Scienza indiana: periodo classico. Agricoltura e botanica

Storia della Scienza (2001)

Scienza indiana: periodo classico. Agricoltura e botanica

Rahul Peter Das
Gyula Wojtilla

Agricoltura e botanica

Agricoltura

di Rahul Peter Das, Gyula Wojtilla

Nell'India classica si distingueva l'agricoltura propriamente detta, ossia la coltivazione del suolo e gli aspetti a essa connessi, dall'orticoltura, cioè l'allestimento e la cura di giardini, boschetti e simili; tale distinzione è confermata dal fatto che questi argomenti sono trattati separatamente da due diversi gruppi di testi sanscriti.

Il nome più comune per la scienza (śāstra) che tratta di agricoltura (kṛṣi), così come per i singoli testi a essa dedicati, era kṛṣiśāstra, ma s'impiegavano anche altri nomi, quali sasyaveda, 'veda dei raccolti', kṛṣitantra, 'sistema dell'agricoltura', phalaveda, 'veda dei frutti', e così via. Il termine kṛṣipurāṇa, 'antica sapienza agricola', indica una scienza pratica, o meglio applicata, trasmessa dalla tradizione.

L'orticoltura (o arboricoltura) e i testi a essa relativi erano invece comunemente noti col nome di vṛkṣāyurveda, 'veda della lunga vita (ossia, trattamento) degli alberi', sebbene fossero utilizzati anche altri termini, quale upavanavinoda, 'godimento dei boschetti'.

Tanto l'agricoltura quanto l'orticoltura sono state trattate non soltanto in testi specialistici, ma anche in opere di altra natura; fra queste si possono annoverare trattati di architettura, amministrazione, politica, astronomia, astrologia, legge, magia e simili; diversi Purāṇa contengono, inoltre, un certo numero di capitoli sull'argomento. Nell'ambito della letteratura non specialistica, sembra che l'orticoltura abbia ricevuto maggiore attenzione dell'agricoltura.

Stratificazione sociale e pratica dell'agricoltura e dell'orticoltura

È interessante notare come il termine āyurveda, 'scienza della lunga vita', solitamente tradotto con 'medicina', fosse impiegato in relazione all'orticoltura, ma non all'agricoltura. È possibile che ciò sia dovuto al fatto che, nel caso di quest'ultima, l'interesse fosse rivolto principalmente ai prodotti agricoli, piuttosto che al benessere delle piante, benché i due aspetti siano per loro natura inseparabili. Può anche darsi, però, che le classi alte della società non si occupassero troppo di agricoltura ma fossero, invece, più interessate all'orticoltura poiché era strettamente associata alla sistemazione e all'uso della proprietà terriera. Nella Kāśyapīyakṛṣisūkti (Le strofe sull'agricoltura di Kaśyapa), benché dedicata all'agricoltura, si consiglia comunque al sovrano di coltivare nei giardini del palazzo varie specie di alberi di aspetto gradevole con una regolare e copiosa produzione di frutta, insieme a diverse erbe aromatiche, rampicanti, piante erbacee, piante di buon auspicio, fiori stagionali da utilizzare nel culto, piante odorose e officinali. Né bisogna dimenticare, riguardo all'āyurveda, che i pazienti menzionati nei testi medici del periodo classico appartengono di solito agli strati superiori della società e non è un caso, probabilmente, che trattati analoghi a questi si occupino delle patologie di animali associati principalmente a tali gruppi sociali, in particolare elefanti e cavalli, ma non di capre e pecore. Inoltre, contrariamente all'agricoltura, l'orticoltura era considerata una delle 64 arti tradizionali, le quali nell'India classica e medievale erano ritenute parte integrante dell'educazione delle persone colte di rango elevato.

D'altro canto, nell'Asia meridionale, così come in altre regioni del mondo, l'agricoltura era considerata uno degli assi portanti dell'organizzazione e dell'economia statale, tanto che nell'India antica era persino prevista la confisca delle terre lasciate incolte dai proprietari e la ridistribuzione a coloro che fossero disposti a coltivarle. Non sorprende dunque che al supervisore all'agricoltura (sītādhyakṣa) sia dato adeguato rilievo nell'Arthaśāstra (Trattato sull'utile), il trattato di politica e arte del buon governo attribuito a Kauṭilya. Il ruolo del sovrano nel creare le condizioni appropriate per la prosperità dell'agricoltura è ampiamente messo in luce anche nella Kāśyapīyakṛṣisūkti, che fornisce informazioni dettagliate sulle opere pubbliche e sui mezzi necessari al conseguimento di tale obiettivo.

L'agricoltura come occupazione delle classi inferiori

Alla luce di quanto detto finora, appare significativo che l'agricoltura non abbia trovato posto nella tassonomia delle scienze esposta nel Prasthānabheda (I diversi metodi) di Madhusūdana (XVI sec.), in cui sono invece incluse le 64 arti tradizionali, comprendenti, come si è detto, il vṛkṣāyurveda. L'agricoltura è ritenuta materia essenzialmente pratica. La Kāśyapīyakṛṣisūkti osserva che non si può imparare a seminare dai testi. Malgrado ciò, questo sapere empirico fu a un certo punto formalizzato in uno śāstra, una scienza con i relativi testi, probabilmente a opera di brahmani; in quest'ultima forma condivide vari tratti propri a tutta la letteratura scientifica e ciò spiega, per esempio, perché certi testi siano attribuiti a dèi o semidei, o almeno a mitici saggi.

La Kāśyapīyakṛṣisūkti riferisce un mito sull'origine divina della sapienza contadina che cerca al tempo stesso di rendere conto della realtà della pratica. Secondo tale mito, all'inizio della creazione il Brahman, l'Essere Supremo, creò vari semi sul suolo per esaudire il desiderio di procreazione della dea Terra, che li custodì nel suo grembo; ciascuno di essi si moltiplicò producendo frutti di ogni genere per il bene dell'umanità. Le prime parole allora udite dalla Terra furono da lei riferite ai saggi sotto forma di kṛṣiśāstra ('scienza dell'agricoltura') ed essi diffusero questo sapere fra gli uomini, affidandolo in particolare ai re, che hanno il dovere di proteggere i propri sudditi; nel corso del tempo, però, furono soprattutto gli śūdra, i membri della casta più bassa, a coltivare tale conoscenza. Quest'ultima affermazione è di particolare interesse in quanto riflette l'effettiva divisione del lavoro nella società indiana antica.

Altri miti parlano di eroi culturali a cui si attribuisce il merito di avere insegnato all'umanità a praticare l'agricoltura; i più celebri sono Parāśara, Kaśyapa e Pṛthu. Quest'ultimo era un veggente di sangue reale che secondo l'Atharvaveda (Veda degli Atharvan) introdusse l'agricoltura e la conoscenza delle piante officinali. Nella Manusmṛti (Codice tradizionale di Manu) si afferma che la Terra (Pṛthivī) è la sposa di Pṛthu, mentre il Viṣṇupurāṇa (Purāṇa di Viṣṇu) racconta che Pṛthu era un re, durante il cui regno ebbero inizio l'agricoltura e la pastorizia, prima inesistenti.

L'agricoltura è stata indubbiamente in India un'occupazione riservata a determinati gruppi sociali, che tuttavia non sono rimasti sempre gli stessi nell'arco degli ultimi quattro millenni. In seguito alla costituzione del sistema dei varṇa, ossia delle quattro classi in cui si suddivide la società, la coltivazione della terra divenne in teoria appannaggio dei vaiśya, e questa situazione restò immutata all'incirca fino alla metà del primo millennio d.C. L'Amarakośa (Tesauro di Amara), del VI sec. d.C. ca., riporta la nomenclatura agricola nel capitolo dedicato ai vaiśya, ma la Kāśyapīyakṛṣisūkti afferma con chiarezza che non soltanto i lavori agricoli, ma la stessa scienza dell'agricoltura deve essere praticata soprattutto dagli śūdra. In generale i testi giuridici antichi vietano ai brahmani di dedicarsi all'agricoltura, ma fanno eccezione in questo senso i testi attribuiti al clan di Parāśara, la Parāśarasmṛti (Codice tradizionale di Parāśara) e la Bṛhatparāśarasaṃhitā (La grande raccolta di Parāśara), le cui idee furono in seguito riprese da Daśarathaśāstrin, un brahmano del clan di Garga abitante nell'attuale Uttar Pradesh occidentale, che fu autore del Kṛṣiśāsana (L'insegnamento dell'agricoltura). Analogamente, la sola copia esistente del Kṛṣisamayanirṇaya (Accertamento delle norme dell'agricoltura) si deve a un certo Nīlakaṇṭha Nambūdripād, un brahmano appartenente alla tradizione del Ṛgveda (Veda degli inni).

