tuttavia il fenomeno non è esclusivamente cristiano: si può parlare, con maggiore o minore precisione, di scismi anche per altre religioni. Così, p. es., si parla di scismi nel jainismo, a proposito della setta dei Digambara (v. Iainismo, XVIII, p. 645), nell'ebraismo a proposito dei Samaritani (v.) e anche del tempio di Leontopoli; a proposito delle sette o scuole buddhistiche (v. buddhismo), e in qualche altro episodio della storia delle religioni.

Nella storia del cristianesimo, gli scismi sono numerosissimi. Tra i più noti, si possono ricordare quelli romani di S. Ippolito, di Novaziano, di Felice e Orsino, di Lorenzo; in Africa, lo scisma di Novato e il donatismo; in Egitto, quello dei meleziani; in varie regioni, quello dei luciferiani e l'altro a proposito della questione cosiddetta dei Tre capitoli. Poi, più grave nelle conseguenze d'ogni altro, il grande "scisma orientale" (v. sotto); in Occidente, quelli provocati dalle elezioni di antipapi (per i nomi e le date, v. papato: Elenco dei papi) e il grande "scisma d'Occidente" (v. oltre) con le sue conseguenze, per cui scismatica si può forse considerare la chiesa gallicana dalla Prammatica sanzione di Bourges al concordato di Francesco I (scismatico certo il conciliabolo di Pisa). Altro "scisma gallicano" fu quello provocato dall'adesione di alcuni alla rivoluzionaria costituzione civile del clero, dopo la condanna da parte di Pio VI; così come scismatici furono gl'"incommunicanti" francesi, che respinsero il concordato napoleonico ed ebbero varî nomi (stevenisti nel Belgio): questa Petite Église ebbe aderenti fino al 1847 e in alcune località fino al 1870 e anche oltre; lo scisma dei giansenisti di Utrecht, quello dei Vecchi cattolici ribelli al Concilio Vaticano, quello dei mariaviti di Polonia, ecc.

Lo scisma orientale.

Lo "scisma orientale" o "greco" è quello che, durante il patriarcato di Michele Cerulario (1043-1058) portò, nel luglio 1054, alla definitiva separazione del patriarcato (v.) di Costantinopoli dalla Chiesa di Roma e che, in epoche più o meno vicine al 1054, indusse alla separazione da Roma i tre patriarcati orientali di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme nonché tutti quei popoli che avevano ricevuto la fede cristiana da Bisanzio e conservato un legame gerarchico con la Chiesa greca. Dallo scisma greco ripete le sue origini, come chiesa separata, la chiesa ortodossa per la costituzione e le vicende della quale v. ortodossa, chiesa e le altre voci ivi citate.

La data del 1054 è, in un certo senso, una data convenzionale, in quanto l'avvenimento che a essa si riconnette, e cioè la reciproca scomunica lanciata dai legati di Leone IX contro Michele Cerulario e da questo contro quelli, se rappresenta il punto al quale si riconnette la definitiva rottura dei rapporti fra il cristianesimo d'Oriente e d'Occidente, non è stato sentito dalla coscienza dei contemporanei come un evento definitivo, così come noi oggi lo sentiamo, bensì è stato interpretato, da parte greca, come un incidente qualsiasi indegno persino di essere menzionato dagli storiografi ufficiali (lo stesso Michele Psello non ne fa cenno) e da parte latina come la condanna di un pericoloso eretico, Michele Cerulario, per opera della S. Sede e quindi non come uno scisma, ma come una lotta, sia pur aspra, terminata a tutto vantaggio della Chiesa di Roma. Dopo Michele, si poteva pensare da parte latina, la Chiesa greca sarebbe tornata nel girone della Chiesa cattolica, come aveva già fatto dopo la caduta di Fozio. La sensazione dello scisma consumato si ha solo all'epoca del patriarca Giovanni Becco (1275-1282) costretto ad abdicare sotto Andronico Comneno a causa del suo zelo per la causa dei Latini. D'altra parte se effettivamente in Fozio - il cui episodio (v. fozio) precede di oltre un secolo e mezzo gli avvenimenti del 1054 e ne rappresenta la logica immediata premessa - e in Michele Cerulario si riassume veramente la storia della divisione fra l'Oriente e l'Occidente, sarebbe impossibile voler prescindere, nella valutazione e nell'inquadramento storico dei fatti, da tutti quegli avvenimenti anteriori che hanno permesso a Fozio e a Michele di far trionfare le loro dottrine, o voler dimenticare quei loro successori che consolidarono la loro opera rendendo effettivo e definitivo lo scisma.

La Chiesa greca e latina alla vigilia dello scisma. - Dopo la deposizione definitiva di Fozio (886) e durante i 160 anni di pace fra Oriente e Occidente che precedono lo scisma del 1054, i rapporti fra le due chiese appaiono all'indagine viziati in profondità da uno stato di tensione che mostra come l'allontanamento fra Oriente e Occidente fosse oramai nella logica dei fatti. Rimanevano tuttora in carica i vescovi ordinati da Fozio; i motivi che avevano indotto Fozio alla rottura avevano ancora tutto il loro valore. L'atteggiamento di papa Sergio III contro il patriarca Nicola Mysticos, deposto per compiacere all'imperatore Leone VI; il riconoscimento, da parte di papa Giovanni XI, del sedicenne patriarca Teofilatto fratello dell'imperatore Lacapeno, avevano profondamente irritato l'opinione pubblica greca. D'altra parte l'azione dell'imperatore Basilio II (963-1025) e dei suoi quattro patriarchi si rivela, pur attraverso le incertezze e le contraddizioni delle fonti, ostile a Roma. Al diminuito prestigio del papato lacerato dallo scisma, dalla simonia, asservito agl'imperatori tedeschi, rivali, nell'Italia Meridionale, dell'impero greco, fa riscontro, presso i Greci, l'aumentata importanza e prestigio del patriarcato di Costantinopoli. La Chiesa viene organizzata da preti di Costantinopoli e capeggiata da un metropolitano gerarchicamente sottomesso a Costantinopoli; la riconquista dell'Italia meridionale da parte di Niceforo Foca (963-969) è seguita dalla ricostituzione di una gerarchia ecclesiastica greca in Puglia e in Calabria; Basilio II sopprime le funzioni del patriarca bulgaro rimpiazzandole con un semplice arcivescovo suffraganeo del patriarca di Bisanzio. L'annessione dell'Armenia da parte di Costantino IX (1042-1054) salda i vincoli fra le chiese greca e armena; in Palestina, agli inizî del sec. XI, il protettorato dei luoghi santi passa dai Franchi agli imperatori bizantini. Ora a tutti questi innegabili fatti che sottolineano l'atteggiamento indipendente, ostile e persino aggressivo di Bisanzio contro Roma, fa riscontro la convinzione - che si ricava dall'esame della situazione fra Roma e i patriarcati orientali alla vigilia dello scisma, della stessa idea che gli umili fedeli dell'Oriente e dell'Occidente si facevano allora scambievolmente della loro vita religiosa - che lo scisma del 1054 non è stato il coronamento di una serie di sforzi continui e successivi, la regolarizzazione di uno stato di fatto già esistente, ma è apparso al contrario come uno strappo violento, all'attuazione del quale presiede la volontà e la consapevolezza di un uomo: Michele Cerulario, il quale ha calcolate e previste tutte le conseguenze dei suoi atti e ha realmente voluto sostituire all'antica unione con Roma un regime nuovo che è poi diventato la tradizione della Chiesa ortodossa.

