Scienza indiana: periodo vedico. La cosmologia

Storia della Scienza (2001)

Scienza indiana: periodo vedico. La cosmologia

David Pingree
Bruno Lo Turco

La cosmologia

Cosmologia vedica

di David Pingree

Sebbene i testi vedici non forniscano una descrizione chiara e coerente dell'Universo, negli inni del Ṛgveda (Veda degli inni) e dell'Atharvaveda (Veda degli Atharvan) e nei testi rituali dello Yajurveda (Veda delle formule sacrificali) e dei Brāhmaṇa esistono riferimenti a varie teorie della creazione, che riflettono una visione ‒ o, piuttosto, diverse visioni ‒ della struttura del Cosmo.

La leggenda secondo cui il Cielo (Dyaus pitṛ) è il padre di Aurora (Uṣas) ricorre nelle parti più antiche del Ṛgveda, i cosiddetti maṇḍala familiari (maṇḍala, lett. 'cerchio', è qui inteso come sezione), come pure nel più tardo primo maṇḍala. Poiché il Cielo e la Terra (Pṛthivī mātṛ) sono spesso detti "i genitori" (per es., I, 159 e 164; VI, 51 e 70) o anche "i genitori degli dèi" (I, 106), la Terra era probabilmente la madre di Uṣas. Inoltre in un'occasione si dice che i due Cavalieri (Aśvin) sono nati dal Cielo (IV, 43), ma più spesso che sono suoi nipoti (per es., I, 183 e 184; IV, 44); quest'ultima relazione è spiegata dal fatto che si afferma che la madre dei due Cavalieri è Uṣas (III, 79). Brown (1965) osservò che i nomi divini ricorrenti in questo mito sono tutti d'origine indoeuropea e che il mito stesso presenta paralleli indoeuropei (ma anche mesopotamici); egli ne concluse che fu introdotto in India dagli Ari vedici. Secondo questo mito il Cielo e la Terra erano una volta congiunti; la loro origine non è specificata. Un inno tardo (X, 10) afferma però che fu il Carpentiere (Tvaṣṭṛ, nome di origine non indoeuropea) a foggiare il Cielo e la Terra; in inni più antichi (III, 55 e V, 42) si dice che questi avrebbe creato le forme. Sembra che possa essere considerato il più antico dio creatore concepito dagli Indiani vedici; esisteva infatti prima del Cosmo. Molti altri dèi sarebbero stati in seguito descritti come creatori dell'Universo.

Secondo un altro mito, evidentemente indoiranico, gli esseri più antichi erano gli Asura; tra questi era annoverato il Cielo (I, 122 e 131). Gli Asura erano divisi in due gruppi principali: gli Āditya, capeggiati da Mitra, Varuṇa e Aryaman, dèi dell'ordine e della giustizia, e i Dānava, demoni capeggiati dal Copritore (Vṛtra). Vṛtra, un drago, legò le Rodasī, ossia il Cielo e la Terra (I, 52), le tenne insieme (VIII, 6), e circondò le acque rinchiudendole (per es., II, 11; III, 32 e 33). Il dio (deva) Indra nacque per uccidere questo drago (IV, 18), fu generato dagli dèi (II, 13), i due mondi (Cielo e Terra) lo formarono (VIII, 61), i due mondi e gli dèi lo generarono (III, 49). Indra assalì Vṛtra e lo uccise (passim), perforò la montagna (IV, 17; VI, 30), liberò le acque rinchiuse (passim), separò il Cielo dalla Terra (III, 20; X, 44 e 80) creando lo Spazio intermedio (antarikṣa) (per es., II, 12 e 15), puntellò il Cielo (per es., I, 121; II, 12, 15 e 17) e fissò la Terra (I, 103; II, 12 e 15). Nella battaglia tra Indra e Vṛtra, nota anche all'Avesta, si ha un'evidente analogia con il mito mesopotamico dell'uccisione di Tiāmat da parte di Marduk. In virtù dell'atto di creazione compiuto da Indra, l'Universo consiste in una regione sotterranea, il 'non esistente' o 'caotico' (asat), abitato dai demoni, e in un triplice Cosmo (sat) costituito da Terra, Spazio intermedio e Cielo.

Questi tre mondi saranno soggetti a ulteriori moltiplicazioni ed elaborazioni, le quali daranno origine alle concezioni vediche dei molti mondi e regioni. Secondo diversi inni del Ṛgveda (per es., IV, 53), il Cosmo risultò formato di nove parti, e cioè tre Terre, tre Spazi intermedi e tre Cieli (che ricordano i tre Cieli della cosmologia mesopotamica). Per quanto concerne la forma del Cielo e della Terra, sappiamo da un inno tardo (X, 89) che Indra li puntellò separandoli in virtù dei suoi poteri, come due ruote per mezzo d'un asse. Ciò implica che essi fossero concepiti come superfici parallele, circolari e piatte. Altrove (I, 160) il Cielo e la Terra sono definiti come due ciotole, benché non se ne debba concludere che essi formassero una sfera. In un inno (V, 69) si afferma che vi sono tre ciotole, ma non è spiegato come esse potessero combinarsi.

Nel decimo maṇḍala del Ṛgveda e nell'Atharvaveda compaiono speculazioni teologiche sulla creazione del mondo. Tra queste è degno di menzione l'inno del Ṛgveda (X, 121) che descrive manifestamente Hiraṇyagarbha, l'Embrione d'oro, come una forma di Prajāpati ('signore delle creature'), e come "in principio nato quale unico signore di tutto quel che è venuto all'esistenza". A partire da quest'idea si sviluppò quella dell'Uovo cosmico presente nelle Upaniṣad (per es., Chāndogyopaniṣad, III, 19, 1). In un altro inno del decimo maṇḍala (X, 90) si narra la storia degli dèi che, avendo sacrificato il Puruṣa, l'uomo primordiale, forgiano con il suo corpo le varie parti dell'Universo. Queste due concezioni si trovano fuse in un inno dell'Atharvaveda (X, 7), nel quale le parti dell'Universo sono descritte come le membra di Brahmā, che in principio era l'Embrione d'oro. Nelle Upaniṣad la fonte ultima dell'essere e del non essere sarà detta brahman (termine che in precedenza designava il potere della formula vedica). Il brahman, Brahmā e l'Uovo di Brahmā (brahmāṇḍa) svolgeranno ruoli fondamentali nella successiva cosmogonia e cosmologia dei Purāṇa.

I Brāhmaṇa conservano la concezione del triplice Cosmo, come anche l'idea che esso sia circondato dalle acque sotterranee, celesti e oceaniche. La Terra è concepita come orizzontale, piatta e, in genere, circolare (ma a volte come un quadrilatero), come anche lo Spazio intermedio (ora talvolta denominato ākāśa), mentre il Cielo è come una ciotola rovesciata il cui bordo tocca il margine della Terra o l'oceano che la circonda. Il Sole è collocato nello Spazio intermedio, la Luna e i nakṣatra ('le stelle') si trovano al di sopra del Sole; dei pianeti non si fa cenno, proprio come nella cosmologia di Anassimandro e Anassimene, i quali dispongono Sole, Luna e stelle nel medesimo ordine, ma invertito. Il Sole, la Luna e le stelle sono definite le porte del Cielo; attribuendo quest'idea al Ṛgveda, Hertel (1924) ne 'scoprì' poco plausibilmente la somiglianza con concetti presenti nell'Avesta. Sebbene il Ṛgveda (VII, 88) menzioni la casa di Varuṇa dalle mille porte e faccia riferimento alla "pietra celeste, la montagna, la cima" (V, 56), non presenta però un altro elemento iranico che sarebbe divenuto rilevante più tardi, ossia la montagna terrestre centrale intorno alla quale ruotano i corpi celesti (Mahāmeru). Esso appare per la prima volta nel Taittirīyāraṇyaka (Āraṇyaka della scuola Taittirīya; 1, 7, 1), il quale, dopo aver menzionato sette Soli, afferma che l'ottavo, Kaśyapa, non lascia mai Mahāmeru. Analogamente, è soltanto nell'ultimo periodo della letteratura dei Brāhmaṇa (Śāṅkhāyanāraṇyaka, 7, 22; Aitareyāraṇyaka, 2, 6, 1) che appare la più antica formulazione dei cinque 'grandi elementi' (mahābhūta): pṛthivī ('terra'), vāyu ('vento'), ākāśa ('spazio vuoto'), āpaḥ ('acque') e jyotīṃṣi ('luci' o 'fuochi').

