Scienze sperimentali e matematica

Enciclopedia della Matematica (2013)

scienze sperimentali e matematica

Angelo Guerraggio

Scienze sperimentali e matematica

La matematica non è una scienza empirica, eppure il suo sviluppo è strettamente legato a quello delle scienze naturali. Si può addirittura sostenere che la matematica moderna – segnata dalla scoperta del calcolo infinitesimale – sia nata per rispondere a problemi sorti dall’osservazione di fenomeni naturali, in stretta simbiosi con la fisica, a tal punto che è a volte problematico distinguere sempre con nettezza dove termina l’indagine sperimentale e dove comincia l’uso dello strumento matematico.

Fisica e matematica: un rapporto speciale. Tra la fisica e la matematica esiste un legame particolare: la matematica fornisce alla fisica uno strumento indispensabile per la formulazione sintetica delle leggi sul comportamento della materia, dell’energia, della radiazione ecc.; viceversa, molti sviluppi della matematica hanno tratto la loro origine e la loro prima giustificazione da problemi squisitamente fisici. È nel Seicento che la matematica diventa l’elemento caratterizzante la nuova scienza: lo studio della natura fa un uso progressivamente più sistematico di metodi quantitativi e si forma la convinzione che per comprendere il mondo sia necessario far intervenire il linguaggio matematico, inteso come un corpo di strumenti e concetti che non si limitano soltanto all’aspetto numerico. Si pensi per esempio alle leggi di Keplero sulle orbite ellittiche dei pianeti attorno al Sole, formulate nel primo ventennio di quel secolo. Esse non forniscono una teoria esplicativa dei fatti osservati, che sarà data più tardi da Newton con la teoria della gravitazione universale; piuttosto, basate come sono sulle rilevazioni di Tycho Brahe, mirano a descrivere rigorosamente ciò che si osserva, sfatando così, sia da un punto di vista geometrico qualitativo sia da un punto di vista quantitativo, le antiche concezioni legate al finalismo pitagorico-platonico: che i corpi celesti, il cui moto sarebbe determinato da amore e desiderio della perfezione divina, si muovano lungo circonferenze e che tali circonferenze siano percorse con velocità costanti. La competenza matematica di Keplero emerge tra le suggestioni di tipo pitagorico che pure lo avevano condotto a “sentire” armonie musicali prodotte dal moto dei pianeti stessi. Egli si spinge così a studiare il problema del calcolo delle aree e dei volumi di figure a contorno curvilineo (si interessò peraltro al calcolo del volume delle botti) abbandonando i metodi archimedei.

I tempi erano maturi per dotarsi di strumenti più raffinati. Comincia così a svilupparsi, a opera di Leibniz e Newton, l’analisi infinitesimale che esibisce tutte le sue potenzialità rivelandosi strumento più raffinato, non solo per il calcolo, ma per fondare un nuovo metodo con cui inquadrare i problemi, analizzarli, risolverli. La matematica viene così a configurarsi come la nuova forma e il nuovo metodo dell’indagine sulla natura. L’oggetto di questo studio non è più solo il cielo, con il moto degli astri governato dalla perfezione del disegno divino. L’attenzione si allarga al mondo materiale e imperfetto dei fenomeni terrestri, altrettanto degni di essere conosciuti razionalmente e sui quali oltretutto si può, in una certa misura, intervenire. Ancora, l’attenzione si sposta dalla ricerca delle finalità ultime che governerebbero la configurazione dei fenomeni, ancora presente nel principio di minima azione di P.L.M. de Maupertuis (se in natura si ha un cambiamento, questo si verifica con la minima quantità possibile di azione), all’individuazione delle cause che provocano determinati effetti. Si colgono subito motivazioni e applicazioni che porteranno alla centralità del concetto di funzione. Il passo successivo – capire quali diversi effetti provochi una variazione delle cause – è la strada che condurrà ai rapporti incrementali e alle derivate. La matematizzazione della scienza non si limita così alla fase dell’osservazione. Un sistematico confronto tra pensiero scientifico e realtà naturale ha luogo con gli esperimenti, che realizzano una sofisticata integrazione tra metodi matematici e sperimentali.