Le persone e i fatti. - Alla debolezza di carattere, all'apatia di Costantino IX Monomaco, solo preoccupato di godere in pace i mezzi che il potere gli concedeva, sprovvisto di ogni sensibilità per l'intelligenza delle cose religiose, fa riscontro la personalità di Michele, temperamento forte, rispettato e amato per le sue innegabili qualità morali, energico e niente affatto accomodante, geloso della sua autorità di patriarca di fronte allo stesso imperatore, fedele a lui più come una potenza alleata che come un soggetto, nato per il comando, animato da quella stessa ambizione di dominio che gli aveva fatto, un giorno, sognare il trono imperiale. Ma anche a Roma il papato era in quel momento in mani salde. L'estrema decisione che il contrasto fra Roma e Bisanzio assumerà, non si potrebbe spiegare integralmente non tenendo presente che di fronte a Michele si ergeva un papa come Leone IX (v.) salito al trono pontificio con la volontà decisa di riformare la Chiesa e di affermare su tutti e tutto l'autorità pontificia, animato da un'idea totalitaria dei suoi diritti, tale da non potergli fare accettare qualche cosa che potesse diminuirli.

L'attacco, che appare deliberatamente preparato come un volontario atto di guerra, parte da Bisanzio. Nel 1053, all'indomani della battaglia di Civitate sul Fortore (17-18 giugno) che ha stroncato le velleità politiche di Leone IX nel meridione d'Italia, Michele scrive al patriarca d'Antiochia Pietro, lamentando che quella Chiesa, a differenza di quella di Costantinopoli, mantenga ancora nei dittici il nome del papa. Segue la famosa lettera di Leone arcivescovo di Ochrida e strumento di Michele a Giovanni vescovo di Trani, in realtà destinata "a tutti i vescovi franchi e al molto onorevole papa" e vero atto di accusa contro gli usi della Chiesa latina. Contemporaneamente Michele, mentre ordinava a Costantinopoli la chiusura di tutte le chiese latine, faceva diffondere un trattato latino scritto dal monaco Niceta Pettorato, nel quale le accuse contro Roma erano presentate in forma più violenta.

La tattica di papa Leone IX nella sua replica non fu affatto ispirata al criterio di controbattere le accuse dei Greci, quanto al criterio di riaffermare in un documento di carattere generale l'insindacabile diritto della S. Sede a non essere giudicata da chicchessia. Ponendo la lotta sul suo vero terreno e indirizzandosi direttamente al suo vero avversario, Michele, papa Leone IX trascurava completamente i punti di dissenso affacciati dai luogotenenti del patriarca, per riconfermare, anche nei riguardi di Michele, il primato della sede di Roma. Che Michele si fosse sottomesso: poi si sarebbero discussi gli argomenti del dissenso. E Michele, difatti, sembrò piegare. Dovettero influire probabilmente su di lui la volontà del catapano d'Italia Argiro alleato di Leone IX contro i Normanni e l'opera persuasiva di Costantino IX, che, legato alla politica antinormanna di Argiro, invece di prendere di fronte il prepotente patriarca, deve avergli prospettato la situazione in modo da fargli credere che avrebbe potuto trattare col papa da pari a pari. Ma Leone IX era deciso a ottenere la sottomissione di Michele.

Nel gennaio 1054, una missione papale composta dal cardinale Umberto di Silvacandida, dal cancelliere della Chiesa, Federico, e dal vescovo Pietro d'Amalfi, partiva per Costantinopoli con la precisa istruzione di ottenere a ogni costo la sottomissione di Michele. Giunti a Costantinopoli, dopo la morte di papa Leone sopravvenuta il 19 aprile, i tre apocrisiari si comportarono, giusta il tono delle lettere dirette dal papa a Michele e a Costantino e delle quali essi erano latori, non come messi venuti per trattare, ma come giudici e inviati straordinarî del papa e quindi superiori a tutta la gerarchia bizantina. Costantino, timoroso di perdere un alleato contro i Normanni, cercò di barcamenarsi, mentre Michele si irrigidiva nelle sue posizioni. Di fronte alle mene del patriarca, che cercò subito di procacciarsi gli appoggi dei suoi colleghi orientali e specialmente di Pietro di Antiochia, i legati pontifici il 15 luglio 1054 scomunicarono solennemente, in Santa Sofia, Michele. Ma questo, non sottomesso né deposto, forte dell'appoggio dei Bizantini, riuscì, suscitando una vera rivoluzione, a imporre la sua volontà allo stesso Costantino, mentre i legati a mala pena poterono salvarsi da un tranello loro teso dal patriarca. Il 20 luglio 1054 un concilio della Chiesa greca capeggiato da Michele pronunciava un solenne anatema contro i Latini. Lo scisma era consumato di fatto.

Le conseguenze. - Lo scisma di Costantinopoli portò con sé, progressivamente, quello di tutto l'Oriente; in qualche caso esplicitamente, volontariamente, in altri implicitamente senza azione propria delle chiese. Cerulario fu seguito dai patriarchi melchiti di Alessandria e di Gerusalemme; quello di Antiochia restò fedele a Roma, ma il suo successore, Teodoro III, passò alla causa dello scisma. Poi vennero le chiese, più o meno autonome, di Cipro, del Sinai e del Monte Athos; poi i Romeni, i Bulgari, i Serbi e i Russi. Se in tal modo lo scisma rafforzò singolarmente l'autorità del patriarcato di Costantinopoli, dal punto di vista politico fu esiziale all'impero bizantino, in quanto precluse ogni possibilità d'intesa durevole fra Bisanzio e l'Occidente e rese più difficili gli aiuti dei Latini contro la minaccia turca.

Ragioni intime del dissenso. - Quali le accuse elevate dai Greci contro i Latini? Quale, al disopra di ogni formulazione, la ragione intima e più vera del conflitto? È noto che già Fozio (è sintomatico osservare che la lettera sinodale del concilio greco del 20 luglio 1054 si iniziava con la riproduzione testuale dell'Enciclica di Fozio alle chiese d'Oriente) aveva accusato i Latini di aver alterato il simbolo di Costantinopoli del 778, che i Greci ritenevano formula definitiva e inalterabile di fede, con l'aggiunta dell'espressione ἐκ τοῦ Υἱου (il famoso filioque) indicante la processione, affermata dai Latini negata dai Greci, dello Spirito Santo non solo dal Padre ma anche dal Figlio. In realtà questa questione non entrò come motivo vivo nelle dispute che occasionarono lo scisma del 1054. La questione fu però ripresa dopo scoppiato lo scisma: il filioque diventa il punto centrale di tutti gli attacchi e di tutte le discussioni e, rivelando due concezioni distinte e irreducibili della Trinità, costituirà oramai l'ostacolo più insuperabile all'unione.