Nei Brāhmaṇa si incontrano per la prima volta anche la formula bhūr bhuvaḥ svar, in relazione alla triade composta da Terra, Spazio intermedio e Cielo (Jaiminīyabrāhmaṇa, 3, 384), e la concezione dei tre e dei sette mondi (loka): quelli degli dèi, dei padri e della vita; e quelli di Agni (Fuoco), di Vāyu (Vento), di Indra, di Varuṇa, di Mṛtyu (Morte), del brahman, e il nāka (la volta esterna del Cielo), elencati in ordine ascendente all'interno del Cielo (Kauṣītakibrāhmaṇa, 20, 1). Il Cielo e la Terra sono ancora separati da un puntello, variamente identificato ma non precisamente collocato. Il Jaiminīyopaniṣadbrāhmaṇa (Brāhmaṇa dell'Upaniṣad della scuola Jaiminīya; 4, 26, 12) afferma che il centro della Terra si trova immediatamente a nord dell'albero di fico chiamato Plakṣa Prāsravaṇa, che cresce alla sorgente della Sarasvatī terrestre, mentre il centro del Cielo corrisponde al punto in cui si trovano i Saptarṣi, le sette stelle dell'Orsa Maggiore.

Cosmologia purāṇica

di David Pingree

Intorno alla metà del I millennio a.C. cominciano a manifestarsi vari elementi di una nuova cosmologia indiana, collegati a concezioni proprie dell'Iran achemenide e dei coevi filosofi ioni. Si è già fatto cenno al Mahāmeru del Taittirīyāraṇyaka (Āraṇyaka della scuola taittirīya), al quale corrisponde lo Himavat dei più antichi testi pāli e il Meru del Mahāvastu (Grande storia). Nei Jātaka (Storie delle vite precedenti [del Buddha]) è detto che il Sole e la Luna ruotano attorno al Sineru, causando il giorno e la notte. Il fulcro della rotazione, la stella detta Dhruva, è nominato per la prima volta nei Gṛhyasūtra (raccolte di aforismi), nel corso della descrizione della cerimonia di matrimonio. Una descrizione completa di questa nuova cosmologia, in forma elaborata, è fornita però soltanto da un testo che compare, in due versioni, in un gran numero di Purāṇa.

Le due suddette versioni sono state ricostruite da Kirfel (1954). La più semplice, ed evidentemente la più antica, si trova nell'Agnipurāṇa, Brahmapurāṇa, Garuḍapurāṇa, Kūrmapurāṇa, Mahāśivapurāṇa, Śivapurāṇa e Viṣṇupurāṇa; quella più elaborata, e più recente, è fornita dal Brahmāṇḍapurāṇa, Kūrmapurāṇa, Liṅgapurāṇa, Mārkaṇḍeyapurāṇa, Matsyapurāṇa, Varāhapurāṇa e Vāyupurāṇa. Sembra assai verosimile che il testo della prima versione sia stato composto nel V sec. d.C. Numerosi elementi astronomici sono tratti dal Jyotiṣavedāṅga (Membro ausiliario del Veda sull'astronomia) di Lagadha, composto attorno al 400 a.C. Peraltro il testo menziona anche i dodici segni zodiacali, il sito di equinozi e solstizi, posti rispettivamente all'inizio dell'Ariete e della Bilancia, e del Cancro e del Capricorno (nella seconda versione essi sono negligentemente spostati alla fine di questi segni zodiacali), e l'ordine ascendente dei pianeti a partire dalla Terra in posizione centrale, così come fu determinato nel II sec. a.C. dagli astronomi ellenistici, ossia: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Tutte queste idee furono introdotte in India dall'Impero romano non prima del II sec. d.C. Infine, la menzione dei Turuṣka ('Turchi'), dei Hūṇa ('Unni') e dei Pārasīka ('Persiani') nel cap. 3 (ed. Dvivedin) indica per la redazione finale della prima versione una data non anteriore agli inizi del V secolo. Molte cosmologie consimili sono attestate, seppur con molte varianti nei dettagli, in un gran numero di altri testi.

La parte inferiore di questo Cosmo, consistente di sette pātāla ('mondi inferi'), ha un'altezza di 70.000 yojana (784.000 km ca., uno yojana equivalendo a 11,2 km ca.) ed è suddivisa in sette livelli uguali, ciascuno dei quali alto 10.000 yojana (112.000 km ca.). Questi sette pātāla sono denominati, in ordine ascendente, Atala, Vitala, Nitala, Gabhastimān, Mahākhya, Satala e Pātāla. Essi sono abitati dai demoni, dagli Asura (Dānava e Daitya), dagli Yakṣa e dalle stirpi dei Nāga (Serpenti). Al di sotto dei pātāla si trova il corpo scuro di Viṣṇu chiamato Śeṣa, il serpente primordiale che galleggia sulle acque e sostiene il Cosmo.

Al di sopra dei sette pātāla ci sono numerosi naraka ('inferni'), descritti nel cap. 6. Di ventotto di questi naraka, a cominciare dal Raurava, è indicato il nome; si afferma tuttavia che ne esistono molti di più. Queste sono le regioni in cui il karman dei peccatori matura fino a quando essi sono pronti per la rinascita. Il testo specifica inoltre a quale inferno un uomo è destinato in base al tipo di peccato commesso.

La Terra, piatta e circolare, è descritta nel cap. 2. Al suo centro sorge il monte Meru, che si estende per 84.000 yojana (940.800 km ca.) al di sopra della superficie terrestre e per 16.000 yojana (179.200 km ca.) al di sotto; il suo diametro alla base è di 16.000 yojana, alla sommità di 32.000 (358.400 km ca.). Si può istituire un confronto tra il monte Meru, la vetta Taēra del monte Haraitī della cosmologia zoroastriana e le "parti elevate della Terra" a nord (della Grecia) della cosmologia di Anassimandro e di Anassimene.

Attorno al monte Meru si estendono sette continenti (dvīpa) concentrici separati da sette oceani concentrici. Il più interno dei dvīpa, quello di Jambū ('giambo'), è circondato dall'oceano di sale; seguono, procedendo verso l'esterno, il dvīpa di Plakṣa ('albero di fico'), l'oceano di canna da zucchero, il dvīpa di Śālmali ('bombacacea'), l'oceano di liquore, il dvīpa di Kuśa (Poa cynosuroides), l'oceano di burro semifluido, il dvīpa di Krauñca ('chiurlo'), l'oceano di quagliata, il dvīpa di Śāka ('vegetale'), l'oceano di latte, il dvīpa di Puṣkara ('loto') e l'oceano d'acqua. I sette continenti concentrici corrispondono evidentemente, nonostante le trasformazioni, ai sette karšvar della tradizione iranica.