I trattati sull'agricoltura

Oggi non sono numerosi i trattati specialistici sanscriti sull'agricoltura che abbiamo a disposizione e, di conseguenza, buona parte delle attuali conoscenze in materia sono ricavate da altre fonti, comprendenti non soltanto testi come quelli menzionati sopra, ma anche opere appartenenti a sfere assai diverse, come, per esempio, la poesia e la grammatica. Molte informazioni si trovano inoltre in opere di varia natura composte in diverse lingue medioindiane e neoindiane, nonché dravidiche.

Di grande importanza sono le raccolte di nozioni tradizionali e proverbi sull'agricoltura composte in lingue neoindiane e dravidiche. Fra queste, le principali sono il Kṛṣipāṭṭu (Canti dell'agricoltura) in lingua malayalam, il Khanār bacan in bengalese, le Ghāgh aur Bhaḍḍarī kī kahāvateṃ (Le massime di Ghāgh e dei Bhaḍḍarī) in lingua hindi, gujarati, marathi e rajasthani, e il Ḍāker bacan in bengalese. Esistono inoltre poemi didattici sull'agricoltura quali l'Ērelupatu (Le settanta strofe dell'aratro) in tamil o la Kṛṣigītā (Il canto dell'agricoltura) in malayalam.

Gli studiosi non sono concordi sull'influenza che esse hanno esercitato nella letteratura sanscrita sull'agricoltura; per esempio, nel caso delle previsioni meteorologiche, che rappresentano una parte essenziale di certi trattati sull'agricoltura, la presenza di termini vernacolari in forma sanscritizzata sembra indicare un notevole impatto della letteratura popolare. Alcuni studiosi, invece, sostengono che derivi dai trattati sanscriti quella tradizione dei pronostici formulati in base all'osservazione dei fenomeni naturali che trova espressione nelle raccolte di massime. In entrambi i casi, i dati ricavabili da tutte le fonti menzionate, così come quelli delle indagini archeologiche, sono utili a integrare le conoscenze ottenute dalle fonti sanscrite.

Le edizioni oggi disponibili di testi sanscriti dedicati esclusivamente all'agricoltura comprendono la già citata Kāśyapīyakṛṣisūkti, il Kṛṣiparāśara (Trattato di Parāśara sull'agricoltura), noto anche come Kṛṣikarmavivecana, Kṛṣisaṃgraha, Kṛṣipaddhati o Kṛṣitantra, e un Kṛṣiśāstra (Scienza dell'agricoltura) in forma frammentaria, solitamente chiamato Kṛṣisamayanirṇaya, sebbene questo titolo si riferisca soltanto alla prima parte dell'opera. Le date di composizione, o meglio di compilazione, di questi trattati sono incerte, perché si presentano come raccolte di materiali di varia epoca e provenienza geografica. Alcune parti potrebbero risalire all'incirca al 1000 d.C., anche se è impossibile affermarlo con assoluta certezza.

Il Kṛṣiparāśara è molto probabilmente originario dell'India nordorientale. La sua tradizione manoscritta è riconducibile infatti al Bengala e all'Orissa, e in esso sono contenute descrizioni dei lavori agricoli da effettuare nel corso dell'anno che sono riecheggiate dai moderni almanacchi bengalesi diffusi tra i coltivatori della regione.

La Kāśyapīyakṛṣisūkti è il risultato di un lavoro di redazione durato diversi secoli e dunque riunisce materiali appartenenti a tradizioni di regioni diverse dell'India. La sistemazione finale è forse avvenuta nell'India meridionale, molto probabilmente nella zona di Tirupati. Gli strati testuali più antichi, di provenienza settentrionale, sono databili al periodo successivo alla fine dell'Impero Gupta (IV-VI sec. d.C.); tuttavia risulta evidente che il testo contiene diverse interpolazioni più tarde.

Il Kṛṣisamayanirṇaya, di cui sono stati pubblicati ampi estratti (purtroppo con numerose lacune e lezioni corrotte) in un'appendice all'edizione critica del Kṛṣiparāśara, comprende lunghi capitoli sulle previsioni meteorologiche, i metodi di coltivazione, il trattamento delle sementi e la protezione delle colture, nonché sulla costruzione di edifici per uso abitativo e sulle malattie che colpiscono i contadini e gli animali domestici. Il testo riflette probabilmente le caratteristiche specifiche dell'agricoltura e dell'orticoltura del Kerala settentrionale.

Il Kṛṣiśāsana di Daśarathaśāstrin è un'opera moderna, composta da materiali in parte preesistenti e in parte originali, ma tuttavia preziosa perché contiene molte informazioni che sembrano essere tradizionali, come dimostra l'esame dei tipi di aratro in essa menzionati. Fra gli argomenti trattati figurano la classificazione dei suoli, il trattamento medico dei tori, l'esame delle sementi, le operazioni relative alla risicoltura, ecc.; alcuni brani inoltre sono dedicati alla salute dell'agricoltore, che è, in fin dei conti, un fattore chiave della produzione agricola.

Un elemento indispensabile per il buon esito delle coltivazioni è la qualità del suolo. La Kāśyapīyakṛṣisūkti afferma che il suolo deve essere libero da pietre e ossa, soffice e omogeneo, di colore rossastro o bruno, sgombro da erbe selvatiche, adeguatamente irrigato, privo di buchi, fessure e dossi, di odore gradevole, solido, compatto e pesante. In generale è classificato in cinque tipi: suolo brahmano, kṣatriya, vaiśya, śūdra e misto. Il terreno destinato alla coltivazione deve essere preventivamente ispezionato da esperti qualificati che ne valutino la qualità e la disponibilità d'acqua.

Dopo aver scavato fino a una certa profondità con una vanga o un'accetta, l'esperto deve ispezionare il suolo affiorato esaminandone l'aspetto, l'odore e il sapore e pesandolo con attenzione su una bilancia. Poi deve riempirne un vaso, che mette in un recipiente pieno d'acqua, e ne valuta la qualità in base al colore, al sapore e alla fluidità.

I terreni agricoli erano di solito ricavati mediante disboscamento; infatti nella pianura gangetica e in molte altre zone dell'India coperte da fitta vegetazione, la coltivazione basata sul taglio della vegetazione spontanea e la ripulitura col fuoco fu praticata sin dal II millennio a.C. ed è tuttora in uso presso alcune popolazioni cosiddette 'tribali' in aree remote del subcontinente indiano. Questo metodo di coltivazione è raccomandato dal Kṛṣisamayanirṇaya, che riflette sia la tradizione colta, sia le specificità regionali dell'agricoltura delle colline del Malabar. Secondo alcuni storici, la comparsa di utensili in ferro intorno alla metà del I millennio a.C. contribuì in misura notevole all'estensione delle terre coltivate nell'India settentrionale e diede impulso a un cambiamento radicale generalizzato della produzione agricola. Agli inizi del periodo medievale, un analogo intreccio di fattori contribuì forse all'evolversi di alcuni regni locali fondati su forti economie rurali in potenze politiche regionali.

Date le condizioni climatiche prevalenti in buona parte dell'Asia meridionale, non sorprende che il riso sia la coltura più importante fra quelle trattate in questi testi. La Kāśyapīyakṛṣisūkti distingue tre varietà di riso in base al sapore, al colore, alla specie, ecc.: śāli, kalama e ṣaṣṭika. Fra questi, il kalama è duro, di colore brillante e sapore forte, mentre lo ṣaṣṭika, così chiamato perché matura in 60 giorni, è insapore; le caratteristiche della varietà śāli, invece, non sono specificate. Gli esperti, secondo questo testo, tenendo conto della diversità dei suoli annoveravano 26 varietà di riso coltivate nelle diverse regioni.

Fra i cereali anche l'orzo era molto diffuso perché richiedeva meno acqua, per esempio, del grano. Un capitolo a parte è dedicato nella Kāśyapīyakṛṣisūkti ai metodi specifici di coltivazione di legumi e spezie, quali fagioli, piselli, miglio, sesamo e pepe. In particolare, sono enumerate diverse varietà di fagioli e piselli: fagioli comuni (Phaseolus aconitifolius L., Phaseolus radiatus L.), fagiolo verde (Phaseolus mungo L.), caiano (Cajanus indicus Spreng.), cece nero (Cicer arietinum L.), fagiolo rampicante (Dolichos sinensis L.), lenticchia (Ervum lens L.), eccetera.

Nei testi figurano anche altre colture, fra le quali spicca la canna da zucchero. Sin dall'Antichità, lo zucchero ha infatti svolto un ruolo di rilievo in India (von Hinüber 1971). Secondo la descrizione della Kāśyapīyakṛṣisūkti, il fusto della canna da zucchero è duro e cresce lentamente, su terreni umidi o, in certe regioni, sugli altipiani. Le talee della canna da zucchero vanno messe a dimora in lunghe file di buche riempite d'acqua; trascorsi dieci giorni, dal fusto sotterrato spuntano i germogli; dopo due o tre mesi la pianta avrà raggiunto l'altezza di un uomo e sarà pienamente sviluppata e matura per il raccolto. Il vento può seriamente danneggiare le canne da zucchero, la cui coltivazione è raccomandata perché se ne ricavano, oltre allo zucchero, melassa e foraggio per animali.