Ma nel 1053-1054 Michele trascurò questo motivo, la cui importanza poteva essere compresa solo dai teologi, indotto a ciò dal suo desiderio di agire soprattutto sul popolo e sulla gran massa del clero: questioni di rito e di disciplina avrebbero commosso il popolo più di una discussione teologica. Il contrasto fra l'uso del pane azimo nell'Eucarestia seguito dalla Chiesa latina contro l'uso greco che preferiva il pane fermentato poneva una questione che, sul terreno teologico, simbolico, storico e d'autorità, si presentava pressoché insolubile. La volontà decisa di Michele a rompere con Roma si rivela, a tacer d'altro, nell'aver scelto questa questione, in sé stessa non di capitale importanza, a pernio e segnacolo della lotta.

Altro motivo di dissenso fu la questione del matrimonio dei preti. Leone IX nella sua volontà di imporre, con ogni mezzo e con estremo rigore, al sacerdozio l'ideale ascetico, si poneva un problema (quello della costituzione, attraverso il matrimonio dei preti, di una casta sacerdotale che non avrebbe tardato a secolarizzare la Chiesa) che non poteva essere sentito in Oriente, dove questo ideale si sviluppava da sé, su un terreno favorevole, senza che fosse sentita la necessità di imporre una disciplina coercitiva. Gli Orientali non sentivano la necessità di una ririforma e i Latini non potevano fare concessioni per non pregiudicare il successo di una lotta che era per loro questione essenzialissima.

L'abitudine dei Latini di non astenersi il sabato dal cibarsi di carni di animali soffocati, l'omissione dell'Alleluia nei canti liturgici durante la Quaresima, alcune particolari abitudini del clero occidentale entrarono nella lotta come motivi di dissenso.

Ma è ovvio che, se tutte queste questioni sapientemente agitate da Michele appassionarono l'opinione pubblica greca creando il terreno favorevole allo scisma e ostacoli insuperabili alla sua composizione, il fondo della questione che divideva Oriente e Occidente va ricereato altrove. Va ricercato nella questione scottante dei rapporti gerarchici e disciplinari fra il papa e il patriarca. Alle critiche alle abitudini della Chiesa romana, Leone IX, si è già visto, risponde opponendo una questione di principio: la cristianità è una monarchia di cui il papa è l'unico sovrano. Ora, per quanto i Greci non avessero una teoria gerarchica fissa e precisa, erano peraltro d'accordo nel ripudiare l'onnipotenza di Roma in materia dogmatica e disciplinare. In epoca anteriore a Fozio i Greci amavano ancora raffigurarsi il governo della Chiesa come la resultante della libera intesa dei cinque patriarchi, di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, forniti sostanzialmente di uguali diritti per quanto differenziati da una gerarchia onorifica. Ma in realtà, la funzione politica del patriarcato di Costantinopoli che si accentua nel corso dei secoli ed è favorita dagl'imperatori bizantini che vedono nel patriarcato uno strumento efficace per tenere in scacco sia Roma sia le altre chiese orientali, doveva favorire a poco a poco la sostituzione, nella realtà dei fatti e nella teoria, di una diarchia alla pentarchia. Come l'Impero, la Chiesa è divisa in due sfere, quella delle regioni latine "tuffate nell'oscurità" (Fozio) e quella dell'ellenismo, tutta brillante di luce. Gli altri patriarchi sono destinati a diventare subordinati di questo nuovo potere che regnerà in Oriente, come quello del papa regna in Occidente. Era, in fondo, l'eterna questione sollevata dal famoso canone 28 del concilio di Calcedonia (451) secondo il quale "se alla vecchia Roma, in quanto questa città è sovrana, i padri della Chiesa hanno a buon diritto attribuita la primazia, anche alla sede santissima della nuova Roma (Costantinopoli) è accordata la stessa primazia, in quanto la città è onorata dalla presenza del basileus e del senato e ha gli stessi privilegi della vecchia Roma reale ed è grande come quella nelle cose ecclesiastiche, essendo seconda dopo di Lei". Era una questione in cui confluivano un atteggiamento sotto molti aspetti sostanzialmente antagonistico di fronte al fatto religioso, un contrasto di razza e di nazioni, le stesse conseguenze dello scisma politico determinatosi fra Roma e Costantinopoli con Pipino il Breve e Carlomagno.

Michele, nella sua volontà di liberare definitivamente il patriarcato di Costantinopoli dalla soggezione latina, volle diventare il capo di tutta la Chiesa greca; avversario dell'autorità dogmatica del papa e dell'indipendenza dei patriarchi, combatte l'una per rendersi padrone degli altri.

È quella già citata sotto Michele Cerulario: fondamentale L. Bréhier, Le schisme oriental du XIe siècle, Parigi 1899. V. Inoltre dello stesso, Un discours inédit de Psellos, in Revue des études grecques, XVI (1903), XVII (1904) e Normal relations between Rome and the Church of the East before the Schism, in The Constructive Quarterly, New York 1917; A. Michel, Humbert und Kerularios. Quellen und Studien zum Schisma, Paderborn 1930 (cfr. L. Bréhier, in Revue historique, 1930).

Lo scisma d'Occidente.

Viene anche detto il Grande Scisma, e fu una profonda crisi che travagliò la Chiesa per assai lungo periodo - dal 1378 al 1449 se ne consideriamo le conseguenze più remote - e con ripercussioni vastissime, in quanto interessò tutta la cristianità occidentale senza eccezioni. Ebbe origine occasionale da una doppia elezione di papi compiuta da un medesimo collegio di cardinali e alla distanza di pochi mesi; si continuò per una funesta serie di malintesi, per ostinazione o irresolutezza di eletti e mala volontà di elettori e inframmettenze laiche; non rivestì carattere di dissidio su questioni di carattere dottrinale che sul suo finire, quando affrontò la questione dei rapporti tra pontefice e concilio nei concilî di Pisa e di Costanza.

Ma tale straordinaria crisi non avrebbe avuto evidentemente tanta durata e importanza, se non fosse stata radicata in più profonde cause quali lo scadimento del prestigio e dell'autorità pontificia nel secolo XIV e specialmente nel periodo avignonese e l'affermarsi sempre più vigoroso dello spirito "laico" della nuova età. Le critiche anticuriali che avevano avuta tanta fortuna nel Medioevo, avevano trovato vigoroso alimento nel malcontento generale contro il fiscalismo della Curia, contro il crescente centralismo, contro l'asservimento sempre più sensibile della Curia a interessi laici e mondani, mentre d'altro canto lo spirito laico dava vita a una nuova coscienza religiosa secondo la quale a tutti i fedeli spetta il diritto d'intervenire nelle questioni di fede in difesa della Chiesa contro le stesse gerarchie ufficiali.