Nel cap. 4 ciascuno dei sei dvīpa situati all'esterno del Jambūdvīpa e dell'oceano di sale è descritto insieme con i suoi abitanti, le sue divisioni, le sue montagne e i suoi fiumi. Dopo la descrizione di questa topografia fantasiosa, si afferma che il Jambūdvīpa e il suo oceano di sale hanno ciascuno una larghezza (intesa qui come distanza da un margine all'altro) di 100.000 yojana (1,12 milioni di km ca.); quella della successiva coppia di continente e oceano è doppia rispetto alla prima, e così via, fino a raggiungere, con l'ultimo dvīpa e il suo oceano, una larghezza di 12.800.000 yojana (143,4 milioni di km ca.). Attorno al perimetro del settimo oceano, quello d'acqua, sorgono le montagne Lokāloka, che misurano 10.000 yojana (112.000 km ca.) di larghezza e altrettanti di altezza; al di là di queste si estende l'oscurità entro il guscio dell'Uovo contenente. Il diametro totale della Terra è, dunque, di 500.000.000 di yojana (5,6 miliardi di km ca.).

Questa descrizione fantastica degli dvīpa e degli oceani al di là dell'oceano di sale trova eco nel cap. 2, con un'altrettanto bizzarra descrizione del Jambūdvīpa. Su quest'ultimo, disposte trasversalmente da est a ovest, si estendono sei catene montuose chiamate, procedendo da sud verso nord, Himavān ('nevosa'), Hemakūṭa ('dalle cime d'oro'), Niṣada ('seduta'), Nīla ('azzurra'), Śveta ('bianca') e Śṛṅgin ('fornita di corna'). Queste catene suddividono il Jambūdvīpa in sei territori (varṣa), denominati, nell'ordine, Bhārata, Kimpuruṣa, Hari (a sud del monte Meru), Ramyaka, Hiraṇmaya e Uttarakuru (al suo nord). Tra i due gruppi si trova il territorio denominato Ilāvṛta, che ha il monte Meru al suo centro, e nel quale si hanno quattro catene montuose: Mandara a est, Gandhamādana a sud, Vipula a ovest e Supārśva a nord. Oltre a numerose altre montagne, fiumi, foreste e città di carattere fittizio, situati a nord del Bhāratavarṣa (il subcontinente indiano), il testo menziona la città di Brahmā, ubicata sulla cima del monte Meru. Intorno a essa risiedono i quattro divini lokapāla ('protettori dei mondi'), a cominciare da Indra. Nella seconda versione (9, 22-25) è detto che i lokapāla dei punti cardinali sono Mahendra (Indra) a est, Yama a sud, Varuṇa a ovest e Soma a nord, e che abitano le città sui monti Lokāloka. Attorno al Meru risiedono anche altri dèi ed esseri divini.

In alto, al di sopra della montagna, si trova la dimora di Viṣṇu, dal cui piede fluisce il fiume Gange (Gaṅgā) che, inondando la ruota (maṇḍala) della Luna, cade dal cielo attorno alla città di Brahmā, dove si divide in quattro corsi distinti. La Sītā scorre a est, verso il Bhadrāśva; la Nandā a sud, verso il Bhārata (dove diventa il sacro Gange); il Vakṣus (Oxus) a ovest, verso il Ketumāla; la Bhadrā a nord, verso l'Uttarakuru.

Il cap. 3 è dedicato alla descrizione del Bhāratavarṣa (il subcontinente sud-asiatico), soltanto parzialmente più realistica di quella delle altre regioni del Jambūdvīpa. Esso si estende per 9000 yojana (100.800 km ca.) a nord dell'oceano (di sale) e a sud di Himādri (la montagna di neve, l'Himalaya). Il Bhāratavarṣa è l'unica regione della Terra ove le azioni (karman) conducono i mortali alla liberazione (dalla reincarnazione), oppure al paradiso o all'inferno (in attesa di una nuova rinascita). La sua parte centrale è abitata dai membri dei quattro varṇa ‒ i Brāhmaṇa, gli Kṣatriya, i Vaiśya e gli Śūdra. A est vivono i Kirāta (Assamesi), a sud gli Andhra (Dravidici), a ovest gli Yavana (Greci e Iranici) e a nord i Turuṣka (Turchi).

Il Bhāratavarṣa è suddiviso in nove dvīpa, ciascuno largo 1000 yojana (11.200 km ca.); questi sono, procedendo da sud, un'isola senza nome (Sri Lanka), Vāruṇa, Gandharva, Saumya, Nāgadvīpa, Gabhastimān, Tāmravarṇa, Kaserumān e Indradvīpa. Esso comprende anche sette catene montane: il Mahendra (nell'Orissa), il Malaya (nel Karnataka), il Sahya (nel Maharashtra), lo Śuktimān (in Assam?), il Ṛkṣa (nel Bihar), il Vindhya (in Madhya Pradesh) e il Pāriyātra (in Rajasthan); da ciascuna di queste catene scorrono vari fiumi, di molti dei quali si fornisce il nome.

In un secondo passo, nel quale vengono enumerati gli abitanti del Bhāratavarṣa, si afferma che i Kuru e i Pāñcāla risiedono nel Madhyadeśa; a est sono gli abitanti del Kāmarūpa, i Puṇḍra, i Kaliṅga e i Magadha; a sud i Dākṣiṇātya; a ovest gli Aparānta, i Saurāṣṭra, gli Śūdra, gli Abhīra, gli Arbuda, i Kārūṣa, i Mālava e gli abitanti del Pāriyātra; a nord i Sauvīra, i Saindhava, i Hūṇa, gli Śālva, gli abitanti di Śākala, i Madra, i Rāma, gli Āmbaṣṭha e i Pārasīka. Molti altri popoli sono menzionati in altri Purāṇa, nei poemi epici, nonché nelle fonti astrologiche.

La struttura delle regioni poste al di sopra della Terra è descritta nel cap. 8. La parte inferiore, che si eleva fino alla stella più alta, è suddivisa in tre sezioni, come nei Veda; a queste è dato il medesimo nome che era stato loro assegnato nei Brāhmaṇa, e cioè bhūr, bhuvar e svar. Nei Purāṇa, tuttavia, il bhūrloka è la superficie terrestre; il bhuvarloka si estende dalla superficie della Terra al Sole, il più basso dei corpi celesti; lo svarloka è invece la parte compresa tra il Sole e Dhruva (la Fissa), la stella che serve da centro attorno al quale girano le ruote delle stelle e dei pianeti. Secondo una delle due forme di questo passo, la ruota (maṇḍala) del Sole è situata a un'altezza di 100.000 yojana (1,12 milioni di km ca.) dalla Terra (e quindi a un'altezza di 16.000 yojana, cioè 179.200 km ca., dalla cima del monte Meru); la ruota della Luna si trova a 100.000 yojana da quella del Sole e la ruota delle stelle (nakṣatra) alla stessa distanza da quella della Luna. È degno di nota che il medesimo ordine al di sopra della Terra, sebbene invertito ‒ stelle, Luna, Sole ‒ e la medesima concezione delle ruote che girano attorno a una montagna centrale (o 'settentrionale') si ritrovano nelle cosmologie di Anassimandro e Anassimene. È presumibile che sia la cosmologia dei Purāṇa sia quella dei filosofi presocratici derivino da una comune fonte iranica.