Benché non tratti di agricoltura in generale e non possa dunque essere assimilata ai testi finora discussi, bisogna menzionare anche la Tambūlamañjarī, un'opera anonima in 223 strofe del XVIII sec., composta in Maharashtra, che si occupa della coltivazione delle piante di areca e betel, da cui si ricavano gli ingredienti fondamentali del bolo detto per l'appunto betel, la cui masticazione costituisce un'usanza universalmente diffusa presso le popolazioni dell'Asia meridionale.

Irrigazione e opere di ingegneria idraulica

La Kāśyapīyakṛṣisūkti si occupa estesamente d'irrigazione artificiale, contrariamente al Kṛṣiparāśara. Il fabbisogno agricolo di acqua, in aggiunta a quella ottenuta naturalmente dalle precipitazioni atmosferiche, dipende dalle condizioni climatiche prevalenti. La necessità d'integrare l'acqua piovana con sistemi complessi d'irrigazione sembra dunque confermare la provenienza del primo trattato dall'India meridionale, mentre il Kṛṣiparāśara potrebbe essere stato composto nell'India orientale.

Come indicano anche i dati ricavati da altre fonti, la Kāśyapīyakṛṣisūkti attribuisce al sovrano il dovere di provvedere alla costruzione e alla supervisione dei sistemi d'irrigazione. Nei casi in cui è necessaria un'irrigazione su vasta scala si consigliano bacini artificiali collegati a condotte e canali, per colture più circoscritte pozzi, stagni e simili, e questo sembra corrispondere ai sistemi effettivamente in uso. Il più celebre bacino idrico dell'Antichità di cui si abbia notizia è il lago Sudarśana nel distretto di Junagarh, in Gujarat, costruito nel III sec. a.C. da Puṣyamitra, un governatore di Candragupta, sovrano della dinastia Maurya. Il livello qualitativo raggiunto dall'ingegneria in epoca Maurya era tale che il bacino del Sudarśana restò in uso per quasi otto secoli, anche grazie a lavori d'innovazione e d'ampliamento.

La Kāśyapīyakṛṣisūkti raccomanda al sovrano di far edificare i bacini idrici avendo cura che siano collegati a un torrente di montagna, a un vasto lago, a un grande fiume o a un ruscello della foresta; inoltre, sulle rive deve far piantare alberi dal legno duro. Sia i laghi artificiali sia i pozzi erano spesso costruiti con mattoni ben cotti e malta. Anche questo sembra riflettere la prassi edilizia attuale.

Nella Kāśyapīyakṛṣisūkti si fa inoltre menzione di svariati meccanismi per il sollevamento dell'acqua, azionati da buoi aggiogati con pesanti catene, o dalla proboscide di un elefante, o da uomini; l'alloggio per tali meccanismi era costruito in pietra sul bordo di un bacino. Non è certo che la macchina relativamente sofisticata per il sollevamento dell'acqua nota come ruota persiana fosse utilizzata nell'India antica; infatti l'epoca della sua introduzione è ancora oggetto di dibattito: i primi riferimenti letterari che sembrano alludere alla sua esistenza risalgono agli ultimi secoli del I millennio d.C., ma la prima descrizione di un sistema d'ingranaggi compare soltanto in epoca mughal. Nella ruota persiana la catena di tazze è montata su una ruota mossa da buoi, a differenza della ruota idraulica detta 'noria', spinta dall'acqua corrente, in cui i secchi sono fissati al cerchio. Rispetto a quest'ultima, la ruota persiana ha il vantaggio di poter attingere da un pozzo o da un bacino idrico anche quando la superficie dell'acqua è molto al di sotto del livello della ruota.

Attrezzi agricoli

I più importanti fra gli attrezzi agricoli a cui i testi fanno riferimento sono l'aratro e la zappa, ma sono menzionati numerosi altri strumenti per pareggiare il terreno, tracciare solchi, dissodare, spulare, e così via. A quanto sembra, anche gli attrezzi agricoli per seminare sono stati utilizzati sin dall'Antichità e su vasta scala. L'epoca in cui l'aratro è stato inventato o introdotto in India è alquanto controversa; la più antica testimonianza archeologica di un reticolo di solchi proviene dal sito di Kalibangan, databile all'inizio del III millennio a.C., e permette di postulare l'impiego di un aratro a uncino. A Mohenjo-Daro è stata rinvenuta una terracotta a forma di aratro, di 7×19,7 cm, risalente al 2300 a.C. ca., mentre a Walki, un piccolo insediamento calcolitico (1400-1000 a.C. ca.) situato a circa 60 km a est di Pune, è venuto alla luce un attrezzo in corno di cervo utilizzato per seminare. È probabile che in origine fossero adoperati a mo' di aratro semplicemente i rami ricurvi di un albero, ma intorno all'inizio del I millennio a.C. appaiono aratri in legno muniti di un vomere metallico a forma di arpione. Il grammatico Pāṇini menziona un tipo di aratro composto di tre parti: il corpo lavorante, comprendente la stiva, la bure e il vomere fissato a quest'ultima. Esistono numerose raffigurazioni di aratri su monete e rilievi del periodo compreso fra il II sec. a.C. e il II sec. d.C., che presentano tutte le medesime caratteristiche: il corpo lavorante si prolunga in una suola orizzontale, mentre la bure e la stiva sono montate indipendentemente sulla suola composita.

Aratri a uncino in ferro sono stati rinvenuti in diverse zone dell'India; nel Museo di Sanchi, nel Madhya Pradesh, ne è custodito uno in ferro risalente al II sec. d.C., forse parte di un aratro che veniva utilizzato per pareggiare il terreno, lungo 39,68 cm e largo 8,9 cm, munito inoltre di un ampio vomere a forma di foglia, da un lato piatto, dall'altro convesso e con la lama smussata. Il Kṛṣiparāśara menziona un aratro composto in tutto di nove parti: la bure, il giogo, la stiva, la colonnetta, le funi che assicurano la stiva, il corpo lavorante, lo snodo del giogo, il pungolo e il vomere.

Anche nei trattati di 'costruzioni' (śilpa) si trovano riferimenti agli aratri. Il Kāśyapaśilpa (Trattato sulle costruzioni secondo Kaśyapa) segnala per esempio un aratro a forma di lingua. Nel Mānasāra (Compendio di Māna o Compendio sulla dimora) è contenuta la descrizione di un aratro costituito da stiva, corpo lavorante, suola, vomere a forma di foglia di loto e bure in bambù. Accenni agli aratri si trovano inoltre in opere di vario genere: il trattato giuridico Bṛhatparāśarasaṃhitā e alcune opere di narrativa sanscrita parlano della possibilità di un'aratura profonda o superficiale, precisando che la profondità del solco è regolata mediante l'utilizzazione di funi fissate a un foro della suola.

Oltre all'aratro, anche l'erpice e il rastrello avevano un ruolo importante nella coltivazione. Nella scrittura della civiltà dell'Indo figura un segno che, secondo alcuni studiosi, rappresenterebbe appunto uno di questi due attrezzi. Testimonianze che hanno una maggiore attendibilità si ricavano dai testi vedici o dalla letteratura sanscrita successiva, che contengono una gran quantità di dati sull'uso di erpici e altri attrezzi per livellare il terreno. Per esempio, il termine matya denotava un rullo per pareggiare il terreno seminato, il viddhaka, dotato di ventuno rebbi, sembra fosse un rastrello, il koṭiśa un erpice per rompere le zolle di terra. Nelle fonti letterarie sono attestati diversi tipi di zappe e vanghe, molti dei quali sono affiorati dagli scavi archeologici condotti in varie zone del subcontinente indiano. Il faticoso lavoro della mietitura era svolto principalmente per mezzo di falci, ma occasionalmente si adoperavano anche coltelli di lunghezza variabile. Secondo la Kāśyapīyakṛṣisūkti, il taglio dei gambi delle piante di riso doveva essere effettuato con le falci nel corso di diverse giornate consecutive dai membri della famiglia e da manodopera appositamente assunta. La trebbiatura invece era svolta per mezzo di tori e bufali che pestavano i cereali marciando in circolo o per mezzo di appositi bastoni.