E in relazione all'affermarsi di questa nuova coscienza religiosa, durante lo scisma, i monarchi e i principi fecero pesare tutta la loro autorità in favore ora dell'uno ora dell'altro dei contendenti, appoggiandosi a pareri di giurisperiti laici, a minuziose inchieste (condotte specialmente sull'elezione del 1378), a deliberazioni di università o di sinodi nazionali, e anche al proprio "diritto divino" (specialmente il "cristianissimo" re di Francia). Ma, in fondo, i motivi che li ispirarono furono d'indole squisitamente politica. Specialmente degna di nota fu la loro funzione di protettori e di regolatori supremi dei concilî. Essi determinarono anche, per ragione di sovranità, a quale "obbedienza" dovessero riconoscere la legittimità i loro sudditi, e con ciò entrarono profondamente nel campo religioso. Il re d'Aragona tenterà perfino di prolungare lo scisma, a proprio esclusivo vantaggio. Sullo sfondo di questo grande periodo sta, continuamente presente, il contrasto fra le varie nazionalità, quasi dovunque ormai nettamente individuabili; e difatti dallo scisma uscirà singolarmente rafforzata la più tipica chiesa nazionale, quella gallicana.

a) Dall'elezione di Urbano VI a quella di Bonifacio IX. - Morto Gregorio XI, il 27 marzo 1378, i cardinali, valendosi della disposizione da lui presa, che si potesse procedere all'elezione del suo successore senza attendere la venuta dei colleghi che ancora si attardavano in Avignone, fissarono il conclave per il 7 aprile. Il giorno destinato, i dintorni del Vaticano erano gremiti di folla che esprimeva energicamente la sua volontà di un papa italiano, soprattutto con la famosa frase: "Romano lo volemo o almanco italiano". Ed è facile immaginarsi che i cardinali, nell'iniziare i loro lavori sotto l'influsso della tempesta che era nell'aria, fossero non poco preoccupati per le possibili conseguenze delle loro decisioni. Tra essi si contavano quattro italiani e sedici oltramontani, divisi questi in due frazioni: da un lato quattro francesi e un aragonese (il futuro Benedetto XIII), dall'altro sette limosini. Vi erano tutte le probabilità che francesi e italiani si sarebbero collegati per rompere la tradizione che da decennî legava il papato ai limosini; ma non era certo da attendersi che i cardinali intendessero di cedere al volere del popolo romano. L'atmosfera del conclave non fu certamente tranquilla: la folla continuò da lungi a far sentire le sue grida, riuscì anzi a invadere il Vaticano e mandare suoi emissarî fin sulle soglie del conclave. Ma questo non fu interrotto ed ebbe uno svolgimento assai poco normale sì, ma meno drammatico di molti altri conclavi precedenti, sulla cui validità non furono tuttavia mai elevati dubbî. Non trovandosi i cardinali d'accordo su nessuno di loro, i voti finirono per convergere su persona estranea al Sacro Collegio, ma, per altri riguardi, nota e bene accetta alla Curia: Bartolomeo Prignano arcivescovo di Bari, italiano dunque seppur non romano, il nome del quale era stato già fatto prima del conclave tra i "papabili" più in vista. La prima elezione del Prignano avvenne alla mattina; verso il mezzogiorno, in un momento di maggiore calma, i cardinali la confermarono di pieno accordo, così che non vi potesse essere dubbio sulla validità della scelta. Prima però che se ne potesse dare la comunicazione alla folla, questa invase il conclave, minacciosa; per calmarla, si diede a intendere a essa che l'eletto fosse un romano, Francesco Tebaldeschi; anzi, con un espediente veramente insolito nella storia dei conclavi, lo si mostrò alla folla già vestito dei paramenti pontificali. Comunque, i Romani finirono con l'apprendere la verità, se ne appagarono e si dispersero. Bartolomeo Prignano fu "adorato" dai cardinali presenti (e in un secondo tempo da quattro di essi che erano fuggiti dal Vaticano) e l'elezione venne ancora una volta canonicamente convalidata con le successive solenni cerimonie della consacrazione e dell'incoronazione.

Questo, in breve, lo svolgimento del conclave del 1378, sul quale abbiamo ritenuto utile soffermarci alquanto, perché è stato la causa prima dello scisma. Più tardi i cardinali sostennero che avevano proceduto all'elezione del Prignano soltanto sotto l'imminenza del pericolo di morte, e che il loro operato era perciò nullo dal punto di vista canonico. Ma, a parte le circostanze accennate, sta il fatto che nessuno pensò allora, anche quando gli animi si furono chetati, a contestare (fosse anche soltanto con un atto notarile, non destinato sul momento alla diffusione) la validità dell'elezione di Urbano VI; per di più i cardinali notificarono regolarmente l'avvenuta elezione ai loro colleghi di Avignone, e in termini tali che quelli, che non dovevano temere alcuna rappresaglia da parte dei Romani, l'accettarono senz'altro. Analoga comunicazione ufficiale fu data l'8 maggio al re di Francia e agli altri sovrani, e non mancarono i cardinali di darne notizia in via privata ai loro protettori e amici. Ancora: durante i mesi di maggio e giugno (quando indubbiamente pensavano già ad abbandonare papa Urbano), si comportarono in modo da non lasciar sorgere alcun dubbio sulla sua legittimità; quasi tutti chiesero ed ottennero da lui le consuete grazie, di natura spirituale e temporale, la cui validità sarebbe stata infirmata in una con quella del papa. E perciò non senza ragione S. Caterina da Siena li accuserà, oltre che di mendacio, anche d'idolatria e di simonia.

Ma Urbano VI, carattere assai difficile, ebbe il torto di alienarsi ben presto le simpatie dei cardinali, principalmente con i suoi modi tirannici, con le mortificazioni che infliggeva loro in pubblico, e poi col prendere dei provvedimenti forse giustificati (in quanto miravano a sopprimere abusi ormai inveterati nelle consuetudini avignonesi) ma indubbiamente applicati con pochissimo tatto e con un'autoritarietà che non poteva non urtare i potenti cardinali francesi. Per giunta, egli aveva annunciato il suo proposito di procedere a un'elezione piuttosto cospicua di cardinali esclusivamente italiani; e nel Sacro Collegio cominciava a farsi strada il desiderio di far ritorno alla tranquilla sede di Avignone, cresceva la repugnanza verso la turbolenta popolazione di Roma, prendevano ad agire intrighi politici. Perciò, dopo non molte settimane, i cardinali oltramontani, segnatamente i limosini, cominciarono a diffondere in Francia le prime voci sfavorevoli a Urbano e ad accreditare la fama dell'illegalità della sua elezione, comeché avvenuta sotto le minacce dei Romani. La situazione peggiorò rapidamente fino alla secessione, dapprima nascosta, poi manifesta. I cardinali stranieri, tolto a pretesto il caldo di Roma, nel maggio 1378 si portarono ad Anagni, sempre però protestando la loro devozione per il papa. Anzi, quando questi inviò ad essi i tre cardinali italiani (Corsini, Orsini, da Brossano; il Tebaldeschi era morto, convinto fino all'ultimo della legittimità di Urbano VI), reiterarono le attestazioni di fedeltà, ma subito dopo dichiararono apertamente nulla l'elezione di Urbano e, scartata la proposta di rieleggerlo un'altra volta, rifiutata anche l'idea di ricorrere alla convocazione di un concilio o alla nomina di una commissione arbitrale, presero accordi per il passo decisivo: la creazione di un nuovo pontefice. La scissione si approfondisce rapidamente fino al distacco totale: i cardinali pubblicano il 2 agosto una "declaratio" nella quale i fatti dell'8 aprile sono esposti in modo da far risaltare l'illegalità dell'elezione; il 9 dichiarano, in un'enciclica, Urbano apostata e intruso; il 27 si recano a Fondi, presso il conte Onorato Caetani, rettore della Campagna e Marittima; il 15 settembre vengono raggiunti dai tre colleghi italiani e il 20, dopo aver ricevuto da Carlo V di Francia una lettera che li assicurava del suo appoggio, procedono a una nuova elezione, creando papa il cardinale Roberto di Ginevra, che s'intitola Clemente VII. I tre porporati italiani si astengono dal voto e conservano a lungo una specie di neutralità, ma comunque non obiettano nulla alla nuova elezione con la quale lo scisma ha il suo inizio.