La versione più completa del testo purāṇico prosegue affermando che Mercurio è situato a 200.000 yojana (2,24 milioni di km ca.) dalla ruota dei nakṣatra e Venere a questa stessa distanza sopra Mercurio; ancora alla medesima distanza segue Marte, quindi Giove e Saturno. Questa descrizione riflette uno schema che nel mondo ellenistico fu elaborato non prima del II sec. a.C. La ruota dei Saptarṣi ('i Sette Saggi', l'Orsa Maggiore) è posta 100.000 yojana (1,12 milioni di km ca.) al di sopra di Saturno, e Dhruva 100.000 yojana al di sopra dei Saggi. Tutta questa regione dalla Terra a Dhruva, che ha un'altezza di 1.500.000 yojana (16,8 milioni di km ca.), consistente in bhūr, bhuvar e svar, è chiamata trailokya ('trimundio'). Nel bhuvarloka risiedono i muni ('saggi', 'santi') che hanno le forme di dèi, nello svarloka gli dèi (surāditya), i Marut, i Vasu, i due Aśvin, i Viśvadeva e i Rudra, tutte divinità vediche.

Al di sopra di Dhruva per 10.000.000 di yojana (112 milioni di km ca.) si leva il maharloka, per una distanza doppia il janaloka, per una distanza quadrupla il taparloka e, infine, per 60.000.000 di yojana (672 milioni di km ca.) il satyaloka, definito anche brahmaloka. Dunque, proprio come in alcuni Brāhmaṇa, vi sono sette loka ('mondi') al di sopra della superficie terrestre; nel testo purāṇico a questi fanno riscontro altrettanti pātāla situati al di sotto della superficie terrestre. L'Uovo cosmico è così riempito. Attorno a questo, proprio come attorno al Cosmo vedico, c'è l'Acqua; nei testi purāṇici l'Acqua è circondata dal Fuoco, il Fuoco dal Vento, il Vento dalla Nuvola e la Nuvola dal Grande, che è il primo degli Elementi; a sua volta il Grande è circondato dalla Materia Primaria (pradhāna).

La creazione degli Universi infiniti dal brahman e il loro sviluppo nel tempo sono descritti in maniera esauriente da una narrazione, fortemente influenzata dalla filosofia del Sāṃkhya, contenuta nel primo libro del Viṣṇupurāṇa. Base della creazione è il brahman, il neutro, l'autogeno che è al di là dell'essere e del non essere. Esso perviene a esistere in quattro forme: Materia Primaria (pradhāna) o Natura (prakṛti), Spirito (puruṣa), Manifesto (vyakta) e Tempo (kāla). Dall'agitazione del pradhāna e del puruṣa nel Tempo proviene il Grande (mahat), che assume le tre qualità (guṇa) di 'bontà' (sattva), 'passione' (rajas) e 'tenebra' (tamas), e produce i tre Ego (ahaṅkāra), puro, passionale ed elementale. L'Ego elementale produce i cinque sensibili e i cinque Grandi Elementi (mahābhūta) in questa sequenza: suono, Spazio; tatto, Vento; forma, Luce o Fuoco; gusto, Acqua; olfatto, Terra. L'Ego passionale produce i cinque organi di senso che percepiscono i cinque sensibili (orecchio, pelle, occhio, lingua e naso) e i cinque organi d'azione (gli organi di escrezione, gli organi di procreazione, le mani, i piedi e l'organo della voce). L'Ego della Bontà produce le dieci divinità che presiedono ai dieci organi e, come undicesimo, alla mente.

L'unione di sensibili, elementi, organi e mente costituisce l'Uovo dal quale ogni Universo si sviluppa. Quest'Uovo (il brahmāṇḍa) riposa sulle Acque ed è abitato da Brahmā, maschile, che è l'Embrione d'oro (Hiraṇyagarbha) menzionato per la prima volta nel decimo maṇḍala del Ṛgveda. Brahmā, in quanto creatore, foggia l'interno dell'Uovo, descritto sopra; Viṣṇu, in forma di Nārāyaṇa, steso sul Serpente cosmico (Śeṣa, il quale a sua volta galleggia sulle Acque) in quanto conservatore, sostiene l'Uovo; Śiva, in quanto distruttore, lo annienta al momento appropriato. Tutti e tre non sono altro che manifestazioni della divinità suprema in forme caratterizzate rispettivamente dalle qualità della passione, della bontà e della tenebra.

Il ritmo delle creazioni, conservazioni e distruzioni di ciascun Universo ‒ poiché nell'infinità del brahman, che include l'infinità del Tempo, infiniti Universi vengono di continuo all'esistenza, sono conservati e sono distrutti ‒ è controllato dalla vita del Brahmā di ciascun Universo. Brahmā vive 100 'anni'; ogni 'anno' consiste di 360 'giorni' e 360 'notti' (in questo si riflette l'idea della ruota di 720 figli in coppie menzionati in Ṛgveda, I, 164); ciascun 'giorno' e ciascuna 'notte' corrispondono a un'era (kalpa) di 4.320.000.000 di anni umani. La vita di un Brahmā consiste, dunque, di 72.000 kalpa, o 311.040.000.000.000 di anni umani. All'inizio di ogni kalpa, o 'giorno' di Brahmā, dispari, Egli crea (nel primo) o ricostruisce (negli altri) l'interno dell'Uovo (brahmāṇḍa); alla fine di ogni 'giorno' di Brahmā, Śiva distrugge il contenuto del brahmāṇḍa al di sotto del Maharloka; durante ogni 'notte' di Brahmā, Egli dorme; alla fine dell'ultima 'notte', l'Uovo torna a dissolversi nelle Acque circostanti.

All'interno del kalpa, il tempo è suddiviso in 1000 mahāyuga, ciascuno dei quali costituito da 4.320.000 anni umani; alla fine di un mahāyuga, gli esseri viventi sulla superficie della Terra sono tutti distrutti. Il kalpa è anche suddiviso in 14 manvantara, alla fine di ciascuno dei quali i sette ṛṣi e gli dèi, a cominciare da Indra, sono distrutti. Ciascun manvantara consiste di 71 mahāyuga o 306.720.000 anni umani. Poiché 14 manvantara contengono soltanto 4.294.080.000 anni umani, i restanti 25.920.000 anni necessari per completare i 4.320.000.000 di anni di un kalpa sono divisi in 15 parti uguali di 1.728.000 anni, chiamate Crepuscoli (sandhyā); una sandhyā è collocata prima del primo manvantara e un'altra è posta a seguito di ciascun manvantara.

Ogni mahāyuga è suddiviso in quattro parti disuguali, tra loro in rapporto di 4:3:2:1; le loro durate corrispondono dunque, rispettivamente, a 1.728.000 anni (il Kṛtayuga, di durata pari a quella di una sandhyā), 1.296.000 anni (il Tretāyuga), 864.000 anni (il Dvāparayuga) e 432.000 anni (il Kaliyuga). Un periodo di estensione identica si ritrova nei miti babilonesi. Secondo l'astronomo babilonese Beroso, 432.000 anni (in notazione sessagesimale, 2,0,0,0 anni) equivalgono alla durata del governo dei re antidiluviani. Tale periodo è alla base dell'intero sistema dei kalpa. Alla fine di ogni yuga, all'interno del mahāyuga, ha luogo la distruzione degli esseri umani, le cui caratteristiche, come quelle di altri elementi della creazione, degradano al susseguirsi degli yuga. Le distruzioni più importanti nel presente mahāyuga furono quelle compiute da Paraśurāma alla fine del Tretāyuga e da Kṛṣṇa alla fine del Dvāparayuga; la prossima distruzione, a opera di Kalkin, avrà luogo alla fine del Kaliyuga.