Metodi di coltivazione

I testi menzionano non soltanto la necessità di analizzare e classificare il suolo e l'acqua, ma anche quella di scegliere le colture più adatte ai diversi tipi di suolo e di acqua. Si fa riferimento alla consociazione nonché alla rotazione delle colture e al trapianto delle piantine. La Kāśyapīyakṛṣisūkti prescrive che a un'ora fausta i braccianti collochino a dimora in file regolari le piantine di riso dopo che l'argilla del campo è stata ammorbidita dall'aratura e accuratamente concimata con sterco di capra o di vacca oppure con residui vegetali in decomposizione; una volta svolte queste operazioni, nel campo deve restare soltanto una quantità minima di acqua.

Come mostra questo esempio, i testi trattano anche dell'impiego del concime, che consisteva soprattutto di letame bovino; sembra però che anche l'uso del pesce seccato o putrefatto fosse assai diffuso, e sporadicamente compaiono sostanze di altra natura. A quanto risulta, i semi erano spesso trattati in vario modo prima della semina, per esempio bagnandoli o mettendoli a seccare, oppure cospargendoli di sostanze varie quali sterco, grasso, miele, burro chiarificato o altro.

Previsioni meteorologiche

L'importanza delle previsioni meteorologiche per l'agricoltura appare evidente. Nel discutere di questi argomenti, i trattati di agricoltura mostrano numerosi punti di contatto con opere di meteorologia come la Gurusaṃhitā (La raccolta del maestro) o con testi di astronomia, astrologia e divinazione quali la Bṛhatsaṃhitā (Grande raccolta) o la Meghamālā (La ghirlanda di nuvole) attribuita a Garga, probabilmente composta fra il VI e il IX sec. d.C. La climatologia tradizionale si basava sull'osservazione di fenomeni naturali come il vento, la forma delle nubi, le caratteristiche del cielo, gli avvenimenti naturali di ordine biologico (le attività degli animali o i mutamenti delle piante) o di ordine chimico.

Zootecnia

La zootecnia non rientra, generalmente, fra gli argomenti trattati nei testi di agricoltura; l'unica eccezione riguarda l'allevamento dei bovini. Infatti, come si è detto, per l'aratura e la trebbiatura ci si serviva principalmente di buoi. Anche se incidentalmente si raccomanda agli agricoltori di allevare bufali, che forniscono latte in abbondanza, nonché pecore e capre, i testi si occupano diffusamente soltanto della cura e della riproduzione di vacche e buoi. Ciò riflette l'importanza di questi animali non soltanto per l'agricoltura, ma anche per la società indiana nel suo complesso; a tale proposito è significativo che l'Arthaśāstra menzioni un sovrintendente al bestiame (accanto ai sovrintendenti agli elefanti e ai cavalli, animali utilizzati dalle classi alte e per scopi militari), ma non agli altri animali domestici. Tuttavia l'allevamento dei bovini non è stato ancora studiato in maniera sistematica e a tutt'oggi manca una rassegna esauriente dei testi che se ne occupano.

Le conoscenze attuali sull'allevamento dei bovini si basano soprattutto su informazioni sparse nelle fonti letterarie e sui dati provenienti dalla ricerca archeologica. Le più antiche rappresentazioni dei tipici buoi gibbosi indiani (Bos indicus) risalgono addirittura al IV millennio a.C., così come i ritrovamenti di ossa dello stesso animale; giocattoli in creta provenienti da Mohenjo-Daro raffigurano diverse varietà di bovini di buona razza: vi sono tori gibbosi con corna brevi e massicce, tori senza gobba con corna moderatamente ricurve e persino un tipo soprannominato 'unicorno'.

Nel periodo vedico l'allevamento del bestiame costituiva un settore fondamentale dell'economia rurale. I testi descrivono bovini col manto di colore uniforme, chiazzato o pezzato, e fanno commenti sulla qualità della pelle, della coda e delle corna, lodando le vacche ben nutrite dal corpo robusto. Gli animali erano affidati a mandriani, che li portavano a pascolare e inoltre li nutrivano con cereali, soprattutto orzo; divinità come Indra e Pūṣan simboleggiavano il mandriano ideale, che nutre d'erba il bestiame e lo protegge; per difenderlo dai ladri e dagli animali carnivori, di notte veniva chiuso in appositi recinti in muratura; l'abigeato era annoverato fra i delitti più gravi.

Tanto la letteratura buddhista quanto l'epica mostrano grande rispetto per il bestiame, considerato una fonte di ricchezza e prosperità, ed è probabilmente legato anche a fattori economici lo sviluppo della dottrina della non violenza (ahiṃsā), che proibisce anche l'uccisione del bestiame e di altri animali. La letteratura e le arti figurative dell'epoca Maurya (IV-II sec. a.C.) testimoniano l'elevato livello qualitativo raggiunto dall'allevamento del bestiame; il capitello di Rampūrvā, per esempio, raffigura un toro; parlando del sovrintendente al bestiame, l'Arthaśāstra enumera vacche in età avanzata, vacche da latte, vacche primipare, giovenche e persino le bestie malate o menomate, di cui il mandriano deve prendersi cura. Si raccomanda tra l'altro di legare un campanaccio al collo delle bestie della mandria allo scopo di spaventare i serpenti e altri animali selvatici e per poterne seguire i movimenti.

Fra i diversi trattati sull'agricoltura, il Kṛṣiparāśara si limita a fornire qualche consiglio pratico su come tenere le bestie da tiro, che devono essere nutrite con melassa, foraggio e altro, e portate a pascolare sia al mattino sia alla sera; il capanno in cui sono custodite deve essere solido, pulito e sgombro da letame e urina; si precisa che deve misurare cinque passi, riferendosi probabilmente allo spazio riservato a ogni singola mucca.

Ogni anno, in un determinato giorno, si celebrava la festa delle vacche; in quell'occasione i giovani bovini adulti erano marchiati e si tagliava loro un pezzo di coda, peli e orecchie. A seconda delle loro caratteristiche, la Kāśyapīyakṛṣisūkti classifica le mucche e i tori in base al tradizionale sistema di classi (varṇa) proprio della società indiana, applicato in primo luogo agli esseri umani. Un buon esemplare è caratterizzato da determinati tratti: corna ben proporzionate, zoccoli forti e non troppo lunghi, andatura propizia, coda lunga, muggito profondo e begli occhi. I trattati sull'agricoltura raccomandano di proteggere le vacche, da cui "scaturisce il massimo piacere per gli dèi" (Kāśyapīyakṛṣisūkti); chi aggioga due tori a un aratro è chiamato gavāśin, 'mangiatore di vacche', dal Kṛṣiparāśara, con un termine che in epoca medievale denotava uno dei peggiori crimini.

Per quanto riguarda i bufali, sembra che siano stati addomesticati per la prima volta nella valle dell'Indo; infatti figurano sui sigilli rinvenuti a Mohenjo-Daro, mentre per le popolazioni vediche del II millennio a.C., allevatrici di bovini, il bufalo era probabilmente un animale nuovo. Grazie al suo latte denso e alla capacità di trainare carichi pesanti, i bufali acquistarono progressivamente valore nell'economia rurale e, a conferma di ciò, il capitolo dell'Arthaśāstra dedicato al sovrintendente al bestiame tiene in debito conto i bufali e il loro latte.

La produzione di latte è sempre stata, in India, una componente essenziale della produzione agricola, come si apprende già dai più antichi testi vedici; il latte di mucca infatti era utilizzato nei sacrifici e come alimento. Colpisce per la sua accuratezza la ricca nomenclatura relativa ai derivati del latte, tra cui figurano lo yogurt, il latte acido, il burro, un miscuglio di latte acido e latte fresco caldo o freddo, e così via; inoltre le pietanze a base di derivati del latte e cereali o legumi sono state assai diffuse fin dall'Antichità.

Altri animali associati all'agricoltura in numerose culture di ogni parte del mondo, quali il maiale o il pollame domestico (Gallus gallus murghi), non sembrano aver ricevuto alcuna attenzione nell'ambito del tradizionale sapere contadino qui preso in esame, malgrado nel subcontinente indiano questi animali siano stati addomesticati sin da tempi antichissimi.

In generale si dà per scontato che la maggioranza degli hindu sia vegetariana, sebbene i censimenti moderni abbiano seriamente messo in discussione questo assunto. È indubbio però che, indipendentemente dalle abitudini alimentari nelle fasi più antiche, a partire dalla metà del I millennio a.C. i testi normativi della tradizione brahmanica prescrivono di solito il vegetarianismo, e ciò trova conferma nei testi sull'agricoltura. Il Kṛṣiparāśara elogia le squisite pietanze vegetariane che si preparano per la festa del raccolto, anche se ciò non autorizza a escludere che nella stessa occasione si consumassero anche piatti non vegetariani. La Kāśyapīyakṛṣisūkti contiene un capitolo sulle regole alimentari in cui si specificano i cibi ammessi e quelli interdetti; ai membri delle tre classi superiori, cioè brahmani, kṣatriya (guerrieri) e vaiśya (commercianti e artigiani), raccomanda vivamente di mangiare cibi preparati con ingredienti puri quali riso, verdure, latte, latte cagliato, burro chiarificato, burro fresco e olio vegetale. Un altro capitolo elenca le regole per la composizione delle offerte, non soltanto quelle destinate agli dèi, ma anche quelle per gli ospiti, i bambini e i Mani.