Data comunicazione dell'elezione di Clemente VII, lo scisma si propagò in breve tempo all'intera Europa, dove tutti, chi prima chi dopo, furono costretti a prendere posizione di fronte al fatto compiuto. A prescindere dalle più o meno buone ragioni che stavano per la canonicità dell'una o dell'altra elezione, i sovrani e i principi europei fanno dipendere la loro scelta da considerazionì d'indole chiaramente e prevalentemente politico-nazionali. Per il nuovo papa - che appariva essere il vero continuatore della tradizione avignonese - si decide immediatamente la Francia e con essa gli stati che sono nella sua orbita: il conte di Savoia, il conte del Genevese, i duchi di Lorena e Bar, Giovanna di Napoli (tranne un fuggevole ritorno ad Urbano); più tardi la Castiglia, l'Aragona, la Navarra, la Scozia. Parteggiano invece per Urbano VI, rappresentante del rinnovato papato "romano", tutti gli stati che avevano avuto motivo di lamentarsi dell'asservimento del papato alla Francia nel corso del sec. XIV: dunque tutta l'Italia centrale, poi Venezia, Milano, Genova; l'Impero, l'Inghilterra, la Fiandra, che fu particolarmente dilaniata dallo scisma. Così l'Europa si trova ad esser divisa in due campi opposti, nelle due "obbedienze" urbanista e clementina, ognuna delle quali giura sulla legittimità del proprio pontefice e della propria gerarchia ecclesiastica.

Nessuno dei due pontefici fu tale, per grandezza d'animo e per larghezza di vedute, da conquistarsi tutte le simpatie, ché anzi finirono per alienarsele ognuno nel proprio campo: Urbano, con il suo carattere impossibile, che da ultimo lo condusse ad atti di vera e propria crudeltà; Clemente, con l'eccessiva dedizione alla Francia e il fiscalismo della propria amministrazione, giustificato peraltro dalle enormi spese che dovette sostenere per svolgere in Italia la sua politica di riconquista. Poiché un'altra cosa è da notare a proposito dello scisma d'Occidente: per quanto esso abbia coinvolto l'intera Europa, il centro dell'interesse generale resta tuttavia Roma, e il pontefice che vi risiede gode di un ascendente più grande che non il suo avversario, il quale, per forza di cose, deve sempre tentare di conquistare Roma. Il fatto è che il papato nel 1377 era ritornato ad essere romano anche di sede, ed ormai non si concepiva nemmeno più che potesse risiedere altrove se non provvisoriamente.

Appena eletto, Clemente VII che desidera appunto di avallare eon la "via di fatto", cioè l'effettivo possesso di Roma, i suoi diritti al titolo legittimo, ha cura di annodare strette relazioni con la Francia; passano a lui, antico condottiero, tutti i mercenarî bretoni e guasconi che infestano i dintorni di Roma, ma la battaglia di Marino, vinta dalla compagnia "italica" di Alberigo da Barbiano, rialza le sorti di papa Urbano. Tra i due contendenti si svolge intanto anche una lotta "cartacea" a base di interdetti e di accuse; ambedue cercano alleati potenti. Ha però miglior giuoco l'aristocratico Clemente per il quale stanno prima Carlo V e poi l'intrigante e ambizioso suo fratello, Luigi d'Angiò, tutore di Carlo VI. A vantaggio di questo principe Clemente, senza che i cardinali lo sapessero, con bolla datata da Sperlonga (17 aprile 1379) crea il "regno di Adria", che avrebbe dovuto consistere nelle terre pontificie a nord dell'Umbria. Con questo arbitrario smembramento del dominio ecclesiastico Clemente VII intendeva formare uno stato vassallo della Chiesa che la garantisse verso il nord e facesse da contrappeso a quello di Napoli. Ma per intanto quelle terre obbedivano a Urbano VI ed occorreva conquistarle. Poco dopo Clemente VII se ne tornava ad Avignone (20 giugno 1379) per non partirsene più, e il suo successore vi rimarrà fino al 1417. Nel 1380, con l'adozione di Luigi d'Angiò a figlio per parte di Giovanna I, ha inizio l'avventura napoletana del principe francese, finita, come si sa, oscuramente con la sua morte a Bari (1384). Scomparso questo pericolo, Urbano VI trova il modo di guastarsi anche con Carlo di Durazzo; viene da lui assediato in Nocera (gennaio-maggio 1385), poi si reca a Genova, per tornare a Roma e morirvi il 15 ottobre 1389.

b) Lo scisma fino al concilio di Pisa. - Lo scisma poteva e doveva in questo punto chiudersi, e così sperava anche Clemente VII. Ma i cardinali eletti da Urbano, per quanto a lui avversi come persona, avevano la coscienza di stare dalla parte della ragione; poi, come italiani, non sentivano probabilmente troppe simpatie per un ritorno ad Avignone: fatto è che si affrettarono ad eleggere papa uno di loro, che fu Bonifacio IX (2 novembre 1389), perpetuando così la penosa situazione. Non cambiarono sensibilmente le posizioni reciproche dei contendenti, anche se il nuovo papa di Roma, dal carattere assai migliore che non l'altro, si conquistò molte simpatie. Dopo questa elezione le grandi potenze cominciano ad intervenire direttamente nella contesa, perché vedono che la situazione non accennava a migliorarsi, e sperano di ricavare vantaggi politici dal loro intervento. Poiché Clemente VII induce il partito angioino a far continuare l'impresa di Napoli e finanzia la spedizione di Luigi II, la Francia, che vede di buon occhio la continuazione della monarchia francese a Napoli, prepara per il 1391 una grande spedizione in Italia, con a capo lo stesso Carlo VI. Il pericolo è grande per Bonifacio, ma egli riesce a parare il colpo, inducendo - a quanto sembra - l'Inghilterra a fare delle proposte di pace alla Francia (siamo ancora nel corso della guerra dei Cento anni), proposte che poi si rivelano illusorie, ma ad ogni modo distolgono il re di Francia dall'impresa. Subito dopo (1393) Gian Galeazzo Visconti tenta di riesumare il progetto del regno d'Adria, a vantaggio questa volta del proprio genero Luigi d'Orléans, che avrebbe poi dovuto cacciare Bonifacio da Roma; ma Clemente VII non osa ripetere l'imprudente offerta di Sperlonga. Non si effettua nemmeno il progetto, accarezzato prima da Urbano VI poi da Bonifacio IX, di una discesa in Italia di Venceslao, il quale viene trattenuto oltralpe dalle precarie condizioni della sua sovranità. Come si vede, la situazione era bilanciata e non v'era molta speranza per i due contendenti di vincere la partita con l'aiuto del braccio secolare. Allora pensarono di accordarsi fra loro direttamente. Già nel 1390 Bonifacio aveva proposto a Clemente di rinunciare al papato, promettendogli in cambio il primo posto fra i cardinali e la carica di legato e vicario apostolico a vita nelle terre già della sua obbedienza, esclusa l'Italia. Ma, come ben si comprende, non se n'era fatto nulla. Due anni dopo, si avvia uno scambio d'idee che dimostra unicamente che i punti di vista erano tra loro addirittura opposti. Del resto tutto fu interrotto dalla malattia di mente che colpì il re di Francia e poi dalla morte di Clemente VII (16 settembre 1394).