I Purāṇa esprimono dunque una concezione grandiosa dell'Universo, il quale è soggetto a creazioni e ricreazioni periodiche, a declini graduali e a distruzioni parziali o catastrofiche, distribuite ciclicamente nel corso di lunghi periodi di tempo. Ogni Universo, poi, si riflette in un numero infinito di repliche esatte. In questa visione straordinaria confluiscono elementi derivati dai miti cosmogonici vedici, dalle speculazioni upaniṣadiche, dalla filosofia del Sāṃkhya, dai culti postvedici di Śiva e Viṣṇu, dalle credenze cosmologiche iraniche, dai concetti babilonesi di tempo e infine, dall'ordinamento greco dei pianeti.

Questa struttura formidabile influenzò fortemente la forma delle concezioni della Terra e dei Cieli propugnate nei siddhānta, sebbene tali trattati accolgano la visione greca secondo cui la Terra e i corpi che sostengono i pianeti e le stelle sono sfere. I sostenitori del sistema greco delle sfere potevano far rilevare, come fece Lalla (Śiṣyadhīvṛddhidatantra, 20), quei fenomeni astronomici che non trovavano adeguata spiegazione nei Purāṇa. Esponenti di un movimento conservatore avverso all'influenza esterna, che emerse nei secc. XVII e XVIII, alcuni paurāṇika ('esperti di Purāṇa') sollevarono apertamente dei dubbi sulla legittimità di un'astronomia che preferisse le sfere degli Yavana (i Greci e i Musulmani) alla cosmologia degli dèi e dei ṛṣi. Questa critica è espressa, per esempio, da Nīlakaṇṭha, commentatore del Mahābhārata (Grande poema dei Bhārata), nel Saurapaurāṇikamatasamarthana (Conciliazione delle opinioni del Sūryasiddhānta e dei Purāṇa), i cui 18 oscuri versi furono da lui composti poco prima del 1679. Egli difende gli elementi della cosmologia e dell'astronomia dei Veda e dei Purāṇa, accettando dai siddhānta soltanto i parametri del moto planetario enunciato dal Sole nel Sūryasiddhānta (Esposizione conclusiva [insegnata] dal Sole).

Negli anni Venti o Trenta del XVIII sec., Kevalarāma, il jyotiṣarāja ('re dell'astronomia') di Jayasiṃha di Jayapura, tentò di risolvere il problema dell'incompatibilità tra siddhānta e Purāṇa nel suo Bhāgavatajyotiṣayor bhūgolakagolavirodhaparihāra (Rimozione delle contraddizioni tra il Bhāgavatapurāṇa e l'astronomia circa la geografia e la cosmografia). La soluzione di Kevalarāma consisteva nell'affermare che entrambe le cosmologie sono corrette. Egli giungeva a questa sorprendente conclusione accettando in parte sia le dimensioni del Cosmo fornite dai Purāṇa, sia quelle fornite dai siddhānta. Vi è un'enorme Terra piatta, con un diametro di 500.000.000 di yojana (5,6 miliardi di km ca.), in un Uovo cosmico (brahmāṇḍa) la cui struttura corrisponde precisamente a quella descritta nel cap. 5 del Bhāgavatapurāṇa. Al di sopra di questa più vasta Terra piatta, nello Spazio intermedio, fluttua una piccola Terra sferica, con una circonferenza di 5.000 yojana (56.000 km ca.) e circondata, come la Terra vedica, dall'acqua. La Terra più piccola è quella abitata dagli uomini. Il Sole si muove intorno alla sua ruota 100.000 yojana (1,12 milioni di km ca.) al di sopra della superficie della Terra maggiore; ne vediamo soltanto il riflesso nelle acque, simili a uno specchio, che circondano la Terra minore. Attraverso un'interpretazione erronea del testo del Bhāgavatapurāṇa, Kevalarāma cerca di dimostrare che le distanze delle ruote lunari e planetarie (al di sopra della Terra piatta) nei Purāṇa corrispondono alle distanze geocentriche delle loro sfere indicate dal Brāhmapakṣa (il sistema astronomico esposto dal Paitāmahasiddhānta, redatto attorno al 425 d.C.). Peraltro a questo punto, inaspettatamente, accetta che queste siano sfere, come vogliono i siddhānta, piuttosto che ruote. Kevalarāma si rende conto del fatto che queste sfere, data la loro grandezza, attraversano necessariamente la superficie della Terra piatta. A questo problema dà due risposte: la prima è che la Terra maggiore è chiara come il vetro; la seconda è che presenta interstizi che si adattano alle sfere. E a chi si interroga su quale possa essere il criterio per accordare queste due asserzioni, risponde che non si dovrebbe applicare la logica alle cose impensabili.

Il tentativo di Kevalarāma, piuttosto insoddisfacente, di difendere la cosmologia vedica e purāṇica non fu l'ultimo; i suoi argomenti furono ripresi e ampliati da Nandarāma Miśra nel 1767. Questo peraltro, per quanto ci è noto, rappresentò l'ultimo serio tentativo di sostenere la cosmologia antica in modo ragionato. Tale atteggiamento è stato in tempi recenti sostituito dal tentativo di dimostrare come il Ṛgveda contenga riferimenti criptici alla cosmologia moderna di tipo occidentale; ma neppure questa interpretazione appare convincente.

Cosmologia buddhista e jaina

di Bruno Lo Turco

Cosmologia buddhista

Descrizioni del Cosmo quale fu concepito dal buddhismo premahāyānico si trovano, tra i testi canonici, in specie nel Dīghanikāya (Mucchio dei discorsi lunghi; si veda in particolare il sūtra 30); una descrizione minuziosa, tra i testi più tardi, si trova invece nell'Abhidharmakośa (Tesoro dell'Abhidharma) di Vasubandhu (IV-V sec. d.C.). La Terra è vista come un disco attraversato da parte a parte dalla mole di una gigantesca montagna centrale, l'axis mundi, attorno alla quale ruotano le stelle. Questo disco corrisponde al livello umano del Cosmo; al di sopra sono collocati vari livelli celesti e al di sotto una sequenza di regni sotterranei; tale modello generale è condiviso dalle cosmologie hindu e jaina. L'intero mondo fisico, costituito dal prodotto di un'interazione dei cinque elementi ‒ terra, acqua, fuoco, aria e spazio (ākāśa) ‒ è soggetto a cicli di sviluppo e decadimento; al termine di un ciclo si ha un annientamento totale, al quale segue la ricostituzione; il ciclo cosmico completo è detto mahākalpa.