I trattati sull'orticoltura

È significativo che i testi sull'orticoltura (vṛkṣāyurveda), sia editi sia inediti, sembrano essere di gran lunga più numerosi di quelli sull'agricoltura. Possono legittimamente darsi come testi autonomi molti capitoli dedicati all'orticoltura in vari Purāṇa, così come in opere enciclopediche quali la Bṛhatsaṃhitā (Grande raccolta) di Varāhamihira (VI sec. d.C.), il Mānasollāsa (Il diletto dell'animo), noto anche come Abhilaṣitārthacintāmaṇi (La gemma magica per ottenere le cose desiderate), di Someśvara (scritto intorno al 1130 d.C.), e lo Śivatattvaratnākara (Miniera di gemme dei principi di Śiva) di Bāsava, sovrano di Keḷadi (1684-1710). Di fatto, il capitolo pertinente (cap. LXXXII) nella Śārṅgadharapaddhati (Manuale di Śārṅgadhara), di Śārṅgadhara, composta nel 1363, s'incontra spesso come opera indipendente sia in forma di manoscritto, sia di pubblicazione, solitamente con il nome di Upavanavinoda (Il godimento dei boschetti). Anche nel Kautukacintāmaṇi (La gemma dei desideri della curiosità) è incluso un capitolo intitolato Pādapadohada (La passione per le piante), che verte su argomenti tipici dei testi sull'orticoltura.

Fra le opere tramandate come testi indipendenti e pubblicate in epoca moderna figurano, per citarne solamente alcune, il Vṛkṣāyurveda (Il trattamento degli alberi) di Surapāla, un testo dallo stesso titolo diffuso nell'India meridionale, un terzo Vṛkṣāyurveda attribuito a Śārṅgadhara, il Vṛkṣadohadaprakāra (Metodo per [soddisfare] la passione per gli alberi), il Puṣpavāṭikāvidhi (Istruzioni per il giardino fiorito), la Vṛkṣaropaṇaprakāravyākhyā (Spiegazione del metodo per piantare gli alberi) e il Vṛkṣādīnāṃ ropaṇādiprakaraṇa (Trattato sulla messa a dimora e altre operazioni concernenti gli alberi e altre piante).

Vari altri testi non sono ancora pubblicati; fra questi, spicca per importanza il Mānavavṛkṣāyurveda (Il trattamento degli alberi secondo Manu), il più voluminoso trattato di orticoltura di cui si abbia conoscenza; in attesa di pubblicazione sono anche i capitoli sull'orticoltura dell'enciclopedia di Cakrapāṇi, il Viśvavallabha (L'amante di tutte le cose), l'unica parte di quest'opera che sia sopravvissuta, e dell'Haramekhalā (La cintura di Hara), un'opera enciclopedica in una lingua medioindiana.

Il Mānavavṛkṣāyurveda, che sembra originario (se non integralmente, per la maggior parte) dell'India meridionale, non è soltanto il più lungo testo conosciuto sull'orticoltura ma anche quello più insolito. Esso contiene molte informazioni che normalmente si trovano soltanto nei testi dedicati all'agricoltura, fra cui istruzioni dettagliate sulla coltivazione di varie piante importanti dal punto di vista economico, come la canna da zucchero (ikṣu) e il cotone (kārpāsī). In alcuni punti il testo fa esplicitamente riferimento al kṛṣitantra, il 'sistema dell'agricoltura', e nell'ultimo capitolo tratta perfino della cura delle mucche da latte, compresi i metodi per fare ingrossare le mammelle.

Datazione e contenuti dei trattati sull'orticoltura

Situare cronologicamente le singole opere che trattano di orticoltura è un'impresa sicuramente ardua; l'unico testo databile con relativa certezza è il Vṛkṣāyurveda di Surapāla, composto in Bengala tra la fine dell'XI sec. d.C. e gli inizi del XII, che però, oltre ad alcuni versi dello stesso Surapāla, ne contiene numerosi altri che si possono incontrare in opere spesso ben più antiche e dal contenuto vario. Ciò dimostra che il trattato di Surapāla è in parte una compilazione ed esemplifica il tipo di problemi connessi alla datazione dei testi sull'orticoltura. Per contro, le opere enciclopediche si possono datare con maggiore sicurezza, sebbene anche in questo caso si ponga il problema della fonte ultima del materiale presentato.

Di recente è stato pubblicato a cura di Sircar e Sarkar (1996) un trattato, il Vṛkṣāyurveda di Parāśara, ritenuto molto antico; la sua caratteristica principale consiste nel presentare un'elaborata classificazione botanica, molto simile al moderno sistema occidentale. Analizzando approfonditamente quest'opera sorge però il sospetto che sia stata in realtà composta nel XIX sec. o agli inizi del XX sec., sebbene possa contenere un nucleo più antico; molti tratti che appaiono arcaici potrebbero essere il frutto di un tentativo cosciente di arcaizzazione e dunque non costituiscono una prova decisiva dell'antichità del testo. D'altro canto, colpisce che non abbia pressoché nulla in comune con altre opere tradizionali sull'orticoltura, o addirittura le contraddica; inoltre, menziona una pianta, la naktagandhā (Polyanthes tuberosa L.), originaria dell'America centromeridionale, importata in Asia meridionale in tempi abbastanza recenti. A ogni modo, i problemi posti da questo trattato richiedono ulteriori indagini prima di poter giungere a una conclusione definitiva.

L'argomento principale dei trattati sull'orticoltura è l'allestimento e la cura dei giardini e dei boschetti destinati allo svago delle classi alte della società. Pur menzionando altre motivazioni per praticare l'orticoltura, come l'acquisizione di meriti religiosi, i testi mettono soprattutto in rilievo l'aspetto piacevole di questa occupazione. Spesso fanno riferimento ai giochi e agli intrattenimenti in compagnia di fanciulle che si svolgevano nella cornice dei giardini, variamente abbelliti da laghi, fontane, pozzi o padiglioni, questi ultimi spesso costruiti al centro di un lago.

È chiaro dunque che già nei loro principî ispiratori questi testi si distinguono da quelli sull'agricoltura. Ma le differenze appaiono evidenti anche sotto altri aspetti. Per quanto riguarda, per esempio, la classificazione dei tipi di terreno, i criteri adottati dai testi di orticoltura divergono da quelli a cui si rifanno i trattati sull'agricoltura, ma concordano con il genere di classificazioni che s'incontra nelle tradizioni letterarie ed erudite in altri campi del sapere. Si riconoscono tre tipi di terreno: arido (jāṅgala), umido o paludoso (anūpa o ānūpa) e comune, cioè né troppo arido né troppo umido (sāmānya o sādhāraṇa); ognuno è caratterizzato da un determinato colore e sapore. Questa classificazione dimostra anche che la scienza dell'orticoltura era in generale appannaggio di circoli colti e letterari più di quanto non lo fosse quella dell'agricoltura.

Secondo il già citato Mānavavṛkṣāyurveda, ognuno dei tre tipi di terreno suddetti può essere ulteriormente suddiviso a seconda della presenza di sabbia (sikatā), ghiaia o pietrisco (śarkara), o sassi (upala). I nove tipi di terreno che ne risultano sono a loro volta distinti in base al fatto che questi elementi (sabbia, ghiaia o sassi) coprano la terra o ne siano ricoperti, oppure che vi siano mescolati. Il testo presenta anche diverse altre classificazioni del terreno.

La classificazione delle piante nei trattati sull'orticoltura è significativa perché, di solito, comprende soltanto alberi, rampicanti e cespugli, mentre ignora le piante erbacee, inclusi i cereali. Anche questa classificazione risponde ai canoni che s'incontrano in altre discipline tradizionali; queste considerazioni confermano la natura tutt'altro che apodittica dell'affermazione di Albrecht Wezler sulla "grande reputazione di cui questo Śāstra godeva sin dall'antichità" negli ambienti scientifici (1992, p. 311).