Durante la vita di Clemente aveva avuto alcune volte occasione di intervenire nella contesa, esprimendo il proprio autorevole parere, l'università di Parigi. Non va però dimenticato che anche l'università di Bologna nel 1378 aveva espresso il suo parere sulla doppia elezione di quell'anno; che la linea di condotta dell'Inghilterra si appoggia sull'autorità dell'università di Oxford, e che il re dei Romani ricorre ai lumi dello studio di Praga come poi, più tardi, avranno il loro peso i pareri delle università di Erfurt e di Heidelberg. Ma l'intervento dell'università di Parigi è il più autorevole e anche il più energico: basti citare i nomi dei celebri giureconsulti Pietro d'Ailly (occamista), Giovanni Gerson, Nicola di Clémangis, Gilles des Champs, autori di importanti disquisizioni teoriche sullo scisma. Nel 1394 l'università formula per la prima volta in modo categorico i tre rimedî che preconizza per far cessare lo scisma: la via cessionis (abdicazione contemporanea dei due papi), la via compromissi (nomina di un collegio arbitrale misto), le via concilii (convocazione di un concilio ecumenico). Le tre "vie" vennero nel giugno di quell'anno presentate al re, insieme con la proposta che si dovesse dichiarare eretico e scismatico il papa che, non accettandone nessuna, non avesse nemmeno da proporne una quarta; si raccomandava in special modo la via della cessione, come la più facile ad attuare. Tali proposte, accolte favorevolmente dal re, trovarono consenzienti anche molti cardinali ed amareggiarono a Clemente VII gli ultimi mesi di vita. Con la morte di questo la situazione avrebbe potuto essere chiarita, ma i cardinali, perché la cristianità non rimanesse senza il capo legittimo (essendo Bonifacio per loro solo un intruso), procedettero a nominare il successore; pensarono tuttavia di facilitare la soluzione definitiva, impegnandosi tutti, con compromesso scritto prima del conclave, che, chiunque fosse stato eletto si sarebbe adoperato con tutte le forze, e non rifiutando alcun mezzo, a ultimare lo scisma. Dopo di ciò fu eletto Pedro de Luna, che s'era mostrato uno dei più ferventi partigiani dell'idea della cessione; si nominò Benedetto XIII (28 settembre 1394). Carlo VI mandò immediatamente ad Avignone a chiedere una copia del compromesso, ma Benedetto XIII si rifiutò di consegnarla. Allora il re convocò a Parigi un sinodo nazionale che si dichiarò solennemente per la via cessionis, non accettata però dal papa il quale, rivelando il suo carattere ostinato e cavillatore, propose una quarta soluzione, la via discussionis, cioè le trattative dirette con il suo avversario, e non volle sentire altro. Invano il re, sempre appoggiato dall'università, dopo che andò fallita una sua solenne ambasceria nel 1395, cercò ed ottenne adesioni in Europa per un passo collettivo presso i due contendenti (1397, ambasceria di Francia, Inghilterra e Castiglia, ad Avignone e Roma; 1398, Venceslao manda a Benedetto XIII Pietro d'Ailly). Nessuno dei due cedette, ma Benedetto si mostrò anche più intransigente del rivale. Allora, dopo lunghe discussioni, il terzo sinodo nazionale francese deliberò di negare l'obbedienza a Benedetto XIII fino a che non accedesse alla proposta via cessionis, e il re sancì (i agosto 1398) il grave provvedimento, per il quale la Chiesa francese doveva rimanere ben cinque anni priva del suo capo supremo e abbandonata di fatto all'arbitrio del re e dei vescovi. Benedetto XIII, abbandonato da quasi tutti i cardinali, fu assediato nel palazzo di Avignone, poi, arresosi, tenuto là prigioniero per quattro anni.

Nel frattempo Bonifacio IX, sempre convinto della propria legittimità, non aveva in nulla modificato il suo atteggiamento. La fortuna non lo abbandonò interamente: Venceslao, che si era da lui distaccato o almeno s'era mostrato favorevole all'idea della cessione, venne deposto per indegnità dai suoi elettori che gli sostituirono Roberto del Palatinato, propenso a papa Bonifacio. Intanto la Francia tornava all'obbedienza di Benedetto XIII (28 maggio 1403), il quale senza perder tempo invitò il rivale a un abboccamento. Ma Bonifacio moriva, e i suoi cardinali, dopo aver chiesto ai rappresentanti di Benedetto, ancora presenti in Roma, se erano autorizzati a dichiararne la spontanea abdicazione, eleggevano il debole Innocenzo VII (17 ottobre), sotto il breve pontificato del quale la situazione non mutò sensibilmente, salvo che questa volta Benedetto XIII, mostrandosi più arrendevole, si acquistò le simpatie e l'adesione di alcune città italiane, come Genova. Dal novembre 1406 al gennaio seguente si tiene in Parigi il quarto Concilio nazionale francese, che conferma l'obbedienza a Benedetto, ma solo nello spirituale, riserbando invece al re la collazione dei benefici nella Chiesa gallicana fino al prossimo concilio generale.

Intanto a Roma era stato eletto un nuovo papa, Gregorio XII (30 novembre 1406), a quanto sembra per la pressione esercitata sui cardinali - per conto loro non alieni dal soprassedere all'elezione - dal popolo di Roma e da Ladislao di Durazzo. Ad ogni modo i cardinali prima del conclave firmarono tutti una dichiarazione così impegnativa e circostanziata, che "l'eletto sembrava essere non tanto un papa, quanto un procuratore incaricato di rinunciare al papato" (Hefele). Difatti Gregorio XII mostrava subito le migliori disposizioni, scrivendo a Benedetto XIII e proponendogli di effettuare finalmente l'attesissimo incontro, in una località intermedia tra Roma ed Avignone, che offrisse ad ambedue tutte le garanzie di sicurezza personale. Ma le difficoltà sorsero appunto quando si trattò di determinare tale località, e il più sospettoso e incontentabile fu proprio Gregorio XII che subiva l'influsso dei suoi ambiziosi nipoti; scartata Savona, che in un primo tempo egli stesso aveva proposta, designò Pietrasanta; poi, quando l'altro papa, nel gennaio 1408, gli venne incontro fino a Portovenere, non volle partirsi da Lucca e diede continue altre prove di malvolere. Intervenuto poi un fatto nuovo, la presa di Roma da parte di Ladislao (25 aprile 1408), l'abboccamento tramontò definitivamente.