Galileo e Newton sono, nella loro diversità, i giganti sulle cui spalle avanza il cambiamento. La natura non basta osservarla, bisogna studiarla, interrogandola sulla base di ipotesi. Galileo, per esempio, non si limita a osservare che una piccola sfera scende lungo un piano inclinato con velocità crescente, ma – effettuando diverse misurazioni – determina la legge matematica che permette di calcolare la velocità di caduta. L’apparato sperimentale che Galileo progetta (una copia del quale è conservata al Museo di storia della scienza a Firenze) mostra con evidenza come l’ipotesi teorica dell’esistenza di una legge matematica abbia preceduto l’esecuzione dell’esperimento. Infatti, lungo un binario di legno inclinato, Galileo dispone delle campanelle a distanze crescenti secondo una legge quadratica, cioè a distanza 1, 22 = 4, 32 = 9, 42 = 16, …, e fa cadere lungo tale binario una sferetta. Questa, toccando le campanelle, le fa suonare. Notando che le campanelle suonano a intervalli uguali, egli deduce che lo spazio percorso dalla sferetta nella caduta aumenta in modo direttamente proporzionale al quadrato del tempo trascorso.

La natura si studia con la nuova matematica, che si costituisce proprio sui concetti di funzione, cambiamento nel tempo, variazioni e rapporti tra variazioni. L’attività razionale è fondamentale per una miglior conoscenza della natura, che sia quantitativa ma nello stesso tempo generale e astratta. L’affascinante indicazione galileiana del «difalcare gli impedimenti» rappresenta in fondo la nascita del concetto di modello. Proprio per meglio capire la natura, l’osservazione e la descrizione concreta e puntuale dei fenomeni devono trasformarsi in una scienza sperimentale in cui il ricercatore interviene con un proprio personale diaframma razionale per cercare di interpretare ciò che vede (naturalmente sottoponendo poi la sua ipotesi alla verifica dei fatti). È come se, per comprendere la concretezza della natura, bisognasse allontanarsene per assicurarsi una migliore prospettiva e non venire disturbati da “rumori” accidentali e inessenziali.

Galileo è senz’altro il padre della moderna civiltà scientifico-tecnologica. Ma è Newton a formulare in termini matematici le leggi della dinamica già parzialmente stabilite in via sperimentale da Galileo. Newton intuisce il fenomeno della gravitazione universale e ne formula matematicamente la legge e contemporaneamente a Leibniz elabora quello che diverrà lo strumento e il linguaggio fondamentale della fisica moderna, il calcolo differenziale.

Nei secoli xviii e xix la meccanica si sviluppa di pari passo con la matematica. Sulle basi gettate da Newton e con lo stimolo fornito dagli sforzi per descrivere il moto degli astri viene costruita a opera principalmente di J.-L. Lagrange e P.-S. Laplace la meccanica analitica: i formalismi matematici utilizzati mettono in evidenza nuovi principi di conservazione (dell’energia, della quantità di moto ecc.) che saranno più tardi impiegati a fondamento della meccanica quantistica.

Un nuovo pilastro della fisica, di importanza analoga a quello posto da Newton, viene edificato nel corso dell’Ottocento da J.C. Maxwell: le sue equazioni proposte nel 1873 forniscono la base teorica dell’elettromagnetismo e una spiegazione quantitativa dell’insieme dei fenomeni elettromagnetici conosciuti all’epoca. L’importanza teorica delle equazioni di Maxwell risiede anzitutto nel fatto di essere equazioni differenziali del primo ordine rispetto al tempo: ciò implica che la conoscenza della situazione elettromagnetica a un dato istante consente, almeno in via di principio, la conoscenza della situazione in qualsiasi altro istante passato o futuro. Sotto questo aspetto le equazioni di Maxwell si possono considerare l’equivalente nell’elettromagnetismo delle equazioni di Newton in meccanica classica. Ma per un altro aspetto la somiglianza si muta in contraddizione: le equazioni di Maxwell non soddisfano infatti le regole relative al variare delle leggi della fisica classica per un cambiamento del sistema di riferimento spazio-temporale, e proprio questa contraddizione costituisce il punto di partenza per la fisica relativistica.