La classificazione delle piante è notevole anche sotto l'aspetto della distinzione tra alberi fruttiferi senza fiori (vanaspati) e alberi fruttiferi con fiori (vānaspatya, druma). Molti studiosi moderni hanno cercato, con atteggiamento apologetico, di giustificare la prima categoria sostenendo che si riferisce a piante con fiori minuscoli; tuttavia esistono brani sufficientemente numerosi in cui è chiaro il riferimento a una totale assenza di fiori. Considerata anche l'incapacità dei trattati sull'orticoltura a discernere il vero sesso dei fiori, si è indotti a concludere che la cospicua assenza di qualunque riferimento alla modalità sessuale di riproduzione delle piante sia dovuta al fatto che non era conosciuta. In testi non pertinenti all'orticoltura s'incontrano sporadici riferimenti al sesso delle piante, ma di regola questo non coincide col sesso effettivo, e potrebbe persino alludere a specie differenti. Soltanto in epoca medievale cominciano a comparire riferimenti al sesso delle piante che potrebbero corrispondere al sesso reale, ma si tratta in ogni caso di accenni occasionali e non del tutto chiari. Queste concezioni sono all'origine dell'idea piuttosto fantasiosa, ma ciò nonostante assai poetica, secondo cui si può provocare la fioritura delle piante facendo in modo che si eccitino sessualmente per la presenza di giovani fanciulle, il che causerebbe il fenomeno della 'orripilazione', cioè la pelle d'oca, sotto forma di germogli, idea che compare non soltanto nei testi sull'orticoltura, ma anche in quelli prettamente letterari.

Come per la classificazione dei tipi di terreno, anche nel caso di quella delle piante il Mānavavṛkṣāyurveda occupa una posizione unica, poiché non soltanto contiene varie sottoclassificazioni ma aggiunge anche una categoria definita letteralmente 'erbe' (tṛṇa), in cui include certe piante che muoiono dopo aver fruttificato. Le erbe sono di tre tipi: erbe dotate di rami (śākhātṛṇa), esemplificate dal sesamo (tila), erbe dotate di stelo (daṇḍatṛṇa), come il riso (śālī), ed erbe rampicanti (latātṛṇa), come la canna da zucchero (ikṣu).

Tecniche di coltivazione

I trattati forniscono anche istruzioni, spesso assai elaborate, e talvolta strane se confrontate con i metodi dell'agricoltura moderna, sulla preparazione del terreno, dei semi e delle talee, sulla messa a dimora, l'innesto, la semina, la pacciamatura e il trapianto, sulla cura delle piante, la preparazione e applicazione del concime, sulle tecniche per assicurare la crescita e la salute delle piante, e così via.

Secondo i testi, di norma i semi non vanno semplicemente sparsi o piantati, ma devono essere variamente trattati prima della semina. Alcuni sono cosparsi o immersi in varie sostanze, essiccati, affumicati o trattati con una combinazione di questi metodi. Altri vanno avvolti in foglie, sotterrati e poi essiccati mediante un fuoco acceso sul terreno che li ricopre. Un sistema interessante di coltivazione dei banani consiste nello schiacciare alcune banane su una corda, trattarle, metterle a seccare e annaffiarle fin quando non cominciano a spuntare le piantine.

Anche le piantine, le talee e gli innesti sono trattati in vari modi prima di essere utilizzati. Solitamente, la buca in cui una pianta è messa a terra o trapiantata deve essere preparata per riceverla. I testi enumerano diversi procedimenti, spesso estremamente elaborati, come per esempio riempire la buca di sostanze varie che successivamente sono bruciate per produrre ceneri ricche di elementi nutritivi. In particolare, il Mānavavṛkṣāyurveda attribuisce grande importanza alla preparazione della buca.

Molti trattati di orticoltura forniscono istruzioni dettagliate per la preparazione di una concimaia, giacché il liquido che se ne trae (kuṇapajala o kuṇapatoya) svolge un ruolo importante nel trattamento delle piante. Nella concimaia sono gettate a marcire diverse sostanze di origine animale: fra le altre, carne, grasso, sangue, ecc., di maiale, di vari animali dotati di corna, e forse anche di cavallo (almeno stando al Vṛkṣāyurveda di Surapāla). In seguito, il contenuto della concimaia è messo a cuocere e trattato con varie sostanze, fra cui miele e burro chiarificato, e poi tenuto a riposare ancora per qualche tempo. È evidente che questo concime è diverso da quello abitualmente impiegato in agricoltura, se non altro perché è chiaramente più costoso.

Esistono numerose regole, spesso piuttosto complesse, relative al posto migliore dove collocare a dimora le singole piante, alle altre piante con cui possono accompagnarsi e alla distanza consigliata fra una pianta e l'altra. Tali regole discendono in parte da considerazioni pragmatiche, ma in alcuni casi intervengono credenze magiche o presupposti culturali. Per esempio, determinate piante devono essere messe in certe direzioni dello spazio in rapporto alla casa, ma non in altre. A quanto pare, le piante spinose e quelle che producono lattice erano ritenute estremamente infauste se crescevano vicino a un'abitazione. I testi descrivono anche diversi schemi geometrici secondo cui piantare i vari alberi e arbusti.

Anche i testi di śilpaśāstra, in particolare quelli che si occupano di architettura, discutono della collocazione ideale delle piante, in particolare in rapporto alla casa. Di conseguenza, vi è una parziale sovrapposizione fra queste opere e quelle sull'orticoltura, al punto che a volte gli stessi versi compaiono in testi di entrambe le discipline.

I trattati sull'orticoltura contengono a volte capitoli in cui si descrivono i meriti specifici che derivano dal piantare alberi di determinate specie, o dal piantare alberi in generale, giacché questi giovano ai vari esseri viventi. Sotto questo aspetto mostrano punti di contatto con i testi chiamati Dharmanibandha (Compilazioni sul dharma), con i quali possono condividere certi versi.

Caratteristiche specifiche delle opere sull'orticoltura

I capitoli dei trattati sull'orticoltura che meglio si prestano a illustrare la differenza fra questa e l'agricoltura sono probabilmente quelli che trattano delle cosiddette meraviglie botaniche. La coltivazione di queste ultime ha scopi tutt'altro che pratici e non è immaginabile se non in relazione a gruppi sociali che dispongano di mezzi economici e tempo libero. Ciò appare evidente esaminando il tipo di prodigi descritti dai testi, fra cui figurano: cambiare il colore o il profumo naturali di frutti e fiori, far fiorire o fruttificare le piante in una stagione diversa da quella usuale, trasformare in rampicanti piante che non lo sono, creare alberi nani (cioè bonsai), far crescere piante che recano più di un tipo di fiori o di frutti, e così via. Se tutto ciò sia basato su pratiche effettivamente in uso o sia semplicemente il prodotto di speculazioni teoriche è una questione che aspetta ancora di essere studiata sistematicamente. È chiaro, però, che difficilmente questi esperimenti potevano trovare posto nell'ambito dell'agricoltura.

Una vasta gamma di sostanze era adoperata per la cura generale e il nutrimento delle piante, così come per la creazione delle meraviglie botaniche. Fra queste compaiono, accanto allo sterco di vacca e al pesce (come nel caso dei trattati di agricoltura), numerose altre sostanze, spesso piuttosto costose o esotiche, fra cui il latte e l'alcol, la pelle e la carne di pitone, il grasso e la carne di diversi animali fra cui vacche (a volte appena macellate) ed esseri umani (in questo caso, a quanto pare, si trattava solitamente dei cadaveri di criminali giustiziati).

Ciò che colpisce maggiormente nei trattati sull'orticoltura è anche il fatto che alle piante siano attribuite tutte le proprietà e le caratteristiche degli esseri umani e degli animali, compresi il gusto, la vista, l'olfatto, l'udito e il tatto, una credenza diffusa attestata già nel Mahābhārata (Grande poema dei Bhārata). Ciò concorda non soltanto con la convinzione, già menzionata, secondo cui i germogli possono svilupparsi come effetto dell'eccitazione sessuale indotta nella pianta, ma anche con il fatto che il trattamento delle piante si fondi più o meno sugli stessi principî teorici che sono alla base dell'āyurveda ('scienza della lunga vita' o 'medicina') degli esseri umani, e in particolare sull'applicazione del principio dei tre elementi patogeni (doṣa). Non sorprende, dunque, che la Vṛkṣāropaṇaprakāravyākhyā di Sadāśivavyāsa parli addirittura della dissenteria (atisāra) delle piante. Tali considerazioni teoriche non sembrano tuttavia aver avuto un peso eccessivo nel trattamento effettivo delle patologie vegetali, il quale si basava in primo luogo su principî empirici.

Come i trattati sull'agricoltura, anche quelli sull'orticoltura contengono spesso materiale relativo ai presagi e ad altre pratiche divinatorie, come, per esempio, la previsione di fenomeni naturali sulla base dell'aspetto di certe piante o di alcune loro parti; inoltre, tra i metodi che devono essere utilizzati per proteggere le piante dalla pioggia, dalla grandine, dagli animali nocivi e così via, sono elencati anche mezzi magici di varia natura.