Non fa meraviglia che i cardinali di Gregorio XII restassero malcontenti. Ormai l'idea della cessione si era fatta strada, insieme alla convinzione che nessuno dei due papi avrebbe mai ceduto di buon volere. La conseguenza logica fu che, a un certo momento, alcuni cardinali abbandonarono Gregorio XII (anche in seguito al suo contegno minaccioso) e, recatisi a Pisa, dichiararono la loro intenzione di avviare trattative dirette con i colleghi dell'altra parte. Nel novembre del 1408, in conseguenza dello scoraggiante stato di cose, la Francia dichiara la propria neutralità ed indebolisce con ciò la posizione di Benedetto XIII, trovando consenzienti Germania, Boemia, Ungheria e Navarra. I cardinali dissidenti furono raggiunti da quattro cardinali del papa d'Avignone, che, oltrepassando di propria iniziativa le istruzioni avute, gettarono insieme con gli altri le basi di un concilio generale, da tenersi a Pisa per il 25 marzo 1409. Con l'adesione di altri cardinali, la proposta, che traduceva in atto una delle viae preconizzate dall'università parigina, raccoglie poco meno che l'unanimità; condannati senz'altro a fallire sono pertanto i due concilî separati che i due papi bandiscono, ognuno entro la propria "obbedienza" (Gregorio ad Aquileia, concilio che non fu tenuto; Benedetto a Perpignano). Non cessa fra i due la contesa per la legittimità; ma ormai l'opinione pubblica europea accusa una stanchezza sempre più grande per il prolungarsi dello scisma e l'antipatia per la sua causa principale, l'ostinatezza dei due avversarî. Finisce perciò col prevalere la proposta dei cardinali di Pisa, che i due papi si presentino al concilio in persona o per procuratori, e abdichino. I cardinali acquistano un importante alleato in Venceslao quando questi rifiuta l'obbedienza a Gregorio XII, in compenso viene da essi incoronato re dei Romani nel 1409, mentre il suo rivale Roberto non sa tradurre in atto le sue simpatie per Gregorio. La causa di quest'ultimo viene ulteriormente indebolita dalla dichiarazione di neutralità fatta dalla grande dieta dell'impero a Francoforte (gennaio 1409); per di più il suo carattere intollerante gli aliena le simpatie della sua città nativa, Venezia. Poco prima dell'apertura del concilio, Benedetto XIII si trova in dissapore anche con gli altri cardinali rimastigli. Perciò tutte le speranze si concentrano ormai su Pisa.

c) Lo scisma dal concilio di Pisa a quello di Basilea. - Il concilio di Pisa si svolse con una notevole concordia di deliberazioni. Tentarono invano di intervenire, a favore dei papi delle loro rispettive obbedienze, gli ambasciatori di Roberto del Palatinato e Carlo Malatesta in persona, da un lato, e gli ambasciatori aragonesi dall'altro; ma invano, ché il 5 giugno 1409 i due pontefici venivano dichiarati scismatici, eretici, spergiuri, causa di scandalo nella Chiesa e perciò deposti. Ventun giorni dopo, dal conclave usciva un nuovo papa: Alessandro V. La maggior parte del mondo cristiano lo riconobbe, e principalmente la Francia che non lo abbandonò mai. Ma il regno di Napoli, la Baviera e parte della Germania, nonché la Polonia, continuarono a tenere per Gregorio XII, mentre Benedetto XIII poté, come per l'addietro, contare sulla fedeltà dell'Aragona (con la Sicilia), della Castiglia e della Scozia. E così, in luogo di due papi, ve ne erano tre! La colpa di tale peggioramento della situazione ricade sui cardinali di Pisa, i quali avevano agito sotto l'impulso delle loro antipatie personali e soprattutto con soverchia precipitazione senza aver valutato esattamente le aderenze dei papi rivali e senza essersi assicurato in precedenza l'appoggio della maggioranza dei fedeli. E il danno era anche maggiore, perché i cardinali erano entrati in una via di manifesta illegalità e che li avrebbe condotti anche più lontano di quello che allora potesse parere.

Il papa che sotto queste condizioni accettava la tiara non ebbe lunga vita: il 25 maggio 1409 veniva già eletto in Bologna (nonostante i contrarî sforzi di Carlo Malatesta) il suo successore e continuatore dello scisma "tricefalo": Giovanni XXIII. Poiché il concilio pisano aveva prestabilita la convocazione di un altro concilio per il 1° aprile 1412, Giovanni XXIII ne designò la sede in Roma; ma, non sicuro troppo della sua situazione, si adoperò assai poco perché avesse buon esito. Intanto creava 14 cardinali, tra i quali figuravano i più famosi giurisperiti dell'università parigina, veri "esperti" delle questioni dello scisma, del quale avevano seguito tutti gli sviluppi: tra essi il Gerson e Pietro d'Ailly. Ma essi non diedero al papa l'aiuto che si attendeva; anzi appoggiarono sempre di più la corrente conciliare. Inoltre, quando Giovanni XXIII fuggito a Firenze davanti a Ladislao di Durazzo si rivolse al nuovo re dei Romani, Sigismondo, che si trovava allora in Italia, questi espresse la propria volontà che il concilio si tenesse, e, d'accordo con due cardinali inviatigli, ne fissò la data, al 1° novembre 1414, e il luogo, Costanza (contro il desiderio del papa che non voleva allontanarsi dall'Italia). Ma poi dovette rassegnarsi, e ratificò la decisione imperiale, convocando il concilio e assicurandone la canonicità anche con la sua presenza. Quale sia stato lo svolgimento del concilio di Costanza è già stato esposto altrove (v. costanza). Esso pone effettivamente termine al penoso stato di cose, perché Giovanni XXIII e Gregorio XII - seppure non con uguale dignità e buon volere - abdicano, e solo il pervicacissimo Benedetto XIII attira su di sé la sentenza di deposizione e di scomunica. Martino V, eletto concordemente l'11 novembre 1417 e dieci giorni dopo consacrato in Roma (tornata ad essere definitivamente il centro della cristianità), ridà finalmente l'unità alla Chiesa. Non avrà fortuna la fuggevole ripresa dello scisma che ha luogo nell'Aragona alla morte di Benedetto XIII (1423), al quale succede un miserevole pseudopapa, Clemente VIII (ed un altro, Benedetto XIV, sarà eletto nello stesso anno, ma in segreto!), sostenuto da Alfonso d'Aragona e da lui soltanto, fino al 1429, quando quei pseudocardinali, mediante una finzione di conclave, concentrarono i loro voti su Martino V. Ma il tremendo periodo di prova per la Chiesa non era ancora finito: i germi gettati a Pisa e a Costanza dovevano fruttificare a Basilea, oltre che nelle discussioni e negli scritti dei teologi, nell'applicazione della teoria conciliare.