È Einstein a eliminare la contraddizione fra meccanica ed elettrodinamica, a concepire una meccanica relativistica in accordo con l’esperimento di A.A. Michelson che aveva dimostrato l’indipendenza della velocità della luce da quella dell’osservatore, e a stabilire che la velocità della luce è un limite assoluto, invalicabile, per la trasmissione di informazioni. La nuova meccanica relativistica, che si stacca in maniera definitiva dalla fisica del rappresentabile intuitivamente, non è in contraddizione con la meccanica newtoniana, che ne rappresenta il caso limite quando le velocità sono piccole. A riprova della generalità della teoria relativistica basterà ricordare che le equazioni di Maxwell (formulate oltre quarant’anni prima della relatività ristretta di Einstein) sono invarianti rispetto alle cosiddette trasformazioni di Lorentz, e che la teoria relativistica ha dimostrato la validità di tali trasformazioni anche per la meccanica. Ciò equivale ad affermare che tutte le leggi meccaniche ed elettromeccaniche restano le stesse qualunque sia il sistema di coordinate scelto, e cioè che nessun sistema di riferimento inerziale presenta caratteristiche preferenziali che lo distinguano dagli altri. Colpito dall’identità fra massa inerziale e massa gravitazionale, Einstein elabora la teoria della relatività generale, che si può considerare una integrazione nello spazio-tempo quadrimensionale della teoria della gravitazione: in questo modo vengono fornite nuove basi matematiche alla cosmologia. Nella ricerca di una nuova teoria fisica che unifichi spazio, tempo e gravità, impegnato nello sforzo di tradurre in teoria fisica l’intuizione che spazio e tempo siano legati tra loro come punti di una sorta di superficie a quattro dimensioni, alle prese con l’inadeguatezza degli strumenti matematici di cui dispone per tradurre in concetti le sue intuizioni, Einstein viene indirizzato dall’amico e compagno di studi Marcel Grossmann verso le ricerche di analisi geometrica condotte dal matematico italiano Gregorio Ricci-Curbastro, che sfoceranno nel cosiddetto calcolo differenziale assoluto. Nel solco degli studi inaugurati da B. Riemann e C.F. Gauss, Ricci-Curbastro aveva concentrato il suo interesse sullo studio della geometria differenziale delle varietà di dimensione arbitraria. Per descrivere la curvatura di una varietà (come cioè una varietà si discosti da un piano) Ricci aveva introdotto un nuovo concetto matematico, in seguito denominato tensore, in grado di descrivere simultaneamente il comportamento di numerosi parametri. I tensori che descrivono una varietà mutano a seconda del sistema di coordinate adottato, ma le loro relazioni non mutano. Il calcolo differenziale assoluto è indipendente dal sistema di coordinate scelto; si presta dunque all’elaborazione di una legge fisica che resta la stessa indipendentemente dalle coordinate utilizzate: proprio il linguaggio è lo strumento di cui aveva bisogno Einstein per la formulazione della relatività generale, nella quale lo spazio-tempo è una varietà 4-dimensionale, le masse dei corpi modificano la curvatura e la curvatura è la gravità. Einstein si serve del calcolo differenziale assoluto per dare espressione rigorosa alle equazioni gravitazionali della relatività generale. Come scrive nel 1952: «La teoria della relatività è un meraviglioso esempio di come la matematica ha fornito lo strumento teorico per una teoria della fisica senza che il problema di fisica abbia avuto un ruolo risolutivo per le corrispondenti creazioni matematiche. I nomi di Gauss, Riemann, Ricci, Levi-Civita e le loro opere apparterebbero ai contributi importanti del pensiero occidentale anche se questi non avessero portato al superamento dei sistemi inerziali».