L'Aggāññasutta (Scrittura sull'origine; Dīghanikāya, III, 27) fornisce una descrizione poetica del ciclo cosmico. All'inizio del kalpa sulla Terra non vi sono che dèi luminosi discesi dal mondo di Brahmā; le acque sono ricoperte di tenebra; il Sole, la Luna, le stelle, il ciclo notte-giorno, il ciclo lunare, il ciclo delle stagioni, maschi e femmine non esistono ancora. In seguito la materia che compone il Cosmo passa dallo stato sottile a stati sempre più grossolani; inizia così ad attirare gli esseri, i quali prendono ad alimentarsene, dando origine ai corpi fisici e alla competizione per il cibo. Il processo ha inizio con l'emersione della terra dalle acque, che avviene nel modo in cui si forma una pellicola sul latte bollito. Una divinità radiosa, stupita, ne assaggia un poco ed è così che il desiderio, motore del decadimento cosmico, entra in lei. Altri esseri ne seguono l'esempio, subendo la medesima sorte e perdendo la facoltà di emanare luce; appaiono dunque il Sole e la Luna, e quindi le stelle. Ora si alternano giorno e notte, e si susseguono le fasi lunari e le stagioni. La condizione iniziale di beatitudine degenera sino a quando, al termine del ciclo, gli esseri divengono del tutto corrotti e malvagi e la durata massima della vita non supera i 10 anni. L'estrema decadenza morale si accompagna dunque all'annullamento cosmico; Buddhaghoṣa nel Visuddhimagga (Sentiero della purificazione; XIII, 30 e segg.) descrive come il disfacimento finale avvenga tramite la furia di tre elementi primari: fuoco, acqua e vento.

Il disco della Terra è percorso da una serie di sette catene montuose concentriche, al centro delle quali è il monte Meru (o Sumeru, o Sineru), la cui altezza è di 80.000 yojana (896.000 km ca.); il Meru inoltre si estende per un'uguale distanza a tutti i mondi sotterranei.

Le sette catene montuose sono chiamate, procedendo dall'interno verso l'esterno, Yugandhara, Īṣadhāra, Khadirika, Sudarśana, Aśvakarṇa, Vinataka, Nimindhara; Yugandhara coincide con l'odierno Himalaya. La superficie terrestre è poi racchiusa da un'ultima insormontabile catena montuosa di ferro, detta cakravāla ('circolo'). I mari si trovano nello spazio compreso tra le catene montuose; i continenti (dvīpa) abitati sono disposti ai quattro punti cardinali di uno dei mari. Nel modello più antico il mare dotato dei continenti abitati è compreso tra l'ultima catena montuosa e il cakravāla, mentre in versioni più tarde di questo modello si trova più vicino al Meru. A est è posto il continente detto Pūrvavideha, a sud il Jambudvīpa, che coincide con l'India odierna, a ovest l'Aparagodānīya e a nord l'Uttarakuru.

Le sette catene montuose si levano da uno strato di terra d'oro (kāñcanamayībhūmi), il quale poggia su uno strato d'acqua (ābmaṇḍala), che a sua volta poggia sullo spazio (ākāśa). Questo sistema è contenuto nel regno del desiderio (kāmadhātu) o mondo dei cinque sensi, ove dimorano le sei classi di dèi del desiderio (kāmadeva); al di sopra di questo regno vi sono il regno della forma (rūpadhātu), diviso in quattro classi di regni della meditazione, e il regno del 'senza forma' (arūpadhātu). I regni della meditazione corrispondono ai quattro stati meditativi propriamente detti (dhyāna), mentre il regno del senza forma corrisponde ai quattro stati meditativi senza forma (samāpatti), ossia 'infinità dello spazio' (ākāśānantya), 'infinità della coscienza' (vijñānānantya), 'assenza di qualsiasi cosa' (ākiñcanya), 'né percezione né non percezione' (naivasañjñānāsañjñāna). Questa descrizione del Cosmo è stata evidentemente suggerita, almeno in parte, dalla classificazione degli stati meditativi contemplata dalle scritture canoniche. Alcuni passi del Majjhimanikāya (Mucchio dei discorsi medii; I, 21-22) affermano infatti che il meditante attraversa quattro dhyāna: il primo è accompagnato da capacità di pensare (vitarka) e pensiero protratto (vicāra), è nato da distacco, è dotato di soddisfazione (prīti) e gioia (sukha); il secondo è privo di capacità di pensare e pensiero protratto, è nato da concentrazione (ekāgratā), è dotato di soddisfazione e gioia; il terzo è privo di soddisfazione, dotato di equanimità (upekṣā) allo stadio iniziale, e gioia; anche il quarto è privo della gioia ed è interamente purificato dall'equanimità. Un altro passo della medesima raccolta canonica (I, 352) elenca otto stati meditativi: a quelli già enunciati aggiunge le meditazioni, dette 'senza forma', che hanno come base infinità dello spazio, infinità della coscienza, assenza di qualsiasi cosa, né percezione né non-percezione. In altre parole, con lo sviluppo della meditazione e, analogamente, con il progresso dei livelli celesti, si ha un graduale venir meno dei contenuti mentali, al quale corrisponde una graduale emersione della dimensione della coscienza pura. Il legame tra assetto del Cosmo e pratica meditativa non è basato unicamente sull'analogia strutturale: mediante la realizzazione di un particolare stato di assorbimento si ottiene infatti la rinascita nel regno celeste corrispondente. Tale sistema di correlazioni, già accennato nella letteratura canonica (si veda, per es., Majjhimanikāya, I, 289), è esposto compiutamente nella posteriore letteratura di commento, come per esempio nel Visuddhimagga. A uno stato meditativo ulteriore detto 'cessazione' (nirodha), ossia cessazione di sensazione e percezione, non corrisponde nessun regno celeste; esso infatti non implica rinascita alcuna, giacché equivale all'entrata nel nirvāṇa direttamente in questa vita. Sorprendentemente, sebbene la meditazione buddhista sia dotata di due apparati tecnico-teorici complementari di uguale importanza, e cioè quello relativo alla calma concentrata (śamatha), includente i dhyāna, e quello relativo alla visione profonda (vipaśyanā), volto alla penetrazione diretta dell'impermanenza (anitya), dolorosità (duḥkha) e insostanzialità (anātman) di tutti i fenomeni, questo secondo apparato è piuttosto trascurato dalla cosmologia buddhista.

Il regno del desiderio comprende i quattro regni ove è punito il karman cattivo, il mondo degli uomini (manuṣya) e i regni celesti inferiori, tutti assieme detti 'sfere del desiderio' (kāmāvacara o kāmaloka). I regni della punizione sono, specificamente, gli inferni (niraya), il mondo animale, il mondo degli spettri (preta), il mondo degli antidèi (asura), i quali ultimi dimorano in caverne situate nel Meru, al di sopra degli inferni. Gli inferni sono elencati dalla letteratura canonica in vario modo; in ciascun inferno è somministrata, per un certo tempo fisso, una determinata pena; pena e relativa durata sono proporzionate alla colpa. I regni celesti inferiori, complessivamente detti 'mondo degli dèi' (devaloka), sono sei: il regno degli attendenti dei quattro grandi re (mahārājakāyika), il regno dei trentatré dèi (trayastṛṃśa; dimorano sulla sommità del Meru), il regno degli dèi Yāma, il regno degli dèi Tuṣita, il regno degli dèi che godono di piaceri che essi stessi creano (nirmāṇarāti), il regno degli dèi che godono costantemente di piaceri forniti da altri (paranirmitavaśavartin). I primi livelli del Meru sono, inoltre, abitati dagli yakṣa, demoni multiformi, spesso malevoli verso gli uomini; sulle pendici del Meru abitano, ancora, i quattro protettori del mondo (lokapāla), ossia i guardiani delle direzioni.