La teoria della supremazia del concilio, come corpo universale dei fedeli, è più antica della riunione di Pisa, in quanto certi suoi elementi fondamentali si trovano già negli scritti di Marsilio da Padova e dell'Occam; e non è forse caso che occamisti siano Pietro d'Ailly e Giovanni Gerson, tra i massimi sostenitori delle teorie conciliari; e, quest'ultimo, spirito operante del concilio di Pisa. Ma quando l'università di Parigi formula le tre viae, e comprende in esse anche quella del concilio (preconizzata fin dal 1378 dal giurista Baldo), tale soluzione non aveva riscosso molte simpatie, e ci vollero i tragici anni del contrasto fra i papi di Roma e di Avignone, e la coscienza della gravità anzi insanabilità della situazione, perché acquistasse credito, come l'unica via d'uscita. Atto rivoluzionario, forse anche nella coscienza di chi lo compì, la convocazione di un concilio al di fuori dell'autorità papale ma pure non senza precedenti; e che comunque si trattava di giustificare, così come - fatto ancora più grave - l'autorità che il concilio, in modo non meno rivoluzionario, si arrogava, quella cioè di deporre i papi rivali. E la giustificazione fu trovata anzitutto nello stato di necessità: alla nuova malattia - come diceva Teodorico di Niem - conveniva opporre nuovi rimedî. Ma il sentimento che animava questi teologi era pio: si trattava di ricostituire, in maniera tangibile e fuori d'ogni possibilità d'equivoco, l'unità della Chiesa visibile: il concilio apparve come la manifestazione concreta di questa unità, i suoi deliberati come l'espressione del sensus communis fidelium; dotato - per lo Zabarella - di quell'infallibilità che è tra le note della Chiesa. E, ad assicurare il mantenimento di questa unità, si pensò che il rimedio eroico potesse divenire un modo di vita normale della Chiesa, e quella giustificazione prese sviluppi teoretici sempre più lontani e audaci; da questo punto di vista i tre concilî, di Pisa, di Costanza e poi di Basilea, non sono che tre tappe di uno stesso cammino. La teoria conciliare, ancora non estrema a Pisa (concilio tenuto ancora secondo le consuetudini chiesastiche), assume forme più precise e gravi a Costanza, dove, contro Giovanni XXIII, si decide (4ª e 5ª sessione) che il concilio può essere tenuto anche in assenza del papa o contro il suo volere; alla sua autorità tutti, anche il papa, debbono inchinarsi. Si delibera poi (32ª sessione) che in avvenire la convocazione del concilio debba avvenire a intervalli periodici. Con ciò si istituiva un controllo intermittente ma continuo sull'operato del papa, al quale si riconosceva unicamente una sorta, per così dire, di potere esecutivo, e questo in forma di delega da parte della maggioranza dei fedeli. Nel concilio di Basilea si andò anche più oltre: per quanto il confronto con le forme costituzionali degli stati moderni possa valere, si passò dalla monarchia costituzionale di Costanza a una forma di vera e propria democrazia parlamentaristica. Ma l'attuazione di tale trasformazione della costituzione fu evitata dalla saggia e tenace opera di Eugenio IV oltre che dalla morte dei principali promotori dell'idea conciliare che pure non si spense subito; anzi ancora nella prima metà del sec. XVI - nonostante le condanne esplicite - furono accolte, almeno in parte, anche da taluni che pure si ritenevano buoni cattolici.

È significativo d'altra parte come, partiti dal concetto e dall'intenzione di dare corpo e voce all'unità della Chiesa, i sostenitori delle teorie conciliari, dal d'Ailly a Nicolò da Cusa, finiscano col distruggere essi stessi tale unità, col fare concessioni sempre maggiori all'autonomia delle chiese nazionali (in primo luogo al gallicanismo. La prammatica sanzione di Bourges (1498) costituiva sotto questo riguardo il punto di sbocco del periodo conciliare. V. prammatica sanzione).

Ma l'opera del concilio di Basilea non si limitò alla formulazione di teorie più o meno attuabili; esso, applicando i diritti che si arrogava, nel 1439 deponeva Eugenio ed eleggeva Felice V, ravvivando così ancora una volta lo scisma, perché il papa legittimo non cedeva al sopruso. Per il nuovo pontefice non stettero che i duchi di Savoia, di Milano, il re d'Aragona, e alcuni principi tedeschi; ma non a lungo, ché nel 1449 Felice V, che fu l'ultimo antipapa della storia, deponeva la sua contesa dignità e si ritirava a vita contemplativa. Così aveva termine anche il cosiddetto "scisma di Basilea" (da alcuni detto anche "piccolo scisma d'Occidente"), e il papato usciva vittorioso dalla tremenda prova.

Fonti: Tra le più interessanti sono le opere del Gerson (edite da Ellies du Pin, Anversa 1706); quelle di Nicola de Clamengis (Lione 1613); di Teodorico de Niem, De Scismate (ed. Eller, Lipsia 1890) e De modis uniendi, ed. Heimpel, Lipsia 1933). Vedere anche Bulaeus, Historia Universitatis Parisiensis, IV e V, Parigi 1668; M. Goldstat, Monarchiae S. R. Imperii sive Tractatuum de iurisdictione imperiali seu regia, Francoforte 1614. Molto materiale narrativo contengono la Chronica actitatorum di Martino de Alpartil (ed. Ehrle, in Quellen u. Forschungen, XII); le Cronache del Froissart (ed. Kervyn de Lettenhove, Bruxelles 1867-77) e il Commentario di Leonardo Bruni (Rerum Ital. Scriptores, XXI), nonché le cronache italiane del tempo.

Fondamentali trattazioni d'insieme sono Baluze-Mollat, Vitae paparum avenionensium, Parigi 1916; Hefele-Leclercq, Histoire des concilies, VI, ii, VII, i, Parigi 1915-16; la grande opera di N. Valois, La France et le Grand Schisme d'Occident, Parigi 1869; dello stesso, La crise religieuse du XVIe siècle. Le pape et le concile, Parigi 1909; F. Bliemetzrieder, Literarische Polemik zu Beginn des grossen abendländischen Schismas, Vienna 1909; Documents relatifs au Grand Schisme, Bruxelles-Parigi 1930 (interessa specialmente Belgio e Francia). Studî di varia importanza sull'insieme di questo periodo storico, sono: H. Bruce, The age of the schism, Londra 1907; L. Salembier, Le grand schisme d'Occident, Parigi 1921 (con bibliografia); A. J. Jordan, The inner history of the great schism of the west, Londra 1930 (considera specialmente la storia delle idee del tempo). Punti particolari della storia dello scisma sono trattati in: A. Durrieu, Le royaume d'Adria, in Revue quest. histor., XXVIII; E. Eubel, Das Itinerar der Päpste zur Zeit des grossen Schismas, in Histor. Jahrbuch, 1895; Jarry, La "voie de fait" et l'alliance franco-milanaise, Parigi 1892; id., La vie politique de Louis de France, Duc d'Orléans, Parigi 1889; Ed. Perroy, L'Angleterre et le grand schisme d'Occident, Parigi 1933; E. R. Labande, Le rôle de Rinaldo Orsini dans la lutte entre les papes de Rome et d'Avignon (1378-1390), in Mélanges École de Rome, 1932; M. Seidlmayer, Peter de Luna (Benedikt XIII.) und die Entstehung des grossen abend ländischen Schismas, Münster 1933. Sulla teoria conciliare, fr.: Bliemetzrieder, Das Generalkonzil im grossen abendländischen Schisma, Paderborn 1904; id. Über die Konzilsbewegung zu Beginn des grossen abendl. Schismas, in Studien u. Mitt. aus dem benedikt. u. dem. cistercienser Orden, XXXI; K. Hirsch, Die Ausbildung der konziliaren Theorie im XIV. Jahrh., Vienna 1903.