Un'interessante credenza riferita dai testi è quella secondo cui gli alberi crescono particolarmente bene in presenza di tesori sepolti; di conseguenza l'aspetto degli alberi svolge un ruolo importante nella scienza della divinazione di tesori sepolti, comunemente nota come khanyavāda ('scienza delle cose da dissotterrare') o nidhivāda ('scienza dei tesori').

Molte opere sull'orticoltura presentano brani in cui si elencano i segni dai quali è possibile dedurre la presenza di acqua nel sottosuolo. La maggior parte di questi brani è in versi, che s'incontrano anche nella Bṛhatsaṃhitā di Varāhamihira, dalla quale, considerata l'antichità di quest'opera, tali versi sono probabilmente tratti. La ricerca più recente ha dimostrato che almeno alcuni dei metodi menzionati si basano su osservazioni corrette, come nel caso della relazione esistente fra le termiti e la presenza di acqua in profondità nella terra. Nel contesto della ricerca dell'acqua, il Mānavavṛkṣāyurveda (Il trattamento degli alberi secondo Manu) menziona il prāśnika, ossia un individuo le cui azioni sono osservate e interpretate per arrivare a localizzare l'acqua.

Negli stessi brani si spiegano anche i criteri per accertare il sapore dell'acqua; a questo proposito è da notare che si descrivono anche diversi metodi per dissalare e rendere potabile l'acqua i quali, se effettivamente basati sull'osservazione, meritano di essere studiati con attenzione.

Tanto nel caso dell'agricoltura che dell'orticoltura è legittimo interrogarsi sulla validità dei dati ricavati da testi che chiaramente furono scritti da autori colti in una lingua, il sanscrito, probabilmente non più compresa, all'epoca della composizione dei trattati, dalla maggioranza della popolazione e, in particolare, da coloro che erano concretamente impegnati nelle attività quotidiane legate all'agricoltura e all'orticoltura. Si tratta soltanto di costruzioni teoriche prive di fondamento o soltanto in minima parte fondate sugli usi effettivi, e forse non destinate a essere tradotte in pratica? Non è facile rispondere a questa domanda. Per quanto riguarda l'agricoltura, un primo esame della questione induce a concludere che ci sia stata "un'interazione culturale su più livelli fra i brahmani che parlavano sanscrito e i coltivatori che parlavano uno dei tanti vernacoli" (Wojtilla 1991a, p. 165). Soprattutto nella tarda età classica e all'inizio del periodo medievale molti brahmani ricevettero donazioni di terre in aree tribali o comunque poco sviluppate e potrebbero aver agito da mediatori culturali, introducendo nuovi metodi di coltivazione e diffondendo la nozione del grande valore del bestiame; a ogni modo, è certo che raccolsero dati sulle conoscenze e i mestieri tradizionali e li codificarono nelle relative discipline (śāstra). In tal senso, dunque, svolsero una funzione per molti versi simile a quella dei monaci in certe regioni dell'Europa medievale. Ciò non significa, naturalmente, che ci sia sempre una perfetta corrispondenza fra questo sapere teorico e la prassi effettiva. Merita infine di essere ricordato un aspetto che accomuna le opere sull'agricoltura e l'orticoltura, da un lato, e quelle di medicina, farmacologia e simili, dall'altro: si tratta della questione spinosa e assai dibattuta dell'identificazione delle numerose piante menzionate, che costituisce una delle principali difficoltà con cui si confrontano gli studiosi contemporanei.

Botanica e fitoterapia

di Gyula Wojtilla

La botanica (udbhidvidyā) si sviluppò in India soprattutto come branca sia della medicina (āyurveda; v. cap. XIV), sia dell'agricoltura (kṛṣi) e arboricoltura (vṛkṣāyurveda), ma fu in qualche misura collegata anche alla gastronomia (pākaśāstra) e all'arte amatoria (kāmaśāstra). Le testimonianze più antiche di conoscenze botaniche provengono dai ritrovamenti archeologici di piante coltivate a Mehrgarh (Baluchistan), risalenti al 6000 a.C. circa. Gli esemplari rinvenuti di orzo domestico a sei file (Hordeum vulgaris), farro (Triticum turgidum) e farro piccolo (Triticum monococcum) rappresentano un tipo di produzione cerealicola adeguata alle condizioni ecologiche della regione. La civiltà dell'Indo, che ebbe fine intorno al 1900 a.C., mostra una gamma molto diversificata di cereali, legumi, erbe, frutta e alberi, che ci sono noti sia dai resti materiali sia dalle raffigurazioni sui sigilli.

Le conoscenze botaniche dall'età vedica alla fine del I millennio a.C.

Gli inizi della scienza botanica si possono individuare nel Ṛgveda (Veda degli inni), databile agli ultimi secoli del II millennio a.C. Il termine per 'pianta', vīrudh, deriva dalla radice verbale rudh, 'crescere', ed esprime il concetto di un organismo che si sviluppa. Lo stesso testo classifica accuratamente le piante in alberi (vṛkṣa), erbe (oṣadhi) e rampicanti (vratati). Distingue inoltre le piante in fiorifere e non fiorifere, fruttifere e infruttifere, ed elenca i nomi dei loro organi, quali tronco (skandha), stelo o gambo (bāndhana), rametto (valśa), ramo (śākhā), foglia (parṇa), fiore (puṣpa) e frutto (phala).

L'inno X.97 del Ṛgveda, conosciuto anche come Elogio delle erbe medicinali, contiene un gran numero di nozioni relative alla guarigione magica delle malattie. Due versi, liberamente tradotti, recitano:

O mamma! Hai cento varietà, hai mille germogli, perciò, tu che hai tale potere centuplice, libera per me quest'uomo dalla malattia. (X.97.2)

Voi, madri, chiamate guaritrici, voi siete la cura, voi avete le ali, guarite ciò che patisce. (X.97.9)

La letteratura sanscrita del I millennio a.C. contiene numerosi accenni a vari aspetti delle conoscenze botaniche dell'epoca. In un'altra raccolta di inni sacri, l'Atharvaveda (Veda degli Atharvan), che è una vera miniera di formule magiche contro svariate malattie, si trova, fra gli altri, un esempio dell'uso della pianta di kuṣṭha (Costus speciosus) per curare la febbre (takman). I versi in questione recitano:

Tu, distruttore del takmán, tu, o kuṣṭha, la più potente tra le piante, che sei nato sulle montagne, vieni qui a distruggere la febbre. (V.4.1)

Per me, o kuṣṭha, prendi quest'uomo, dagli sollievo e liberalo anche dalla malattia. (V.4.6)

Il mal di testa, l'accesso, il male degli occhi, l'infermità del corpo, possa kuṣṭha sradicare tutto questo, [lui che è] invero divinamente possente. (V.4.10)

Queste descrizioni delle virtù terapeutiche delle erbe rappresentano gli antecedenti storici delle caratterizzazioni dettagliate che ne verranno date nelle farmacopee della tradizione successiva. La Taittirīyasaṃhitā (Raccolta propria della scuola Taittirīya), una delle recensioni dello Yajurveda (Veda delle formule sacrificali), distingue i due strati della parte esterna dello stelo. La Bṛhadāraṇyakopaniṣad (Upaniṣad del grande testo della foresta; III.9.28) offre un'interessante metafora che assimila la struttura interna dell'uomo a quella di un grande albero della foresta (vanaspati).

Il grammatico Pāṇini presenta nell'Aṣṭādhyāyī (Trattato in otto capitoli; VI-V sec. a.C.) una suddivisione della flora in due classi principali: le piante erbacee (oṣadhi) e gli alberi (vanaspati) (sūtra 4.3.135 e segg.). Gli alberi consistono di radici (mūla), tronco (skandha), frutti (phala) e foglie (palāśa). I frutti sono considerati da Pāṇini come un prodotto degli alberi e di conseguenza solitamente derivano il loro nome da questi (l'āmalaka, per esempio, è il frutto dell'albero di āmalakī, Emblica officinalis Gaertn.); i nomi di alcuni fiori, invece, sono derivati dal nome della stagione di fioritura. Patañjali (II sec. a.C.) nel Mahābhāṣya (Grande commento; II, p. 15), che è un commento all'opera di Pāṇini, afferma che la pianta di śiriśa (Albizzia Lebbek Benth.) si addormenta, mentre quella di lajjālu (Mimosa pudica L.) chiude le foglie se qualcuno le tocca.

La Manusmṛti (I, 46-48), importante testo giuridico databile al I sec. a.C., narrando la creazione del mondo fornisce abbondanti informazioni sulla tassonomia e la fisiologia vegetale:

Tutte le piante, propagandosi mediante semi o polloni, crescono da germogli. Sono piante annuali quelle che, ricche di fiori e frutti, periscono dopo la maturazione dei frutti. [Gli alberi] fruttiferi ma privi di fiori sono detti vanaspati, 'signori della foresta', quelli che recano sia fiori che frutti sono chiamati vṛkṣa. Le varie piante a gambo multiplo, con una o più radici, i diversi tipi di erbe, le piante rampicanti e quelle striscianti nascono tutte da semi o da polloni.