Il regno della forma è popolato di dèi assorbiti nei quattro stati meditativi materiali. Tali dèi sono detti Brahmā e il loro regno è denominato anche mondo di Brahmā (brahmaloka). Il livello celeste corrispondente a ciascuno stato meditativo è ulteriormente suddiviso in più cieli (superiore, medio, inferiore, a seconda del dominio della relativa tecnica meditativa conseguito durante la vita umana), salvo il quarto livello, che ha un maggior numero di suddivisioni, fino a raggiungere un totale di 17 cieli. Il livello del primo stato meditativo comprende: (1) il cielo del seguito di Brahmā (brahmakāyika), (2) il cielo dei sacerdoti di Brahmā (brahmapurohita), (3) il cielo dei grandi Brahmā (mahābrahma). Il livello del secondo stato meditativo comprende: (1) il cielo degli dèi di luce limitata (parīttābha), (2) il cielo degli dèi di luce infinita (apramāṇābha), (3) il cielo degli dèi radiosi (ābhāsvara). Il livello del terzo stato meditativo comprende: (1) il cielo degli dèi di splendore limitato (parīttaśubha), (2) il cielo degli dèi di splendore infinito (apramāṇaśubha), (3) il cielo degli dèi di splendore totale (śubhakṛtsna). Il livello del quarto stato meditativo comprende: (1) il cielo degli dèi senza nubi (anabhraka), (2) il cielo degli dèi nati dai meriti (puṇyaprasava), (3) il cielo degli dèi dal grande frutto (bṛhatphala), (4) il cielo degli dèi senza sforzo (avṛha), (5) il cielo degli dèi imperturbati (atapa), (6) il cielo degli dèi belli a vedersi (sudṛś), (7) il cielo degli dèi della bella visione (sudarśana), (8) il cielo degli dèi tra i quali nessuno è il più giovane (akaniṣṭha).

Il regno del senza forma è il mondo dei Brahmā immersi nei quattro stati meditativi immateriali (caturārūpyabrahmaloka). Se nel regno della forma è ancora possibile una sorta di percezione limitata alla vista e all'udito (gli altri sensi sono sospesi), come nei corrispondenti stati d'assorbimento, nel regno del senza forma, in assenza di oggetti, non esiste possibilità di attività percettiva; i quattro aggregati mentali (skandha), che secondo la psicologia buddhista formano gli esseri ‒ e cioè forma (rūpa), sensazione (vedanā), percezione (saṃjña), flusso dei contenuti coscienti (vijñāna) ‒, permangono soltanto allo stato latente, senza una controparte oggettiva.

Oltre agli otto livelli di dhyāna, sono collegati a piani cosmologici altri quattro stati meditativi facenti parte dell'apparato relativo alla calma concentrata (śamatha): si tratta degli stati 'illimitati', fortemente caratterizzati dalla valenza etica, basati su benevolenza (maitrī), compassione (karuṇā), gioia simpatetica (muditā) ed equanimità (upekṣā). Essi sono complessivamente detti 'dimore di Brahmā', poiché secondo Buddhaghoṣa (Visuddhimagga, IX, 105-106) chi li realizza dimora al medesimo livello celeste degli dèi del mondo di Brahmā. Essi inoltre servono, in quest'ordine, alla realizzazione dei quattro stati senza forma, dal più grossolano al più sottile (ibidem, IX, 119-120), che coincidono con i livelli cosmici più elevati.

La letteratura canonica (si veda, per es., Majjhimanikāya, III, 101 e Aṅguttaranikāya, I, 227), i Jātaka (Ghirlanda delle vite anteriori [del Buddha]), come pure il Visuddhimagga e l'Abhidharmakośa, presentano talvolta l'Universo come un insieme di mondi innumerevoli, ciascuno simile al mondo caratterizzato dal cakravāla. Generalmente le migliaia di mondi sono poste in relazione con i livelli dei mondi di Brahmā; per esempio, secondo l'Abhidharmakośa il livello del primo dhyāna comprende un singolo mondo; il livello del secondo dhyāna comprende 1000 mondi; il livello del terzo dhyāna comprende 1.000.000 di mondi; il livello del quarto dhyāna comprende 1.000.000.000 di mondi. L'Universo è anche definito come 'triplice chiliocosmo' (trisāhasramahāsāhasralokadhātu); l'espressione compare già nell'Aṅguttaranikāya nel senso di un miliardo di mondi. In altri casi è da intendersi nel senso che il numero dei mondi dev'essere considerato infinito. Secondo alcuni testi i mondi sono disposti verticalmente, secondo altri orizzontalmente; la disposizione orizzontale contempla una zona vuota tra i mondi (lokāntarika). Ciò che dal punto di vista cosmologico è il triplice chiliocosmo, dal punto di vista devozionale è detto 'campo di Buddha' (buddhakṣetra), in quanto coincide con l'area d'azione salvifica di un Buddha.

La speculazione mahāyānica adotterà la concezione dei mondi innumerevoli, portandola all'estremo, come risulta per esempio dall'esposizione particolareggiata contenuta nel Mahāprajñāpāramitāśāstra (Trattato sulla grande perfezione della sapienza) attribuito a Nāgārjuna e nel Saddharmapuṇḍarīkasūtra (Sūtra del loto del vero Dharma). Lo spazio (ākāśa), come del resto il tempo, è considerato infinito. In questo spazio infinito sono distinte dieci regioni; quattro sono le regioni (diś) propriamente dette: est (pūrvā), sud (dakṣiṇā), ovest (paścimā), nord (uttarā); si hanno poi quattro regioni intermedie (vidiś): nord-est (uttarapūrvā), sud-est (pūrvadakṣiṇā), sud-ovest (dakṣiṇapaścimā), nord-ovest (paścimottarā); e, ancora, zenit (ūrdhvam) e nadir (adhaḥ). I Buddha sono ora detti 'delle 10 regioni' (daśadigbuddha), giacché molteplici Buddha sono contemporaneamente presenti in tutto lo spazio. Lo spazio contiene peraltro non già soltanto miriadi di mondi, ma universi incalcolabili (asaṅkhyeya), ciascuno equivalente a un triplice chiliocosmo, in alcuni dei quali, i 'campi di Buddha', compare il corpo di trasformazione (nirmāṇakāya) di un Buddha al fine di condurre gli esseri senzienti alla liberazione. Sono distinti tre generi di campi di Buddha: puri, misti e impuri. L'Universo nel quale ci troviamo attualmente, detto Sahā e situato nella regione del Sud, è un esempio di campo impuro, giacché è stato, almeno apparentemente, abbandonato dal Buddha Śākyamuni (il Buddha storico); un campo puro è infatti dotato di un Buddha che vi risiede in permanenza. Tra i campi puri, oggetto della devozione buddhista è specialmente Sukhāvatī ('colma di piacere'; descritta nei due Sukhāvatīvyūhasūtra, maggiore e minore), ove risiede il Buddha Amitābha o Amitāyus ('dalla luce infinita' o 'dal potere vitale infinito'), situata nella regione d'occidente.

Sebbene la cosmologia buddhista, in specie con i suoi sviluppi mahāyānici, sia apparsa oltremodo bizzarra agli studiosi contemporanei, si deve tenere presente che essa risponde a preoccupazioni d'ordine soteriologico ed escatologico, essendo più che altro rivolta a orientare i devoti e, in particolare, i praticanti di tecniche meditative.

Cosmologia jaina

Tra i testi del canone dei jaina śvetāmbara il Samavāyāṅga (Il membro delle combinazioni), il Bhagavatyaṅga (Scrittura venerabile), la Jambūdvīpaprajñapti (Esposizione del Jambūdvīpa), il Nirayāvalīsūtra (Scrittura sulla serie degli inferni), il Jīvābhigamasūtra (Scrittura sulla comprensione degli esseri animati), l'Aupapātika (Sorto spontaneamente) e il Devendrastava (Lode del re degli dèi) trattano idee cosmologiche. La cosmologia jaina canonica, in lingua ardhamāgadhī, è stata molto ampliata da generazioni di commentatori in sanscrito, che si sono esercitati in particolare attorno agli elementi numerici, complicandoli e amplificandoli sino a un livello insuperato dalle altre scuole indiane.