L’altra grande rivoluzione che si compie nella fisica nel primo trentennio del Novecento è lo sviluppo della teoria dei quanti. Le ricerche di M. Planck portano a riconoscere la natura quantistica della luce, ad ammettere cioè che l’emissione di energia elettromagnetica (luce, onde radio, calore raggiante) avviene in maniera discontinua sotto forma di fotoni che hanno un’energia E = hv, dove h è la costante di Planck e v la frequenza della radiazione. Tale concezione elaborata matematicamente sfocia in una nuova meccanica, la meccanica quantistica. W. Heisenberg ne dà una formulazione matriciale nel 1925, mentre successivamente E. Schrödinger stabilisce l’equazione d’onda che porta il suo nome, e alla quale obbediscono le onde materiali. La meccanica quantistica deve rinunciare alla descrizione del moto di masse puntiformi e formulare l’insieme delle sue leggi fondandosi su una funzione d’onda, soluzione dell’equazione di Schrödinger, che è solo connessa con la probabilità di trovare una particella in un punto dato. Questa concezione, a lungo combattuta malgrado le verifiche sperimentali, perché mina la concezione classica del principio di casualità, viene corroborata dalla formulazione del principio di indeterminazione di Heisenberg, che precisa l’impossibilità concettuale di misurare esattamente e simultaneamente due grandezze complementari, come posizione e velocità, di una particella. In tal modo viene anche stabilita definitivamente la dualità esistente nel mondo dell’infinitamente piccolo: il doppio aspetto di onda e di particella, il doppio aspetto ondulatorio e corpuscolare dei fenomeni su scala subatomica. Nel 1928 P. Dirac stabilisce un’equazione d’onda che descrive le particelle con spin 1/2 (come l’elettrone) e si spinge a predire l’esistenza di antiparticelle che venne poi confermata nella fisica delle alte energie.

Il mondo è matematico? L’intimo legame tra fisica e matematica suscita da sempre interrogativi di carattere epistemologico e solleva complessi problemi filosofici. Come si giustifica l’impiego della matematica in fisica? Come mai la matematica si rivela così utile per formulare le leggi della natura? Come si spiega, per dirla con il titolo di un breve saggio divulgativo del grande fisico teorico E. Wigner, l’«irragionevole efficacia della matematica nelle scienze della natura» (The unreasonable effectiveness of mathematics in the natural sciences?, 1960)? In altri termini, come è perché la matematica riesce a spiegare il mondo reale? È la stessa questione posta da Einstein: «Come è possibile che la matematica, pur essendo dopo tutto un prodotto del pensiero umano, che è indipendente dall’esperienza, si adatti così mirabilmente agli oggetti della realtà?». Il problema del rapporto tra i fenomeni e la loro descrizione in linguaggio matematico ha trovato risposte diverse nella storia del pensiero. La tradizione pitagorico-platonica, che è alla base delle idee geometriche degli elementi di Euclide e di cui è figlia la scienza moderna di Galileo, Keplero e Newton, ma anche la fisica classica di Eulero, Laplace, Lagrange, Fourier e per certi aspetti anche quella di Faraday, Maxwell, Boltzmann, Einstein e Dirac, si fonda sugli assunti che «tutto è disposto secondo il numero» e che «il libro della natura è scritto in caratteri matematici»: le leggi che reggono il mondo dei fenomeni sono leggi matematiche univoche e questo rende completamente decifrabile il libro della natura. La matematica consente di cogliere la vera essenza delle cose, al di là delle apparenze dei fenomeni.

La scienza e la filosofia del Novecento hanno proposto una diversa interpretazione del potere predittivo della matematica. La matematica acquista lo statuto di costruzione astratta, ipotetico-deduttiva, che lungi dal rispecchiare necessariamente la realtà, ne è del tutto autonoma. Essa è studio non di oggetti, ma di relazioni, manipolazione di simboli con regole deduttive (e quindi sintattiche) ferree. La matematica è disciplina delle relazioni formali e astratte che, proprio in quanto astratte, cioè “estratte” dalla realtà, permettono di studiare aspetti generali del mondo delle cose. Senza pretendere di essere fonte di conoscenza dell’essenza ultima del mondo fisico, la matematica può comunque essere un potente e preciso strumento per comprendere l’universo: ciò che conta è che dalla teoria sia possibile dedurre previsioni verificabili. In questa prospettiva diventa fondamentale la nozione di modello, elaborata nella sua accezione moderna verso la fine dell’Ottocento da H. Poincaré, il primo a sostenere esplicitamente ne La scienza e l’ipotesi (1902) la possibilità di descrizioni matematiche non univoche dei fenomeni fisici, e poi generalizzata da J. von Neumann. Il modello è un costrutto matematico che non ha la pretesa di cogliere l’essenza profonda dei fenomeni osservati; esso si limita a fornirne un’analogia formale che permette di rappresentarne gli aspetti salienti. Ciò che ci si aspetta da un modello matematico non è che sia vero, ma che funzioni, cioè che sia «empiricamente adeguato», ossia che descriva correttamente i fenomeni senza che ciò implichi alcuna asserzione sul loro statuto ontologico.