La botanica in epoca classica e medievale

In un capitolo dell'Arthaśāstra (Trattato sull'utile; un trattato sull'arte del buon governo) intitolato 'Il sovrintendente all'agricoltura', Kauṭilya enumera le diverse branche del sapere che il funzionario in questione doveva padroneggiare. Innanzitutto doveva conoscere in dettaglio la tassonomia vegetale e saper distinguere i diversi fattori ecologici; era suo compito "raccogliere, nelle stagioni appropriate, le sementi di ogni tipo di cereali, fiori, frutti, verdure, bulbi, radici, frutti di piante striscianti, lino e cotone"; doveva sapere che

Dove la schiuma colpisce [le rive], [la terra] è [adatta] per le piante fruttifere striscianti, [le terre] ai margini delle zone inondate per il pepe, l'uva e la canna da zucchero, [quelle] ai bordi dei pozzi per le verdure e le radici, [quelle] intorno all'alveo umido dei laghi per le erbe verdi, le porche per le piante che si mietono a taglio, come le piante da cui si ricavano essenze profumate, le erbe medicinali, l'erba di uśīra [Andropogon muricatus], il hrībera [Pavonia odorata], il piṇḍāluka [una specie di Dioscorea] e altre; e sui terreni adatti, coltivi le piante che crescono su suoli aridi e quelle che crescono su suoli umidi.

Caraka (II sec. d.C. ca.), autore di un importante testo di medicina, dà per scontato che i medici siano anche esperti di botanica, e in modo particolare di morfologia vegetale. Egli presenta una chiara tassonomia delle piante, suddivise in alberi fruttiferi senza fiori (vanaspati), alberi fruttiferi con fiori (vṛkṣa), erbe annuali (oṣadhi) e piante rampicanti (vīrudh); ritiene che l'ovulo fecondato contenga tutti gli organi della pianta e che gli spermatozoi maschili possiedano minuscoli elementi provenienti da ciascuno degli organi e dei tessuti della pianta originaria.

In un altro trattato di medicina, Suśruta (II sec. d.C. ca.) spiega quali sono i luoghi dove andare a raccogliere le erbe non coltivate ed elenca settecento rimedi vegetali, ordinati secondo trentasette gruppi di malattie. La sua concezione della germinazione dei semi è quella predominante: i fattori che la determinano sono la stagione, il suolo e l'acqua.

Nelle sue appendici all'opera di Caraka, Dṛdhabala classifica invece le piante in maschili e femminili in base al colore dei fiori e alle dimensioni dei frutti.

Vātsyāyana (IV sec. d.C. ca.), nel cap. VII del Kāmasūtra (Aforismi sull'amore; un trattato di arte amatoria), parla degli afrodisiaci e consiglia le foglie, le radici, i filamenti o la linfa di determinate piante per la preparazione di pozioni magiche che conferiscano bellezza e gioventù e favoriscano l'erezione dell'organo maschile.

Nella sua tassonomia contenuta nell'Amarakośa (Tesauro di Amara), il lessicografo Amarasiṃha (VII sec. d.C.) si uniforma in parte a Caraka, ma amplia la lista includendovi arbusti e cespugli (kṣupa), nonché le piante erbacee (tṛṇa), fra cui canne e palme.

Nella Bṛhatsaṃhitā (Grande raccolta) l'astronomo Varāhamihira (VI sec. d.C.) suddivide le granaglie in due categorie, chiamate rispettivamente sūkadhānya e kośadhānya ('leguminose'). La prima comprende i cereali aristati, la seconda le piante fornite di baccelli. Il cap. XXV, intitolato 'Trattamento degli alberi' (Vṛkṣāyurvedādhyāya), prescrive diverse operazioni relative all'orticoltura, alle patologie vegetali e ai relativi rimedi da adottare. La descrizione dei sintomi delle varie malattie è molto vivida; per esempio, quando gli alberi si ammalano per il freddo, il vento forte o la calura eccessiva, "le foglie si sbiancano, i germogli sono scarsi e malaticci, i rami rinsecchiti, e trasuda il lattice".

Vṛddhajīvaka (anteriore al 1000 d.C.), nella Kāśyapasaṃhitā (Raccolta di Kaśyapa; un testo di medicina noto anche come Vṛddhajīvakīyatantra), dedica un capitolo alla dietetica (bhojanakalpa), elencando un numero impressionante di piante commestibili e, parallelamente, i benefici che derivano dal loro consumo.

La Kāśyapīyakṛṣisūkti (Le strofe sull'agricoltura di Kaśyapa) enumera ventisei specie di riso e, limitatamente ai cereali, descrive numerosi dettagli della fisiologia vegetale.

Udayana, esponente del Nyāya, è un acuto osservatore di alcuni fenomeni fisiologici delle piante: per esempio, la morte, il sonno, la veglia, le patologie, la trasmissione di specifici caratteri attraverso gli ovuli, i movimenti, e così via; a suo avviso, inoltre, anche le piante possiedono una coscienza latente non manifesta.

In numerosi glossari medici sono incorporate conoscenze botaniche di alto livello: lo Śabdapradīpa (Elucidazione delle parole) del bengalese Surapāla, la Paryāyamuktāvalī (La collana di perle dei sinonimi) di Haricaraṇasena, anch'egli del Bengala, il Rājanighaṇṭu (Glossario reale) del kashmiro Narahari, e soprattutto, il Bhāvaprakāśa (Illuminazione degli intendimenti) di Bhāvamiśra (XVI sec. d.C.), il trattato di materia medica più esauriente in tema di alberi, fiori e frutti. A quest'ultimo autore va il grande merito di aver registrato, accanto al nome di ciascuna pianta, tutti i sinonimi, le caratteristiche e i metodi di applicazione a scopo terapeutico; le piante sono suddivise, secondo la fragranza, in odorose, mediamente odorose e inodori. Ciò che rende particolarmente prezioso questo dizionario dei sinonimi è il fatto che i nomi alternativi spesso rivelano tratti morfologici e proprietà medicinali.

Un posto a parte merita lo Śivakośa (Tesauro di Śiva, 1677) di Śivadatta Miśra, che è principalmente un vocabolario circoscritto ai nomi delle piante e delle erbe che formano la materia medica. Contiene 2860 voci principali, di cui fornisce il significato servendosi di circa 4800 termini; molti dei vocaboli enumerati non compaiono in alcun altro lessico. Lo stesso Śivadatta scrisse un commento alla propria opera che è persino più prezioso del testo originale, poiché ciascun lemma vi è spiegato in maniera esauriente basandosi sull'autorevolezza di fonti più antiche, di cui oltre cento sono esplicitamente menzionate. Ci sono anche informazioni sulle zone di provenienza delle varie piante medicinali e la regione himalayana, in particolare, vi figura come l'habitat più ricco di piante ed erbe di ogni tipo.

Il Bhojanakutūhala (L'interesse per i cibi), di Raghunātha Sūri (fine XVII-inizio XVIII sec.), è un trattato di dietetica; la prima parte esamina la proprietà specifiche di ingredienti alimentari quali il grano, il riso, le verdure, la frutta, e così via; inoltre sono riportate numerose ricette di piatti deliziosi e salutari. Una gran quantità di dati è attinta da Suśruta e da Bhāvamiśra (v. sopra).

La Gīrvāṇapadamañjarī (Il mazzo di fiori delle parole divine; XVII sec.) di Varadarāja e la Gīrvāṇavāṅmañjarī (Il mazzo di fiori della lingua divina; XVIII sec.) di Ḍhuṇḍhirāja, manuali per l'insegnamento del sanscrito colloquiale, contengono descrizioni interessanti dei pasti offerti agli asceti (sannyāsin) e ai brahmani nei giorni propizi. I vari piatti e bevande erano tutti preparati con prodotti vegetali; il cibo veniva servito su larghe foglie di banano e le bevande in tazze fatte anch'esse di foglie. Si cominciava con una sorta di antipasto chiamato śalāṭuśāka, che poteva essere composto, per esempio, di manghi, tamarindi, funghi, limoni, una specie di cedro, arance, frutti di bilva (Aegle marmelos), di āmalaka (Emblic myrobalan) e di śivā (Chebulic myrobalan), cetrioli e fichi; c'erano inoltre pietanze preparate con frutta cotta, erbe aromatiche e verdure. Varadarāja elenca piatti a base di tuberi (kandaśāka) o foglie (patraśāka) e si sofferma su quelli fatti con frutta (phalaśāka) e fiori (puṣpaśāka); grande attenzione, poi, è dedicata alla preparazione delle salse, di cui una componente essenziale era la gran varietà di spezie.

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