Secondo la cosmologia jaina il Cosmo, da fonti non canoniche talora concepito come avente forma umana, è racchiuso entro tre strati atmosferici (valaya): lo strato di acqua viscosa (ghanāmbu), lo strato di aria densa (ghanavāta) e lo strato di aria rarefatta (tanuvāta); al di là di quest'ultimo vi è lo spazio ultramondano (alokākāśa), assolutamente vuoto. All'interno dello strato di aria umida si hanno quattro mondi (loka): il mondo inferiore (adhiloka), il mondo mediano (madhyaloka), il mondo superiore (ūrdhvaloka), il mondo dei realizzati (siddhaloka). Il mondo inferiore, popolato da demoni e dannati, consta di sette livelli, progressivamente più oscuri: Ratnaprabhā ('che ha per luce le gemme'), Śarkarāprabhā ('che ha per luce la ghiaia'), Vālukāprabhā ('che ha per luce la sabbia'), Paṅkaprabhā ('che ha per luce il fango'), Dhūmaprabhā ('che ha per luce il fumo'), Tamaḥprabhā ('che ha per luce la tenebra'), Mahātamaḥprabhā ('che ha per luce la grande tenebra'). Nello strato compreso tra Ratnaprabhā e la Terra dimorano gli dèi 'che occupano una posizione intermedia' (vyantara), mentre gli dèi 'abitatori di palazzi' (bhavanavāsin) dimorano in Ratnaprabhā. Gli dèi vyantara corrispondono ai caratteristici esseri semicelesti della mitologia hindu, ossia piśāca, bhūta, yakṣa, rākṣasa, kiṃnara, kimpuruṣa, mahoraga e gandharva. Il mondo mediano è popolato dagli esseri umani e dagli animali, mentre il mondo superiore è popolato dagli dèi celesti (vaimānika). Quest'ultimo consta innanzitutto di 16 cieli (kalpa) suddivisi in otto paia e detti Saudharma, Īśāna, Sanatkumāra, Mahendra, Brahma, Brahmottara, Lāntaka, Kāpiṣṭha, Śukra, Mahāśukra, Satāra, Sahasrāra, Ānata, Prāṇata, Āraṇa, Acyuta. Al di sopra di questi si trovano i 9 cieli delle divinità graiveyaka, i 9 cieli anudiśa e i 5 cieli anuttara. Infine il mondo dei realizzati, popolato dalle anime liberate, si trova al di sopra dell'ultimo cielo anuttara.

Il mondo mediano è costituito da una serie concentrica di innumerevoli continenti (dvīpa) concentrici separati da oceani; ciascun continente e oceano ha una larghezza doppia dei precedenti. Il continente centrale, il cui diametro è di 100.000 yojana (1,12 milioni di km ca.), è chiamato Jambudvīpa; al centro di questo si leva il monte Meru, alto complessivamente 100.000 yojana, la cui massa attraversa anche i regni sotterranei per 1000 yojana. Le stelle ruotano attorno alla vetta del Meru; a esse sono associati gli dèi dei corpi celesti (jyotiṣa), che popolano la regione tra la Terra e il cielo. Il Jambudvīpa è costituito da sette territori (varṣa o kṣetra), chiamati Bharata, Haimavata, Ramyaka, Videha, Hari, Hairaṇyaka, Airāvata, ciascuno largo il doppio del precedente, separati tra loro da catene montuose concentriche. Capitale del Bharata (corrispondente all'India) è Ayodhyā (che si trova nell'odierno Oudh). Le catene montuose, i cui fianchi sono cosparsi di pietre preziose, sono denominate Himavān, Mahāvimān, Niṣidha, Nīla, Rukmi, Śikharin. Sulla sommità di queste si trovano sei laghi, chiamati rispettivamente Padma, Mahāpadma, Tigiñcha, Keśari, Mahāpuṇḍarīka, Puṇḍarīka. Da ciascun lago si dipartono due fiumi, uno verso est e uno verso ovest. Dal lago Padma fluiscono verso il Bharata due fiumi, la Gaṅgā (il Gange) e il Sindhu (l'Indo). Bharata, Haimavata e metà del Videha sono 'terre d'azione' (karmabhūmi), ove è possibile accumulare karman e ottenere la liberazione; le regioni rimanenti sono 'terre di fruizione' (bhogabhūmi), ove si godono i frutti del karman positivo. Le terre d'azione sono soggette a un ciclo temporale diviso in due fasi, discendente e ascendente, ciascuna a sua volta divisa in sei ere di durata variabile. La prima era della fase discendente dura 4×1014 eoni (sāgaropama); la durata delle ere successive diminuisce sino ai 21.000 anni dell'ultima fase. La durata massima della vita umana scema in proporzione, assieme con il livello di moralità e prosperità degli esseri; nella fase ascendente le ere si ripetono in ordine invertito. I tīrthaṃkara, i salvatori, appaiono sulle terre d'azione in numero di 24 per ogni fase.

Il primo continente dopo il Jambudvīpa è il Dhātakhīkhaṇḍa, dotato del medesimo ordine di sette territori. I due continenti sono separati tra loro dal Lavaṇa, il mare di acqua salata; segue quindi il mare Kālodadhi. Il continente successivo è il Puṣkaravara, diviso in due metà, interna ed esterna, dalla montagna Mānassottara; la metà interna è l'ultima regione del Cosmo abitata dagli esseri umani. Sia il Dhātakhīkhanda sia il Puṣkaravara sono divisi da montagne in due regioni di eguale estensione, ciascuna dotata di un proprio monte Meru. I continenti successivi sono chiamati Vāruṇīvara, Kṣīravara, Ghṛtavara, Ikṣuvara, Nandīśvara, Aruṇavara e Svayambhūramaṇa.

Gli dèi del mondo mediano includono lune e soli, pianeti, stelle (nakṣatra) e corpi celesti sparsi (prakīrṇatārā). Il movimento degli astri non riguarda che la regione abitata, delimitata dalla montagna Mānassottara; al di là di tale confine tutti i corpi celesti sono fissi. L'impossibilità di stabilire una cronologia coincide logicamente con l'assenza di istituzioni umane; l'area abitata è appunto detta samayakṣetra ('campo temporale'). Significativamente la parola samaya significa non solo 'tempo' o 'cronologia', ma anche 'uso stabilito', 'regola di condotta' ecc.

Il Jambudvīpa ha due soli; uno soltanto è visibile giacché essi ruotano attorno al monte Meru in perfetta opposizione. E dunque, per esempio, a un dato momento, nelle direzioni del Nord e del Sud sarà giorno e in quelle dell'Est e dell'Ovest notte. Ogni corpo celeste del Jambudvīpa ha, in effetti, un suo doppio; vi sono pertanto due lune e due esemplari di ciascun corpo celeste. L'oceano che circonda il Jambudvīpa, il Lavaṇa, ha invece quattro esemplari di ciascun corpo celeste; il continente successivo, il Dhātakhīkhanda, ne ha 12; il mare successivo, il Kālodadhi, ne ha 42 e il continente ancora successivo, il Puṣkaravara, 72.

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