Matematica e biologia: la sfida della complessità. L’impiego della matematica in scienze sperimentali quali la biologia e più in generale le scienze della vita è relativamente recente. Risale, se inteso in modo sistematico e consistente, al secolo scorso. Data la complessità dell’universo biologico, il dibattito circa l’utilità e l’applicabilità dei modelli matematici in questo ambito è tutt’ora aperto. È tuttavia indiscutibile che la matematica abbia fornito un linguaggio sintetico e una modellistica efficace anche per descrivere complessi processi biologici ed elaborare previsioni sulla loro evoluzione.

Gli ambiti di applicazione e gli esempi della collaborazione tra matematica e biologia sono numerosi. Metodi statistici vengono per esempio utilizzati nella genetica delle popolazioni e in epidemiologia (nello studio della diffusione delle malattie infettive o dell’incidenza di una malattia in una determinata area, così come nell’identificazione di possibili fattori causali di stati patologici e nella distribuzione di fattori di rischio). La teoria della complessità e la teoria dei sistemi dinamici consentono di studiare la dinamica delle popolazioni, cui si riferiscono alcuni dei più classici modelli matematici di fenomeni biologici, a cominciare dalla famosa successione di Fibonacci. Elaborata in pieno medioevo (1202), può ben essere considerata il primo modello storico per la dinamica di una popolazione in quanto fornisce una descrizione numerica e regolare della crescita mensile di una popolazione di conigli supponendo che essi diventino fertili al compimento del primo mese e ogni coppia di conigli partorisca al compimento del secondo mese. In questo filone di ricerche si inseriscono il modello ecologico di Ricker, elaborato nel 1954 dal biologo William Ricker per lo studio di una popolazione di salmoni, il modello di Nicholson e Bailey (1935) relativo all’evoluzione di un sistema ospite-parassita, il modello preda-predatore di Lotka-Volterra (1925; modello), che ha avuto in seguito generalizzazioni allo studio di diverse specie in competizione in un ecosistema ma anche alla diffusione di malattie contagiose, per esempio nel modello di Kermack-McKendrick, un modello matematico sviluppato nel 1927 e destinato a diventare uno dei principali punti di riferimento per lo studio e l’elaborazione dei modelli di diffusione epidemica. Si tratta di sistemi dinamici il cui studio consiste nell’analisi dell’evoluzione temporale delle variabili che caratterizzano lo stato del sistema stesso. Nel caso dei sistemi dinamici discreti l’evoluzione del sistema è descritta da equazioni alle differenze, nel caso continuo l’evoluzione dello stato è invece governata da un sistema di equazioni differenziali. Altri campi di ricerca in cui si esplica la collaborazione tra matematica e biologia sono la biologia dei sistemi, che si propone di sviluppare un modello esplicativo dei sistemi viventi studiando la rete di connessioni dinamiche esistenti tra geni, proteine, metaboliti e altre molecole, e la biologia molecolare computazionale, in cui il biologo è chiamato a descrivere il disegno biochimico e cellulare di grandi polimeri biologici (proteine, acidi nucleici, lipidi) e il matematico a formulare e analizzare appropriati modelli numerici e algoritmici. La struttura tridimensionale delle proteine viene studiata con l’ausilio della teoria dei nodi, mentre la teoria delle reti sembra poter chiarire la dinamica delle reazioni biochimiche all’interno di una cellula.

Il mondo organico, in apparenza instabile e disordinato, cela strutture matematiche che affascinano per eleganza e bellezza. Ne era fermamente convinto il matematico e biologo scozzese D’Arcy Wentworth Thompson (1860-1948), un pioniere nel campo della biomatematica con il suo saggio On growth and form (Crescita e forma, 1917) e fra i primi a indicare nella spirale logaritmica un modello matematico per la comprensione di molti fenomeni di accrescimento biologico e di varie strutture organiche (dalla conchiglia del nautilo e di vari Gasteropodi, allo scheletro di alcuni Foraminiferi, dall’infiorescenza del girasole alla fillotassi di alcune piante). Allo studio della struttura profonda delle più elaborate configurazioni naturali ha contribuito in tempi recenti la geometria frattale: dal fiocco di neve, cui già nel 1611 Keplero dedicava il trattatello De nive sexangula in cui cercava di svelare il mistero della simmetria esagonale dei fiocchi di neve, alla forma delle coste e delle dune di sabbia.

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